5
Ago
2014

L’oltraggio dei vitalizi ai consiglieri regionali: come e perché Renzi può intervenire

E’ uno dei tanti paradossi di questa stagione di riforme. Si risparmia da una parte, si continua a dilapidare dall’altra. Ecco l’esempio macroscopico. Procede in prima lettura la riforma del Senato in assemblea non elettiva dal corpo elettorale, e ieri tra le altre cose è stata approvata l’abolizione dell’indennità per i nuovi componenti, che saranno scelti da Regioni, Comuni e Quirinale. Si risparmiano così circa 43 milioni l’anno di indennità dei senatori, mentre bisognerà vedere se restano – presumibilmente sì – i 20 milioni di euro di rimborso per le pese sostenute, e i 37 milioni di euro che vengono assegnati ogni anno ai gruppi parlamentari.

Da una parte, si risparmia dunque circa l’8% dei costi complessivi del Senato attuale. Nel frattempo però, ad onta di reiterati tentativi da parte di Tremonti prima e di Monti poi, continua sotto gli occhi di tutti lo scandalo dei vitalizi nei Consigli regionali. Oltre 3.100 erogati nel solo 2012, per una spesa totale annuale di 168 milioni. Con Regioni che hanno cambiato sì le regole per attribuirli dopo lo scandalo Fiorito nel Lazio, non prevendone più l’immediato pagamento a chi mancava la rielezione dalla successiva legislatura, ma al contempo continuando anche nelle nuove norme in molti casi ad anticipare l’erogazione dei trattamenti a soli 50 anni di età, come in Lazio e in Sicilia, e mantenendo come base di calcolo per i trattamenti in alcuni casi l’80% dell’indennità, in altri il 100% come in Friuli, e in altri ancora come in Lazio arrivando a sommare anche la diaria oltre a fino il 100% dell’indennità. C’è chi, come il Piemonte, alla decurtazione dei vitalizi e dunque al venir meno dei relativi contributi mensili – in ogni caso assai inferiori al trattamento che poi si matura – ha pensato bene di affiancare un immediato aumento della somma mensile incassata dai consiglieri, sommando alla diminuita indennità un’accresciuta diaria. E c’è ancora chi, come il Lazio, consente il pieno cumulo del vitalizio regionale con quello riscosso come parlamentare nazionale ed europeo.

Una giungla di orrori. Che di anno in anno – riducendosi i trasferimenti dallo Stato centrale alle Regioni – prosciuga i bilanci dei Consigli regionali, assorbendone in percentuale risorse crescenti. E che, soprattutto, continua a rappresentare un intollerabile pugno nell’occhio del cittadino comune. Che semplicemente se lo sogna, di incassare dopo la riforma Fornero a 50 anni mega assegni previdenziali largamente superiori ai contributi versati per prestazioni durate pochi anni.

Ecco dunque che per Renzi si presenta una buona occasione. Proprio ora, quando per l’esecutivo sono giorni difficili sul versante della riduzione della spesa pubblica dopo la vicenda Cottarelli, e mentre il governo è costretto a una netta e sacrosanta – ma per lui dolorosa – marcia indietro, rispetto alle fughe in avanti previdenziali volute dalla sua maggioranza sul decreto PA reintroducendo “quota 96” per prepensionare 4 mila insegnanti, e consentendo ai dipendenti pubblici il pensionamento a 62 anni senza i disincentivi riservati a noi “sudditi” comuni. Quelle norme sono sbagliate, ha dovuto riconoscere il governo, perché chi le ha votate in parlamento ne ha sottovalutato gli oneri, e non ha previsto adeguate coperture. Come avevamo del resto scritto, proprio su queste colonne.

A maggior ragione, è il momento giusto per il governo di prendere per le corna il problema dei vitalizi regionali. E’ un tema popolare. E ripetiamo l’aggettivo: popolare, non populista. E’ popolare perché il regime di privilegio perdurante dei politici rappresenta un affronto all’italiano comune. Ed è giusto: perché non ha molto senso sforbiciare le spese al centro, e non fare la stessa cosa in tanta parte della spesa delle Regioni che continua a non ispirarsi a criteri di equità ed efficienza.

Certamente, ci sono dei problemi ordinamentali. Ed è questa la difficoltà di un intervento governativo. Se il tentativo montiano abrogazionista dei vitalizi è stato complessivamente attutito e spesso aggirato, si deve al fatto che l’autonomia di ogni Consiglio regionale sugli interna corporis risulta oggi irriducibile a ogni decreto governativo. Non aiuta nemmeno la recente sentenza della Corte dei conti del 25 giugno scorso, le cui motivazioni sono appena state pubblicate e in cui si ribadisce che, al netto delle appropriazioni personali, le spese sostenute dai partiti attingendo ai fondi dei gruppi regionali sono sostanzialmente insindacabili.

Ma detto tutto questo, il governo Renzi può benissimo trarre lezione dai tentati interventi sin qui non andati a segno, e sparare sullo scandalo-vitalizi un missile a tre stadi: il primo di moral suasion – per “comunicare” direttamente agli italiani inviperiti – più un secondo e un terzo direttamente nel testo di riforma costituzionale che si sta votando, cambiando cioè ciò che consente oggi ai partiti nei consigli regionali di far orecchie da mercante.

Il primo stadio si risolve in un incontro della Conferenza Stato-Regioni nella quale direttamente il premier informi i presidenti delle Regioni che così non va: le difformità sui vitalizi, la loro erogazione a 50 anni e la loro cumulabilità fanno a pugni con la revisione di spesa a cui Renzi e il suo governo sono impegnati.

Il secondo è l’introduzione nel Titolo V° della Costituzione di meccanismi sanzionatori per le Regioni che spendono allegramente, graduandoli dal taglio dei trasferimenti centrali in presenza di mancati interventi (come sui vitalizi, ma naturalmente non solo, a cominciare dalla sanità), fino alla sanzione diretta e personale politico-amministrativa per chi porta la responsabilità di eventuali default. Monti aveva tentato di introdurre queste norme con legislazione ordinaria, e naturalmente la Corte Costituzionale le ha cassate. Proprio perché bisogna prevederle in Costituzione.

Il terzo è accessorio, perché susciterebbe l’iradiddio di proteste locali, ma ben bilanciate dal consenso nazionale: la cassazione – o quanto meno una profonda rivisitazione – dell’autonomia speciale concessa ad alcune Regioni. Non solo le ragioni storiche di tale istituto sono in larghissima misura superate, ma soprattutto in alcune realtà come la Sicilia l’autonomia è scudo di intoccabilità per spese dissennate. Solo lì, nell’Italia del 2014, dirigenti pubblici stanno correndo in pensione a 53 anni con un trattamento pienamente agganciato all’ultima retribuzione superiore al mezzo milione di euro l’anno, in barba a ogni tetto di 240 mila euro introdotto dal governo.

I vitalizi regionali non hanno a che vedere con la giusta dignità da ribadire e difendere della politica. Sono la prova vivente del vantaggio per sé che politici continuano ad autoassegnarsi, rispetto alla dura vita ordinaria di milioni di cittadini italiani, e ai loro ben più limitati diritti. Se Renzi si decide a questa battaglia, è un altro passo per voltare davvero pagina. E anche per smentire quelli che lui chiama “gufi”: coi fatti però, non con le parole e gli annunci..

4
Ago
2014

Die hard: l’esenzione Iva di Poste Italiane

Qualche giorno fa, segnalavamo la probabile imminente conclusione di una vicenda che impegna da anni gli osservatori del mercato postale: quella dell’esenzione Iva sulle prestazioni rientranti nel servizio universale e fornite dall’operatore obbligato a garantirlo, cioè dall’ex monopolista. L’art. 32-bis del d.l. competitività, nel frattempo passato all’esame della Camera, sottoporrebbe all’applicazione del tributo le prestazioni le cui condizioni siano state oggetto di negoziazione individuale, secondo il criterio illuminato prima dalla Corte di giustizia e, più di recente, dal Garante della concorrenza.

Alcune perplessità sulla misura sono state esposte dal relatore del provvedimento in Commissione Bilancio, Mauro Guerra – che riprende, sul punto, i risultati dell’usuale verifica tecnica compiuta dal Servizio Bilancio. Vale la pena di citarli per esteso:

la disposizione, limitando l’ambito di esenzione IVA introdotto dall’articolo 2 del decreto-legge n. 40 del 2010, appare suscettibile di determinare effetti negativi di gettito tenuto conto che alla norma che ha introdotto l’esenzione sono attribuiti effetti positivi di gettito utilizzati per la compensazione finanziaria di norme onerose contenute nel medesimo articolo 2.
In proposito si fa presente che il passaggio dal regime di imponibilità IVA al regime di esenzione non consente, ai soggetti che effettuano le operazioni attive in oggetto, la detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti, in via assoluta o pro-quota. Il passaggio inverso, da regime di esenzione a regime di imponibilità, consentendo la richiamata detrazione, determina effetti negativi in termini di gettito IVA.

È davvero così? Estendere il campo di applicazione di un tributo a operazioni prima esenti può ridurne il gettito complessivo? La questione attiene alla particolare configurazione dell’Iva, che – mirando ad incidere unicamente sul valore aggiunto – consente di scomputare dall’ammontare dovuto l’imposta pagata a monte.

Facciamo un passo indietro: sin dalla sua introduzione, la normativa sull’Iva prevedeva un’esenzione per “il servizio postale e il servizio telegrafico nazionale” (art. 10, co. 2) e, in seguito alla riformulazione operata nel 1995, per “le prestazioni relative ai servizi postali”.

Con il d.l. 25 marzo 2010, n. 40 (convertito in legge 22 maggio 2010, n. 73), il legislatore interveniva marcatamente sull’esenzione, mutandone la collocazione topografica (art. 10, co. 1, n. 16) e soprattutto l’estensione, che ora copre “le prestazioni del servizio postale universale, nonché le cessioni di beni e le prestazioni di servizi a queste accessorie, effettuate dai soggetti obbligati ad assicurarne l’esecuzione”.

Per adattare la disciplina dell’esenzione al contesto comunitario e all’apertura del mercato postale a una pur timida concorrenza, ne veniva circoscritto il fondamento oggettivo (il servizio universale; ma, stante il perimetro di questo, non si trattava di una grossa limitazione) e soggettivo (le prestazioni del solo operatore onerato, individuato nell’operatore pubblico); e, per altro verso, vi si ricomprendevano le cessioni di beni e le prestazioni accessorie. L’impatto finanziario di quelle modifiche veniva valutato positivamente, tanto che i maggiori introiti attesi venivano posti a compensazione di ulteriori disposizioni onerose incluse nel provvedimento – segnatamente, l’istituzione di un fondo per le imprese tessili, prevista dal comma 4-quinquies.

Dal punto di vista del metodo, appare opinabile il richiamo meramente formale a una stima legislativa, in luogo di un riscontro effettivo; si consideri, peraltro, che anche in quella sede il Servizio Bilancio aveva sollevato rilievi di tenore comparabile, invitando il governo a fornire “elementi di stima delle maggiori entrate […] al fine di poterne valutare la congruità in termini compensativi”.

A ben vedere, l’appunto sulla detraibilità dell’Iva assolta a monte è solo parzialmente corretto, perché non considera che una quota rilevante dei clienti dei servizi in oggetto di Poste Italiane è costituita da operatori, come si dice, sensibili all’Iva: cioè da quegli operatori che, per quanto qui interessa, utilizzano i servizi postali nella fornitura di beni o servizi a propria volta esenti. Nel campo della posta massiva, per esempio, come ricaviamo dalle recenti indagini dell’Antitrust (procedimento A441) e dell’Agcom (delibera n. 412/2014/CONS), “dei maggiori [30-35] clienti, [15-20] sono enti finanziari o assicurativi, […] [5-10] sono pubbliche amministrazioni”; e la quota di ricavi garantita da operatori sensibili all’Iva si attesta tra il 70% e l’80%.

È vero che, con l’introduzione dell’articolo 32-bis, Poste avrà la facoltà di detrarre l’Iva pagata a monte delle prestazioni non più esenti; ma, proprio su queste ultime, i soggetti sensibili che acquisteranno da Poste sopporteranno un nuovo prelievo che non potranno, a propria volta, scomputare. È, inoltre, evidente, che il prelievo praticato a uno stadio successivo sarà sempre di entità superiore. Ciò significa che, nella maggior parte dei casi, assisteremo non a un calo del gettito Iva, bensì a una traslazione del prelievo da Poste a banche, assicurazioni e amministrazioni pubbliche; e, verosimilmente, a un suo incremento complessivo.

Se, poi, allarghiamo lo sguardo anche agli effetti industriali dell’equiparazione Iva, oltre ai benefici concorrenziali evidenti, va segnalato che la detrazione dell’Iva assolta a monte ridurrà i costi per il servizio universale in capo a Poste e, in seconda battuta, allo stato che è tenuto a rimoborsarli, con ulteriore beneficio per i conti pubblici. La premura di approvare provvedimenti sostenibili sul piano finanziario è commendevole, ma richiede uno studio attento di tutte le variabili in gioco e non deve diventare un pretesto per il mantenimento di privilegi ingiustificabili.

4
Ago
2014

Rismontare l’età pensionabile? Perché dissento dall’on Damiano (e da mezzo Pd oltre alla Cgil)

“Obbligare tutti ad andare in pensione a 67 anni avrà come risultato aziende popolate di anziani e bloccherà per lungo tempo l’ingresso dei nostri figli nei luoghi di lavoro. Non lamentiamoci poi se aumenta la disoccupazione giovanile”. Riparto dalla conclusione delle osservazioni rivoltemi ieri sul Mattino dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, onorevole Cesare Damiano, che ringrazio calorosamente per l’attenzione e la gentilezza riservata alla mia analisi sul nodo Cottarelli-Renzi. Per inciso: conosco Damiano da anni, e ho imparato a stimarne il garbo con il quale argomenta il suo punto di vista, e il rispetto che rivolge a interlocutori che non lo condividono. Quando si affrontano temi di forte impatto come i conti pubblici e le pensioni, che hanno un enorme rilievo finanziario ma insieme impattano la vita di milioni di italiani, discutere con reciproco rispetto è cosa preziosa. Con altrettanta cortesia, desidero spiegare perché  le sue ragioni non mi convincono. L’onorevole Damiano  fa battaglia fin dal ptrimo momento contro il brusco innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla riforma Fornero,  fine 2011. Non ha mai condiviso quella riforma, e da allora contropropone – per le ragioni che ho ricordato all’inizio – di tornare ad abbassare l’età pensionabile.

Nell’attuale 2014 per le pensioni di vecchiaia servono 66 anni e 3 mesi di età per gli uomini, 63 e nove mesi per le donne lavoratrici dipendenti, 64 e nove mesi per le lavoratrici autonome. Per le pensioni di anzianità servono 42 anni e mezzo di contributi per gli uomini e 41 e mezzo per le donne. Ma sotto i 62 anni di età si paga pegno sull’entità dell’assegno. Nell’esame parlamentare del decreto sulla PA emanato dal governo Renzi, si vogliono fare dei passi indietro rispetto a queste nome generali. Il trattamento di anzianità ai dipendenti pubblici a 62 anni esclude i requisiti minimi contributivi che valgono per tutti gli altri lavoratori, e l’assegno è pieno. C’è poi il caso dei 4mila insegnanti per i quali si torna ad applicare la possibilità della pensione con la “quota 96” – come somma di età anagrafica e versamenti contributivi – che aveva introdotto Damiano quando era ministro,.

La Ragioneria Generale dello Stato è dovuta intervenire smentendo le magre stime e coperture predisposte in Parlamento, e ha messo nero su bianco le cifre: nel solo 2014 il ritorno della “quota 96” nella scuola comporta un aggravio di 45 milioni di euro, e l’abbattimento dei disincentivi per i prepensionati pubblici comporta 165 milioni di maggior spesa pubblica di qui al 2018 (all’opposto, si sommano anche i 147 milioni di aggravi in 7 anni per la protrazione in servizio fino a 68 anni disposta per i professori universitari e i primari, insieme ai magistrati che restano fino a 75 anni io li chiamo  “i protetti di Stato”…).

Ci sono due modi di guadare a questi voti parlamentari avvenuti col sostegno del governo. La prima è a bocce ferme, la seconda in prospettiva. A bocce ferme, c’è innanzitutto un problema evidente di iniquità: perché ad alcune categorie di dipendenti pubblici viene riservata una facoltà che ai lavoratori comuni è negata. Non mi pare proprio accettabile. Anzi, a mio personale giudizio è intopllerabile. E c’è poi un problema finanziario: governo e parlamento son onaturalmente liberi di decidere, ma quantificando con scrupolo gli oneri e per favore fronteggiandoli con tagli veri e immediato di spesa, invece di far correre ancora deficit e debito.

Ma l’onorevole Damiano invita a considerare le cose in prospettiva. Per questo ha salutato come positive tali novità, vedendovi la premessa di una generale e radicale ridiscussione della riforma Fornero, da parte del governo Renzi. Egli avanza un insieme di proposte che vanno dal ritorno alla pensione a partire dai 62 anni di età per tutti ma con penalizzazioni a seconda dei versamenti effettuati (una penalizzazione in termini attuariali non equivalente alla maggior spesa previdenziale ma assai inferiore, e dunque con oneri trasferiti alla fiscalità generale) alla quota 100 come somma di età anagrafica e contributiva, dall’adozione del calcolo contributivo per chi sceglie il prepensionamento, al prevedere sempre e comunque con un minimo di 35 anni di contributi. Il ministro Poletti ha confermato in questi giorni che il governo sta esaminando le diverse ipotesi, sia pur con una mano più pesante sui disincentivi. Al contempo, le cronache di stamane vorrebbero che il governo receda invece esattamente da ciò che entusiasma Damiano, accogliendo in tutto o in parte i rilievi della Ragioneria Generale contro le modifiche previdenziali avvenute in parlamento sul decreto di riforma PA , e io mi auguro che sia davvero così.

La battaglia di Damiano non mi convince, per tre ragioni.

La prima riguarda proprio l’equazione proposta da Damiano: più alta è l’età previdenziale, meno sono i giovani occupati. E’ una formula di facile presa, tanto più in un Paese in ginocchio dopo 7 anni di crisi. Ma ha il torto di considerare l’occupazione come una torta “ferma”, di cui dividere le fette tra diverse classi di lavoratori in conflitto generazionale. Al contrario, per recuperare nel tempo i 6 milioni di occupati che ci mancano per eguagliare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro tedesco (12 milioni se guardiamo ai paesi scandinavi), dobbiamo ragionare in termini non stazionari ma dinamici: abbassando le imposte troppo alte a lavoro e e impresa (dunque tagliando la spesa) e con un welfare meno ostile a donne e famiglie. Abbiamo bisogno insieme di più anziani al lavoro e di più giovani al lavoro, non di cosiddette “staffette generazionali” levati-tu-che-mi-ci-metto-io, per accrescere reddito e produttività.

La seconda ragione è l’equilibrio dei conti previdenziali. Damiano sa bene che la brutalità della riforma Fornero a fine 2011 è stata dovuta ai traccheggiamenti che la politica ha riservato per decenni alle pensioni. La riforma Dini del 1995 spalmò gli effetti del passaggio al contributivo – che resta però un sistema a ripartizione, cioè sono i lavoratori attivi a pager i loro contributi le pensioni erogate ai beneficiari –  in un orizzonte pluridecennale, e tenne in piedi età basse per i trattamenti che davano diritto alle pensioni di anzianità. Ed è vero che nel 2013 la spesa previdenziale è stata pari al 16,3% del PIl e sarebbe andata al 18%, senza riforma Fornero. Ma non va dimenticata una cosa. Il rapporto sulla sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale che la Ragioneria Generale dello Stato ha aggiornato tre mesi fa, sia pur adottando generose stime di crescita del PIL (media annua più 1,5%) e dei tassi di occupazione, vede la spesa previdenziale a scendere di un soffio sotto il 15% del PlL solo al 2030, per poi risuperarlo nel 2040, scendendo al 14% solo nel 2060. E’ vero che nei paesi Ue e Ocse nel frattempo la spesa sale, ma sale partendo da punti molto più bassi della nostra: per i paesi OCSE la spesa previdenziale salirà dal 9 all’11,5% del Pil entro il 2060, per i paesi UE dall’11% al 13%. Quei 2-3 punti di Pil di spesa previdenziale italiana annua maggiore della media dei paesi avanzati descrive una scelta che resta sbagliata: continuiamo a spendere troppo poco per le politiche attive del lavoro e per il sostegno della famiglia e della curva demografica, e troppo invece in politiche passive (oltre 100 miliardi in CIG da inizio crisi senza una sola ora di riformazione e riavviamento al lavoro delle centinaia di migliaia di soggetti interessati) e in pensioni ai “privilegiati” del sistema retributivo puro (non è colpa loro, ovviamente, è la politica ad averlo scelto).

E’ una scelta sbagliata non solo in termini di giustizia tra generazioni e all’interno delle stesse generazioni, visto che i trattamenti tra pubblici e privati, dipendenti e autonomi non sono affatto eguali. E’ sbagliata anche perché l’INPS non ce la fa, e deve attingere alle tasse di noi tutti. Nel bilancio finanziario INPS 2013, l’istituto ha registrato un saldo negativo di 9,8 miliardi. E’ un deficit per i nove decimi dovuto allo sbilancio tra contributi raccolti e trattamenti erogati ai pensionati del settore pubblico, l’ex Inpdap. Ma lo sbilancio finanziario di quasi 10miliardi annui dell’INPS da solo non dice tutto. Se andiamo a vedere però le diverse fonti di entrata rispetto alle poste di spesa, al netto dei trasferimenti dal bilancio dello Stato i contributi raccolti nel 2013 dall’INPS sono pari a 209,9 miliardi euro (153 dai privati, 55 dal settore pubblico, 1 dai lavoratori dello spettacolo), mentre la spesa diretta in pensioni è pari a 266,8 miliardi. Come si vede, tra contributi ed erogazioni puramente previdenziali lo sbilancio è stato nel 2013 di 56 miliardi, Ed è il contribuente con le tasse, a pagare dolorosamente la differenza.

Di qui la terza ragione: una vera spending review è più che mai necessaria. Siano i tecnici e i politici a farla insieme, sia solo la politica a farla e basta ( e su questo ho molti dubbi), l’essenziale è farla. Senza tagli sugli acquisti pubblici – è stata appena rinviata la decisione che era stata annunciata, di passare da 35mila stazioni d’acquisto a poche decine: perché? – e sulle tantissime voci di spesa inefficiente – in Sicilia i dirigenti pubblici vanno in pensione a 53 anni ad assegno pieno: perché? – non abbassiamo le imposte, non creiamo lavoro, non diminuiamo la pressione che lo sbilancio previdenziale porta tutti gli anni a carico del contribuente. So che Damiano su questo la pensa diversamente da me. Ma lasciar fuori dalla spending review sanità e previdenza, cioè ben oltre il 40% degli 800 miliardi di spesa pubblica complessiva – è un errore grave, anzi gravissimo: quello sì, che lo pagheranno amaramente i nostri figli.

 

1
Ago
2014

“Peccato e assoluzione”? Per gli agenti del fisco…

Le storie degli imprenditori Angeloni e Ascione, raccontate nelle colonne di la Repubblica martedì 29 luglio da Federico Fubini, insieme alle recenti dichiarazioni del nuovo direttore delle Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, offrono l’occasione per riflettere su alcune pratiche comunemente adottate dallo stato, anche per mezzo dell’Agenzia, in materia di riscossione delle imposte.
Angeloni, dopo aver rilevato un’azienda di moda nel 2007 e averla riportata in utile dopo 4 anni, ha ricevuto una visita dall’Agenzia delle Entrate. Dopo due mesi di controlli, l’Agenzia ha giudicato l’investimento in comunicazione, pari all’1% del fatturato, «non determinante» e dunque fittizio, perché non in linea con la stessa voce di investimento delle aziende concorrenti, di solito tra il 5 e il 10%. Le prestazioni dei consulenti risultano essere «impersonali e generiche», tali che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Mettendo in discussione la libera strategia aziendale dunque, l’Agenzia ha chiesto al signor Angeloni di versare 100.000 euro in più. Al signor Ascione, fondatore di un’azienda di 9 addetti che esporta tessuti, non è andata meglio. Nel 2012 ha ricevuto un accertamento, con il quale si richiedeva di pagare oltre 60 mila euro, sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto. L’azienda ha rischiato di chiudere.
In Italia, la legge n. 122 del 30 luglio 2010 prevede che, dal 2011, l’avviso di accertamento ai fini IRPEF-IRAP e IVA emesso dall’Agenzia delle Entrate sia immediatamente esecutivo. Con l’avviso di accertamento si impone al cittadino di pagare un debito che in realtà “accertato” non lo è ancora. Già, perché accertare, nel vocabolario del diritto tributario, significa “sottoporre a verifica”. Tuttavia, volendo presentare ricorso, il contribuente deve comunque pagare un terzo dei tributi “accertati”. Di fatto, questa norma, ha reintrodotto il principio del solve et repete, ovvero “prima paghi e poi contesti”. Non stupisce che esso fosse già stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 21/1961. Meno di cinquanta anni dopo, eccolo di nuovo operativo, in nome di un accorciamento dei tempi procedurali.
Accorciando i tempi procedurali in una materia così delicata (si sta parlando del frutto del lavoro delle persone) tuttavia, nell’ansia di «rastrellare presto e comunque le maggiori somme possibili» (E. De Mita, “L’accertamento esecutivo deroga ai principi”, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2010), si rischia di compiere errori gravi, devastanti per molti contribuenti onesti. Inoltre, se si pensa al fatto che esiste, come stabilito dall’art. 59 del d.lgs. n. 300/1999, una “quota incentivante connessa al raggiungimento degli obiettivi della gestione e graduata in modo da tenere conto del miglioramento dei risultati complessivi e del recupero di gettito nella lotta all’evasione effettivamente conseguiti”, la probabilità di commettere errori potrebbe essere ampliata dal rischio di eccesso di zelo, da parte degli agenti della riscossione, in vista del premio. Detta quota incentivante viene stabilita da una apposita convenzione tra MEF e Agenzia delle Entrate, stipulata sulla base del do¬cumento di indirizzo con cui, a cadenza triennale, il ministero fissa gli sviluppi, le linee generali e gli obiettivi della politica fiscale e della sua gestione.
L’ultima convenzione, quella per il triennio 2013-2015, tra le altre cose, fissa in 10,2 miliardi l’obiettivo riferito all’ammontare dell’incasso derivante dai versamenti diretti e da ruoli (quindi dall’attività di accertamento e controllo). Ma la previsione di una somma monetaria fissa disincentiva l’attività di prevenzione dell’Agenzia, per la quale è meglio attingere a una base di evasione più ampia, nella quale andare a recuperare le somme utili al raggiungimento dell’obiettivo. Altro obiettivo a destare perplessità, stabilito dalla stessa convenzione, è la percentuale di vittorie in giudizio: 59%. Sorvolando sulla bontà del ministero nello stabilire una quota così bassa, preoccupa ancor più il fatto che, stando al I rapporto trimestrale 2014 del MEF sul contenzioso tributario, la percentuale effettiva di vittorie in giudizio nemmeno si avvicina all’obiettivo stabilito, a dimostrazione che i rischi di cui si è parlato sono concreti.

CTP

CTR

Come mostrano i grafici, la percentuale di vittorie per gli enti impositori è pari al 43% nelle commissioni tributarie provinciali (CTP) e al 44% in quelle regionali (CTR). Ciò significa che su 81.023 risultati di controversie tributarie definite nel primo trimestre 2014, in circa 45.000 l’ente impositore aveva sbagliato qualcosa.
Intervenendo a un convegno organizzato da Confcommercio, il direttore Orlandi ha denunciato: «In Italia sanatorie, scudi, condoni, sono pane quotidiano. Siamo un paese a forte matrice cattolica, abituato a fare peccato e ad avere l’assoluzione». A voler essere cattivi, non esistendo alcun meccanismo punitivo per l’Agenzia nei (molti) casi in cui questa soccombe in giudizio, pare che “peccato e assoluzione” siano pane quotidiano più per il fisco che per i contribuenti. Read More

1
Ago
2014

Tecnici, nuovo PIL, pensioni: i 3 problemi del nodo Renzi-Cottarelli

L’ormai consumata crisi tra Cottarelli e Renzi pone tre problemi diversi, tutti rilevanti. Apparentemente il più serio è la stima dei saldi pubblici e del perché Renzi rinvii i tagli alla spesa tutto da quando il governo è nato, mentre l’economia resta stagnante. Ma è meglio tenerlo per terzo, perché solo stimando altre due questioni prioritarie si può cercare di capire e giudicare la via seguita da Renzi.

 

Il primo problema è il rapporto tra ”tecnici” e politica. Era evidente sin dall’esordio delle 72 slides di Cottarelli a governo Renzi appena nato, che il premier la pensava esattamente come ieri ha detto concludendo il suo intervento alla direzione Pd. In sostanza: Cottarelli vada pure se crede ed è chiaro che a questo punto se n’è già andato, ma è la politica a decidere, cioè il governo e cioè innanzitutto Renzi come premier. Non sta a Cottarelli giudicare che cosa vota la maggioranza e come si comporta il governo. Il rude invito ai tecnici a stare al posto loro vale in realtà anche per il ministro Padoan, che il Quirinale ha fortemente voluto al MEF e che sinora è stato un pilastro della credibilità internazionale italiana in materia economico-finanziaria.

Se c’è un errore da evitare, è credere di affrontare la questione Cottarelli-Renzi in punta di psicologie e caratteri personali, come troppo amano fare i media. Il nodo che viene al pettine è strutturale, è quello del redde rationem della politica nei confronti della supplenza di competenza e autorevolezza che si è richiesta ai tecnici sostituendo i politici, dalla debacle di Berlusconi nel 2011 a oggi, come avvenne alla fine della Prima Repubblica. Alla politica – a destra e a sinistra, a prescindere dalle difese d’ufficio di Cottarelli per pura polemica anti Renzi inscenate oggi da una destra che i tagli di spesa non li ha mai praticati – in realtà piace enormemente, la tromba della riscossa che Renzi suona contro i tecnici. E a molti media pure, dopo aver coperto di improperi i tecnici a ciascuno dei quali però, da Monti in poi, gli stessi media riservavano all’inizio un servo encomio…

Come sempre, però, passare da un estremo all’altro è egualmente sbagliato. E’ innegabile che la politica sola possa e debba decidere, in nome dei consensi guadagnati alle elezioni, della caratura dei suoi leader, e dei rapporti politici interni alle maggioranze. I tecnici “impolitici” scivolano spesso sulla saponosa china dei consensi e su quella di come parlare alla gente, da Monti a Saccomanni. Ma il punto di fondo è un altro. E Renzi su questo corre il rischio di sbagliare. Alla finanza pubblica italiana servono o no, i tecnici? La risposta a tale quesito, alla luce di decenni di andamenti reali diversi dai documenti previsivi dei governi di ogni colore, della continua prassi parlamentare di alterare lobbysticamente saldi e coperture già originariamente spesso azzardate, e dalla pessima qualità certificata della spesa pubblica corrente e in conto capitale, non può che essere diversa da “la politica decide tutto”. I tecnici servono, eccome.

Un serio governo riformatore dovrebbe tirare una riga netta. Aver abdicato di fatto in vent’anni formulazione di obiettivi, compatibilità e testi di governo della finanza pubblica alla Ragioneria Generale dello Stato e alle Agenzie tributarie si è rivelato un errore. E sta alla politica decidere se e come riformare i “tecnici di governo”, che sono spesso diventati “governi a parte”, soprattutto in materia fiscale e opponendosi-ritardando ogni dismissione. Ma la riga netta è necessaria su un’altra questione. Alla finanza pubblica italiana serve un’Agenzia indipendente dai governi e dal parlamento, alla quale attribuire valutazioni ex ante ed ex post sugli interventi in materia di spesa ed entrate, sulla allocazione degli investimenti pubblici, sui criteri comparati di impiego delle risorse pubbliche nella sterminata e difforme geografia degli oltre 10 mila soggetti della PA (più all’incirca un’eguale mole di società controllate e partecipate), nonché su ogni “riforma” strutturale varata dai governi. C’è bisogno di qualcosa di altrettanto indipendente e autorevole del Congressional Budget Office americano, ma ancor più vasto visto che da noi la spesa pubblica è molto superiore.

E’ una questione essenziale di trasparenza. I governi decidano, ma i contribuenti hanno diritto a sapere bene ciò che si potrebbe e dovrebbe fare, quali siano le stime e le conseguenze degli interventi proposti, quali i benefici e quali le esternalità negative di una seria analisi costi-benefici di tutto ciò che viene proposto. E’ esattamente per questo che il governo non ha reso pubblici i 25 pdf dei gruppi di lavoro riuniti da Cottarelli per l’esame della spesa pubblica. Ed è un pessimo segnale, che su sanità e previdenza, 80mila esuberi PA e partecipate locali, prefetture, forze dell’ordine e centri di acquisto, tanto per fare solo qualche esempio, il governo abbia storto il muso al fatto che il commissario Cottarelli indicasse come e dove intervenire da subito, a partire – dicevano le slides – dallo scorso primo maggio.

Conclusione del primo punto: il ritorno alla supremazia della politica non corretto da un bilanciamento tecnico indipendente in Italia può voler dire una sola cosa, rinunciare a rivedere in profondità perimetro ed efficacia di una PA che spende troppo e che continuerà a costare troppe tasse, impedimento strutturale alla crescita italiana.

 

Seconda questione: Renzi ha ragione o torto, a prender tempo sui conti?

Stiamo ai fatti. Padoan, l’Istat e Renzi stesso ieri hanno ricordato che la crescita italiana nel 2014 non sarà quella indicata dal governo nel suo DEF di aprile, un PIL a +0,8%. I segnali italiani di cui disponiamo, dice l’Istat, indicano una prospettiva di stagnazione. Vedremo la prossima settimana, quando verrà diramata la prima stima del Pil nel secondo trimestre 2014. Ormai da tempo le stime convergenti – Confindustria, Banca d’Italia, FMI – si collocano tanno in una risicata forbice tra +0,2 e +0,3%. E’ ovvio che meno crescita significa rischio di sforare il 3% di deficit sul Pil nel 2014, ulteriore intensificazione della velocità di aumento del debito pubblico, necessità di appesantire le manovre di correzione indicate dalla prossima legge di stabilità.

Non è questa la via della quale Renzi è convinto. Gli sembra un’impostazione vecchia, quella riservata all’Italia come sorvegliata speciale. Aveva senso nel 2011, quando sotto i colpi della crisi emergente greco-spagnola l’instabilità italiana poteva minacciare l’euro stesso. Ora è diverso, pensa il premier. E’ diverso perché di mezzo si è messo Draghi con il suo bazooka, “faremo qualunque cosa per preservare ‘euro”. E’ diverso perché c’è una cornice concordata, sia pur da rafforzare, di scudi europei di emergenza, mentre allora praticamente non esistevano. E’ diverso anche perché al recente voto europeo Berlino ha potuto misurare la forza crescente dell’avversione all’euro, creata da politici che lo indicano come strumento di un rigore cieco e affama-popoli. Ed è diverso anche perché a Berlino per prima la Merkel, non governerebbe senza i socialisti nel suo governo.

Non sono solo queste ragioni “politiche”, ad aver spinto Renzi a non assecondare chi consigliava di rimetter subito mano ai conti, e di accelerare sui tagli di spesa. Cottarelli a marzo proponeva tagli cumulativi per 7 miliardi nel 2014, 17 nel 2015 e 34 nel 2016. Anche ieri è stato Padoan, a dire che la minor crescita rispetto alle attese impegna a maggior sforzi sulla finanza pubblica. Renzi non dichiara mai qualcosa di analogo. Per diverse ragioni “fattuali”, a suo giudizio.

La prima è il ricalcolo in arrivo del Pil. Pochi ne tengono conto, ma l’Istat ha anticipato a settembre di quest’anno l’adozione dei nuovi criteri Eurostat che sostituiscono il set di regole – il Sec95 – con cui da vent’anni si calcola il prodotto interno lordo. Le nuove regole Eurostat danno maggior peso alle spese in ricerca e sviluppo, a quelle per armamenti, agli scambi esteri di beni intermedi. E infine, la parte più discutibile, l’inserimento nel PIL di tutte le attività che producano reddito anche se illecite: droga, prostituzione, contrabbando. Eurostat si aspetta una rivalutazione media per l’area Ue pari a 2,4% del Pil. Mentre per l’Italia l’attesa Eurostat è di un Pil 2014 che possa salire tra l’1% e il 2% rispetto ai vecchi criteri.

Ci sarà ovviamente chi griderà al trucco, ma la speranza di Renzi è che a settembre la stima del deficit 2014 e 2015 su un Pil così rivalutato lasci critici e rosiconi, italiani ed europei, a bocca asciutta.

La seconda ragione – che al MEF lascia perplessi, come tante altre cose su cui la struttura tecnica del ministero e palazzo Chigi non si prendono, di qui l’accelerazione di Renzi su un proprio pool di economisti fidati – sta in una stima molto ottimistica, fino a 6-7 miliardi, di IVA aggiuntiva incassata entro fine anno grazie all’accelerazione del pagamento dei debiti della PA verso le imprese.

La terza ragione, infine, è la riserva di azione politica che Renzi intende esprimere nel Consiglio europeo, più di quanto Padoan possa fare all’Ecofin. La Francia ha già chiesto un ulteriore slittamento del rientro del deficit verso quota zero, per la terza volta in cinque anni. La Germania vede crescita e indici di fiducia in frenata. Renzi resta convinto che al Consiglio Europeo questa volta devono pensarci bene, prima di ridurre la sua volontà di riforme a pagare l’amaro pegno di una stangata fiscale aggiuntiva per recuperare un 1% di deficit fuori controllo. Non è nelle sue intenzioni assecondare quelle eventuali richieste. A costo di impugnare lui la bandiera di un’Europa che ci vuol far morire di rigore, strappandola alle mani della lega e del M5S. E’ un azzardo, ma Renzi è fatto così.

 

Terza questione: senza dismissioni e con le tendenze di questa maggioranza che si vedono sulle misure economiche, la sostenibilità del rientro della finanza pubblica resta comunque poco credibile.

Il percorso pluriennnale di risanamento della finanza pubblica resta impervio, senza tagli decisi a spesa e tasse: uno studio di Barry Eichengreen e Ugo Panizza pubblicato ieri su Vox lascia poca speranza, sul fatto che davvero l’Italia possa per 10 anni almeno restare a livelli di avanzo primario – tutto realizzato per via di repressione fiscale su lavoro e impresa – tra il 4 e il 6% del Pil annuo. Solo pochi paesi ci sono riusciti, come Belgio, Nuova Zelanda, Irlanda e Singapore, piccoli paesi molto più aperti di noi all’economia internazionale, e dotati di convergenza politica a noi ignota.

Se esaminiamo le proiezioni in vista della prossima legge di stabilità, ai 10 miliardi di aggiustamento necessari per rendere permanente il bonus 80 euro, ai 10-12 necessari per tener conto dell’invito della Commissione Europea uscente a recuperare il ritardo accumulato nel rientro del deficit strutturale entro il 2015 (il 2016 non ci è stato concesso), ai 3,5 miliardi di “clausola di salvaguardia” ereditata da Letta per evitare che scattino altri aggravi d’imposta, a tutto questo non si fa fronte neanche coi 17 miliardi taglia-spesa che indicava Cottarelli, e che ora ai più sembrano tantissimi.

Dice Renzi che Consiglio europeo e Commissione, come confermato da Juncker, dovranno valutare innanzitutto la serietà delle riforme, solo poi i saldi da garantire. Finora, però, la riforma della Costituzione avrà effetti limitatissimi sulla finanza pubblica (resta l’autonomia speciale alle Regioni, che moltiplica spesa e debiti, vedi la Sicilia). Quella sul lavoro è rinviata a settembre, dunque si vedrà.

Ma allora perché mai, nella riforma della PA, Pd e maggioranza rimettono mano o meglio manomettono una delle poche vere clausole di sicurezza poste dalla politica italiana all’aumento della spesa, cioè la riforma delle pensioni Fornero di fine 2012? Perché autorizzare l’età della piena pensione ai dirigenti pubblici a 62 anni, quando per gli italiani normali quest’anno il trattamento di anzianità è 63 anni e 9 mesi e in crescita ulteriore? Perché riaprire il pieno pensionamento a quota 96 anni come somma di età e contributi versati anche a chi ha 60 anni? Come non capire che una volta aperte queste brecce la conseguenza è quella già indicata stamane dal ministro Poletti al Messaggero, e cioè tornare a quota 96 per tutti, come da sempre dicono Damiano, mezzo Pd e tutta la Cgil?

 

La somma di questi tre problemi sembra indicare che il governo crede davvero di evitare i tagli di spesa senza i quali non c’è sgravio fiscale di proporzioni tali da rilanciare l’offerta. E’ un copione già visto in 20 anni, da governi di destra e sinistra. Renzi sa che il declino italiano è figlio di quell’errore. Non resta che verificare, entro poche settimane, quale sarà la sua risposta.

30
Lug
2014

Riflessioni sull’Indice di miseria—di Steve Hanke

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.

Recentemente ho calcolato l’Indice di miseria per 89 paesi (si veda Globe Asia, maggio 2014). L’Indice di miseria non è altro che la somma del tasso di disoccupazione, di quello di inflazione e dei tassi dei prestiti bancari, meno la variazione percentuale del PIL pro capite reale. Un elevato punteggio nell’Indice di miseria rappresenta livelli più alti di disagio.

I calcoli che ho effettuato rappresentano una istantanea delle condizioni di “miseria” paese per paese per il 2013. In questa sede illustrerò la variazione dei punteggi al trascorrere del tempo per diverse zone del mondo e alcuni paesi dell’Asia. Ciò ci permetterà di fare una riflessione su questi punteggio in termini di pattern topologici.

Figura 1. Un decennio di miseria
Indice di miseria medio per regione

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Fonte: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Il primo grafico mostra l’andamento dell’indice di miseria nelle principali regioni nel corso dell’ultimo decennio. Si possono osservare diverse cose. Anche utilizzando dati aggregati, il grafico è contraddistinto da due poli di attrazione: uno concentrato su un punteggio pari a 20 e l’altro intorno al valore di 10. In generale, i paesi che gravitano verso il primo necessitano di una robusta dose di riforme strutturali (vale a dire, orientate verso la libertà dei mercati). Viceversa, i paesi che si addensano intorno al polo più basso sono contraddistinti da una libertà economica considerevolmente maggiore.

In seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009 il livello dell’Indice di miseria dei paesi del Sud-Est asiatico si è ridotto da circa 20 a 11,7, il che indica che in questa parte del mondo  vi sono state riforme strutturali positive. È anche il caso di aggiungere che le politiche di “quantitative easing” adottate dalla Federal Reserve americana hanno generato significativi flussi di “soldi bollenti”, che hanno avuto effetti positivi sulle economie del Sud-Est asiatico. Nel grafico sono evidenti anche gli endemici problemi strutturali dell’Europa occidentale. Dagli anni della crisi, il punteggio della “miseria” per questa zona del mondo è rimasto elevato, a causa dei gravi problemi connessi al mercato del lavoro. Per portare il punteggio dall’attuale livello di 15,4 a 10, l’Europa occidentale avrà bisogno di realizzare alcune significative liberalizzazioni in campo economico.

Passiamo adesso dall’esame di raggruppamenti regionali a quello di singoli paesi. L’Indonesia offre un quadro interessante: grazie ai disastrosi consigli del Fondo Monopolio Internazionale, il 14 agosto 1997 l’Indonesia adottò un tasso di cambio flessibile per la propria valuta. Contrariamente alle aspettative del FMI, la rupia non navigò in acque tranquille: il suo valore precipitò dalle 2.700 rupie per dollaro ad un abisso di quasi 16.000 rupie per dollaro nel 1998. Di conseguenza l’inflazione e l’Indice di miseria dell’Indonesia crebbero enormemente e il presidente Suharto venne abbattuto dopo una permanenza di 31 anni al potere. In seguito l’Indice di miseria si è nettamente ridotto e, da quando il governo Wahid è entrato in carica, ha continuato ad andare alla deriva. Le variazioni dell’Indice di miseria dell’Indonesia e delle sue componenti sono evidenziate nella figura seguente.

Figura 2. Indice di miseria dell’Indonesia

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Attualmente l’Indice di miseria indonesiano si trova esattamente sul polo dei 20. Il nuovo presidente, recentemente eletto, dovrà introdurre serie riforme strutturali se vorrà vedere l’Indice diminuire e portarsi sull’altro polo.

Figura 3. Indice di miseria dell’Indonesia sotto diversi Presidenti

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Narendra Modi, il neo-eletto primo Ministro dell’india, deve vedersela con un Indice di miseria di 24,5. In considerazione della natura del sistema politico e della burocrazia dell’India, ha certamente una bella gatta da pelare. Modi dovrà fare qualcosa di più che non semplicemente proclamare ambiziosi piani di riforma e dovrà assicurarsi che i suoi progetti vengano effettivamente attuati, in modo da realizzare una singificativa riduzione dell’Indice di miseria del suo paese.

Figura 4. Indice di miseria dell’India

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Già che ci troviamo in Asia, proviamo a dare un’occhiata a due paesi che registrano performance eccezionali, Cina e Singapore, che esibiscono entrambi punteggi inferiori a 10. La Cina è degna di nota, in quanto il suo Indice di miseria era decisamente inferiore a 5 nel periodo 1997-2005, vale a dire nel periodo in cui il valore dello yuan era rigidamente legato a quello del dollaro. L’Indice di miseria cinese ha iniziato a salire solo dopo che la Cina, in seguito alle pressioni di Washington, ha lasciato che lo yuan si rivalutasse rispetto al dollaro.

Figura 5. Indice di miseria della Cina

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

in base alla maggior parte delle misure di competitività, Singapore occupa uno die primi posti. Non è sorprendente, quindi, riscontrare che i punteggi dell’Indice di miseria di Singapore siano bassi e che nel 2010 abbiano perfino registrato un valore negativo.

Figura 6. Indice di miseria di Singapore

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Fonti: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, The Economist Intelligence Unit e calcoli di Steve H. Hanke, John Hopkins University.

Questa passeggiata topologica nel viale dell’Indice di miseria ha rivelato due centri di gravità: 20 e 10. I paesi che esibiscono valori intorno a 10 stanno semplicemente mietendo i dividendi di mercati più liberi. Quelli che hanno punteggi intorno ai 20 sono chiari candidati per l’adozione di profonde riforme di liberalizzazione del mercati. Senza riforme in questa direzione, questi paesi sono destinati ad un’esistenza, letteralmente, miserevole.

Steve Hanke è Professore di Economia Applicata alla Johns Hopkins University di Baltimora e Senior Fellow e Direttore del Troubled Currencies project presso il Cato Institute. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo, originariamente apparso su Globe Asia.

30
Lug
2014

La cultura dell’analisi di impatto giova alla cultura (seconda parte).

 

Non solo ai privati, come visto nella prima parte, serve stimare quanto più precisamente l’impatto che i fondi da essi destinati alla cultura possono produrre. Anche per lo Stato è necessario valutare accuratamente la portata degli effetti delle risorse impiegate nel settore in esame, in termini di ricadute positive sul sistema economico nazionale.

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26
Lug
2014

Ad ogni (incalcolabile) costo

Ha ragione il Financial Times[1] a dire che le tre parole di Mario Draghi “whatever it takes” siano state le più efficaci della storia dopo il “veni vidi vici” di Giulio Cesare? La frase pronunciata dal governatore della BCE alla Global Investment Conference di Londra il 26 luglio 2012 “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro” seguita da “And believe me, it will be enough”, ha segnato sicuramente un punto di svolta nella storia economica recente dell’Eurozona. Da quando la BCE ha dichiarato l’impegno a salvare i Paesi in emergenza finanziaria ad ogni costo, i Paesi periferici non hanno più avuto difficoltà a rifinanziare il loro debito. Questo risultato non è stato ottenuto senza una serie di effetti indesiderati, che soltanto la storia futura permetterà di valutare nel loro insieme. Ma anche oggi è possibile segnalare diversi elementi che minano la stabilità economica dell’Eurozona e che sono stati creati dall’impegno del presidente della BCE  a evitare il default dei Paesi periferici.

1. Quali effetti sui rendimenti imputabili all’impegno di Draghi?

A fine gennaio 2014 lo stesso Mario Draghi ha rivendicato che: «In Spagna e Italia l’azione della Bce, con la promessa di fare ogni cosa necessaria a difesa dell’euro, ha praticamente dimezzato i rendimenti sui titoli di Stato»[2].  Una drastica riduzione dei tassi di interesse richiesti dai mercati finanziari ha indubbiamente interessato tutti i Paesi alla periferia dell’Eurozona. Mentre all’inizio del 2012 i rendimenti sui decennali portoghesi e greci erano a due cifre, due anni e mezzo più tardi i rendimenti più alti tra i bond dell’Eurozona erano quelli offerti da Cipro, che a metà giugno 2014 collocava 750 milioni di euro di titoli ad un tasso del 4,85%.

Figura 1

Rendimenti sui titoli di Stato a lungo termine

Fonte: elaborazione su dati OCSE. Nota: livello medio mensile dei rendimenti lordi dei titoli di Stato a lungo termine (nella maggior parte dei casi con scadenza a dieci anni)

Come si osserva nella Figura 1, in particolare nel caso portoghese, la discesa dei rendimenti era iniziata già prima della dichiarazione di Draghi. Inoltre, i tassi bassi sul debito dei Paesi periferici, che si osservano nella prima metà del 2014, sono spiegati da due ulteriori elementi: le politiche monetarie fortemente espansive adottate dalle banche centrali dei Paesi avanzati hanno favorito una riduzione, su scala globale, dei tassi di interesse. Inoltre numerosi investimenti sono fuggiti dai Paesi emergenti, molti dei quali hanno registrato periodi di turbolenza finanziaria, per tornare a investire nei Paesi avanzati.

Per quanto risulti difficile stabilire con precisione quanto le parole di Draghi abbiano influito su questo fenomeno, la discesa dei rendimenti ha aiutato i Paesi periferici a rifinanziarsi. La Grecia, uscita per 4 anni dai mercati, è tornata sui mercati il 10 aprile 2014 collocando tre miliardi di euro di bond quinquennali a un tasso del 4,95%. Il 22 aprile il Portogallo collocava 750 milioni di euro ad un tasso del 3,57%, tre anni dopo il bailout del FMI e dell’Europa.

In una prospettiva internazionale, è difficile spiegare rendimenti così bassi, in quanto appaiono completamente indipendenti dal rischio e dai fondamentali dei Paesi. I rendimenti dei decennali irlandesi sono arrivati ad aprile al 2,89%, ovvero 20 punti base superiori ai decennali americani: un buon risultato, per un Paese con un debito pari al 150% del PIL e uscito a dicembre 2013 dal piano di salvataggio del FMI. Similmente, i bond portoghesi, il cui rating è a livelli junk, rendono meno del 4% offerti dai decennali australiani valutati con tripla A. Si confrontino anche i decennali inglesi rispetto ai decennali spagnoli, valutati da Standard’s & Poor come AAA, i primi, rispetto a BBB, i secondi: se due anni fa lo spread tra i due titoli aveva raggiunto i 600 punti base, a giugno 2014 i rendimenti dei Bonos erano scesi sotto quelli dei Gilt, sotto il 2,6%.

La riduzione del rendimento non si spiega neppure con un miglioramento dei fondamentali nei Paesi dell’Eurozona in cui le prospettive circa la crescita economica, l’occupazione e il livello di debito pubblico non accennano a migliorare. Un esempio è l’Italia, che dal 2008 al 2014 ha perso il 25% della sua capacità industriale e il cui debito ha superato il 130% del PIL. Eppure il tasso di interesse dei BTP a dieci anni, che nel 2012 era stato pari, in media, a 5,65%, nell’asta a fine maggio 2014 ha raggiunto i minimi dall’introduzione dell’euro (3,01% sul mercato primario).

2. Effetti indesiderati

Debito, debito senza limite

La crescita dei rendimenti sul debito sovrano rappresenta un vincolo naturale che costringe le finanze pubbliche a limitare il proprio livello di indebitamento e a domandarsi come sviluppare la crescita economica. Una riduzione artificiosa dei rendimenti distorce pertanto questa dinamica di aggiustamento.

Negli ultimi anni l’indebitamento dei Paesi periferici non ha accennato a diminuire, come si può osservare nella Figura 2: tra il primo trimestre del 2011 e il primo trimestre del 2014 il debito pubblico complessivo lordo è cresciuto del 44% in Spagna, del 34% in Portogallo, del 30% in Irlanda, del 13% in Italia.

Figura 2

Indebitamento pubblico lordo

Fonte: elaborazione su dati Eurostat

Stati e banche: un legame pericoloso

Un secondo effetto indesiderato dell’intervento di Draghi è la distorsione del rischio. La teoria economica insegna che il tasso di interesse è un valore che include le preferenze intertemporali, l’inflazione attesa e il rischio default; escludendo che i primi due elementi possano essere mutati in maniera rilevante negli ultimi due anni, risulta che il rischio default per i Paesi periferici percepito dai mercati finanziari si è drasticamente ridotto. Si tratta però di un risultato poco credibile: chi potrebbe dire se la BCE sia davvero in grado di salvare tutta la periferia europea in caso di fallimenti a catena e quali conseguenze potrebbe avere un intervento di così ampia portata?

Riducendo il rischio di default di quel debito sovrano la BCE incentiva molti investitori a scegliere quei titoli. La conseguenza più rilevante riguarda i bilanci bancari: molte banche hanno potuto investire abbondantemente sui bond della periferia europea, dal momento che il rischio che quei titoli non fossero onorati, in tutto o in parte, si è notevolmente ridotto.

Le statistiche di Banca d’Italia permettono di osservare questo fenomeno in Italia. Il debito emesso dalle amministrazioni pubbliche italiane e detenuto dalle banche residenti in Italia è cresciuto da 118 miliardi di euro nel gennaio 2008, a 212 miliardi nel gennaio 2011, fino a 394 nel gennaio 2014, come si può osservare nella Figura 3.

Figura 3debito pubblico ita nelle banche ita

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia (Bilanci delle banche residenti in Italia: titoli diversi da azioni emessi da amministrazioni pubbliche italiane)

Conclusioni

La decisione della BCE di affrontare qualsiasi sforzo per non far fallire i Paesi in difficoltà ha modificato indubbiamente il corso della crisi dell’Eurozona. Non è stato l’unico elemento che ha aiutato le finanze dei Paesi periferici a uscire dall’emergenza: ha influito anche il quadro internazionale, la politica monetaria e il ruolo delle banche nell’acquistare il debito sovrano.

Il rischio di non buttare le mele marce è però quello di fare marcire tutto il cestino. Oggi emergono tanti segnali che fanno pensare che la crisi dell’Eurozona si stia spostando dalla periferia al centro, che l’indebitamento pubblico continuerà a crescere così come l’esposizione degli istituti creditizi nei confronti del rischio sovrano.

Derogare alle regole della buona economia, che vede nel fallimento – anche delle finanze pubbliche – un’occasione per riformarsi e per sanare  scelte sbagliate, comporta sempre un costo. Che però, come tutti gli effetti secondari, è meno visibile e più difficile da calcolare: non trova spazio nelle decisioni politiche ma ciò non significa che non avrà conseguenze sulla stabilità economica europea.

 

[1] Gideon Rachman, “Mario Draghi’s ‘Whatever it takes’ may not be enough to save the euro”, The Financial Times, 7 aprile 2014.

[2] Cfr. Vittorio Da Rold, “Italia e Spagna, tassi dimezzati grazie alla Bce”, Il Sole 24 ore, 25 gennaio 2014.