1
Ago
2014

“Peccato e assoluzione”? Per gli agenti del fisco…

Le storie degli imprenditori Angeloni e Ascione, raccontate nelle colonne di la Repubblica martedì 29 luglio da Federico Fubini, insieme alle recenti dichiarazioni del nuovo direttore delle Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, offrono l’occasione per riflettere su alcune pratiche comunemente adottate dallo stato, anche per mezzo dell’Agenzia, in materia di riscossione delle imposte.
Angeloni, dopo aver rilevato un’azienda di moda nel 2007 e averla riportata in utile dopo 4 anni, ha ricevuto una visita dall’Agenzia delle Entrate. Dopo due mesi di controlli, l’Agenzia ha giudicato l’investimento in comunicazione, pari all’1% del fatturato, «non determinante» e dunque fittizio, perché non in linea con la stessa voce di investimento delle aziende concorrenti, di solito tra il 5 e il 10%. Le prestazioni dei consulenti risultano essere «impersonali e generiche», tali che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Mettendo in discussione la libera strategia aziendale dunque, l’Agenzia ha chiesto al signor Angeloni di versare 100.000 euro in più. Al signor Ascione, fondatore di un’azienda di 9 addetti che esporta tessuti, non è andata meglio. Nel 2012 ha ricevuto un accertamento, con il quale si richiedeva di pagare oltre 60 mila euro, sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto. L’azienda ha rischiato di chiudere.
In Italia, la legge n. 122 del 30 luglio 2010 prevede che, dal 2011, l’avviso di accertamento ai fini IRPEF-IRAP e IVA emesso dall’Agenzia delle Entrate sia immediatamente esecutivo. Con l’avviso di accertamento si impone al cittadino di pagare un debito che in realtà “accertato” non lo è ancora. Già, perché accertare, nel vocabolario del diritto tributario, significa “sottoporre a verifica”. Tuttavia, volendo presentare ricorso, il contribuente deve comunque pagare un terzo dei tributi “accertati”. Di fatto, questa norma, ha reintrodotto il principio del solve et repete, ovvero “prima paghi e poi contesti”. Non stupisce che esso fosse già stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 21/1961. Meno di cinquanta anni dopo, eccolo di nuovo operativo, in nome di un accorciamento dei tempi procedurali.
Accorciando i tempi procedurali in una materia così delicata (si sta parlando del frutto del lavoro delle persone) tuttavia, nell’ansia di «rastrellare presto e comunque le maggiori somme possibili» (E. De Mita, “L’accertamento esecutivo deroga ai principi”, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2010), si rischia di compiere errori gravi, devastanti per molti contribuenti onesti. Inoltre, se si pensa al fatto che esiste, come stabilito dall’art. 59 del d.lgs. n. 300/1999, una “quota incentivante connessa al raggiungimento degli obiettivi della gestione e graduata in modo da tenere conto del miglioramento dei risultati complessivi e del recupero di gettito nella lotta all’evasione effettivamente conseguiti”, la probabilità di commettere errori potrebbe essere ampliata dal rischio di eccesso di zelo, da parte degli agenti della riscossione, in vista del premio. Detta quota incentivante viene stabilita da una apposita convenzione tra MEF e Agenzia delle Entrate, stipulata sulla base del do¬cumento di indirizzo con cui, a cadenza triennale, il ministero fissa gli sviluppi, le linee generali e gli obiettivi della politica fiscale e della sua gestione.
L’ultima convenzione, quella per il triennio 2013-2015, tra le altre cose, fissa in 10,2 miliardi l’obiettivo riferito all’ammontare dell’incasso derivante dai versamenti diretti e da ruoli (quindi dall’attività di accertamento e controllo). Ma la previsione di una somma monetaria fissa disincentiva l’attività di prevenzione dell’Agenzia, per la quale è meglio attingere a una base di evasione più ampia, nella quale andare a recuperare le somme utili al raggiungimento dell’obiettivo. Altro obiettivo a destare perplessità, stabilito dalla stessa convenzione, è la percentuale di vittorie in giudizio: 59%. Sorvolando sulla bontà del ministero nello stabilire una quota così bassa, preoccupa ancor più il fatto che, stando al I rapporto trimestrale 2014 del MEF sul contenzioso tributario, la percentuale effettiva di vittorie in giudizio nemmeno si avvicina all’obiettivo stabilito, a dimostrazione che i rischi di cui si è parlato sono concreti.

CTP

CTR

Come mostrano i grafici, la percentuale di vittorie per gli enti impositori è pari al 43% nelle commissioni tributarie provinciali (CTP) e al 44% in quelle regionali (CTR). Ciò significa che su 81.023 risultati di controversie tributarie definite nel primo trimestre 2014, in circa 45.000 l’ente impositore aveva sbagliato qualcosa.
Intervenendo a un convegno organizzato da Confcommercio, il direttore Orlandi ha denunciato: «In Italia sanatorie, scudi, condoni, sono pane quotidiano. Siamo un paese a forte matrice cattolica, abituato a fare peccato e ad avere l’assoluzione». A voler essere cattivi, non esistendo alcun meccanismo punitivo per l’Agenzia nei (molti) casi in cui questa soccombe in giudizio, pare che “peccato e assoluzione” siano pane quotidiano più per il fisco che per i contribuenti. Read More

1
Ago
2014

Tecnici, nuovo PIL, pensioni: i 3 problemi del nodo Renzi-Cottarelli

L’ormai consumata crisi tra Cottarelli e Renzi pone tre problemi diversi, tutti rilevanti. Apparentemente il più serio è la stima dei saldi pubblici e del perché Renzi rinvii i tagli alla spesa tutto da quando il governo è nato, mentre l’economia resta stagnante. Ma è meglio tenerlo per terzo, perché solo stimando altre due questioni prioritarie si può cercare di capire e giudicare la via seguita da Renzi.

 

Il primo problema è il rapporto tra ”tecnici” e politica. Era evidente sin dall’esordio delle 72 slides di Cottarelli a governo Renzi appena nato, che il premier la pensava esattamente come ieri ha detto concludendo il suo intervento alla direzione Pd. In sostanza: Cottarelli vada pure se crede ed è chiaro che a questo punto se n’è già andato, ma è la politica a decidere, cioè il governo e cioè innanzitutto Renzi come premier. Non sta a Cottarelli giudicare che cosa vota la maggioranza e come si comporta il governo. Il rude invito ai tecnici a stare al posto loro vale in realtà anche per il ministro Padoan, che il Quirinale ha fortemente voluto al MEF e che sinora è stato un pilastro della credibilità internazionale italiana in materia economico-finanziaria.

Se c’è un errore da evitare, è credere di affrontare la questione Cottarelli-Renzi in punta di psicologie e caratteri personali, come troppo amano fare i media. Il nodo che viene al pettine è strutturale, è quello del redde rationem della politica nei confronti della supplenza di competenza e autorevolezza che si è richiesta ai tecnici sostituendo i politici, dalla debacle di Berlusconi nel 2011 a oggi, come avvenne alla fine della Prima Repubblica. Alla politica – a destra e a sinistra, a prescindere dalle difese d’ufficio di Cottarelli per pura polemica anti Renzi inscenate oggi da una destra che i tagli di spesa non li ha mai praticati – in realtà piace enormemente, la tromba della riscossa che Renzi suona contro i tecnici. E a molti media pure, dopo aver coperto di improperi i tecnici a ciascuno dei quali però, da Monti in poi, gli stessi media riservavano all’inizio un servo encomio…

Come sempre, però, passare da un estremo all’altro è egualmente sbagliato. E’ innegabile che la politica sola possa e debba decidere, in nome dei consensi guadagnati alle elezioni, della caratura dei suoi leader, e dei rapporti politici interni alle maggioranze. I tecnici “impolitici” scivolano spesso sulla saponosa china dei consensi e su quella di come parlare alla gente, da Monti a Saccomanni. Ma il punto di fondo è un altro. E Renzi su questo corre il rischio di sbagliare. Alla finanza pubblica italiana servono o no, i tecnici? La risposta a tale quesito, alla luce di decenni di andamenti reali diversi dai documenti previsivi dei governi di ogni colore, della continua prassi parlamentare di alterare lobbysticamente saldi e coperture già originariamente spesso azzardate, e dalla pessima qualità certificata della spesa pubblica corrente e in conto capitale, non può che essere diversa da “la politica decide tutto”. I tecnici servono, eccome.

Un serio governo riformatore dovrebbe tirare una riga netta. Aver abdicato di fatto in vent’anni formulazione di obiettivi, compatibilità e testi di governo della finanza pubblica alla Ragioneria Generale dello Stato e alle Agenzie tributarie si è rivelato un errore. E sta alla politica decidere se e come riformare i “tecnici di governo”, che sono spesso diventati “governi a parte”, soprattutto in materia fiscale e opponendosi-ritardando ogni dismissione. Ma la riga netta è necessaria su un’altra questione. Alla finanza pubblica italiana serve un’Agenzia indipendente dai governi e dal parlamento, alla quale attribuire valutazioni ex ante ed ex post sugli interventi in materia di spesa ed entrate, sulla allocazione degli investimenti pubblici, sui criteri comparati di impiego delle risorse pubbliche nella sterminata e difforme geografia degli oltre 10 mila soggetti della PA (più all’incirca un’eguale mole di società controllate e partecipate), nonché su ogni “riforma” strutturale varata dai governi. C’è bisogno di qualcosa di altrettanto indipendente e autorevole del Congressional Budget Office americano, ma ancor più vasto visto che da noi la spesa pubblica è molto superiore.

E’ una questione essenziale di trasparenza. I governi decidano, ma i contribuenti hanno diritto a sapere bene ciò che si potrebbe e dovrebbe fare, quali siano le stime e le conseguenze degli interventi proposti, quali i benefici e quali le esternalità negative di una seria analisi costi-benefici di tutto ciò che viene proposto. E’ esattamente per questo che il governo non ha reso pubblici i 25 pdf dei gruppi di lavoro riuniti da Cottarelli per l’esame della spesa pubblica. Ed è un pessimo segnale, che su sanità e previdenza, 80mila esuberi PA e partecipate locali, prefetture, forze dell’ordine e centri di acquisto, tanto per fare solo qualche esempio, il governo abbia storto il muso al fatto che il commissario Cottarelli indicasse come e dove intervenire da subito, a partire – dicevano le slides – dallo scorso primo maggio.

Conclusione del primo punto: il ritorno alla supremazia della politica non corretto da un bilanciamento tecnico indipendente in Italia può voler dire una sola cosa, rinunciare a rivedere in profondità perimetro ed efficacia di una PA che spende troppo e che continuerà a costare troppe tasse, impedimento strutturale alla crescita italiana.

 

Seconda questione: Renzi ha ragione o torto, a prender tempo sui conti?

Stiamo ai fatti. Padoan, l’Istat e Renzi stesso ieri hanno ricordato che la crescita italiana nel 2014 non sarà quella indicata dal governo nel suo DEF di aprile, un PIL a +0,8%. I segnali italiani di cui disponiamo, dice l’Istat, indicano una prospettiva di stagnazione. Vedremo la prossima settimana, quando verrà diramata la prima stima del Pil nel secondo trimestre 2014. Ormai da tempo le stime convergenti – Confindustria, Banca d’Italia, FMI – si collocano tanno in una risicata forbice tra +0,2 e +0,3%. E’ ovvio che meno crescita significa rischio di sforare il 3% di deficit sul Pil nel 2014, ulteriore intensificazione della velocità di aumento del debito pubblico, necessità di appesantire le manovre di correzione indicate dalla prossima legge di stabilità.

Non è questa la via della quale Renzi è convinto. Gli sembra un’impostazione vecchia, quella riservata all’Italia come sorvegliata speciale. Aveva senso nel 2011, quando sotto i colpi della crisi emergente greco-spagnola l’instabilità italiana poteva minacciare l’euro stesso. Ora è diverso, pensa il premier. E’ diverso perché di mezzo si è messo Draghi con il suo bazooka, “faremo qualunque cosa per preservare ‘euro”. E’ diverso perché c’è una cornice concordata, sia pur da rafforzare, di scudi europei di emergenza, mentre allora praticamente non esistevano. E’ diverso anche perché al recente voto europeo Berlino ha potuto misurare la forza crescente dell’avversione all’euro, creata da politici che lo indicano come strumento di un rigore cieco e affama-popoli. Ed è diverso anche perché a Berlino per prima la Merkel, non governerebbe senza i socialisti nel suo governo.

Non sono solo queste ragioni “politiche”, ad aver spinto Renzi a non assecondare chi consigliava di rimetter subito mano ai conti, e di accelerare sui tagli di spesa. Cottarelli a marzo proponeva tagli cumulativi per 7 miliardi nel 2014, 17 nel 2015 e 34 nel 2016. Anche ieri è stato Padoan, a dire che la minor crescita rispetto alle attese impegna a maggior sforzi sulla finanza pubblica. Renzi non dichiara mai qualcosa di analogo. Per diverse ragioni “fattuali”, a suo giudizio.

La prima è il ricalcolo in arrivo del Pil. Pochi ne tengono conto, ma l’Istat ha anticipato a settembre di quest’anno l’adozione dei nuovi criteri Eurostat che sostituiscono il set di regole – il Sec95 – con cui da vent’anni si calcola il prodotto interno lordo. Le nuove regole Eurostat danno maggior peso alle spese in ricerca e sviluppo, a quelle per armamenti, agli scambi esteri di beni intermedi. E infine, la parte più discutibile, l’inserimento nel PIL di tutte le attività che producano reddito anche se illecite: droga, prostituzione, contrabbando. Eurostat si aspetta una rivalutazione media per l’area Ue pari a 2,4% del Pil. Mentre per l’Italia l’attesa Eurostat è di un Pil 2014 che possa salire tra l’1% e il 2% rispetto ai vecchi criteri.

Ci sarà ovviamente chi griderà al trucco, ma la speranza di Renzi è che a settembre la stima del deficit 2014 e 2015 su un Pil così rivalutato lasci critici e rosiconi, italiani ed europei, a bocca asciutta.

La seconda ragione – che al MEF lascia perplessi, come tante altre cose su cui la struttura tecnica del ministero e palazzo Chigi non si prendono, di qui l’accelerazione di Renzi su un proprio pool di economisti fidati – sta in una stima molto ottimistica, fino a 6-7 miliardi, di IVA aggiuntiva incassata entro fine anno grazie all’accelerazione del pagamento dei debiti della PA verso le imprese.

La terza ragione, infine, è la riserva di azione politica che Renzi intende esprimere nel Consiglio europeo, più di quanto Padoan possa fare all’Ecofin. La Francia ha già chiesto un ulteriore slittamento del rientro del deficit verso quota zero, per la terza volta in cinque anni. La Germania vede crescita e indici di fiducia in frenata. Renzi resta convinto che al Consiglio Europeo questa volta devono pensarci bene, prima di ridurre la sua volontà di riforme a pagare l’amaro pegno di una stangata fiscale aggiuntiva per recuperare un 1% di deficit fuori controllo. Non è nelle sue intenzioni assecondare quelle eventuali richieste. A costo di impugnare lui la bandiera di un’Europa che ci vuol far morire di rigore, strappandola alle mani della lega e del M5S. E’ un azzardo, ma Renzi è fatto così.

 

Terza questione: senza dismissioni e con le tendenze di questa maggioranza che si vedono sulle misure economiche, la sostenibilità del rientro della finanza pubblica resta comunque poco credibile.

Il percorso pluriennnale di risanamento della finanza pubblica resta impervio, senza tagli decisi a spesa e tasse: uno studio di Barry Eichengreen e Ugo Panizza pubblicato ieri su Vox lascia poca speranza, sul fatto che davvero l’Italia possa per 10 anni almeno restare a livelli di avanzo primario – tutto realizzato per via di repressione fiscale su lavoro e impresa – tra il 4 e il 6% del Pil annuo. Solo pochi paesi ci sono riusciti, come Belgio, Nuova Zelanda, Irlanda e Singapore, piccoli paesi molto più aperti di noi all’economia internazionale, e dotati di convergenza politica a noi ignota.

Se esaminiamo le proiezioni in vista della prossima legge di stabilità, ai 10 miliardi di aggiustamento necessari per rendere permanente il bonus 80 euro, ai 10-12 necessari per tener conto dell’invito della Commissione Europea uscente a recuperare il ritardo accumulato nel rientro del deficit strutturale entro il 2015 (il 2016 non ci è stato concesso), ai 3,5 miliardi di “clausola di salvaguardia” ereditata da Letta per evitare che scattino altri aggravi d’imposta, a tutto questo non si fa fronte neanche coi 17 miliardi taglia-spesa che indicava Cottarelli, e che ora ai più sembrano tantissimi.

Dice Renzi che Consiglio europeo e Commissione, come confermato da Juncker, dovranno valutare innanzitutto la serietà delle riforme, solo poi i saldi da garantire. Finora, però, la riforma della Costituzione avrà effetti limitatissimi sulla finanza pubblica (resta l’autonomia speciale alle Regioni, che moltiplica spesa e debiti, vedi la Sicilia). Quella sul lavoro è rinviata a settembre, dunque si vedrà.

Ma allora perché mai, nella riforma della PA, Pd e maggioranza rimettono mano o meglio manomettono una delle poche vere clausole di sicurezza poste dalla politica italiana all’aumento della spesa, cioè la riforma delle pensioni Fornero di fine 2012? Perché autorizzare l’età della piena pensione ai dirigenti pubblici a 62 anni, quando per gli italiani normali quest’anno il trattamento di anzianità è 63 anni e 9 mesi e in crescita ulteriore? Perché riaprire il pieno pensionamento a quota 96 anni come somma di età e contributi versati anche a chi ha 60 anni? Come non capire che una volta aperte queste brecce la conseguenza è quella già indicata stamane dal ministro Poletti al Messaggero, e cioè tornare a quota 96 per tutti, come da sempre dicono Damiano, mezzo Pd e tutta la Cgil?

 

La somma di questi tre problemi sembra indicare che il governo crede davvero di evitare i tagli di spesa senza i quali non c’è sgravio fiscale di proporzioni tali da rilanciare l’offerta. E’ un copione già visto in 20 anni, da governi di destra e sinistra. Renzi sa che il declino italiano è figlio di quell’errore. Non resta che verificare, entro poche settimane, quale sarà la sua risposta.

30
Lug
2014

Riflessioni sull’Indice di miseria—di Steve Hanke

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Recentemente ho calcolato l’Indice di miseria per 89 paesi (si veda Globe Asia, maggio 2014). L’Indice di miseria non è altro che la somma del tasso di disoccupazione, di quello di inflazione e dei tassi dei prestiti bancari, meno la variazione percentuale del PIL pro capite reale. Un elevato punteggio nell’Indice di miseria rappresenta livelli più alti di disagio.

I calcoli che ho effettuato rappresentano una istantanea delle condizioni di “miseria” paese per paese per il 2013. In questa sede illustrerò la variazione dei punteggi al trascorrere del tempo per diverse zone del mondo e alcuni paesi dell’Asia. Ciò ci permetterà di fare una riflessione su questi punteggio in termini di pattern topologici.

Figura 1. Un decennio di miseria
Indice di miseria medio per regione

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Fonte: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Il primo grafico mostra l’andamento dell’indice di miseria nelle principali regioni nel corso dell’ultimo decennio. Si possono osservare diverse cose. Anche utilizzando dati aggregati, il grafico è contraddistinto da due poli di attrazione: uno concentrato su un punteggio pari a 20 e l’altro intorno al valore di 10. In generale, i paesi che gravitano verso il primo necessitano di una robusta dose di riforme strutturali (vale a dire, orientate verso la libertà dei mercati). Viceversa, i paesi che si addensano intorno al polo più basso sono contraddistinti da una libertà economica considerevolmente maggiore.

In seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009 il livello dell’Indice di miseria dei paesi del Sud-Est asiatico si è ridotto da circa 20 a 11,7, il che indica che in questa parte del mondo  vi sono state riforme strutturali positive. È anche il caso di aggiungere che le politiche di “quantitative easing” adottate dalla Federal Reserve americana hanno generato significativi flussi di “soldi bollenti”, che hanno avuto effetti positivi sulle economie del Sud-Est asiatico. Nel grafico sono evidenti anche gli endemici problemi strutturali dell’Europa occidentale. Dagli anni della crisi, il punteggio della “miseria” per questa zona del mondo è rimasto elevato, a causa dei gravi problemi connessi al mercato del lavoro. Per portare il punteggio dall’attuale livello di 15,4 a 10, l’Europa occidentale avrà bisogno di realizzare alcune significative liberalizzazioni in campo economico.

Passiamo adesso dall’esame di raggruppamenti regionali a quello di singoli paesi. L’Indonesia offre un quadro interessante: grazie ai disastrosi consigli del Fondo Monopolio Internazionale, il 14 agosto 1997 l’Indonesia adottò un tasso di cambio flessibile per la propria valuta. Contrariamente alle aspettative del FMI, la rupia non navigò in acque tranquille: il suo valore precipitò dalle 2.700 rupie per dollaro ad un abisso di quasi 16.000 rupie per dollaro nel 1998. Di conseguenza l’inflazione e l’Indice di miseria dell’Indonesia crebbero enormemente e il presidente Suharto venne abbattuto dopo una permanenza di 31 anni al potere. In seguito l’Indice di miseria si è nettamente ridotto e, da quando il governo Wahid è entrato in carica, ha continuato ad andare alla deriva. Le variazioni dell’Indice di miseria dell’Indonesia e delle sue componenti sono evidenziate nella figura seguente.

Figura 2. Indice di miseria dell’Indonesia

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Attualmente l’Indice di miseria indonesiano si trova esattamente sul polo dei 20. Il nuovo presidente, recentemente eletto, dovrà introdurre serie riforme strutturali se vorrà vedere l’Indice diminuire e portarsi sull’altro polo.

Figura 3. Indice di miseria dell’Indonesia sotto diversi Presidenti

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Narendra Modi, il neo-eletto primo Ministro dell’india, deve vedersela con un Indice di miseria di 24,5. In considerazione della natura del sistema politico e della burocrazia dell’India, ha certamente una bella gatta da pelare. Modi dovrà fare qualcosa di più che non semplicemente proclamare ambiziosi piani di riforma e dovrà assicurarsi che i suoi progetti vengano effettivamente attuati, in modo da realizzare una singificativa riduzione dell’Indice di miseria del suo paese.

Figura 4. Indice di miseria dell’India

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Già che ci troviamo in Asia, proviamo a dare un’occhiata a due paesi che registrano performance eccezionali, Cina e Singapore, che esibiscono entrambi punteggi inferiori a 10. La Cina è degna di nota, in quanto il suo Indice di miseria era decisamente inferiore a 5 nel periodo 1997-2005, vale a dire nel periodo in cui il valore dello yuan era rigidamente legato a quello del dollaro. L’Indice di miseria cinese ha iniziato a salire solo dopo che la Cina, in seguito alle pressioni di Washington, ha lasciato che lo yuan si rivalutasse rispetto al dollaro.

Figura 5. Indice di miseria della Cina

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

in base alla maggior parte delle misure di competitività, Singapore occupa uno die primi posti. Non è sorprendente, quindi, riscontrare che i punteggi dell’Indice di miseria di Singapore siano bassi e che nel 2010 abbiano perfino registrato un valore negativo.

Figura 6. Indice di miseria di Singapore

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Questa passeggiata topologica nel viale dell’Indice di miseria ha rivelato due centri di gravità: 20 e 10. I paesi che esibiscono valori intorno a 10 stanno semplicemente mietendo i dividendi di mercati più liberi. Quelli che hanno punteggi intorno ai 20 sono chiari candidati per l’adozione di profonde riforme di liberalizzazione del mercati. Senza riforme in questa direzione, questi paesi sono destinati ad un’esistenza, letteralmente, miserevole.

Steve Hanke è Professore di Economia Applicata alla Johns Hopkins University di Baltimora e Senior Fellow e Direttore del Troubled Currencies project presso il Cato Institute. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo, originariamente apparso su Globe Asia.

30
Lug
2014

La cultura dell’analisi di impatto giova alla cultura (seconda parte).

 

Non solo ai privati, come visto nella prima parte, serve stimare quanto più precisamente l’impatto che i fondi da essi destinati alla cultura possono produrre. Anche per lo Stato è necessario valutare accuratamente la portata degli effetti delle risorse impiegate nel settore in esame, in termini di ricadute positive sul sistema economico nazionale.

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26
Lug
2014

Ad ogni (incalcolabile) costo

Ha ragione il Financial Times[1] a dire che le tre parole di Mario Draghi “whatever it takes” siano state le più efficaci della storia dopo il “veni vidi vici” di Giulio Cesare? La frase pronunciata dal governatore della BCE alla Global Investment Conference di Londra il 26 luglio 2012 “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro” seguita da “And believe me, it will be enough”, ha segnato sicuramente un punto di svolta nella storia economica recente dell’Eurozona. Da quando la BCE ha dichiarato l’impegno a salvare i Paesi in emergenza finanziaria ad ogni costo, i Paesi periferici non hanno più avuto difficoltà a rifinanziare il loro debito. Questo risultato non è stato ottenuto senza una serie di effetti indesiderati, che soltanto la storia futura permetterà di valutare nel loro insieme. Ma anche oggi è possibile segnalare diversi elementi che minano la stabilità economica dell’Eurozona e che sono stati creati dall’impegno del presidente della BCE  a evitare il default dei Paesi periferici.

1. Quali effetti sui rendimenti imputabili all’impegno di Draghi?

A fine gennaio 2014 lo stesso Mario Draghi ha rivendicato che: «In Spagna e Italia l’azione della Bce, con la promessa di fare ogni cosa necessaria a difesa dell’euro, ha praticamente dimezzato i rendimenti sui titoli di Stato»[2].  Una drastica riduzione dei tassi di interesse richiesti dai mercati finanziari ha indubbiamente interessato tutti i Paesi alla periferia dell’Eurozona. Mentre all’inizio del 2012 i rendimenti sui decennali portoghesi e greci erano a due cifre, due anni e mezzo più tardi i rendimenti più alti tra i bond dell’Eurozona erano quelli offerti da Cipro, che a metà giugno 2014 collocava 750 milioni di euro di titoli ad un tasso del 4,85%.

Figura 1

Rendimenti sui titoli di Stato a lungo termine

Fonte: elaborazione su dati OCSE. Nota: livello medio mensile dei rendimenti lordi dei titoli di Stato a lungo termine (nella maggior parte dei casi con scadenza a dieci anni)

Come si osserva nella Figura 1, in particolare nel caso portoghese, la discesa dei rendimenti era iniziata già prima della dichiarazione di Draghi. Inoltre, i tassi bassi sul debito dei Paesi periferici, che si osservano nella prima metà del 2014, sono spiegati da due ulteriori elementi: le politiche monetarie fortemente espansive adottate dalle banche centrali dei Paesi avanzati hanno favorito una riduzione, su scala globale, dei tassi di interesse. Inoltre numerosi investimenti sono fuggiti dai Paesi emergenti, molti dei quali hanno registrato periodi di turbolenza finanziaria, per tornare a investire nei Paesi avanzati.

Per quanto risulti difficile stabilire con precisione quanto le parole di Draghi abbiano influito su questo fenomeno, la discesa dei rendimenti ha aiutato i Paesi periferici a rifinanziarsi. La Grecia, uscita per 4 anni dai mercati, è tornata sui mercati il 10 aprile 2014 collocando tre miliardi di euro di bond quinquennali a un tasso del 4,95%. Il 22 aprile il Portogallo collocava 750 milioni di euro ad un tasso del 3,57%, tre anni dopo il bailout del FMI e dell’Europa.

In una prospettiva internazionale, è difficile spiegare rendimenti così bassi, in quanto appaiono completamente indipendenti dal rischio e dai fondamentali dei Paesi. I rendimenti dei decennali irlandesi sono arrivati ad aprile al 2,89%, ovvero 20 punti base superiori ai decennali americani: un buon risultato, per un Paese con un debito pari al 150% del PIL e uscito a dicembre 2013 dal piano di salvataggio del FMI. Similmente, i bond portoghesi, il cui rating è a livelli junk, rendono meno del 4% offerti dai decennali australiani valutati con tripla A. Si confrontino anche i decennali inglesi rispetto ai decennali spagnoli, valutati da Standard’s & Poor come AAA, i primi, rispetto a BBB, i secondi: se due anni fa lo spread tra i due titoli aveva raggiunto i 600 punti base, a giugno 2014 i rendimenti dei Bonos erano scesi sotto quelli dei Gilt, sotto il 2,6%.

La riduzione del rendimento non si spiega neppure con un miglioramento dei fondamentali nei Paesi dell’Eurozona in cui le prospettive circa la crescita economica, l’occupazione e il livello di debito pubblico non accennano a migliorare. Un esempio è l’Italia, che dal 2008 al 2014 ha perso il 25% della sua capacità industriale e il cui debito ha superato il 130% del PIL. Eppure il tasso di interesse dei BTP a dieci anni, che nel 2012 era stato pari, in media, a 5,65%, nell’asta a fine maggio 2014 ha raggiunto i minimi dall’introduzione dell’euro (3,01% sul mercato primario).

2. Effetti indesiderati

Debito, debito senza limite

La crescita dei rendimenti sul debito sovrano rappresenta un vincolo naturale che costringe le finanze pubbliche a limitare il proprio livello di indebitamento e a domandarsi come sviluppare la crescita economica. Una riduzione artificiosa dei rendimenti distorce pertanto questa dinamica di aggiustamento.

Negli ultimi anni l’indebitamento dei Paesi periferici non ha accennato a diminuire, come si può osservare nella Figura 2: tra il primo trimestre del 2011 e il primo trimestre del 2014 il debito pubblico complessivo lordo è cresciuto del 44% in Spagna, del 34% in Portogallo, del 30% in Irlanda, del 13% in Italia.

Figura 2

Indebitamento pubblico lordo

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Stati e banche: un legame pericoloso

Un secondo effetto indesiderato dell’intervento di Draghi è la distorsione del rischio. La teoria economica insegna che il tasso di interesse è un valore che include le preferenze intertemporali, l’inflazione attesa e il rischio default; escludendo che i primi due elementi possano essere mutati in maniera rilevante negli ultimi due anni, risulta che il rischio default per i Paesi periferici percepito dai mercati finanziari si è drasticamente ridotto. Si tratta però di un risultato poco credibile: chi potrebbe dire se la BCE sia davvero in grado di salvare tutta la periferia europea in caso di fallimenti a catena e quali conseguenze potrebbe avere un intervento di così ampia portata?

Riducendo il rischio di default di quel debito sovrano la BCE incentiva molti investitori a scegliere quei titoli. La conseguenza più rilevante riguarda i bilanci bancari: molte banche hanno potuto investire abbondantemente sui bond della periferia europea, dal momento che il rischio che quei titoli non fossero onorati, in tutto o in parte, si è notevolmente ridotto.

Le statistiche di Banca d’Italia permettono di osservare questo fenomeno in Italia. Il debito emesso dalle amministrazioni pubbliche italiane e detenuto dalle banche residenti in Italia è cresciuto da 118 miliardi di euro nel gennaio 2008, a 212 miliardi nel gennaio 2011, fino a 394 nel gennaio 2014, come si può osservare nella Figura 3.

Figura 3debito pubblico ita nelle banche ita

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia (Bilanci delle banche residenti in Italia: titoli diversi da azioni emessi da amministrazioni pubbliche italiane)

Conclusioni

La decisione della BCE di affrontare qualsiasi sforzo per non far fallire i Paesi in difficoltà ha modificato indubbiamente il corso della crisi dell’Eurozona. Non è stato l’unico elemento che ha aiutato le finanze dei Paesi periferici a uscire dall’emergenza: ha influito anche il quadro internazionale, la politica monetaria e il ruolo delle banche nell’acquistare il debito sovrano.

Il rischio di non buttare le mele marce è però quello di fare marcire tutto il cestino. Oggi emergono tanti segnali che fanno pensare che la crisi dell’Eurozona si stia spostando dalla periferia al centro, che l’indebitamento pubblico continuerà a crescere così come l’esposizione degli istituti creditizi nei confronti del rischio sovrano.

Derogare alle regole della buona economia, che vede nel fallimento – anche delle finanze pubbliche – un’occasione per riformarsi e per sanare  scelte sbagliate, comporta sempre un costo. Che però, come tutti gli effetti secondari, è meno visibile e più difficile da calcolare: non trova spazio nelle decisioni politiche ma ciò non significa che non avrà conseguenze sulla stabilità economica europea.

 

[1] Gideon Rachman, “Mario Draghi’s ‘Whatever it takes’ may not be enough to save the euro”, The Financial Times, 7 aprile 2014.

[2] Cfr. Vittorio Da Rold, “Italia e Spagna, tassi dimezzati grazie alla Bce”, Il Sole 24 ore, 25 gennaio 2014.

 

25
Lug
2014

Dal d.l. competitività una picconata al privilegio IVA di Poste

Troppo spesso il procedimento di conversione dei decreti-legge rappresenta un’occasione per annacquarne il contenuto o ridurne la portata; talora, però, il passaggio parlamentare consente di apportarvi migliorie e potenziarne l’impatto: è il caso del d.l. competitività (n. 91/2014), che il Senato si appresta ad approvare, dopo che il governo ha posto la fiducia sulla formulazione partorita dalle Commissioni, e che include adesso un articolo 32-bis, volto a rimuovere un’odiosa disparità che tuttora ostacola un’effettiva concorrenza nel mercato postale.
Il riferimento è all’asimmetria assicurata ai servizi dell’ex monopolista dalla vigente normativa tributaria, che esenta dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto le prestazioni rientranti nel servizio universale effettuate dai soggetti designati alla sua fornitura; con il risultato che i concorrenti nuovi entranti devono fronteggiare uno scalino del 22% nella determinazione delle proprie tariffe. Si tratta di un tema che l’Istituto Bruno Leoni solleva da anni e che ha incontrato l’attenzione più autorevole della Corte di Giustizia (già nel 2009) e, sulla scorta della posizione di quella, dell’Antitrust. In particolare, il Garante della concorrenza ha disposto la disapplicazione dell’art. 10, co. 1, n. 16) del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, nella parte in cui sottrae al prelievo anche le prestazioni di servizi soggetti a contrattazione individuale. L’emendamento 32.0.3 a firma Tomaselli e altri mira a dare definitività alle conclusioni del regolatore, peraltro avallate dal giudice amministrativo e reiterate in occasione dell’annuale segnalazione al Parlamento, introducendo un’espressa deroga all’esenzione.
L’asimmetria non verrà eliminata; e, invero, la normativa europea non si spinge a pretenderlo. Però il suo ambito verrà ricondotto a confini maggiormente compatibili con lo sviluppo di un mercato competitivo nel recapito. È, infatti, nei segmenti della posta massiva – quella originata dai grandi speditori come banche, assicurazioni e utility – ma anche della posta raccomandata o assicurata e del direct mail che i clienti dispongono dei volumi e della forza contrattuale necessari a negoziare le condizioni tecniche ed economiche del servizio; ed è in questi àmbiti, dunque, che la concorrenza può più facilmente svilupparsi. Inequivocabilmente, da oggi in poi, tutte le prestazioni rientranti in queste modalità di tariffazione saranno sottoposte al medesimo prelievo, a prescindere dall’identità dell’operatore prescelto.
Poste potrà, peraltro consolarsi un’altra integrazione al decreto: quella che dispone il pagamento all’azienda della somma di 535 milioni di euro, in esecuzione in una sentenza dello scorso ottobre del Tibunale dell’Unione Europea. In quella sede, il giudice comunitario di primo grado aveva cassato una decisione della Commissione, che nel 2009 aveva stabilito che la remunerazione corrisposta dal Tesoro all’ex monopolista a fronte dell’impiego delle somme raccolte dai conti correnti postali, come disciplinata della legge finanziaria per il 2006, costituisse aiuto di stato e dovesse essere restituita. Ciò che l’Europa toglie, l’Europa dà. Con quanta prontezza, dipende dalla solerte collaborazione del legislatore nazionale.

24
Lug
2014

Contanti: che schifo! O no?

Contanti si, contanti no, contanti ma pochi”. “Pos, non pos, sì pos ma con sanzioni per chi non ce l’ha”. Sembrano i ritornelli di nuove canzoni estive spensierate; invece sono l’oggetto delle discussioni governative su come far ripartire l’economia e contrastare l’evasione fiscale.
Si continua ad andare nella direzione sbagliata: errare è umano, ma perseverare è diabolico!
E’ dai tempi del Governo Berlusconi, quando anche Tremonti entrò fra i paladini della lotta al sommerso, che tutti si ostinano a criminalizzare il contante con l’unico effetto (devastante) di aver frenato bruscamente la circolazione del danaro, fatto crollare i consumi interni, favorito l’emigrazione della spesa all’estero (per chi può, ovviamente), generato una recessione inarretabile, depresso la produzione industriale e il commercio di beni e servizi, ammazzato l’intraprendenza di imprese e lavoratori autonomi, bruciato i risparmi delle famiglie (spesso dissipati anche dietro al sogno dei più giovani di iniziare una improbabile attività autonoma, illusi dagli incentivi statali e poi travolti dalla stagnazione del mercato).
Da questo buio tunnel non si uscirà fintanto che chi governa (adesso tocca al volenteroso Matteo Renzi) e chi opprime (persiste l’egemonia della führer Angela Merkel) perseverano in un rigorismo e riformismo dei grandi sistemi, rimanendo però lontanissimi dalla soluzione dei problemi concreti dei piccoli sistemi nonostante sia solo questi che mandano ancora avanti questo affascinante e disgraziato Paese.
Gira e rigira, le manovre in campo si traducono sempre in interventi repressivi, lesivi dei fondamenti diritti di libertà dei Cittadini, pericolosamente proiettati verso un controllo globale della sfera personale di ognuno che spia l’impiego legale anche più riservato del danaro, misura il patrimonio di ognuno e rende palesi ed aggredibili dal Fisco le disponibilità anche faticosamente accantonate in una vita di lavoro e di sacrifici; il tutto legittimato da una implicita presunzione di delinquenzialità generale, sintomo di una impostazione poliziesca dello Stato padre/padrone che solo qualche decennio fa’ avrebbe suscitato ribellioni popolari difficilmente controllabili e che oggi suscita solo lamentosi chiacchiericci perché nessuno ha più la voglia o la forza di protestare veramente.
Per tornare a crescere è fondamentale che il danaro torni a circolare e pertanto assume una importanza decisiva anche la sorte del contante: a questo proposito bisogna precisare una volta per tutte che non esiste nessun obbligo giuridico, comunitario o internazionale, di adottare misure che ne depotenzino, ne limitino o ne vietino l’utilizzo o la circolazione.
Il recente esempio svizzero è emblematico e l’Italia dovrebbe imparare qualcosa. Nonostante le raccomandazioni del GAFI (Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale) il Consiglio Nazionale, proprio qualche giorno fa’, ha deciso di non adottare alcuna misura limitativa nell’uso del danaro contante, nemmeno per le operazioni di natura immobiliare, pur avendo già approvato varie misure antiriciclaggio per contrastare i flussi finanziari di provenienza illecita o illegale. Le determinazioni adottate dal GAFI infatti invitavano soltanto ad adottare misure idonee a contrastare il fenomeno del riciclaggio di danaro di provenienza illecita o destinato a finanziare in terrorismo internazionale, lasciando poi ad ogni Stato ampia libertà di scelta; mai è stato preteso di limitare l’utilizzo del contante, né tantomeno di introdurre regole autolesionistiche.
Basta dunque con chi continua ad imporre le proprie scelte facendosi scudo con l’odiosa battuta “è l’Europa che ce lo chiede” o “sono gli accordi internazionali o bilaterali che lo esigono” : la sovranità di uno Stato è un diritto sacrosanto ed appartiene solo al Popolo; chi governa deve essere in grado di difendere la dignità e la salute anche economica del Popolo ed ha il dovere di reagire con fermezza contro ciò o chi lo vuole portare alla rovina, anche quando si debbono fare i conti con un debito pubblico importante. Anzi, proprio nei momenti di forte criticità ed indebitamento, chi governa deve avere l’intelligenza, la capacità, la libertà ed il potere di stimolare l’intraprendenza del suo Popolo, di favorirne la creatività e l’espressività, di liberarlo dal sovraccarico assurdo di regole inabilitanti e di proteggerlo dalle razzie incontrollate del proprio apparato fiscale legittimate da normative palesemente prevaricatorie ed estorsive.
Servono solo poche cose, urgenti e facili da attuare, ma con coraggio e determinazione: semplificare l’apparato amministrativo e burocratico, cancellando (non riformando) le innumerevoli regole che non sono più né conoscibili né controllabili neppure dagli esperti dei vari settori; liberalizzare l’impiego del cotante per favorirne al massimo la circolazione e la conseguente produzione di ricchezza (i sistemi cd. “tracciati” debbono essere favoriti attraverso la drastica riduzione dei costi di gestione ed incentivi fiscali nell’utilizzo); avvio di un periodo di tregua fiscale che restituisca ai Cittadini il gusto di spendere, liberandoli dalla ossessione di sentirsi sorvegliati speciali del Fisco e dall’avvilimento di essere considerati lazzaroni fino a prova contraria!
Non esistono altre vie per poter tornare rapidamente a crescere ed a recuperare la dignità di un Paese veramente libero!
Manuel Seri

24
Lug
2014

Equo compenso: Apple svela il trucco

La campagna di comunicazione orchestrata dal ministro Franceschini, in perfetta consonanza con le pretese della Siae, a margine dell’approvazione del decreto del 20 giugno che ha rimodulato – nemmeno a dirlo, al rialzo – le tariffe del cosiddetto equo compenso per copia privata, si fondava su due presupposti. Primo: che il livello assoluto del prelievo italiano andasse adeguato a una più generosa media europea – opinione che poteva essere puntellata solo da una ricostruzione fuorviante e opportunistica dei numeri ed è stata immediatamente demolita. Secondo: che gli aumenti potessero essere assorbiti interamente dai produttori – previsione prontamente ridicolizzata da chiunque avesse un’infarinatura della teoria dell’incidenza dell’imposta, ma non ancora sconfessata plasticamente dai fatti.
Fino a ieri, cioè, quando Apple ha annunciato un aggiornamento dei listini che incorpora al centesimo i rincari disposti dal ministro: quello stesso ministro che poche settimane fa, audito dal parlamento, aveva spergiurato – esibendo teatralmente il proprio iPhone – che i consumatori non sarebbero stati colpiti dal provvedimento. E, del resto, davvero non si capisce perché dovrebbe essere così. La facoltà di estrarre, per uso personale, copia di un contenuto legittimamente acquistato è attribuita ai consumatori; e, se ad essa accede una forma di compensazione a beneficio degli autori, appare naturale che siano gli stessi consumatori a reggerne l’onere. In quest’ottica, il ruolo dei produttori di dispositivi di memorizzazione è sostanzialmente quello di sostituti d’imposta, che di per sé giustifica (sul piano normativo, se non anche su quello positivo) l’integrale traslazione a valle dell’imposta. Pretendere di addossare il tributo ai produttori non è soltanto una castroneria dal punto di vista economico, ma anche una conclusione del tutto incoerente con l’impianto dell’istituto del cosiddetto equo compenso.
Difficile ammettere che osservazioni tanto elementari siano sfuggite al ministro e ai suoi collaboratori. Il senso di quelle affermazioni è, invece, un altro: non potendo invocare un alibi, i protagonisti della vicenda – il ministro, ma anche la stessa Siae, che all’elaborazione del provvedimento ha partecipato sin troppo da vicino – hanno cercato di addebitare ad altri la responsabilità del misfatto. Non a chi ha messo a punto le nuove tariffe, né a chi ne incamera i benefici: bensì a chi ha rifiutato di accollarsele non avendo alcun obbligo (o alcun motivo) di farlo.
Difendendo legittimamente i propri margini, Apple ha scommesso sulla rigidità della domanda dei propri prodotti, decisione industriale che sarebbe improprio caricare di valenza politica; e, così facendo, ha svelato il trucco del mago Franceschini: peraltro, limitandosi a seguire la via della trasparenza già tracciata dall’Antitrust, che – nell’ambito della propria segnalazione al parlamento ai fini della predisposizione della legge annuale sulla concorrenza – ha caldeggiato l’introduzione di un obbligo d’indicazione espressa dell’ammontare dell’equo compenso, altrimenti indistinguibile dal prezzo dei prodotti soggetti al prelievo.
Le reazioni scomposte del partito dell’equo compenso dovrebbero far riflettere: è accettabile che un’azienda che ha avuto l’ardire di stabilire autonomamente i prezzi dei propri prodotti sia presa di mira dalla politica con dichiarazioni smisurate e persino con “minacce esplicite di ritorsione fiscale”? Ancor più incredibile il contropiede annunciato dalla Siae, che si ripromette di trasformarsi in rivenditore di telefoni, dedicandosi all’arbitraggio sui prezzi dei terminali Apple. Rallegra che, dal fortino inattaccabile del proprio monopolio, l’ente scopra i valori della concorrenza e dell’unificazione dei mercati: ma questi pruriti imprenditoriali tanto estranei alla sua missione dimostrano, meglio di mille editoriali, che la Siae non ha bisogno dell’equo compenso extralarge per prosperare.

@masstrovato