23
Lug
2014

I contratti di sviluppo e 2 guai di Stato: serve un’agenzia indipendente che valuti riforme e investimenti pubblici

Ieri il governo ha annunciato il varo di 24 progetti di sviluppo, per 1,4 miliardi di euro di risorse di cui 700 milioni di fondi pubblici nazionali. E’ una buona notizia soprattutto per il Sud, visto che per l’80% sono progetti incardinati nelle quattro regioni dell’Obiettivo Convergenza, cioè Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. E’ una buona notizia perché non sono interventi a pioggia, ma di taglio non inferiore ai 20 milioni (7,5 per l’agricoltura) per singola impresa e su progetti abbastanza precisi. Ed è una buona notizia perché quasi metà delle imprese interessate è straniera, con multinazionali come Vodafone e Unilever, Whirlpool e Sanofi. Tuttavia è una notizia buona, ma solo a metà. Non è colpa del governo attuale, che ha volontà e merito di accelerare, ma all’annuncio si arriva solo perché, entro qualche settimana, correvamo il rischio di vederci sottratte come Italia le quote di finanziamento dei fondi europei su cui questi progetti insistono: sono tutti denari che andavano utilizzati entro il 2013, e che non abbiamo saputo mettere a frutto per tempo.

Il tempo è tutto, a maggior ragione in un Paese che ha perso il 27% del totale degli investimenti nazionali, tra pubblici e privati, dal 2008 a fine 2013. Si tratta di interventi sia di riqualificazione di aziende o rami d’azienda in crisi, sia di sviluppo di nuove attività. I 25 mila addetti la cui occupazione è salvaguardata o creata dai progetti annunciati ieri potevano e dovevano esserci anni fa, le aziende avrebbero potuto rispondere meglio alla crisi, la perdita di reddito sarebbe stata inferiore. A dirla tutta la responsabilità non sta al braccio pubblico responsabile di raccogliere le richieste delle aziende e di elaborare l’istruttoria, cioè Invitalia, l’agenzia per l’attrattività degli investimenti italiani ed esteri guidata da Domenico Arcuri. Tant’è che Invitalia di progetti di sviluppo ne ha pronti 36. Se l’annuncio di ieri ne riguarda 24, in realtà ad essere già compiutamente stipulati ne è la metà cioè 12, e in stato di esecuzione non sono più di 6. E di questo la responsabilità è della pachidermica e tardigrada macchina pubblica, ministeriale e regionale, che deve attivarsi su ciascuno di essi dopo che l’istruttoria è compiuta. E’ questa, la nostra prima palla al piede. E ora bisognerà comunque correre, per varare in tempo gli altri progetti che Invitalia ha già cantierato.

Se diamo un’occhiata ai settori interessati, la Campania per molti versi è la regione più “accattivante”, visto che non solo allinea una pluralità di interventi nei settori di punta della propria specializzazione industriale più avanzata, dal settore aeronautico a quello del packaging all’alimentare, ma è anche l’unica ad allineare contemporaneamente progetti pronti anche nel campo turistico e in quello della grande distribuzione commerciale. Perché se c’è un punto debole, nei 36 progetti cantierati, è che pochissimi tra loro riguardano proprio turismo e commercio, che al contrario avrebbero un grande bisogno di incrementare la propria capacità di offrire servizi a maggior valore aggiunto e di superare al contempo quel frazionamento pulviscolare dell’offerta che ha una pesante responsabilità, sia nella nostra inadeguata capacità di attirare turisti esteri, sia nell’inefficienza di una catena dei prezzi che finisce per gravare troppo sul consumatore finale.

Per essere onesti fino in fondo, bisogna però ricordare anche una seconda debolezza pubblica. Non c’è solo la lentezza delle pluralità di competenze sovrapposte, che non ci mette in condizioni di usare i fondi europei in tempo adeguato, e a cui si rimedia affrettando decisioni e procedure. C’è un’altra grave questione irrisolta. L’esempio è dato proprio da uno dei 36 progetti pronti, nell’elenco Invitalia. Quello che riguarda i 100 milioni di cui 74 agevolati di investimento per EuralEnergy nel Sulcis, in Sardegna. Un problema, quello minerario dell’ex CarboSulcis, aperto da 20 anni. In 20 anni la regione Sardegna ci ha speso 600 milioni, e tra perdite e sovraccosti di acquisto dell’estratto addossati a Eni ed Enel la somma spesa complessivamente non è inferiore al miliardo di euro. I circa 490 minatori rimasti al 2013 hanno un costo medio lordo di 37mila euro annuo, eppure abbiamo speso 3 volte a testa in denaro pubblico ogni anno per non risolvere in nulla il problema. Lo abbiamo eternato, bruciando risorse di tutti, la vita e la speranza di chi è rimasto sempre appeso a un filo.

Ecco la seconda cosa che manca alla macchina pubblica italiana: un’agenzia pubblica indipendente, composta da professionalità economiche e d’impresa elevate, capace di valutare ex ante in autonomia rispetto ai governi e alle regioni i costi-benefici delle agevolazioni e degli investimenti pubblici, capace di monitorare nel tempo l’attuazione dei piani industriali agevolati (facendo anche scomparire i contributi a fondo perduto, che ancora restano anche nei programmi di sviluppo attuali, e che non aiutano la serietà dei progetti), e capace di fare un serio bilancio ex post degli interventi, in modo da spingere i successivi impieghi di capitale pubblico verso sempre migliori pratiche.

La politica non ama le valutazioni di efficienza indipendenti. Ma dalla fine dell’epoca gloriosa della primissima Cassa del mezzogiorno, la serietà delle valutazioni tecniche a corredo degli investimenti e delle agevolazioni troppe volte ha piegato il capo a criteri clientelari e di consenso. E’ per questo che nel Sud in passato troppe volte gli aiuti pubblici si traducevano in “prendi i soldi e scappa”, desertificando vieppiù l’impresa sana. Ed è per questo che un’eguale unità di capitale pubblico investita in Germania ha un rendimento superiore dui quasi il 40% a un eguale impiego in Italia, stando all’ultimo outlook del Fondo Monetario.

Non vale solo per i progetti di sviluppo di cui stiamo parlando oggi. Vale per qualunque riforma pubblica: è perché manca una valutazione seria e indipendente, che gli sgravi a tempo di Letta per le assunzioni nelle imprese hanno ottenuto solo il 28% dei risultati prefissi, e che la Garanzia Giovani in corso oggi corre il serio rischio di tradursi in un flop. Ci pensi Renzi: un’agenzia di valutazione indipendente di come si spendono i denari pubblici serve all’Italia. La PA com’è oggi – e come resterà domani – non ce la fa.

 

23
Lug
2014

Taxi e NCC: verso una licenza unica?

Nella battaglia per l’esercizio del servizio di trasporto pubblico non di linea è intervenuta, qualche settimana fa, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con una segnalazione inequivocabile a Governo e Parlamento in cui, per superare gli ostacoli alla competitività che rallentano la crescita del paese, li invita a “eliminare le distorsioni concorrenziali nel settore degli autoservizi di trasporto pubblico non di lineacausate dall’esclusione della disciplina dei taxi e del servizio di Noleggio auto con conducente (NCC), di cui alla l. n. 21/1992, dall’ambito di applicazione delle recenti norme di liberalizzazione”.

Si tratta, com’è facile capire, di una segnalazione importante nell’ambito dei tentativi di maggiore apertura alla concorrenza del trasporto pubblico non di linea, colti già in alcuni emendamenti alla legge di conversione del decreto competitività, discussi in questi giorni in Parlamento. Un’apertura auspicata anche dall’Istituto Bruno Leoni, in un paper pubblicato oggi da Diego Menegon, che – dopo aver ricostruito la ratio della differenziazione tra i servizi di taxi e di noleggio con conducente e la normativa di riferimento – propone un sostanziale allineamento dei servizi, così da ristabilire quelle condizioni di effettiva concorrenza tra gli operatori ritenute necessarie dal garante.

Entrambi i servizi furono disciplinati dalla legge 21/1992, che li differenziava a seconda dell’utenza cui erano rivolti. Nelle intenzioni del legislatore, infatti, il servizio NCC andava a soddisfare una domanda di trasporto programmabile, mentre i taxi garantivano un servizio universale, vale a dire mezzi di trasporto pubblici non di linea sempre e ovunque. Si temeva cioè che, se l’attività fosse stata lasciata libera, soprattutto in determinate zone e in determinate fasce orarie il consumatore sarebbe stato costretto a pagare prezzi troppo elevati per spostarsi, se non addirittura a non riuscire a reperire operatori disponibili.

Come scrive Menegon, tuttavia, “tali circostanze sono sempre più marginali, intuitivamente incompatibili con un aumento dell’offerta, e la frequenza del loro verificarsi, se si rendesse l’attività del tutto libera ed esercitabile da chiunque avesse la disponibilità di un mezzo e la patente, è tutta da dimostrare”. C’è poi un dato fondamentale da considerare, cioè che le innovazioni tecnologiche hanno reso inequivocabilmente obsoleto l’intero impianto regolatorio del settore: un’offerta più ampia e più variegata (si pensi, oltre ai servizi di NCC, al car sharing e al car pooling) potrebbe tutelare il consumatore più – e meglio – delle attuali tariffe amministrate e turni obbligatori.

Bisogna riconoscere, dunque, che l’evoluzione tecnologica ha reso i vari servizi di trasporto pubblico non di linea sempre più convergenti, rendendo lecito chiedersi se l’attuale regolamentazione rispecchi ancora la tutela di un “interesse pubblico” o, al contrario, non sia frutto di una legislazione superata e anacronistica, come ipotizzato dall’Antitrust. In questo senso, l’augurio è che il legislatore prenda atto delle indicazioni dell’AGCM, adottando le misure necessarie.

Quali potrebbero essere queste misure? In primo luogo, l’abrogazione degli obblighi, posti in capo agli NCC, di ricevere le prenotazioni di trasporto presso la rimessa, di avere sede o rimessa nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione e di iniziare la corsa presso la rimessa (artt. 3, comma 3; 8, comma 3; 11, comma 4 della l. 21/1992); in seconda istanza, l’adozione di un sistema unico, nazionale e aperto di licenze, che rimuoverebbe il contingentamento dell’offerta nel settore, pur garantendo il rispetto dei requisiti soggettivi e oggettivi ritenuti necessari alla circolazione delle auto pubbliche.

Twitter: @glmannheimer

17
Lug
2014

La spending review del ministro Franceschini

Anche il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact) si è finalmente adeguato ai dettami della spending review. Dettami che imponevano il taglio di 6 dirigenti di I fascia e 31 dirigenti di II fascia tra amministrazione centrale e periferica. La riorganizzazione del Mibact ha così portato a una revisione della struttura ministeriale e a una diversa ripartizione di competenze fra i vari organi. Contestualmente sono state delineate anche alcune innovazioni nella gestione del sistema museale.

Lo snellimento della macchina amministrativa ha previsto ad esempio la fusione fra le soprintendenze ai beni storici, artistici ed etnoantropologici e quelle per i beni architettonici e paesaggistici (diventeranno soprintendenze “belle arti e paesaggio”). In passato vi sono poi state parecchie sovrapposizioni di ruoli, come fra le direzioni regionali e le stesse soprintendenze. Ora le prime vengono riportate al loro ruolo di coordinamento amministrativo, mentre le seconde eserciteranno le funzioni tecnico-scientifiche. In sostanza la riorganizzazione ha prodotto un rimescolamento di carte, che ha portato alla diminuzione dell’organico e che, nel contempo, ha fatto un po’ di ordine nel funzionamento della struttura. Read More

16
Lug
2014

Loi anti-Amazon: l’inutile aiuto alle librerie a caro prezzo per i lettori

Chissà se il legislatore francese, quando ha approvato la legge sulle spese di consegna dei libri acquistati in internet, ha pensato anche solo per un attimo ai lettori di Le Conquet in Bretagna o di Saint Girons, nel cuore dei Pirenei? Due paesini incantevoli, dove però c’è da supporre che non sia facile trovare librerie fornite come se ne possono trovare a Parigi.

Il commercio elettronico ha dato un’occasione impensabile fino a pochi anni fa, specie per chi vive nelle “periferie”, di accedere facilmente all’acquisto di qualsiasi bene. Nel caso del libro, ha rappresentato la possibilità di avere a disposizione in un’unica libreria tutti i libri del mondo, anche fuori commercio. Una possibilità al di là di ogni attesa, per ognuno di noi.  Read More

15
Lug
2014

Ritenuta automatica sui bonifici dall’estero: una buona notizia

Si è finalmente chiusa la vicenda legislativa relativa all’applicazione della ritenuta automatica sui bonifici dall’estero.

La norma, introdotta nel 2013, applicava ancora una volta quella diffusa presunzione di evasione a carico dei contribuenti, prevedendo l’applicazione di una ritenuta del 20% su redditi e attività di natura finanziaria provenienti dall’estero e addossando quindi al contribuente l’onere di dimostrare che le somme riscosse non dovevano essere soggette a prelievo erariale.

L’Istituto Bruno Leoni aveva già espresso la convinzione che si trattasse di “un inversione inquisitoria dell’onere della prova a carico delle persone fisiche, con l’effetto di gravare i contribuenti di oneri amministrativi ingiustificati e, magari, di lucrare sulla distrazione di alcuni di essi”, peraltro superflua visto che i redditi in questione sono comunque soggetti ad obblighi dichiarativi del contribuente e a tassazione.

Avevamo anche iniziato a sperare per l’abrogazione della norma, quando, nel febbraio scorso, un provvedimento dell’Agenzia delle entrate ne aveva differito l’efficacia, mentre il ministro dell’economia Saccomanni, nel passaggio di consegne al suo successore, lo invitava a valutarne l’abrogazione.

Appena in tempo per scongiurare il termine iniziale di efficacia, il decreto legge n. 66/2014 ha definitivamente eliminato dall’ordinamento quella che in un editoriale dell’Istituto avevamo definito “una misura punitiva per un’evasione presunta e generalizzata”.

Una concreta, buona notizia. Finalmente.

 

15
Lug
2014

Perché Renzi non anticipa la legge di stabilità, perché avrebbe senso farlo

“Destituita di ogni fondamento”. Così palazzo Chigi ieri in tarda mattinata ha smentito l’ipotesi di un anticipo a ferragosto della bozza di legge di stabilità per il 2015, avanzata ieri dal Corriere della sera. Già nel fine settimana la Stampa aveva pubblicato un articolo nel quale non si formalizzava la data, ma i numeri sui quali si descrivevano premier e tesoro alacremente al lavoro da qualche giorno erano sostanzialmente gli stessi. Cerchiamo di capire allora come stanno le cose.

E’ un fatto che a molti risulta nell’ultima settimana una forte ripresa di attenzione ai conti pubblici, con incontri al Tesoro e a palazzo Chigi. E’ un fatto che la stima del Pil italiano per il secondo trimestre, dopo i dati negativi della produzione industriale fino a maggio – -1,2% sul mese precedente, -1,8% su base annua – secondo le proiezioni dello stesso Istat potrebbe partire da un dato negativo del -0,1%, cioè riconfermarci in recessione dopo il segno meno già registrato nel primo trimestre. E’ un fatto che anche nella migliore delle ipotesi, un secondo trimestre che si chiudesse invece intorno al +0,2%, la crescita attesa del PIl 2014 non potrebbe toccare quel +0,8% che il governo ipotizzava nell’aprile scorso. E’ un fatto che, di conseguenza, il deficit pubblico 2014 potrebbe non chiudere al 2,6% come da impegni europei confermati nel DEF presentato da Renzi, ma tornare verso il 3% (e sarebbe il terzo anno di seguito). Con effetti di trascinamento anche sui conti 2015, visto che ciò chiederebbe più energici interventi del previsto per centrare l’obiettivo del 2% di deficit pubblico previsto per l’anno a venire. E’ un fatto che il debito continui a salire più del previsto: a maggio è aumentato di 20 miliardi a quota 2.166,3 miliardi, con un + 4,7% da inizio anno. E’ un fatto che le cose non vanno malino solo da noi, ma anche in altri grandi paesi europei come la Francia, e anche in Germania la produzione industriale ha registrato un segno negativo. Infatti, ieri il Fondo Monetario ha ricorretto verso il basso la crescita attesa dell’euroarea e dell’Ue, praticamente all’1%.

Se questi sono i fatti che riguardano i numeri, fatti che per certo non possono che essere condivisi da palazzo Chigi e Tesoro, ce ne sono poi due che riguardano la politica. E’ un fatto ormai acquisito – il presidente del Consiglio lo ripete sempre – che il governo non metterà mano a manovre correttive, cioè non interverrà a esercizio 2014 in corso per migliorarne gli andamenti. Ed è un fatto che l’esecutivo punta a una diversa presa di coscienza europea della situazione in corso – aggravata da una forte volatilità dei mercati, dalla conferma che la Fed a ottobre porrà termine agli acquisiti di asset finanziari mensili, e dai timori bancari in vista dei risultati autunnali della prima verifica della congruità patrimoniale dei maggiori 128 istituti europei – in vista non del cambiamento delle regole esistenti, ma del loro pieno sfruttamento dei criteri di flessibilità che vi sono contemplati.

D’ora in poi entriamo nell’opinabile, cioè nelle supposizioni e nei giudizi fondati su opinioni che possono essere diverse. E’ per esempio immaginabile che il no alla manovra correttiva sia dovuto al legittimo desiderio di evitare che l’inizio dell’esame parlamentare del pacchetto di riforme istituzionali – Senato, legge elettorale, Titolo V° – venga inficiato da facili polemiche sui conti pubblici da parte dell’opposizione e dei dissidenti. E’ altresì pensabile che Renzi e Padoan ritengano che l’eventuale risalita del deficit 2014 verso la quota-rischio del 3% del PIL venga “depurata”, nell’analisi della prossima Commissione europea, dagli effetti del cattivo andamento dell’economia italiana e Ue, come del resto previsto dal patto di stabilità. La nuova Commissione guidata da Juncker non sarà operativa prima di novembre, ergo inutile secondo il governo anticipare la legge di stabilità. Infine, è anche immaginabile che il governo italiano consideri che la frenata in corso in tutta l’Unione – Germania compresa, per effetto del ritardo nel riequilibrio degli scompensi nelle bilance dei pagamenti intra-Ue, cioè per il fatto che la Germania ancora non importa abbastanza da Italia, Francia e Spagna – possa costituire un aiuto invece di un ostacolo, spingendo anche il blocco nordeuropeo a valutare con più apertura le richieste italiane e francesi alla massima elasticità consentita dal patto di stabilità sul deficit e dal fiscal compact per i rientro del debito pubblico.

Se queste ipotesi risulteranno fondate, il governo dunque solo tra settembre e novembre – ad andamento ormai consolidato dell’economia e dei conti pubblici nel 2014 – giocherà le sue carte. Renzi e Padoan pensano che qualunque anticipazione, in queste condizioni, indebolirebbe la necessità di un avanzamento dei criteri condiviso in Europa. Ci metterebbe ancora una volta dietro la lavagna al posto dei somari, levando forza a un processo che deve invece sfociare in consapevolezze comuni.

Certo, è un azzardo. Ma la politica li contempla. Si può, però, non essere d’accordo senza per questo passare per criticoni pregiudiziali, come il governo ha preso troppo spesso l‘abitudine di liquidare ogni osservazione a quel che fa.

L’anticipo della legge di stabilità avrebbe un duplice vantaggio. Chiarire ulteriormente in Europa che l’Italia prende ancora più sul serio i suoi impegni, di fronte a un’economia che resta piantata. E diffondere fiducia sulla scena italiana, visto che a quel punto bisognerebbe aspettarsi la conferma per tabulas e con un articolato preciso di ciò che Renzi ripete sempre, e cioè che il miglioramento dei conti futuro non avverrà per via di aggravi fiscali.

I numeri parlano chiaro. La conferma “strutturale” del bonus 80 euro e la sua estensione, anche magari non paritaria, alle categorie che non ne hanno beneficiato nel 2014 e alle quali Renzi lo ha promesso – pensionati, incapienti, partite IVA – più il finanziamento dovuto degli ammortizzatori sociali da solo chiede tra i 12 e i 15 miliardi di euro di coperture. E visto che non devono essere per via fiscale, devono essere tutti tagli di spesa. Quelli previsti nel 2015 da Cottarelli. Se si vuole procedere con altre quote di meno IRAP alle imprese, come sarebbe più che consigliabile visto che i tagli d’imposta alle imprese – se strutturali e permanenti – hanno effetti più efficaci sul rilancio della crescita rispetto ai bonus ai meno abbienti, allora bisogna tagliare la spesa ancora di più.

E’ un ammontare “pesante”, visto che per esempio dalla riforma della PA – decreto e disegno di legge – è scomparsa ogni indicazione degli obiettivi di risparmio nella spesa pubblica. Un punto di Pil di tagli alla spesa come minimo, sempre che la nuova Commissione Europa cambi idea rispetto a quella Barroso, che ci ha sin qui negato lo slittamento di un anno al 2016 dell’azzeramento del deficit corretto per il ciclo, cosa che richiederebbe altri 9 miliardi di interventi correttivi.

E’ un ammontare pesante anche per un’altra ragione. Il governo si impegnerà in un più deciso processo di valutazione europeo delle riforme in corso in ogni paese membro ai fini della crescita, e scontando così dai tetti8 di deficit aggravi di spesa nel breve per mettere le riforme a regime (come previsto nel documento approvato nell’ultimo Consiglio europeo). Questo potrà portare benefici contabili soprattutto se il parlamento farà un buon lavoro sulla riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, che tra tutte le misure in cantiere è quella che più può alzare l’ouput potenziale, se si potenzia l’apprendistato, se l’agenzia del lavoro non è la somma degli inefficienti uffici provinciali attuali, se davvero ne esce un codice semplificato del lavoro in poche decine di pagine, e se il contratto di inserimento a tutele crescenti non diventa una nuova formula per credere di abrogare il lavoro a tempo determinato. Considerazioni analoghe si possono svolgere anche se la riforma della giustizia civile e amministrativa saranno una svolta vera. Ma in ogni caso niente di tutto ciò porta a una riduzione del debito pubblico che sale, sale, e che rappresenta la peggior incognita sulla stabilità del nostro paese.

E’ andata male, la quotazione di Fincantieri che doveva segnare l’esordio degli incassi da dismissioni pubbliche: ha visto i fondi d’investimento italiani ed esteri rifiutare le quote loro riservate. E non è un caso che la quotazione di poste sia anch’essa slitttata. E’ sulla dismissione dell’immenso patrimonio immobiliare pubblico e sulla migliaia di controllate e partecipale locali di Comuni e Regioni, che il governo deve batter un colpo energico sin qui mancato. La ripresa autonomia dei mercati e dell’Europa resta troppo debole per immaginare di beneficiarne inerzialmente. Fu già l’errore di Letta, aspettarsela. Siamo sicuri che Renzi non farà lo stesso errore.

13
Lug
2014

Responsabilità fiscale solidale negli appalti e 730 precompilato: cosa hanno in comune?

Che il sistema fiscale sia arrivato a costituire una vera e propria vessazione, sia per quantità che per qualità, a carico dei cittadini e delle imprese è cosa talmente nota che è ormai accettata e riconosciuta dagli stessi ultimi governi. In mezzo al monito della Corte dei conti di una prelievo eccessivo e quello del ministro dell’economia per ridurre le tasse per rilanciare la crescita, è in corso l’attuazione della delega fiscale, consegnata dal precedente governo all’attuale per affrontare alcune questioni di amministrazione erariale e recuperare, almeno nelle intenzioni, quella rule of law che in materia si è da tempo smaccatamente persa.

Due recenti misure approvate dal governo stonano, però, con questo salutare obiettivo.

La prima, per sottrazione, la seconda, per addizione. Read More

11
Lug
2014

Risparmio energetico degli edifici: un obbligo giusto? — di Paolo Violi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Paolo Violi.

La casa è un bene a cui noi italiani siamo molto legati, è un fatto culturale che affonda le radici nella nostra storia. Se la sua tassazione è un tema sensibile, perché investe questo bene in maniera diretta, i regolamenti tecnici che la riguardano tendono invece a proliferare in un cono d’ombra dell’informazione, principalmente per la difficoltà di discuterne le possibili ricadute sui nostri risparmi e sulla nostra vita. Voglio qui brevemente discutere di un caso che ritengo esemplare: il risparmio energetico degli edifici.

Read More

9
Lug
2014

Pensioni, rimedi non ortodossi a 4 guai: troppa spesa sul Pil, il deficit Inps, pensionati poveri, giovani senza futuro

Un paese con una spesa previdenziale che resta superiore alla media europea e dei paesi OCSE, ma che contemporaneamente ne ha parecchio contenuto l’ulteriore crescita, senza però riuscire a recuperare il livello più basso dei nostri competitor e senza risolvere altri tre considerevoli guai: moltissimi pensionati poveri, sotto o poco sopra il livello di sopravvivenza; un deficit annuale tra contributi raccolti e trattamenti erogati che resta elevato, e che appesantisce la fiscalità generale che strozza la crescita di imprese e lavoro; infine, un’ipoteca pesantissima su chi oggi è più giovane. Ecco la fotografia dell’Italia nella relazione annuale del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti, subentrato nel febbraio scorso ad Antonio Mastrapasqua travolto dalle polemiche dopo molti anni di guida dell’istituto, per il quale passano 406 miliardi di euro l’anno degli 800 totali di spesa pubblica.

E’ ovvio che le reazioni politiche e sindacali ieri abbiano messo al centro le richieste a favore dei pensionati più poveri, chiedendo lo sblocco decretato in questi anni di crisi per le rivalutazioni degli assegni, e di riaprire il “cantiere Fornero”. Ma dal nostro punto di vista è giocoforza invece partire da un altro punto di vista. Non per insensibilità sociale, come si vedrà: anzi, propprio per affrontarla meglio.

Il peso sul Pil della spesa previdenziale. L’Italia ha fatto una scelta, nei decenni: concentrare una quota molto più rilevante di altri paesi analoghi nella spesa previdenziale, rispetto al totale della spesa destinata al welfare.

La scelta di fondo – il sistema previdenziale retributivo a ripartizione agganciato a percentuali molto elevate delle ultime retribuzioni – nacque in un’Italia che cresceva a tassi non inferiori al 3% annuo, e in cui la bassa disoccupazione sommata all’espansione del reddito e del prodotto sembravano destinate a essere durevole. Con la discesa decennio per decennio del tasso di crescita medio fino a toccare quello inferiore al mezzo punto di Pil annuo, era evidente che gli oneri sarebbero diventati insostenibili. Evidente, ma per lungo tempo non evidente è stato per la politica italiana assumere misure adeguate. Di qui le due riforme essenziali dell’ultimo ventennio, per contenere nel lungo periodo l’eccesso di spesa previdenziale.

La prima fu la riforma Dini, nel 1995, col passaggio a un sistema contributivo ma sempre a ripartizione (cioè le pensioni in essere le paga chi lavora coi suoi contributi, e qui chiariamo una cosa a margine: molto credono che in Italia il contributivo adottato sia “puro”, cioè che la pensione sarà effetto della somma dei propri contributi aggiornata nel tempo secondo come è stata investita, ma sbagliano, non è affatto così. Il montante su cui calcolare il trattamento previdenziale del nostro sistema contributivo è dato sì dalla somma dei contributi pagati, ma rivalutati sulla base del Pil nominale anno per anno, e moltiplicati per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento, e soprattutto il pagamento concreto delle pensioni verrà sempre garantito dai contributi di chi lavora, per questo si definisce contributivo a ripartizione e non puro). La riforma Dini commise però due errori essenziali, cari al sindacato come al più dei partiti, destra e sinistra insieme, il PUS, partito unito della spesa pubblica che è il vero asse portante della politica eco-finanziaria italiana. La Dini spalmò gli effetti del passaggio al contributivo in un orizzonte troppo lungo, pluridecennale, e tenne in piedi età basse per i trattamenti che davano diritto alle pensioni di anzianità. Di qui la necessità, visto i 15 anni passati invano, della riforma “brutale” Fornero, che a fine 2011 estese a tutti il calcolo contributivo prorata abolendo il sistema misto della lunghissima transizione della Dini, unificando in pochi anni le età per i trattamenti di anzianità e vecchiaia.

Questa seconda riforma – che spiace ai sindacati e a mezzo Pd, e non solo per il dramma vero che ha creato, quello degli esodati, a cui si sta rispondendo da un anno e mezzo con successive tranche di copertura – ha dato una solida riassestata alla spesa previdenziale. Come ieri ha ricordato Conti. Nel 2013 la spesa previdenziale è stata pari al 16,3% del PIl e sarebbe andata al 18%, senza riforma Fornero. I dati sulle pensioni di anzianità e vecchiaia 2013 registrano un crollo rispetto all’anno precedente: -49% le prime e -50% le seconde nel pubblico impiego, -32% le prime e  -57% le seconde nel privato.

E tuttavia non va dimenticata una cosa. Se si compulsano le 392 pagine del rapporto sulla sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale che la Ragioneria generale dello Stato ha aggiornato due mesi fa, le pur generose stime di crescita assunte del PIL (media annua più 1,5%) e di tassi di occupazione assunte nel modello adottato portano la spesa previdenziale a scendere di un soffio sotto il 15% del PlL solo al 2030, per poi risuperarlo nel 2040, scendendo al 14% forse e solo nel 2060.

E’ vero che nei paesi Ue e Ocse nel frattempo la spesa sale, ma sale partendo da punti molto più bassi della nostra: per i paesi OCSE la spesa previdenziale salirà dal 9 all’11,5% del Pil entro il 2060, per i paesi UE dall’11% al 13%. Quei 2-3 punti di Pil di spesa previdenziale italiana annua maggiore della media dei paesi avanzati descrive una scelta che resta sbagliata: continuiamo a spendere troppo poco per le politiche attive del lavoro e per il sostegno della famiglia e della curva demografica, e troppo in politiche passive (30 miliardi nel 2013 tra ammortizzatori e sistema CIG, oltre 100 miliardi da inizio crisi senza una sola ora di riformazione e riavviamento al lavoro delle centinaia di migliaia di soggetti interessati) e in pensioni ai “privilegiati” del sistema retributivo puro (non è colpa loro, ovviamente, è la politica ad averlo scelto). E’ una scelta sbagliata non solo in termini di giustizia tra generazioni e all’interno delle stesse generazioni, visto che i trattamenti tra pubblici e privati, dipendenti e autonomi non sono affatto eguali. E’ sbagliata anche perché l’INPS non ce la fa, e deve attingere alle tasse di noi tutti.

Il deficit INPS. Nel bilancio finanziario, l’istituto nel 2013 ha avuto un saldo negativo di 9,8 miliardi. E’ un deficit per i nove decimi dovuto allo sbilancio tra contributi raccolti e trattamenti erogati ai pensionati del settore pubblico, l’ex Inpdap. E qui ci sarebbe molto da dire: non è colpa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici (sono 14,5 milioni quelli della gestione privata), ma negli anni la politica ha riservato loro condizioni migliori rispetto ai pensionati privati, in termini di anni minimi di versamenti rispetto ai diritti maturati (e non solo). I numeri parlano chiaro: l’importo medio delle pensioni di vecchiaia/anzianità private è di 1555 euro lordi mensili, quello delle pubbliche è di 1636 euro per le donne e di 2262 euro per gli uomini. Ma lo sbilancio finanziario di quasi 10miliardi annui dell’INPS da solo non dice tutto. Se andiamo a vedere le diverse fonti di entrata rispetto alle poste di spesa, al netto dei trasferimenti dal bilancio dello Stato i contributi raccolti nel 2013 dall’INPS sono pari a 209,9 miliardi euro (153 dai privati, 55 dal settore pubblico, 1 dai lavoratori dello spettacolo), mentre la spesa diretta in pensioni è pari a 266,8 miliardi. Come si vede, tra contributi ed erogazioni puramente previdenziali lo sbilancio è di 56 miliardi l’anno. E’ il contribuente con le tasse, a pagare dolorosamente la differenza.

I pensionati poveri. Sono 6,8 milioni, il 43% del totale, i pensionati che ricevono un assegno inferiore ai mille euro lordi al mese. Di questi, 2 milioni sono sotto i 500 euro lordi (il 13,4%), e di questi ancora 1,2 milioni non superare i 209 euro lordi al mese. Oltre 4 milioni invece percepiscono pensioni tra i 1.000 e i 1.500 euro mentre per circa 2,4 milioni di pensionati l’assegno oscilla tra 1.500 e 2.000 euro mensili. Al di sopra dei 2.000 euro lordi si colloca il restante 16% dei titolari, poco meno di 2,5 milioni. Se a queste cifre sommiamo il milione e mezzo di italiani che nel 2013 ha beneficiato di indennità di mobilità, disoccupazione, Aspi e Miniaspi, eccoci alla tremenda “questione sociale” delle vittime della crisi. Cinque-sei milioni di italiani che stanno poco sotto o poco sopra il livello della pura sopravvivenza, e che in questi anni stanno esaurendo il polmone finanziario a loro favore delle famiglie di appartenenza. Se il governo seguisse la strada di piccoli aumenti per tutti, l’effetto-dispersione non risolverebbe il problema. Andrebbe assunta una logica selettiva: un welfare diverso per i pensionati poveri anziani, politiche del lavoro attive e non passive per chi fuori dalla mobilità oggi finisce troppe volte per non cercare più lavoro e basta, non essendo riaddestrato e arrangiandosi con il nero.

 

I giovani. I sindacati e mezzo Pd chiedono di tornare indietro rispetto ai tetti della riforma Fornero e di alzare le pensuioni in essere: ma così facendo si pensa solo a chi oggi un lavoro e la pensione ce l’ha. E’ verissimo che ad alcune centinaia di migliaia di italiani – ripeto qui non parliamo degli esodati, a cui si sta pensando – la riforma Fornero ha mutato drasticamente in peggio l’orizzonte di vita, obbligandoli a 5-7 anni di lavoro in più. Ma molto peggio di loro rischiano di stare milioni e milioni tra i 25 e i 50 anni, che il lavoro non ce l’hanno, o ce l’hanno precario, o l’hanno perso. Torniamo al rapporto della Ragioneria sulla sostenibilità generale del sistema. I diversi scenari che vi sono illustrati, rispetto alla condizione attuale del paese, peccano di eccessivo ottimismo. Il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione della pensione maturata con i requisiti di età e contribuzione della riforma Fornero sarebbe al 2050 del 73% per il lavoratore privato, del 53% per l’autonomo. Ma questo calcolo è fatto sulla base di un’età per la pensione all’epoca di 70 anni con 40 anni di versamenti effettuati, e una crescita del Pil di un punto e mezzo l’anno per rivalutare il montante. E’ evidente a chiunque che oggi, se raccontate a un 35enne disoccupato con – se va bene – 2 anni di contributi versati, che nei prossimi 35 anni dovrebbe lavorare ininterrottamente e anzi dovrebbe a quel punto anche integrare i contributi versati con 3 annualità aggiuntive, mentre l’Italia nel frattempo cresce ininterrottamente di almeno un punto e mezzo l’anno, la risposta è che alle favole di una pensione simile e così alta rispetto all’ultimo reddito non crede nessuno. Ecco il problema gigantesco: oltre a 5-6 milioni di poveri attuali, se ne possono sommare il doppio che arriverà a pensioni bassissime. Basta una crescita di mezzo punto l’anno o di un punto nel decennio, per abbattere i tassi di sostituzione tra il 35% e il 24% rispetto alle previsioni della Ragioneria: il che significa pensioni da fame.

I rimedi ai 4 problemi – troppa spesa in previdenza sul Pil, squilibrio annuale tra contributi ed erogato, pensionati poveri, giovani senza pensione – non sono la riapertura dei “tetti Fornero”. Occorre cambiare drasticamente marcia alla crescita italiana. Cioè riducendo la spesa davvero, per molte meno tasse su impresa e lavoro. Perché senza di questo non ci sono più occupati continuativi. E solo pensioni misere, anche in futuro. Occorre un welfare selettivo per gli anziani, e una scelta netta a favore delle politiche attive del lavoro rispetto all’assistenza. Occorre un intervento su chi ha trattamenti troppo generosi risalenti al sistema retributivo, e su questo un problema serio – ma concretamente affrontabile: è un enorme problema irrisolto di giustizia intergenerazionale – è anche rappresentato dalla Corte costituzionale. E uno spazio molto più ampio alla previdenza complementare, il cui trattamento fiscale deve essere reso molto più favorevole, in un quadro generale per altro di considerevole riduzione delle imposte su lavoro e impresa. Il guaio è che, per tutto questo, oggi non sembra affatto di poter contare su attori politici che ne siano persuasi.