13
Lug
2014

Responsabilità fiscale solidale negli appalti e 730 precompilato: cosa hanno in comune?

Che il sistema fiscale sia arrivato a costituire una vera e propria vessazione, sia per quantità che per qualità, a carico dei cittadini e delle imprese è cosa talmente nota che è ormai accettata e riconosciuta dagli stessi ultimi governi. In mezzo al monito della Corte dei conti di una prelievo eccessivo e quello del ministro dell’economia per ridurre le tasse per rilanciare la crescita, è in corso l’attuazione della delega fiscale, consegnata dal precedente governo all’attuale per affrontare alcune questioni di amministrazione erariale e recuperare, almeno nelle intenzioni, quella rule of law che in materia si è da tempo smaccatamente persa.

Due recenti misure approvate dal governo stonano, però, con questo salutare obiettivo.

La prima, per sottrazione, la seconda, per addizione. Read More

11
Lug
2014

Risparmio energetico degli edifici: un obbligo giusto? — di Paolo Violi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Paolo Violi.

La casa è un bene a cui noi italiani siamo molto legati, è un fatto culturale che affonda le radici nella nostra storia. Se la sua tassazione è un tema sensibile, perché investe questo bene in maniera diretta, i regolamenti tecnici che la riguardano tendono invece a proliferare in un cono d’ombra dell’informazione, principalmente per la difficoltà di discuterne le possibili ricadute sui nostri risparmi e sulla nostra vita. Voglio qui brevemente discutere di un caso che ritengo esemplare: il risparmio energetico degli edifici.

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9
Lug
2014

Pensioni, rimedi non ortodossi a 4 guai: troppa spesa sul Pil, il deficit Inps, pensionati poveri, giovani senza futuro

Un paese con una spesa previdenziale che resta superiore alla media europea e dei paesi OCSE, ma che contemporaneamente ne ha parecchio contenuto l’ulteriore crescita, senza però riuscire a recuperare il livello più basso dei nostri competitor e senza risolvere altri tre considerevoli guai: moltissimi pensionati poveri, sotto o poco sopra il livello di sopravvivenza; un deficit annuale tra contributi raccolti e trattamenti erogati che resta elevato, e che appesantisce la fiscalità generale che strozza la crescita di imprese e lavoro; infine, un’ipoteca pesantissima su chi oggi è più giovane. Ecco la fotografia dell’Italia nella relazione annuale del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti, subentrato nel febbraio scorso ad Antonio Mastrapasqua travolto dalle polemiche dopo molti anni di guida dell’istituto, per il quale passano 406 miliardi di euro l’anno degli 800 totali di spesa pubblica.

E’ ovvio che le reazioni politiche e sindacali ieri abbiano messo al centro le richieste a favore dei pensionati più poveri, chiedendo lo sblocco decretato in questi anni di crisi per le rivalutazioni degli assegni, e di riaprire il “cantiere Fornero”. Ma dal nostro punto di vista è giocoforza invece partire da un altro punto di vista. Non per insensibilità sociale, come si vedrà: anzi, propprio per affrontarla meglio.

Il peso sul Pil della spesa previdenziale. L’Italia ha fatto una scelta, nei decenni: concentrare una quota molto più rilevante di altri paesi analoghi nella spesa previdenziale, rispetto al totale della spesa destinata al welfare.

La scelta di fondo – il sistema previdenziale retributivo a ripartizione agganciato a percentuali molto elevate delle ultime retribuzioni – nacque in un’Italia che cresceva a tassi non inferiori al 3% annuo, e in cui la bassa disoccupazione sommata all’espansione del reddito e del prodotto sembravano destinate a essere durevole. Con la discesa decennio per decennio del tasso di crescita medio fino a toccare quello inferiore al mezzo punto di Pil annuo, era evidente che gli oneri sarebbero diventati insostenibili. Evidente, ma per lungo tempo non evidente è stato per la politica italiana assumere misure adeguate. Di qui le due riforme essenziali dell’ultimo ventennio, per contenere nel lungo periodo l’eccesso di spesa previdenziale.

La prima fu la riforma Dini, nel 1995, col passaggio a un sistema contributivo ma sempre a ripartizione (cioè le pensioni in essere le paga chi lavora coi suoi contributi, e qui chiariamo una cosa a margine: molto credono che in Italia il contributivo adottato sia “puro”, cioè che la pensione sarà effetto della somma dei propri contributi aggiornata nel tempo secondo come è stata investita, ma sbagliano, non è affatto così. Il montante su cui calcolare il trattamento previdenziale del nostro sistema contributivo è dato sì dalla somma dei contributi pagati, ma rivalutati sulla base del Pil nominale anno per anno, e moltiplicati per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento, e soprattutto il pagamento concreto delle pensioni verrà sempre garantito dai contributi di chi lavora, per questo si definisce contributivo a ripartizione e non puro). La riforma Dini commise però due errori essenziali, cari al sindacato come al più dei partiti, destra e sinistra insieme, il PUS, partito unito della spesa pubblica che è il vero asse portante della politica eco-finanziaria italiana. La Dini spalmò gli effetti del passaggio al contributivo in un orizzonte troppo lungo, pluridecennale, e tenne in piedi età basse per i trattamenti che davano diritto alle pensioni di anzianità. Di qui la necessità, visto i 15 anni passati invano, della riforma “brutale” Fornero, che a fine 2011 estese a tutti il calcolo contributivo prorata abolendo il sistema misto della lunghissima transizione della Dini, unificando in pochi anni le età per i trattamenti di anzianità e vecchiaia.

Questa seconda riforma – che spiace ai sindacati e a mezzo Pd, e non solo per il dramma vero che ha creato, quello degli esodati, a cui si sta rispondendo da un anno e mezzo con successive tranche di copertura – ha dato una solida riassestata alla spesa previdenziale. Come ieri ha ricordato Conti. Nel 2013 la spesa previdenziale è stata pari al 16,3% del PIl e sarebbe andata al 18%, senza riforma Fornero. I dati sulle pensioni di anzianità e vecchiaia 2013 registrano un crollo rispetto all’anno precedente: -49% le prime e -50% le seconde nel pubblico impiego, -32% le prime e  -57% le seconde nel privato.

E tuttavia non va dimenticata una cosa. Se si compulsano le 392 pagine del rapporto sulla sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale che la Ragioneria generale dello Stato ha aggiornato due mesi fa, le pur generose stime di crescita assunte del PIL (media annua più 1,5%) e di tassi di occupazione assunte nel modello adottato portano la spesa previdenziale a scendere di un soffio sotto il 15% del PlL solo al 2030, per poi risuperarlo nel 2040, scendendo al 14% forse e solo nel 2060.

E’ vero che nei paesi Ue e Ocse nel frattempo la spesa sale, ma sale partendo da punti molto più bassi della nostra: per i paesi OCSE la spesa previdenziale salirà dal 9 all’11,5% del Pil entro il 2060, per i paesi UE dall’11% al 13%. Quei 2-3 punti di Pil di spesa previdenziale italiana annua maggiore della media dei paesi avanzati descrive una scelta che resta sbagliata: continuiamo a spendere troppo poco per le politiche attive del lavoro e per il sostegno della famiglia e della curva demografica, e troppo in politiche passive (30 miliardi nel 2013 tra ammortizzatori e sistema CIG, oltre 100 miliardi da inizio crisi senza una sola ora di riformazione e riavviamento al lavoro delle centinaia di migliaia di soggetti interessati) e in pensioni ai “privilegiati” del sistema retributivo puro (non è colpa loro, ovviamente, è la politica ad averlo scelto). E’ una scelta sbagliata non solo in termini di giustizia tra generazioni e all’interno delle stesse generazioni, visto che i trattamenti tra pubblici e privati, dipendenti e autonomi non sono affatto eguali. E’ sbagliata anche perché l’INPS non ce la fa, e deve attingere alle tasse di noi tutti.

Il deficit INPS. Nel bilancio finanziario, l’istituto nel 2013 ha avuto un saldo negativo di 9,8 miliardi. E’ un deficit per i nove decimi dovuto allo sbilancio tra contributi raccolti e trattamenti erogati ai pensionati del settore pubblico, l’ex Inpdap. E qui ci sarebbe molto da dire: non è colpa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici (sono 14,5 milioni quelli della gestione privata), ma negli anni la politica ha riservato loro condizioni migliori rispetto ai pensionati privati, in termini di anni minimi di versamenti rispetto ai diritti maturati (e non solo). I numeri parlano chiaro: l’importo medio delle pensioni di vecchiaia/anzianità private è di 1555 euro lordi mensili, quello delle pubbliche è di 1636 euro per le donne e di 2262 euro per gli uomini. Ma lo sbilancio finanziario di quasi 10miliardi annui dell’INPS da solo non dice tutto. Se andiamo a vedere le diverse fonti di entrata rispetto alle poste di spesa, al netto dei trasferimenti dal bilancio dello Stato i contributi raccolti nel 2013 dall’INPS sono pari a 209,9 miliardi euro (153 dai privati, 55 dal settore pubblico, 1 dai lavoratori dello spettacolo), mentre la spesa diretta in pensioni è pari a 266,8 miliardi. Come si vede, tra contributi ed erogazioni puramente previdenziali lo sbilancio è di 56 miliardi l’anno. E’ il contribuente con le tasse, a pagare dolorosamente la differenza.

I pensionati poveri. Sono 6,8 milioni, il 43% del totale, i pensionati che ricevono un assegno inferiore ai mille euro lordi al mese. Di questi, 2 milioni sono sotto i 500 euro lordi (il 13,4%), e di questi ancora 1,2 milioni non superare i 209 euro lordi al mese. Oltre 4 milioni invece percepiscono pensioni tra i 1.000 e i 1.500 euro mentre per circa 2,4 milioni di pensionati l’assegno oscilla tra 1.500 e 2.000 euro mensili. Al di sopra dei 2.000 euro lordi si colloca il restante 16% dei titolari, poco meno di 2,5 milioni. Se a queste cifre sommiamo il milione e mezzo di italiani che nel 2013 ha beneficiato di indennità di mobilità, disoccupazione, Aspi e Miniaspi, eccoci alla tremenda “questione sociale” delle vittime della crisi. Cinque-sei milioni di italiani che stanno poco sotto o poco sopra il livello della pura sopravvivenza, e che in questi anni stanno esaurendo il polmone finanziario a loro favore delle famiglie di appartenenza. Se il governo seguisse la strada di piccoli aumenti per tutti, l’effetto-dispersione non risolverebbe il problema. Andrebbe assunta una logica selettiva: un welfare diverso per i pensionati poveri anziani, politiche del lavoro attive e non passive per chi fuori dalla mobilità oggi finisce troppe volte per non cercare più lavoro e basta, non essendo riaddestrato e arrangiandosi con il nero.

 

I giovani. I sindacati e mezzo Pd chiedono di tornare indietro rispetto ai tetti della riforma Fornero e di alzare le pensuioni in essere: ma così facendo si pensa solo a chi oggi un lavoro e la pensione ce l’ha. E’ verissimo che ad alcune centinaia di migliaia di italiani – ripeto qui non parliamo degli esodati, a cui si sta pensando – la riforma Fornero ha mutato drasticamente in peggio l’orizzonte di vita, obbligandoli a 5-7 anni di lavoro in più. Ma molto peggio di loro rischiano di stare milioni e milioni tra i 25 e i 50 anni, che il lavoro non ce l’hanno, o ce l’hanno precario, o l’hanno perso. Torniamo al rapporto della Ragioneria sulla sostenibilità generale del sistema. I diversi scenari che vi sono illustrati, rispetto alla condizione attuale del paese, peccano di eccessivo ottimismo. Il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione della pensione maturata con i requisiti di età e contribuzione della riforma Fornero sarebbe al 2050 del 73% per il lavoratore privato, del 53% per l’autonomo. Ma questo calcolo è fatto sulla base di un’età per la pensione all’epoca di 70 anni con 40 anni di versamenti effettuati, e una crescita del Pil di un punto e mezzo l’anno per rivalutare il montante. E’ evidente a chiunque che oggi, se raccontate a un 35enne disoccupato con – se va bene – 2 anni di contributi versati, che nei prossimi 35 anni dovrebbe lavorare ininterrottamente e anzi dovrebbe a quel punto anche integrare i contributi versati con 3 annualità aggiuntive, mentre l’Italia nel frattempo cresce ininterrottamente di almeno un punto e mezzo l’anno, la risposta è che alle favole di una pensione simile e così alta rispetto all’ultimo reddito non crede nessuno. Ecco il problema gigantesco: oltre a 5-6 milioni di poveri attuali, se ne possono sommare il doppio che arriverà a pensioni bassissime. Basta una crescita di mezzo punto l’anno o di un punto nel decennio, per abbattere i tassi di sostituzione tra il 35% e il 24% rispetto alle previsioni della Ragioneria: il che significa pensioni da fame.

I rimedi ai 4 problemi – troppa spesa in previdenza sul Pil, squilibrio annuale tra contributi ed erogato, pensionati poveri, giovani senza pensione – non sono la riapertura dei “tetti Fornero”. Occorre cambiare drasticamente marcia alla crescita italiana. Cioè riducendo la spesa davvero, per molte meno tasse su impresa e lavoro. Perché senza di questo non ci sono più occupati continuativi. E solo pensioni misere, anche in futuro. Occorre un welfare selettivo per gli anziani, e una scelta netta a favore delle politiche attive del lavoro rispetto all’assistenza. Occorre un intervento su chi ha trattamenti troppo generosi risalenti al sistema retributivo, e su questo un problema serio – ma concretamente affrontabile: è un enorme problema irrisolto di giustizia intergenerazionale – è anche rappresentato dalla Corte costituzionale. E uno spazio molto più ampio alla previdenza complementare, il cui trattamento fiscale deve essere reso molto più favorevole, in un quadro generale per altro di considerevole riduzione delle imposte su lavoro e impresa. Il guaio è che, per tutto questo, oggi non sembra affatto di poter contare su attori politici che ne siano persuasi.

 

8
Lug
2014

Renzi e Padoan: su Calabria, Sicilia e Napoli che fate?

All’eurogruppo di ieri e all’ecofin di oggi è iniziato il difficile percorso del ministro Padoan, per dare un significato concreto a quella richiesta di “più flessibilità nei criteri Ue” che per Renzi è il simbolo stesso del semestre italiano di presidenza. Padoan è stato sincero dopo l’eurogruppo: il consenso c’è sui princìpi, ma quanto a come questi vadano declinati nell’esame delle riforme, paese per paese, tutto è ancora da costruire. Piena conferma è venuta da Schauble: l’intenzione di procedere a riforme è ottima cosa, ma non può essere scusa per evitare il consolidamentod ella finanza pubblica.

Decisamente è molto discutibile che Padoan abbia presentato il bonus 80 euro Irpef come un taglio strutturale al cuneo fiscale delle imprese, perché più l’Italia sarà disinvolta nel cambiare il nome alle cose, più sarà difficile costruire consensi e, magari, ottenere anche la guida dell’eurogruppo. Questa sarebbe una buona cosa, se la Mogherini come miss Pesc non ottenesse i consensi (i popolari europei hanno ipotecato l’incarico). Ma per non farsi dire no, visto che alla BCE c’è già un italiano, bisogna che il governo misuri bene parole e argomenti. (nota aggiunta pomeridiana: e che eviti assolutamente topiche ridicole come quella registrata oggi con Renzi che chiede di considerare gli investimenti per l’agenda digitale fuori dal patto di stabilità europeo, nelle stesse ore in cui a fine ecofin Padoan ribadisce che il patto non si tocca… la totale divergenza tra premier e ministro sul punto di fondo, quello su cui i partner europei misurano cvon diffidenza anche i sospiri dell’Italia e figuriamoci le parole, ottiene solo l’effetto di farci ridere dietro, altro che benefico storytelling)

In ogni caso, inutile oggi avventurarsi nelle scelte che al governo toccheranno nella prossima legge di stabilità, perché sarà su di essa che la nuova Commissione europea, a novembre, dovrà adottare o meno quella flessibilità che Renzi chiede. Allo stato, le attese di crescita dell’Italia nel 2014 restano sensibilmente inferiori alle previsioni governative, e ciò non fa tornare i conti. E’ vero che le entrate tributarie continuano a crescere – più 1,4% nei primi 5 mesi del 2014 – ma è altrettanto vero che, con un Pil che resta negativo o al più fermo a zero, tale trend rassicura forse i conti pubblici, ma continua a deprimere la crescita.

Prima della legge di stabilità, altre questioni di grande impatto sui conti pubblici possono e devono essere affrontate, se vogliamo che l’Europa sconti gli effetti di “riforme fatte” e non di “riforme annunciate”. Tre esempi concreti si ripropongono in questi giorni al Sud, proprio in quel Sud in cui la perdita di prodotto, reddito e credito è diventate sette volte maggiore che nel Nordovest, come ieri ha certificato Bankitalia. Sono esempi che impattano la spesa pubblica per miliardi. Chiamano in gioco modifiche alle regole costituzionali e istituzionali, su cui proprio ora i partiti si confrontano. E dovrebbero essere affrontati con lo stesso spirito di decisione e trasparenza – diamone atto a Padoan – con le quali si è deciso di aprire a tutti la consultazione del Siope, e dunque la comprensione in tempo reale di ogni pagamento degli 800 miliardi di spesa pubblica. Di quali esempi parliamo?

Il primo è la Calabria. Dimessosi il presidente Scopelliti dopo la condanna in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio, il consiglio regionale ancora prova a restare abbarbicato ai suoi seggi, dopo una legge elettorale approvata in fretta e furia per impedire neoingressi ad altre formazioni. Ma se questa è la misera cronaca politica, è la finanza pubblica regionale ad apparire devastante. L’ispettore  del MEF Gaetano Mosella ha condensato in 247 pesantissime pagine osservazioni molto gravi sulle prassi seguite sotto le giunte Loiero e Scopelliti, dunque di sinistra e destra. Oltre mille dipendenti assunti illegittimamente, in violazione dell’obbligo di contenimento della spesa. Decine di migliaia, anno dopo anno, gli aumenti altrettanto illegittimi di stipendio ai dipendenti, applicati a tutti e in violazione del blocco generale degli scatti, e spesso anche retroattivi. Migliaia di promozioni illegittime, e illegittimi anche gli incarichi e le retribuzioni apicali, con punte fino a 735 mila euro l’anno nel 2013.

Il secondo esempio è quello della regione Sicilia. Che con il presidente Crocetta ha appena sottoscritto un accordo con il Tesoro. Dateci 500 milioni subito e rinunceremo fino al 2017 a ogni introito da precedenti contenziosi con lo Stato: si tratta di miliardi di euro, crediti inesigibili che sin qui figuravano tutti all’attivo di un bilancio patrimoniale regionale che da anni in termini contabili è un falso conclamato. Ma rispetto al quale nessuno ha mai fatto alcunché, in nome dell’autonomia speciale che è diventata sempre più scudo di inefficienza, clientelismo e distruzione di risorse (se avete dubbi leggete il libro di Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia).

Il terzo esempio è quello di Napoli. Il sindaco De Magistris da ormai sei mesi si è attestato sulla linea del rifiuto delle conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, che ha respinto come inaccoglibile il suo programma di rientro pluriennale dal deficit e debito comunale accumulatisi. Eppure, anche in questo caso il governo che cosa ha fatto? Nulla. Perché dovrebbero scattare le procedure di default, per le quali però il Consiglio comunale deve essere consenziente.

Conclusione. E’ nella riforma del Titolo V° della Costituzione di cui si discute oggi, che va scritta la soluzione al problema di miliardi di finanza pubblica locale totalmente fuori controllo. E’ un tema che pesa enormemente di più dell’immunità ai senatori, non elettivi o elettivi che siano. Eppure sull’immunità fioriscono tonnellate di dichiarazioni: alle procedure di default non una parola viene riservata.

Bisogna riprendere il filo da dove la Corte Costituzionale l’ha troncato. Perché è stata la Corte, con la sua sentenza 219-2013, ad aver abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle regioni e alle autonomie fuori controllo. E’ caduto così lo scioglimento dei Consigli regionali.E’ caduta l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ stato cassato persino l’obbligo di relazione di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si dava un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che è arrivato al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annunciava controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abrogava facendo marameo, non appena passati pochi mesi.

Il governo e il parlamento riscrivano meglio nel Titolo V° quelle misure, e fissino costi standard veri e rigorosi si cui misurare la finanza locale. La credibilità europea si guadagna anche così. Forse soprattutto così, visto che è al Sud che politica e pubblica amministrazione non sanno utlilizzare miliardi e miliardi di fondi europei.

All’eurogruppo di ieri e all’ecofin di oggi è iniziato il difficile percorso del ministro Padoan, per dare un significato concreto a quella richiesta di “più flessibilità nei criteri Ue” che per Renzi è il simbolo stesso del semestre italiano di presidenza. Padoan è stato sincero dopo l’eurogruppo: il consenso c’è sui princìpi, ma quanto a come questi vadano declinati nell’esame delle riforme, paese per paese, tutto è ancora da costruire.

Decisamente è stato discutibile presentare il bonus 80 euro irpef come un taglio strutturale al cuneo fiscale delle imprese, perché più l’Italia sarà disinvolta nel cambiare il nome alle cose, più sarà difficile costruire consensi e, magari, ottenere anche la guida dell’eurogruppo. Questa sarebbe una buona cosa, se la Mogherini come miss Pesc non ottenesse i consensi (i popolari europei hanno ipotecato l’incarico). Ma per non farsi dire no, visto che alla BCE c’è già un italiano, bisogna che il governo misuri bene parole e argomenti.

In ogni caso, inutile oggi avventurarsi nelle scelte che al governo toccheranno nella prossima legge di stabilità, perché sarà su di essa che la nuova Commissione europea, a novembre, dovrà adottare o meno quella flessibilità che Renzi chiede. Allo stato, le attese di crescita dell’Italia nel 2014 restano sensibilmente inferiori alle previsioni governative, e ciò non fa tornare i conti. E’ vero che le entrate tributarie continuano a crescere – più 1,4% nei primi 5 mesi del 2014 – ma è altrettanto vero che, con un Pil che resta negativo o al più fermo a zero, tale trend rassicura forse i conti pubblici, ma continua a deprimere la crescita.

Prima della legge di stabilità, altre questioni di grande impatto sui conti pubblici possono e devono essere affrontate, se vogliamo che l’Europa sconti gli effetti di “riforme fatte” e non di “riforme annunciate”. Tre esempi concreti si ripropongono in questi giorni al Sud, proprio in quel Sud in cui la perdita di prodotto, reddito e credito è diventate sette volte maggiore che nel Nordovest, come ieri ha certificato Bankitalia. Sono esempi che impattano la spesa pubblica per miliardi. Chiamano in gioco modifiche alle regole costituzionali e istituzionali, su cui proprio ora i partiti si confrontano. E dovrebbero essere affrontati con lo stesso spirito di decisione e trasparenza – diamone atto a Padoan – con le quali come ha scritto il Messaggero si è deciso di aprire a tutti la consultazione del Siope, e dunque la comprensione in tempo reale di ogni pagamento degli 800 miliardi di spesa pubblica. Di quali esempi parliamo?

Il primo è la Calabria. Dimessosi il presidente Scopelliti dopo la condanna in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio, il consiglio regionale ancora prova a restare abbarbicato ai suoi seggi, dopo una legge elettorale approvata in fretta e furia per impedire neoingressi ad altre formazioni. Ma se questa è la misera cronaca politica, è la finanza pubblica regionale ad apparire devastante. L’ispettore del MEF Gaetano Mosella  ha condensato in 247 pesantissime pagine osservazioni molto gravi sulle prassi seguite sotto le giunte Loiero e Scopelliti, dunque di sinistra e destra. Oltre mille dipendenti assunti illegittimamente, in violazione dell’obbligo di contenimento della spesa. Decine di migliaia, anno dopo anno, gli aumenti altrettanto illegittimi di stipendio ai dipendenti, applicati a tutti e in violazione del blocco generale degli scatti, e spesso anche retroattivi. Migliaia di promozioni illegittime, e illegittimi anche gli incarichi e le retribuzioni apicali, con punte fino a 735 mila euro l’anno nel 2013.

Il secondo esempio è quello della regione Sicilia. Che con il presidente Crocetta ha appena sottoscritto un accordo con il Tesoro. Dateci 500 milioni subito e rinunceremo fino al 2017 a ogni introito da precedenti contenziosi con lo Stato: si tratta di miliardi di euro, crediti inesigibili che sin qui figuravano tutti all’attivo di un bilancio patrimoniale regionale che da anni in termini contabili è un falso conclamato. Ma rispetto al quale nessuno ha mai fatto alcunché, in nome dell’autonomia speciale che è diventata sempre più scudo di inefficienza, clientelismo e distruzione di risorse (se avete dubbi leggete il libro di Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia).

Il terzo esempio è quello di Napoli. Il sindaco De Magistris da ormai sei mesi si è attestato sulla linea del rifiuto delle conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, che ha respinto come inaccoglibile il suo programma di rientro pluriennale dal deficit e debito comunale accumulatisi. Eppure, anche in questo caso il governo che cosa ha fatto? Nulla. Perché dovrebbero scattare le procedure di default, per le quali però il Consiglio comunale deve essere consenziente.

Conclusione. E’ nella riforma del Titolo V° della Costituzione di cui si discute oggi, che va scritta la soluzione al problema di miliardi di finanza pubblica locale totalmente fuori controllo. E’ un tema che pesa di più della stessa immunità ai senatori, non elettivi o elettivi che siano. Eppure sull’immunità fioriscono tonnellate di dichiarazioni: alle procedure di default non una parola viene riservata.

Bisogna riprendere il filo da dove la Corte Costituzionale l’ha troncato. Perché è stata la Corte, con la sua sentenza 219-2013, ad aver abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle regioni e alle autonomie fuori controllo. E’ caduto così lo scioglimento dei Consigli regionali.E’ caduta l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di regione finite in default per dolo o colpa grave. E’ stato cassato persino l’obbligo di relazione di fine legislatura, per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si dava un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che è arrivato al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annunciava controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abrogava facendo marameo, non appena passati pochi mesi.

Il governo riscriva meglio nel Titolo V° quelle misure, e fissi costi standard veri e rigorosi si cui misurare la finanza locale. La credibilità europea si guadagna anche così. Forse soprattutto così, visto che è al Sud che politica e pubblica amministrazione non sanno utlilizzare miliardi e miliardi di fondi europei.

7
Lug
2014

Giornalista non abilitato? In carcere!

Cosa vuol dire “fare il giornalista”? La risposta potrebbe sembrare ovvia: dedicare il proprio tempo a comunicare notizie e opinioni al pubblico. Tutto il resto è ininfluente: purché se ne assumano la responsabilità, “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21, comma 1 della Costituzione).

Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo l’Ordine dei giornalisti, istituito dal fascismo nel 1925 e mai abolito. In Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Austria, Olanda, Germania, Grecia e Finlandia non esiste nemmeno una legge che regolamenti la professione di giornalista, per non parlare degli Stati Uniti, dove l’esistenza di un organismo simile sarebbe semplicemente impensabile. Read More

5
Lug
2014

Poteri dorati e faccia di bronzo

Mentre sale di tono la discussione fra le due anime di Telecom Italia riguardo al futuro di Tim Brasil, Bloomberg paventa un possibile intervento del governo, che starebbe considerando di rimodulare l’ambito di applicazione dei cosiddetti golden power al fine di paralizzare la cessione della controllata brasiliana. L’immediata risposta dei listini, con tonfi di oltre il 4% a Milano e San Paolo, dovrebbe dire molto sulla sensatezza della proposta. Invero, vanno registrati i pareri scettici – incluso quello del presidente di Telecom Recchi: «un’ipotesi surreale sul piano dei rapporti fra paesi nei mercati internazionali e senza possibilità di fondamento nel quadro normativo in vigore» – e i recuperi in borsa alla chiusura, che sembrano indicare il tramonto della folle tentazione. Tuttavia, è il caso di svolgere qualche considerazione a futura memoria.
La nuova disciplina sui poteri speciali, completata solo nel giugno scorso con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei d.p.r. nn. 85 e 86, risponde alle contestazioni sollevate dalla Commissione Europea in merito alla compatibilità della vecchia golden share con il diritto comunitario. In luogo di poteri specifici (quanto all’ambito) ed ampi (quanto all’estensione) esercitabili nella gestione delle società pubbliche o privatizzate, si sono introdotti poteri generali e più circoscritti invocabili in riferimento alle aziende titolari di asset strategici e operanti in settori chiaramente delineati – la difesa, da un lato; energia, comunicazioni e trasporti, dall’altro. L’iter normativo si è chiuso a oltre due anni di distanza dal d.l. 21/2012 e, sebbene il risultato sia tutt’altro che ottimale, va riconosciuto al governo Renzi il merito di aver dipanato una pericolosa ambiguità alimentata dal precedente esecutivo: quella della possibile inclusione delle infrastrutture di comunicazione tra gli attivi strategici ai fini della sicurezza nazionale, destinatari di una protezione più intensa.
Naturalmente, il parametro a cui rapportare la rilevanza strategica delle reti e degli impianti è l’interesse nazionale, del resto contemplato espressamente dal decreto 21/2012 (art. 2, co. 1) e dettagliato attraverso il riferimento al servizio universale: sicché non sarebbe comunque possibile – né sufficiente – operare sui regolamenti per pretendere di attrarvi infrastrutture che sorgono dall’altra parte dell’Atlantico e servono clienti che con l’Italia non hanno alcun legame. La garanzia che rende operanti i poteri speciali riguarda gli asset – e si estende solo indirettamente alle società che li detengono. Pertanto, ogni modifica volta ad ampliarne l’ambito di applicazione, in direzione – per così dire – soggettiva, appare radicalmente incompatibile con l’impianto della disciplina.
Irricevibile è anche il suggerimento di chi vorrebbe valorizzare la relazione puramente finanziaria tra il controllo della partecipazione brasiliana e la capacità di investimento sulla rete in Italia, per giustificare – a normativa invariata – l’interposizione di un veto all’alienazione. Si propone, cioè, anche in questo caso – e senza neppure l’impiccio di riscrivere le norme – di prescindere dalla rilevanza degli asset in sé considerati, per imporre le opinioni estemporanee del governo sulla gestione aziendale e sulle strategie industriali, che, fino a prova contraria, competono unicamente agli organi societari.
Ma il carattere grottesco della proposta emerge in tutta la sua evidenza se la confrontiamo con la ratio politica della disciplina sui poteri speciali: quella di prevenire l’ingresso di operatori stranieri, e pertanto meno controllabili, nel mercato nazionale – basti ricordare l’accelerazione impressa al dossier dalla crescita di Telefonica in Telecom, per il tramite di Telco. Si tratta di un privilegio sufficientemente odioso: ma l’idea che esso possa legittimare un’ingerenza anche nelle cessioni di beni detenuti all’estero – e, dunque, di frapporsi non solo all’operatività di aziende private che hanno la sfortuna di battere bandiera italiana, ma anche al libero dispiegarsi delle vicende economiche di un altro paese – è il frutto evidente di un delirio di onnipotenza. Nuove frontiere del protezionismo. Bastavano le vecchie.

4
Lug
2014

Coppa del Mondo del Brasile: tra gioia e un conto salatissimo—di Magno Karl

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

La coppa mondiale domina l’immaginazione brasiliana come nessun altro evento. Ogni quattro anni il paese diventa una setta che vive nell’adorazione del Signore Calcio. Indubbiamente, nessun altro paese ha vinto tante volte la coppa del mondo quanto il Brasile. Pertanto, quando nel 2010 è stato annunciato che il Brasile avrebbe ospitato la competizione del 2014, a migliaia si sono riversati sulla spiaggia di Rio per festeggiare. Noi brasiliani abbiamo avuto la sensazione che il calcio stesse tornando a casa, e questo ci rendeva felici.

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3
Lug
2014

La concorrenza nei servizi pubblici locali: il caso dei rifiuti

Nei giorni scorsi, la Corte dei conti – ne ha scritto bene Sergio Rizzo sul CorrierEconomia – ha riproposto all’attenzione generale una delle piaghe dell’economia italiana, quella delle società partecipate dallo Stato e dagli enti locali. Secondo la magistratura contabile, assommando queste e quelle, nonché le società da esse a propria volta controllate e i vari organismi diversi (consorzi, fondazioni…), si superano le 8000 unità. Il costo complessivo di questa galassia, pari al totale dei trasferimenti ricevuti a qualsiasi titolo dai ministeri, ammontava a 26 miliardi di euro nel 2013 e a 83 miliardi di euro nell’ultimo triennio. Agli enti locali la parte del leone, con oltre 5000 società, un terzo delle quali in perdita strutturale.
A prescindere dalle nefaste conseguenze finanziarie, tale stato di cose esercita un impatto negativo sulla concorrenzialità del mercato. Il capitalismo municipale soffoca l’iniziativa privata in settori particolarmente significativi per la qualità della vita dei cittadini: pensiamo al trasporto pubblico locale oppure al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti – oggetto di un ricco convegno organizzato a Padova da Confindustria Veneto.
È necessario sgombrare il campo da un equivoco pervasivo: a quasi tre anni dallo sciagurato referendum sull’acqua pubblica e dall’abrogazione del comma 23-bis del d.l. 112/2008, ha ancora pieno vigore nel nostro ordinamento il principio di tutela della concorrenza nei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che discende direttamente dalla normativa comunitaria ed è stato, da ultimo, riaffermato dal d.l. 179/2012 (art. 34, co. 20-21).
In particolare, si devono ritenere ancora operanti i tre metodi di affidamento: quello tramite gara ad evidenza pubblica, quello disposto a società a capitale misto, previo esperimento di gara per la scelta del socio privato, e quello diretto a società in house; e la scelta fra queste tre forme dovrà essere giustificata attraverso la predisposizione di un’apposita relazione, da pubblicarsi sul sito internet dell’ente o del consorzio procedente; qualora si deroghi al principio di tutela della concorrenza, la relazione dovrà indicare le ragioni specifiche per cui l’affidamento con gara non appaia in grado di perseguire l’interesse generale.
Inoltre, la società destinataria di affidamento in house deve rispondere a requisiti ben individuati: dev’essere di proprietà interamente pubblica, dev’essere soggetta da parte degli enti soci a un controllo analogo a quello che gli stessi possono esercitare sui propri uffici, deve svolgere la propria attività prevalentemente per conto e nell’interesse degli enti partecipanti, dev’eseguire direttamente la totalità delle attività affidatele e astenersi dallo svolgimento di attività imprenditoriali estranee all’affidamento, salvo quelle accessorie o strumentali.
Come il dimostrabile favore legislativo per l’affidamento con gara si traduca nella pratica è tutt’altra questione: gli affidamenti in house in carenza dei presupposti sono la norma – con l’effetto di legittimare, così, il malcostume dei subappalti delle società in house, delle relazioni redatte dalla società affidataria anziché dall’ente affidante, degli affidamenti sotto soglia, del controllo politico e delle gestioni opportunistiche, che nulla hanno a che vedere con il controllo analogo prescritto dalla disciplina rilevante, e persino dell’inversione dei rapporti di forza tra società partecipate e enti partecipanti.
Va, poi, segnalata la vicenda della definizione dei bacini territoriali che dovrebbero rimpiazzare i comuni nella gestione degli affidamenti. Il d.l. 138/2011 e il successivo d.l. 150/2013 imponevano l’individuazione di ambiti territoriali ottimali, tali da “massimizzare l’efficienza dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli inerenti al settore dei rifiuti urbani”, stabilendo che la loro estensione dovesse essere, di norma, almeno pari a quella del territorio provinciale e fissando al 30 giugno 2014 la scadenza per l’istituzione dei relativi enti di governo e per la deliberazione dei nuovi affidamenti, pena il commissariamento a opera dei prefetti competenti e, in ogni caso, la cessazione degli affidamenti non conformi alla data del 31 dicembre 2014. (Tuttavia, sino al 2020, le società pubbliche quotate potranno avvalersi di una deroga al requisito della proprietà completamente pubblica.)
Il Veneto – ma lo spirito di conservazione è analogamente diffuso anche in altre regioni – si è dapprima accodato a quest’orientamento con la legge regionale 52/2012, salvo poi distaccarsene con la delibera 13/2014 della Giunta, che ha portato a dodici il numero degli ATO, così da ricalcare fedelmente le aree di operatività delle attuali gestioni in house. Inutile precisare che tutti i dodici ATO sono ad oggi paralizzati dalla mancata istituzione degli organi di governo – situazione che ha indotto il consigliere regionale Diego Bottacin a invocare, come previsto dalla norma, l’intervento del prefetti.
Allo stato attuale, sono una manciata gli enti che, in Veneto, assegnano la gestione del servizio rifiuti con procedura competitiva: si tratta di alcune comunità montane del bellunese, del consorzio Padova Sud, del comune di Albignasego (PD), e dei comuni di Mason, Molvena e Pianezze (VI), la cui gara è al momento in corso. Secondo le stime illustrate da Jacopo Bercelli, sulla base di dati pubblicamente disponibili, queste gestioni costano in media 73 €/abitante contro i 103 €/abitante dgli affidamenti in house, con un risparmio de 30%. A chi rileva che si tratta di un confronto improprio, perché ogni territorio ha esigenze specifiche, è agevole rispondere che – alla luce della perdurante carenza di concorrenza – si tratta anche dell’unico confronto possibile. Una delle ragioni più solide per preferire l’affidamento con gara risiede proprio nella facoltà di opporre un vaglio concreto all’affermazione fideistica dell’efficienza dell’in house. La procedura competitiva è un meccanismo di scoperta, che fa emergere i mezzi e i processi più adeguati alla fornitura del servizio e ne determina l’effettivo prezzo di mercato.
In questo paese, chi richiede una maggior apertura al mercato si trova solitamente nella scomoda posizione di reclamare riforme normative per modificare lo status quo; nel caso dei servizi pubblici locali, viceversa, la richiesta è ben più modesta: si tratta di dare applicazione a una disciplina già vigente. Non necessariamente una disciplina ottimale: possiamo immaginare – e si praticano altrove – modalità di gestione in cui gli operatori competano nel mercato e non per il mercato. Tuttavia, rispetto alla pratica del settore, tagliare le unghie alle partecipate e dare spazio ai privati sarebbe oggi una boccata d’ossigeno per imprese e contribuenti.

3
Lug
2014

Taxi! Siamo nel 21esimo secolo!—di Fred Roeder

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Le nuove tecnologie e lo spirito imprenditoriale migliorano la nostra vita giorno dopo giorno. Tra le ultime e più importanti innovazioni per chi abita in città, troviamo le app di servizi peer-to-peer per condividere i viaggi in auto, come Uber o Lyft. Queste app abbassano i costi di transazione tra passeggeri e autisti perché li connettono direttamente attraverso i loro smartphone.

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