8
Lug
2014

Renzi e Padoan: su Calabria, Sicilia e Napoli che fate?

All’eurogruppo di ieri e all’ecofin di oggi è iniziato il difficile percorso del ministro Padoan, per dare un significato concreto a quella richiesta di “più flessibilità nei criteri Ue” che per Renzi è il simbolo stesso del semestre italiano di presidenza. Padoan è stato sincero dopo l’eurogruppo: il consenso c’è sui princìpi, ma quanto a come questi vadano declinati nell’esame delle riforme, paese per paese, tutto è ancora da costruire. Piena conferma è venuta da Schauble: l’intenzione di procedere a riforme è ottima cosa, ma non può essere scusa per evitare il consolidamentod ella finanza pubblica.

Decisamente è molto discutibile che Padoan abbia presentato il bonus 80 euro Irpef come un taglio strutturale al cuneo fiscale delle imprese, perché più l’Italia sarà disinvolta nel cambiare il nome alle cose, più sarà difficile costruire consensi e, magari, ottenere anche la guida dell’eurogruppo. Questa sarebbe una buona cosa, se la Mogherini come miss Pesc non ottenesse i consensi (i popolari europei hanno ipotecato l’incarico). Ma per non farsi dire no, visto che alla BCE c’è già un italiano, bisogna che il governo misuri bene parole e argomenti. (nota aggiunta pomeridiana: e che eviti assolutamente topiche ridicole come quella registrata oggi con Renzi che chiede di considerare gli investimenti per l’agenda digitale fuori dal patto di stabilità europeo, nelle stesse ore in cui a fine ecofin Padoan ribadisce che il patto non si tocca… la totale divergenza tra premier e ministro sul punto di fondo, quello su cui i partner europei misurano cvon diffidenza anche i sospiri dell’Italia e figuriamoci le parole, ottiene solo l’effetto di farci ridere dietro, altro che benefico storytelling)

In ogni caso, inutile oggi avventurarsi nelle scelte che al governo toccheranno nella prossima legge di stabilità, perché sarà su di essa che la nuova Commissione europea, a novembre, dovrà adottare o meno quella flessibilità che Renzi chiede. Allo stato, le attese di crescita dell’Italia nel 2014 restano sensibilmente inferiori alle previsioni governative, e ciò non fa tornare i conti. E’ vero che le entrate tributarie continuano a crescere – più 1,4% nei primi 5 mesi del 2014 – ma è altrettanto vero che, con un Pil che resta negativo o al più fermo a zero, tale trend rassicura forse i conti pubblici, ma continua a deprimere la crescita.

Prima della legge di stabilità, altre questioni di grande impatto sui conti pubblici possono e devono essere affrontate, se vogliamo che l’Europa sconti gli effetti di “riforme fatte” e non di “riforme annunciate”. Tre esempi concreti si ripropongono in questi giorni al Sud, proprio in quel Sud in cui la perdita di prodotto, reddito e credito è diventate sette volte maggiore che nel Nordovest, come ieri ha certificato Bankitalia. Sono esempi che impattano la spesa pubblica per miliardi. Chiamano in gioco modifiche alle regole costituzionali e istituzionali, su cui proprio ora i partiti si confrontano. E dovrebbero essere affrontati con lo stesso spirito di decisione e trasparenza – diamone atto a Padoan – con le quali si è deciso di aprire a tutti la consultazione del Siope, e dunque la comprensione in tempo reale di ogni pagamento degli 800 miliardi di spesa pubblica. Di quali esempi parliamo?

Il primo è la Calabria. Dimessosi il presidente Scopelliti dopo la condanna in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio, il consiglio regionale ancora prova a restare abbarbicato ai suoi seggi, dopo una legge elettorale approvata in fretta e furia per impedire neoingressi ad altre formazioni. Ma se questa è la misera cronaca politica, è la finanza pubblica regionale ad apparire devastante. L’ispettore  del MEF Gaetano Mosella ha condensato in 247 pesantissime pagine osservazioni molto gravi sulle prassi seguite sotto le giunte Loiero e Scopelliti, dunque di sinistra e destra. Oltre mille dipendenti assunti illegittimamente, in violazione dell’obbligo di contenimento della spesa. Decine di migliaia, anno dopo anno, gli aumenti altrettanto illegittimi di stipendio ai dipendenti, applicati a tutti e in violazione del blocco generale degli scatti, e spesso anche retroattivi. Migliaia di promozioni illegittime, e illegittimi anche gli incarichi e le retribuzioni apicali, con punte fino a 735 mila euro l’anno nel 2013.

Il secondo esempio è quello della regione Sicilia. Che con il presidente Crocetta ha appena sottoscritto un accordo con il Tesoro. Dateci 500 milioni subito e rinunceremo fino al 2017 a ogni introito da precedenti contenziosi con lo Stato: si tratta di miliardi di euro, crediti inesigibili che sin qui figuravano tutti all’attivo di un bilancio patrimoniale regionale che da anni in termini contabili è un falso conclamato. Ma rispetto al quale nessuno ha mai fatto alcunché, in nome dell’autonomia speciale che è diventata sempre più scudo di inefficienza, clientelismo e distruzione di risorse (se avete dubbi leggete il libro di Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia).

Il terzo esempio è quello di Napoli. Il sindaco De Magistris da ormai sei mesi si è attestato sulla linea del rifiuto delle conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, che ha respinto come inaccoglibile il suo programma di rientro pluriennale dal deficit e debito comunale accumulatisi. Eppure, anche in questo caso il governo che cosa ha fatto? Nulla. Perché dovrebbero scattare le procedure di default, per le quali però il Consiglio comunale deve essere consenziente.

Conclusione. E’ nella riforma del Titolo V° della Costituzione di cui si discute oggi, che va scritta la soluzione al problema di miliardi di finanza pubblica locale totalmente fuori controllo. E’ un tema che pesa enormemente di più dell’immunità ai senatori, non elettivi o elettivi che siano. Eppure sull’immunità fioriscono tonnellate di dichiarazioni: alle procedure di default non una parola viene riservata.

Bisogna riprendere il filo da dove la Corte Costituzionale l’ha troncato. Perché è stata la Corte, con la sua sentenza 219-2013, ad aver abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle regioni e alle autonomie fuori controllo. E’ caduto così lo scioglimento dei Consigli regionali.E’ caduta l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ stato cassato persino l’obbligo di relazione di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si dava un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che è arrivato al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annunciava controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abrogava facendo marameo, non appena passati pochi mesi.

Il governo e il parlamento riscrivano meglio nel Titolo V° quelle misure, e fissino costi standard veri e rigorosi si cui misurare la finanza locale. La credibilità europea si guadagna anche così. Forse soprattutto così, visto che è al Sud che politica e pubblica amministrazione non sanno utlilizzare miliardi e miliardi di fondi europei.

All’eurogruppo di ieri e all’ecofin di oggi è iniziato il difficile percorso del ministro Padoan, per dare un significato concreto a quella richiesta di “più flessibilità nei criteri Ue” che per Renzi è il simbolo stesso del semestre italiano di presidenza. Padoan è stato sincero dopo l’eurogruppo: il consenso c’è sui princìpi, ma quanto a come questi vadano declinati nell’esame delle riforme, paese per paese, tutto è ancora da costruire.

Decisamente è stato discutibile presentare il bonus 80 euro irpef come un taglio strutturale al cuneo fiscale delle imprese, perché più l’Italia sarà disinvolta nel cambiare il nome alle cose, più sarà difficile costruire consensi e, magari, ottenere anche la guida dell’eurogruppo. Questa sarebbe una buona cosa, se la Mogherini come miss Pesc non ottenesse i consensi (i popolari europei hanno ipotecato l’incarico). Ma per non farsi dire no, visto che alla BCE c’è già un italiano, bisogna che il governo misuri bene parole e argomenti.

In ogni caso, inutile oggi avventurarsi nelle scelte che al governo toccheranno nella prossima legge di stabilità, perché sarà su di essa che la nuova Commissione europea, a novembre, dovrà adottare o meno quella flessibilità che Renzi chiede. Allo stato, le attese di crescita dell’Italia nel 2014 restano sensibilmente inferiori alle previsioni governative, e ciò non fa tornare i conti. E’ vero che le entrate tributarie continuano a crescere – più 1,4% nei primi 5 mesi del 2014 – ma è altrettanto vero che, con un Pil che resta negativo o al più fermo a zero, tale trend rassicura forse i conti pubblici, ma continua a deprimere la crescita.

Prima della legge di stabilità, altre questioni di grande impatto sui conti pubblici possono e devono essere affrontate, se vogliamo che l’Europa sconti gli effetti di “riforme fatte” e non di “riforme annunciate”. Tre esempi concreti si ripropongono in questi giorni al Sud, proprio in quel Sud in cui la perdita di prodotto, reddito e credito è diventate sette volte maggiore che nel Nordovest, come ieri ha certificato Bankitalia. Sono esempi che impattano la spesa pubblica per miliardi. Chiamano in gioco modifiche alle regole costituzionali e istituzionali, su cui proprio ora i partiti si confrontano. E dovrebbero essere affrontati con lo stesso spirito di decisione e trasparenza – diamone atto a Padoan – con le quali come ha scritto il Messaggero si è deciso di aprire a tutti la consultazione del Siope, e dunque la comprensione in tempo reale di ogni pagamento degli 800 miliardi di spesa pubblica. Di quali esempi parliamo?

Il primo è la Calabria. Dimessosi il presidente Scopelliti dopo la condanna in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio, il consiglio regionale ancora prova a restare abbarbicato ai suoi seggi, dopo una legge elettorale approvata in fretta e furia per impedire neoingressi ad altre formazioni. Ma se questa è la misera cronaca politica, è la finanza pubblica regionale ad apparire devastante. L’ispettore del MEF Gaetano Mosella  ha condensato in 247 pesantissime pagine osservazioni molto gravi sulle prassi seguite sotto le giunte Loiero e Scopelliti, dunque di sinistra e destra. Oltre mille dipendenti assunti illegittimamente, in violazione dell’obbligo di contenimento della spesa. Decine di migliaia, anno dopo anno, gli aumenti altrettanto illegittimi di stipendio ai dipendenti, applicati a tutti e in violazione del blocco generale degli scatti, e spesso anche retroattivi. Migliaia di promozioni illegittime, e illegittimi anche gli incarichi e le retribuzioni apicali, con punte fino a 735 mila euro l’anno nel 2013.

Il secondo esempio è quello della regione Sicilia. Che con il presidente Crocetta ha appena sottoscritto un accordo con il Tesoro. Dateci 500 milioni subito e rinunceremo fino al 2017 a ogni introito da precedenti contenziosi con lo Stato: si tratta di miliardi di euro, crediti inesigibili che sin qui figuravano tutti all’attivo di un bilancio patrimoniale regionale che da anni in termini contabili è un falso conclamato. Ma rispetto al quale nessuno ha mai fatto alcunché, in nome dell’autonomia speciale che è diventata sempre più scudo di inefficienza, clientelismo e distruzione di risorse (se avete dubbi leggete il libro di Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia).

Il terzo esempio è quello di Napoli. Il sindaco De Magistris da ormai sei mesi si è attestato sulla linea del rifiuto delle conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, che ha respinto come inaccoglibile il suo programma di rientro pluriennale dal deficit e debito comunale accumulatisi. Eppure, anche in questo caso il governo che cosa ha fatto? Nulla. Perché dovrebbero scattare le procedure di default, per le quali però il Consiglio comunale deve essere consenziente.

Conclusione. E’ nella riforma del Titolo V° della Costituzione di cui si discute oggi, che va scritta la soluzione al problema di miliardi di finanza pubblica locale totalmente fuori controllo. E’ un tema che pesa di più della stessa immunità ai senatori, non elettivi o elettivi che siano. Eppure sull’immunità fioriscono tonnellate di dichiarazioni: alle procedure di default non una parola viene riservata.

Bisogna riprendere il filo da dove la Corte Costituzionale l’ha troncato. Perché è stata la Corte, con la sua sentenza 219-2013, ad aver abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle regioni e alle autonomie fuori controllo. E’ caduto così lo scioglimento dei Consigli regionali.E’ caduta l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ stato cassato persino l’obbligo di relazione di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si dava un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che è arrivato al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annunciava controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abrogava facendo marameo, non appena passati pochi mesi.

Il governo riscriva meglio nel Titolo V° quelle misure, e fissi costi standard veri e rigorosi si cui misurare la finanza locale. La credibilità europea si guadagna anche così. Forse soprattutto così, visto che è al Sud che politica e pubblica amministrazione non sanno utlilizzare miliardi e miliardi di fondi europei.

7
Lug
2014

Giornalista non abilitato? In carcere!

Cosa vuol dire “fare il giornalista”? La risposta potrebbe sembrare ovvia: dedicare il proprio tempo a comunicare notizie e opinioni al pubblico. Tutto il resto è ininfluente: purché se ne assumano la responsabilità, “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21, comma 1 della Costituzione).

Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo l’Ordine dei giornalisti, istituito dal fascismo nel 1925 e mai abolito. In Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Austria, Olanda, Germania, Grecia e Finlandia non esiste nemmeno una legge che regolamenti la professione di giornalista, per non parlare degli Stati Uniti, dove l’esistenza di un organismo simile sarebbe semplicemente impensabile. Read More

5
Lug
2014

Poteri dorati e faccia di bronzo

Mentre sale di tono la discussione fra le due anime di Telecom Italia riguardo al futuro di Tim Brasil, Bloomberg paventa un possibile intervento del governo, che starebbe considerando di rimodulare l’ambito di applicazione dei cosiddetti golden power al fine di paralizzare la cessione della controllata brasiliana. L’immediata risposta dei listini, con tonfi di oltre il 4% a Milano e San Paolo, dovrebbe dire molto sulla sensatezza della proposta. Invero, vanno registrati i pareri scettici – incluso quello del presidente di Telecom Recchi: «un’ipotesi surreale sul piano dei rapporti fra paesi nei mercati internazionali e senza possibilità di fondamento nel quadro normativo in vigore» – e i recuperi in borsa alla chiusura, che sembrano indicare il tramonto della folle tentazione. Tuttavia, è il caso di svolgere qualche considerazione a futura memoria.
La nuova disciplina sui poteri speciali, completata solo nel giugno scorso con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei d.p.r. nn. 85 e 86, risponde alle contestazioni sollevate dalla Commissione Europea in merito alla compatibilità della vecchia golden share con il diritto comunitario. In luogo di poteri specifici (quanto all’ambito) ed ampi (quanto all’estensione) esercitabili nella gestione delle società pubbliche o privatizzate, si sono introdotti poteri generali e più circoscritti invocabili in riferimento alle aziende titolari di asset strategici e operanti in settori chiaramente delineati – la difesa, da un lato; energia, comunicazioni e trasporti, dall’altro. L’iter normativo si è chiuso a oltre due anni di distanza dal d.l. 21/2012 e, sebbene il risultato sia tutt’altro che ottimale, va riconosciuto al governo Renzi il merito di aver dipanato una pericolosa ambiguità alimentata dal precedente esecutivo: quella della possibile inclusione delle infrastrutture di comunicazione tra gli attivi strategici ai fini della sicurezza nazionale, destinatari di una protezione più intensa.
Naturalmente, il parametro a cui rapportare la rilevanza strategica delle reti e degli impianti è l’interesse nazionale, del resto contemplato espressamente dal decreto 21/2012 (art. 2, co. 1) e dettagliato attraverso il riferimento al servizio universale: sicché non sarebbe comunque possibile – né sufficiente – operare sui regolamenti per pretendere di attrarvi infrastrutture che sorgono dall’altra parte dell’Atlantico e servono clienti che con l’Italia non hanno alcun legame. La garanzia che rende operanti i poteri speciali riguarda gli asset – e si estende solo indirettamente alle società che li detengono. Pertanto, ogni modifica volta ad ampliarne l’ambito di applicazione, in direzione – per così dire – soggettiva, appare radicalmente incompatibile con l’impianto della disciplina.
Irricevibile è anche il suggerimento di chi vorrebbe valorizzare la relazione puramente finanziaria tra il controllo della partecipazione brasiliana e la capacità di investimento sulla rete in Italia, per giustificare – a normativa invariata – l’interposizione di un veto all’alienazione. Si propone, cioè, anche in questo caso – e senza neppure l’impiccio di riscrivere le norme – di prescindere dalla rilevanza degli asset in sé considerati, per imporre le opinioni estemporanee del governo sulla gestione aziendale e sulle strategie industriali, che, fino a prova contraria, competono unicamente agli organi societari.
Ma il carattere grottesco della proposta emerge in tutta la sua evidenza se la confrontiamo con la ratio politica della disciplina sui poteri speciali: quella di prevenire l’ingresso di operatori stranieri, e pertanto meno controllabili, nel mercato nazionale – basti ricordare l’accelerazione impressa al dossier dalla crescita di Telefonica in Telecom, per il tramite di Telco. Si tratta di un privilegio sufficientemente odioso: ma l’idea che esso possa legittimare un’ingerenza anche nelle cessioni di beni detenuti all’estero – e, dunque, di frapporsi non solo all’operatività di aziende private che hanno la sfortuna di battere bandiera italiana, ma anche al libero dispiegarsi delle vicende economiche di un altro paese – è il frutto evidente di un delirio di onnipotenza. Nuove frontiere del protezionismo. Bastavano le vecchie.

4
Lug
2014

Coppa del Mondo del Brasile: tra gioia e un conto salatissimo—di Magno Karl

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

La coppa mondiale domina l’immaginazione brasiliana come nessun altro evento. Ogni quattro anni il paese diventa una setta che vive nell’adorazione del Signore Calcio. Indubbiamente, nessun altro paese ha vinto tante volte la coppa del mondo quanto il Brasile. Pertanto, quando nel 2010 è stato annunciato che il Brasile avrebbe ospitato la competizione del 2014, a migliaia si sono riversati sulla spiaggia di Rio per festeggiare. Noi brasiliani abbiamo avuto la sensazione che il calcio stesse tornando a casa, e questo ci rendeva felici.

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3
Lug
2014

La concorrenza nei servizi pubblici locali: il caso dei rifiuti

Nei giorni scorsi, la Corte dei conti – ne ha scritto bene Sergio Rizzo sul CorrierEconomia – ha riproposto all’attenzione generale una delle piaghe dell’economia italiana, quella delle società partecipate dallo Stato e dagli enti locali. Secondo la magistratura contabile, assommando queste e quelle, nonché le società da esse a propria volta controllate e i vari organismi diversi (consorzi, fondazioni…), si superano le 8000 unità. Il costo complessivo di questa galassia, pari al totale dei trasferimenti ricevuti a qualsiasi titolo dai ministeri, ammontava a 26 miliardi di euro nel 2013 e a 83 miliardi di euro nell’ultimo triennio. Agli enti locali la parte del leone, con oltre 5000 società, un terzo delle quali in perdita strutturale.
A prescindere dalle nefaste conseguenze finanziarie, tale stato di cose esercita un impatto negativo sulla concorrenzialità del mercato. Il capitalismo municipale soffoca l’iniziativa privata in settori particolarmente significativi per la qualità della vita dei cittadini: pensiamo al trasporto pubblico locale oppure al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti – oggetto di un ricco convegno organizzato a Padova da Confindustria Veneto.
È necessario sgombrare il campo da un equivoco pervasivo: a quasi tre anni dallo sciagurato referendum sull’acqua pubblica e dall’abrogazione del comma 23-bis del d.l. 112/2008, ha ancora pieno vigore nel nostro ordinamento il principio di tutela della concorrenza nei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che discende direttamente dalla normativa comunitaria ed è stato, da ultimo, riaffermato dal d.l. 179/2012 (art. 34, co. 20-21).
In particolare, si devono ritenere ancora operanti i tre metodi di affidamento: quello tramite gara ad evidenza pubblica, quello disposto a società a capitale misto, previo esperimento di gara per la scelta del socio privato, e quello diretto a società in house; e la scelta fra queste tre forme dovrà essere giustificata attraverso la predisposizione di un’apposita relazione, da pubblicarsi sul sito internet dell’ente o del consorzio procedente; qualora si deroghi al principio di tutela della concorrenza, la relazione dovrà indicare le ragioni specifiche per cui l’affidamento con gara non appaia in grado di perseguire l’interesse generale.
Inoltre, la società destinataria di affidamento in house deve rispondere a requisiti ben individuati: dev’essere di proprietà interamente pubblica, dev’essere soggetta da parte degli enti soci a un controllo analogo a quello che gli stessi possono esercitare sui propri uffici, deve svolgere la propria attività prevalentemente per conto e nell’interesse degli enti partecipanti, dev’eseguire direttamente la totalità delle attività affidatele e astenersi dallo svolgimento di attività imprenditoriali estranee all’affidamento, salvo quelle accessorie o strumentali.
Come il dimostrabile favore legislativo per l’affidamento con gara si traduca nella pratica è tutt’altra questione: gli affidamenti in house in carenza dei presupposti sono la norma – con l’effetto di legittimare, così, il malcostume dei subappalti delle società in house, delle relazioni redatte dalla società affidataria anziché dall’ente affidante, degli affidamenti sotto soglia, del controllo politico e delle gestioni opportunistiche, che nulla hanno a che vedere con il controllo analogo prescritto dalla disciplina rilevante, e persino dell’inversione dei rapporti di forza tra società partecipate e enti partecipanti.
Va, poi, segnalata la vicenda della definizione dei bacini territoriali che dovrebbero rimpiazzare i comuni nella gestione degli affidamenti. Il d.l. 138/2011 e il successivo d.l. 150/2013 imponevano l’individuazione di ambiti territoriali ottimali, tali da “massimizzare l’efficienza dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli inerenti al settore dei rifiuti urbani”, stabilendo che la loro estensione dovesse essere, di norma, almeno pari a quella del territorio provinciale e fissando al 30 giugno 2014 la scadenza per l’istituzione dei relativi enti di governo e per la deliberazione dei nuovi affidamenti, pena il commissariamento a opera dei prefetti competenti e, in ogni caso, la cessazione degli affidamenti non conformi alla data del 31 dicembre 2014. (Tuttavia, sino al 2020, le società pubbliche quotate potranno avvalersi di una deroga al requisito della proprietà completamente pubblica.)
Il Veneto – ma lo spirito di conservazione è analogamente diffuso anche in altre regioni – si è dapprima accodato a quest’orientamento con la legge regionale 52/2012, salvo poi distaccarsene con la delibera 13/2014 della Giunta, che ha portato a dodici il numero degli ATO, così da ricalcare fedelmente le aree di operatività delle attuali gestioni in house. Inutile precisare che tutti i dodici ATO sono ad oggi paralizzati dalla mancata istituzione degli organi di governo – situazione che ha indotto il consigliere regionale Diego Bottacin a invocare, come previsto dalla norma, l’intervento del prefetti.
Allo stato attuale, sono una manciata gli enti che, in Veneto, assegnano la gestione del servizio rifiuti con procedura competitiva: si tratta di alcune comunità montane del bellunese, del consorzio Padova Sud, del comune di Albignasego (PD), e dei comuni di Mason, Molvena e Pianezze (VI), la cui gara è al momento in corso. Secondo le stime illustrate da Jacopo Bercelli, sulla base di dati pubblicamente disponibili, queste gestioni costano in media 73 €/abitante contro i 103 €/abitante dgli affidamenti in house, con un risparmio de 30%. A chi rileva che si tratta di un confronto improprio, perché ogni territorio ha esigenze specifiche, è agevole rispondere che – alla luce della perdurante carenza di concorrenza – si tratta anche dell’unico confronto possibile. Una delle ragioni più solide per preferire l’affidamento con gara risiede proprio nella facoltà di opporre un vaglio concreto all’affermazione fideistica dell’efficienza dell’in house. La procedura competitiva è un meccanismo di scoperta, che fa emergere i mezzi e i processi più adeguati alla fornitura del servizio e ne determina l’effettivo prezzo di mercato.
In questo paese, chi richiede una maggior apertura al mercato si trova solitamente nella scomoda posizione di reclamare riforme normative per modificare lo status quo; nel caso dei servizi pubblici locali, viceversa, la richiesta è ben più modesta: si tratta di dare applicazione a una disciplina già vigente. Non necessariamente una disciplina ottimale: possiamo immaginare – e si praticano altrove – modalità di gestione in cui gli operatori competano nel mercato e non per il mercato. Tuttavia, rispetto alla pratica del settore, tagliare le unghie alle partecipate e dare spazio ai privati sarebbe oggi una boccata d’ossigeno per imprese e contribuenti.

3
Lug
2014

Taxi! Siamo nel 21esimo secolo!—di Fred Roeder

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Le nuove tecnologie e lo spirito imprenditoriale migliorano la nostra vita giorno dopo giorno. Tra le ultime e più importanti innovazioni per chi abita in città, troviamo le app di servizi peer-to-peer per condividere i viaggi in auto, come Uber o Lyft. Queste app abbassano i costi di transazione tra passeggeri e autisti perché li connettono direttamente attraverso i loro smartphone.

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3
Lug
2014

Euro-Union Bond? Meglio vendere davvero—di Lorenzo Romani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Romani.

In questi giorni si è tornato a parlare di Euro-Union Bond e mutualizzazione dei debiti nazionali. Soprattutto, qualche giorno fa è stato il Sottosegretario Graziano Delrio a lanciare la prima pietra in un’intervista al Corriere della Sera. Il meccanismo funzionerebbe così: gli stati “versano” in un fondo comunitario una parte del loro attivo (quote di partecipate, asset reali, etc). Il fondo utilizza questi beni come garanzia per emettere nuove obbligazioni europee. I capitali raccolti vengono utilizzati per ricomprare titoli pubblici dei paesi conferitari, che vedrebbero così ridotto lo stock del debito. Read More

2
Lug
2014

Quer pasticciaccio brutto dell’obbligo di Pos

È entrato in vigore il 30 giugno l’art. 15, co. 4 del decreto-legge 179/2012, nel termine rimodulato dall’art. 9, co. 15-bis del decreto-legge 150/2013 e con l’estensione specificata dal decreto del Ministro dello sviluppo economico del 24 gennaio 2014. Si tratta – per intenderci sin d’ora con la meno imprecisa delle molte definizioni approssimative – dell’obbligo a carico di commercianti, professionisti e artigiani di munirsi di Pos al fine di poter ricevere pagamenti con carta di credito o debito per importi superiori al limite di 30 euro. Per dare una valutazione del provvedimento occorre procedere per esclusione, indicando anzitutto cosa la norma non prevede.
In primo luogo, non vi è alcun obbligo per il cliente di pagare con moneta elettronica, un equivoco che è stato colpevolmente cavalcato da gran parte dei mezzi di informazione. In questo paese l’articolazione dei poteri pubblici è senz’altro materia magmatica, ma non tanto da conferire competenza legislativa alle redazioni. Pertanto, a dispetto della propaganda contraria, il vincolo all’utilizzo del contante rimane fissato nella soglia di 1000 euro.
In secondo luogo, la stessa qualificazione di un obbligo a carico degli esercenti appare controversa, perché la norma non prevede alcuna sanzione per la sua violazione. Ora, se si tratta di un giudizio opinabile dal punto di vista teorico-generale, almeno ove si disputi la validità dell’equazione kelseniana tra obbligo e sanzione, è tuttavia evidente che, dal punto di vista pratico, una norma siffatta perde molto del proprio potenziale cogente.
In questo senso, è degna di merito l’interpretazione avanzata dal consiglio nazionale forense, e avallata dal ministero dell’economia in risposta ad una recente interrogazione parlamentare, che ricostruisce nella predisposizione della strumentazione necessaria a ricevere la moneta elettronica non tanto un obbligo giuridico, quanto piuttosto un onere, onere che rileverebbe nei casi in cui fosse il cliente a richiedere la possibilità di utilizzare una carta di pagamento per saldare il proprio debito. L’inadempimento di quest’onere darebbe, quindi, luogo alla fattispecie della mora del creditore (art. 1206 ss. cod. civ.) – che, come ovvio, non estingue l’obbligazione del debitore e, trattandosi di obbligazioni pecuniarie, avrà l’unico effetto di esonerarlo dal corrispondere gli interessi per il ritardo dovuto all’inosservanza dell’esercente.
Sin qui la ricostruzione positiva; ma occorre interrogarsi anche sulla ratio della norma e sulla sua attitudine a raggiungere gli effetti sperati. Il malinteso tra obbligo di pagamento e obbligo (od onere) di accettare il pagamento, denunciato più sopra, è rivelatore: la disposizione s’inserisce in un crescente clima di disfavore per il denaro contante, principalmente alimentato dal desiderio di dare visibilità, a fini fiscali, a quelle transazioni che oggi possono sfuggire ai radar dell’Agenzia delle Entrate. Siamo certo di fronte a una misura monca, ma una misura monca il cui intento fondamentale sembra essere quello di aprire la strada a interventi più radicali.
Difficilmente l’obbligo di munirsi di Pos avrà, di per sé, un impatto significativo sull’evasione tributaria, perché dalla mera facoltà di pagare con moneta elettronica non discende la convenienza di farlo. L’esercente che proponeva di regolare la transazione in via informale ci proverà ancora; il consumatore sensibile all’offerta l’accoglierà ancora. La generalizzata diffusione del Pos non basterebbe ad alterare la catena dei loro incentivi.
A ben vedere, anzi, si potrebbe immaginare l’effetto contrario. Bisogna mettere nel conto i maggiori costi in cui gli operatori più ligi alla legge incorreranno – sul punto si è accesa la consueta battaglia dei numeri: si parla di 1200 euro l’anno per la Cgia e di 1700 euro l’anno per Confesercenti, mentre le stime delle associazioni dei consumatori sono più contenute. Queste maggiori spese dovranno essere recuperate in qualche modo: ove possibile, scaricandole sui consumatori, con un adeguamento che riguarderà, però, i prezzi in generale, non certo il conto dei soli clienti che opteranno per il pagamento elettronico.
In ogni caso, dunque, l’estensione dell’obbligo renderà relativamente più conveniente il regolamento in nero, specialmente nei casi in cui già oggi la prassi privilegia metodi di pagamento diversi dalla carta di credito o debito e che, pur non imponendo costi aggiuntivi, garantiscono la tracciabilità – si pensi al bonifico bancario. Per chiarire, l’incasso con bonifico o con contanti è tipicamente al netto e, dunque, indifferente per il creditore – semmai si può sostenere che i contanti abbiano oneri di gestione superiori. Viceversa, la carta di pagamento è, da questo punto di vista, un metodo inferiore.
Ciò non significa che non vi siano importanti ragioni d’immediatezza e universalità che raccomandino la diffusione della moneta elettronica, ma solo che questa dovrebbe essere spinta dalle forze di mercato e non da un irrigidimento forzoso della domanda in vista di obiettivi del tutto slegati, come quello del recupero d’imponibile.

2
Lug
2014

Capacity payment: la fine del mercato elettrico per come lo conosciamo?

Con un decreto ministeriale firmato dal viceministro dello Sviluppo Economico Claudio De Vincenti, è stata approvata la nuova disciplina del mercato della capacità elettrica. Si tratta di un cambiamento profondo nel disegno di mercato, che segna in modo forse irreversibile, nel nostro paese, la liberalizzazione elettrica.
La vicenda del capacity payment è lunga e, per certi versi, paradossale: difficilmente, però, a questo punto la corsa verso la rivisitazione del nostro mercato elettrico poteva essere fermata. Il progetto è stato concepito nel 2011, e ha avuto un’evoluzione tortuosa e non priva di rallentamenti. La vera svolta è stata l’emanazione del decreto “Destinazione Italia” del 23 dicembre 2013, che di fatto innescava la slavina. A quel punto i passi erano segnati, come conferma peraltro l’urgenza con cui l’Autorità per l’energia ha gestito l’ultimo documento di consultazione, poche settimane fa, il quale delineava gli orientamenti finali del regolatore.
L’introduzione di un mercato della capacità comporta, se non un ribaltamento, quanto meno un significativo cambiamento di strada rispetto all’impostazione che finora ha caratterizzato il mercato elettrico italiano: da un mercato dell’energia, infatti, esso è destinato a diventare sempre più un mercato della capacità produttiva. Il che implica che il modello di fondo si allontana da quello della concorrenza nel mercato, per avvicinarsi a quello della concorrenza per il mercato. Gli studiosi sono divisi sul tema: tuttavia appare evidente che a guidare l’introduzione del capacity sono motivazioni più politiche che tecniche, ora vagamente nobili (prevenire problemi di sicurezza e adeguatezza del sistema e i conseguenti picchi di prezzo) ora più prosaiche (soccorrere un settore termoelettrico messo in ginocchio dal calo della domanda e dal boom delle rinnovabili sussidiate). Nel complesso, però, i mercati della capacità si avvicinano molto alla definizione che ne ha dato Benedict De Meulemeester: “soluzioni costose per un problema che non esiste”.
Tra le tante ombre, si distinguono però alcune luci (o almeno alcune penombre), nel senso che le cose potevano andare molto peggio. Anzitutto è apprezzabile la scelta originaria dell’Autorità – se capacity deve essere – di demandare le modalità di remunerazione della capacità a un sistema di aste anziché a un meccanismo amministrato, anche se il beneficio derivante dalla procedura competitiva rischia di essere vanificato dall’introduzione di un cap e soprattutto (nelle concrete condizioni in cui si trova l’Italia) di un floor. Secondariamente, ha fatto bene il governo a mettere una serie di paletti: in particolare, la valutazione di adeguatezza della capacità (da cui dovranno derivare i contingenti messi a gara) dovrà tenere conto “degli effetti positivi derivanti dallo sviluppo delle reti e delle interconnessioni con l’estero”. Inoltre, come peraltro aveva evidenziato l’Istituto Bruno Leoni nella sua risposta alla consultazione dell’Aeegsi, viene chiarito che le aste devono essere aperte alla partecipazione della domanda, così come viene enfatizzato il requisito della neutralità tecnologica. Infine, sulla determinazione di cap e floor viene introdotto un vincolo legato in qualche modo a un’analisi dei costi e dei benefici.
In altre parole, forse la macchina del capacity era in uno stadio così avanzato da non poter essere più messa in discussione, e in quest’ottica l’esecutivo sembra essersi orientato alla minimizzazione del danno. Certamente, però, rimane il fatto che da ora in poi il mercato elettrico, pur con tutti i suoi limiti evidenziati anche nell’Indice delle liberalizzazioni, non sarà più lo stesso. Ammesso che, tra sussidi alla produzione, regolamentazione dell’offerta, ingessature varie della domanda, e ora anche capacity market, si possa ancora parlare di mercato.
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