L’oltraggio dei vitalizi ai consiglieri regionali: come e perché Renzi può intervenire
E’ uno dei tanti paradossi di questa stagione di riforme. Si risparmia da una parte, si continua a dilapidare dall’altra. Ecco l’esempio macroscopico. Procede in prima lettura la riforma del Senato in assemblea non elettiva dal corpo elettorale, e ieri tra le altre cose è stata approvata l’abolizione dell’indennità per i nuovi componenti, che saranno scelti da Regioni, Comuni e Quirinale. Si risparmiano così circa 43 milioni l’anno di indennità dei senatori, mentre bisognerà vedere se restano – presumibilmente sì – i 20 milioni di euro di rimborso per le pese sostenute, e i 37 milioni di euro che vengono assegnati ogni anno ai gruppi parlamentari.
Da una parte, si risparmia dunque circa l’8% dei costi complessivi del Senato attuale. Nel frattempo però, ad onta di reiterati tentativi da parte di Tremonti prima e di Monti poi, continua sotto gli occhi di tutti lo scandalo dei vitalizi nei Consigli regionali. Oltre 3.100 erogati nel solo 2012, per una spesa totale annuale di 168 milioni. Con Regioni che hanno cambiato sì le regole per attribuirli dopo lo scandalo Fiorito nel Lazio, non prevendone più l’immediato pagamento a chi mancava la rielezione dalla successiva legislatura, ma al contempo continuando anche nelle nuove norme in molti casi ad anticipare l’erogazione dei trattamenti a soli 50 anni di età, come in Lazio e in Sicilia, e mantenendo come base di calcolo per i trattamenti in alcuni casi l’80% dell’indennità, in altri il 100% come in Friuli, e in altri ancora come in Lazio arrivando a sommare anche la diaria oltre a fino il 100% dell’indennità. C’è chi, come il Piemonte, alla decurtazione dei vitalizi e dunque al venir meno dei relativi contributi mensili – in ogni caso assai inferiori al trattamento che poi si matura – ha pensato bene di affiancare un immediato aumento della somma mensile incassata dai consiglieri, sommando alla diminuita indennità un’accresciuta diaria. E c’è ancora chi, come il Lazio, consente il pieno cumulo del vitalizio regionale con quello riscosso come parlamentare nazionale ed europeo.
Una giungla di orrori. Che di anno in anno – riducendosi i trasferimenti dallo Stato centrale alle Regioni – prosciuga i bilanci dei Consigli regionali, assorbendone in percentuale risorse crescenti. E che, soprattutto, continua a rappresentare un intollerabile pugno nell’occhio del cittadino comune. Che semplicemente se lo sogna, di incassare dopo la riforma Fornero a 50 anni mega assegni previdenziali largamente superiori ai contributi versati per prestazioni durate pochi anni.
Ecco dunque che per Renzi si presenta una buona occasione. Proprio ora, quando per l’esecutivo sono giorni difficili sul versante della riduzione della spesa pubblica dopo la vicenda Cottarelli, e mentre il governo è costretto a una netta e sacrosanta – ma per lui dolorosa – marcia indietro, rispetto alle fughe in avanti previdenziali volute dalla sua maggioranza sul decreto PA reintroducendo “quota 96” per prepensionare 4 mila insegnanti, e consentendo ai dipendenti pubblici il pensionamento a 62 anni senza i disincentivi riservati a noi “sudditi” comuni. Quelle norme sono sbagliate, ha dovuto riconoscere il governo, perché chi le ha votate in parlamento ne ha sottovalutato gli oneri, e non ha previsto adeguate coperture. Come avevamo del resto scritto, proprio su queste colonne.
A maggior ragione, è il momento giusto per il governo di prendere per le corna il problema dei vitalizi regionali. E’ un tema popolare. E ripetiamo l’aggettivo: popolare, non populista. E’ popolare perché il regime di privilegio perdurante dei politici rappresenta un affronto all’italiano comune. Ed è giusto: perché non ha molto senso sforbiciare le spese al centro, e non fare la stessa cosa in tanta parte della spesa delle Regioni che continua a non ispirarsi a criteri di equità ed efficienza.
Certamente, ci sono dei problemi ordinamentali. Ed è questa la difficoltà di un intervento governativo. Se il tentativo montiano abrogazionista dei vitalizi è stato complessivamente attutito e spesso aggirato, si deve al fatto che l’autonomia di ogni Consiglio regionale sugli interna corporis risulta oggi irriducibile a ogni decreto governativo. Non aiuta nemmeno la recente sentenza della Corte dei conti del 25 giugno scorso, le cui motivazioni sono appena state pubblicate e in cui si ribadisce che, al netto delle appropriazioni personali, le spese sostenute dai partiti attingendo ai fondi dei gruppi regionali sono sostanzialmente insindacabili.
Ma detto tutto questo, il governo Renzi può benissimo trarre lezione dai tentati interventi sin qui non andati a segno, e sparare sullo scandalo-vitalizi un missile a tre stadi: il primo di moral suasion – per “comunicare” direttamente agli italiani inviperiti – più un secondo e un terzo direttamente nel testo di riforma costituzionale che si sta votando, cambiando cioè ciò che consente oggi ai partiti nei consigli regionali di far orecchie da mercante.
Il primo stadio si risolve in un incontro della Conferenza Stato-Regioni nella quale direttamente il premier informi i presidenti delle Regioni che così non va: le difformità sui vitalizi, la loro erogazione a 50 anni e la loro cumulabilità fanno a pugni con la revisione di spesa a cui Renzi e il suo governo sono impegnati.
Il secondo è l’introduzione nel Titolo V° della Costituzione di meccanismi sanzionatori per le Regioni che spendono allegramente, graduandoli dal taglio dei trasferimenti centrali in presenza di mancati interventi (come sui vitalizi, ma naturalmente non solo, a cominciare dalla sanità), fino alla sanzione diretta e personale politico-amministrativa per chi porta la responsabilità di eventuali default. Monti aveva tentato di introdurre queste norme con legislazione ordinaria, e naturalmente la Corte Costituzionale le ha cassate. Proprio perché bisogna prevederle in Costituzione.
Il terzo è accessorio, perché susciterebbe l’iradiddio di proteste locali, ma ben bilanciate dal consenso nazionale: la cassazione – o quanto meno una profonda rivisitazione – dell’autonomia speciale concessa ad alcune Regioni. Non solo le ragioni storiche di tale istituto sono in larghissima misura superate, ma soprattutto in alcune realtà come la Sicilia l’autonomia è scudo di intoccabilità per spese dissennate. Solo lì, nell’Italia del 2014, dirigenti pubblici stanno correndo in pensione a 53 anni con un trattamento pienamente agganciato all’ultima retribuzione superiore al mezzo milione di euro l’anno, in barba a ogni tetto di 240 mila euro introdotto dal governo.
I vitalizi regionali non hanno a che vedere con la giusta dignità da ribadire e difendere della politica. Sono la prova vivente del vantaggio per sé che politici continuano ad autoassegnarsi, rispetto alla dura vita ordinaria di milioni di cittadini italiani, e ai loro ben più limitati diritti. Se Renzi si decide a questa battaglia, è un altro passo per voltare davvero pagina. E anche per smentire quelli che lui chiama “gufi”: coi fatti però, non con le parole e gli annunci..