12
Ago
2014

Lo straniero passa (e segna)

La sfida tra Demetrio Albertini e Carlo Tavecchio per la presidenza della Federazione Italiana Gioco Calcio è stata prima di tutto – sarebbe assurdo negarlo – uno scontro tra interessi contrapposti: uno scontro politico nel senso più onesto del termine. Tuttavia, la lettura dei programmi delle rispettive candidature denotava anche profonde differenze sul piano ideale e sotto il profilo dei rimedi di policy all’evidente declino – tecnico, economico, morale – del calcio italiano. Il più significativo tra questi contrasti attiene probabilmente al ruolo dei calciatori stranieri o, più correttamente, extracomunitari – posto che il diritto dell’Unione preclude la discriminazione degli atleti provenienti da altri paesi europei.
Come ha giustamente segnalato Piercamillo Falasca, si trattava di una riedizione della classica diatriba tra liberisti e protezionisti: i primi rappresentati dallo sconfitto Albertini, che avrebbe revocato ogni vincolo geografico, sulla scorta dell’esempio tedesco; i secondi capitanati dal vittorioso Tavecchio, che ha promesso l’adozione di un meccanismo di selezione a monte, in ossequio al modello inglese. Rileviamo sin d’ora un dato paradossale, alla luce di tali premesse: la Premier League è – con la sola eccezione di Cipro – il campionato europeo in cui la rappresentanza internazionale è più rilevante, con il 61% dei giocatori; la Bundesliga si ferma al 44,3%; la Serie A si attesta al 52,5% (CIES Demographic Survey 2013).
Sul Corriere della Sera di sabato 2 agosto, Mario Sconcerti (“Stranieri il nocciolo del problema”) ha illuminato i presupposti dell’opzione protezionistica. L’assioma è che il bene della nazionale italiana coincida con il bene del calcio italiano: «perdendo i risultati della nazionale si perdono i risultati di un intero movimento, cioè soldi, valore, altro mercato». Correlazione opinabile, per dire il meno: perché il campionato più interessante d’Europa, quello inglese, esprime da decenni una nazionale mediocre; perché, viceversa, selezioni di primo piano – come le grandi sudamericane – hanno alle spalle leghe di medio cabotaggio; perché, semmai, il rapporto causale correrà nel verso opposto: nei recenti successi del calcio spagnolo e di quello tedesco, i club hanno avuto il ruolo propulsivo – non il contrario.
Tutto l’apparato argomentativo dell’articolo risente dell’obbedienza a una tesi tanto sbilenca: così, Sconcerti celebra la messe di talenti italiani della metà degli anni ’90, ma lo fa citando rispettabili pedatori (Adani, Pioli, Cravero, Bortolazzi, Manicone…) che l’azzurro l’hanno, al più, assaporato fuggevolmente e che difficilmente oggi vi troverebbero maggior accoglienza; e, soprattutto, trascura che quella generazione ha collezionato tra il 1996 e il 2004, con la sola eccezione degli Europei del 2000, una serie di esibizioni tutt’altro che memorabili. Altrettanto discutibile è il trattamento del calcio tedesco, ansioso, secondo Sconcerti, di «salvaguardare “la razza”» – espressione di per sé infelice, specialmente se riferita a un sistema che ha schiuso le porte della nazionale a cognomi come Özil, Khedira, Mustafi e Boateng. Se è vero che non si è «mai visto un fuoriclasse straniero giocare in Germania», «dove il mercato internazionale quasi non esiste», qualcuno dovrà spiegare come Robben e Ribery siano sbarcati in riva all’Isar e come sia accaduto che otto dei migliori marcatori dell’ultima Bundesliga fossero foresti.
Quando si considera il livello di apertura internazionale, la vera anomalia del calcio italiano risiede non nell’esubero dell’import, bensì nella penuria dell’export. Ne abbiamo avuto prova anche durante i recenti Mondiali. La Germania vittoriosa annoverava sette calciatori attivi nei campionati esteri: quattro in Premier League, due in Serie A, uno nella Liga; l’altra finalista, l’Argentina, disponeva di ben venti atleti impiegati nelle leghe europee; al contrario, tra i convocati di Prandelli, appena tre sgambettavano oltreconfine – e non in uno dei campionati più stimolanti, bensì in Francia. Nella graduatoria delle selezioni autarchiche, solo la già citata Inghilterra e la Russia hanno fatto meglio – cioè peggio.
Esattamente come i cervelli in fuga, anche i piedi in fuga costituiscono, per un occhio attento, un’opportunità: le fughe tendono a esaurirsi, restituendo al paese di origine – purché, naturalmente, esso sia pronto a riceverlo – un capitale umano più ricco e variegato. Nel caso specifico, ciò si traduce in una maggiore familiarità con culture sportive diverse, in una maggior padronanza di movimenti e sistemi di gioco alieni, in una maggior duttilità, in una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. Il tema, allora, è quello di garantire che nel frattempo il flusso in entrata almeno bilanci, quantitativamente e qualitativamente, quello in uscita.
Tavecchio ha promesso sorprese, e deve ancora far dimenticare la grave dichiarazione che ne ha quasi compromesso la corsa alla presidenza: rivedere la propria posizione sugli stranieri sarebbe un buon punto di avvio. Il compito ultimo della Federazione dovrebbe essere quello di innalzare in tutte le categorie il livello della pratica calcistica: ciò richiede, sul piano economico, una riforma dell’industria del pallone; e, su quello sportivo, la più netta apertura al talento, acquistato o sviluppato in casa, a prescindere da ogni segmentazione geografica. I vincoli all’impiego dei calciatori extracomunitari inflazionano il costo di quelli comunitari, inclusi quelli provenienti dai vivai, e alimentano una serie di comportamenti distorsivi ed elusivi che danneggiano tutti gli attori del sistema. Mantenere in vigore tali vincoli in nome della competitività della nazionale significa usare uno strumento controproducente per servire un obiettivo fuorviante. La nazionale è figlia, e non madre, del movimento. Una Federazione che ne anteponga gli interessi a quelli di chi – società, allenatori, calciatori, persino tifosi – produce calcio tutto l’anno si comporterebbe come un governo che si preoccupasse di tutelare una singola impresa pubblica a spese delle aziende private attive nello stesso comparto. Un orientamento che nessuno in Italia sarebbe disposto ad avallare, vero?

11
Ago
2014

Fisco: semplificare la semplificazione

La delega fiscale conferita al governo dalla legge 11 marzo 2014, n. 23 contiene un mandato ampio e chiaro che, riconoscendone il valore dei fini della crescita economica, pone al centro dell’azione riformatrice un obiettivo di semplificazione del sistema tributario. Ciò si evince, in primo, luogo dall’articolo 1, che individua tra i criteri direttivi generali del provvedimento “[il] coordinamento e [la] semplificazione delle discipline concernenti gli obblighi contabili e dichiarativi dei contribuenti”, nonché una maggiore uniformità nella disciplina relative alle obbligazioni tributarie e ai poteri dell’amministrazione finanziaria; ed emerge con maggior chiarezza dall’art. 7, che invita alla revisione sistematica dei regimi fiscali e al loro riordino, al fine di eliminare complessità superflue”, con particolare riferimento agli adempimenti inessenziali, nonché al ruolo dei sostituti d’imposta, dei centri di assistenza fiscale, degli intermediari.
Il primo schema di decreto, sottoposto nelle scorse settimane ai pareri consultivi delle competenti commissioni di Camera e Senato, intraprende la strada indicata dal legislatore delegante, ma manca di coraggio. Il pezzo forte del provvedimento è costituito dalla dichiarazione precompilata, introdotta in via sperimentale per dipendenti e pensionati: secondo alcuni si tratta della soluzione definitiva ai molti mal di testa causati dal 730 e dall’Unico; per altri, invece, è la dimostrazione plastica e un po’ inquietante della nudità del contribuente di fronte al fisco. Quello che interessa rilevare in questa sede è che, più che semplificare la vita al contribuente, la dichiarazione precompilata pare complicarla agli altri soggetti coinvolti – a cominciare dai sostituti d’imposta.
Sotto questo profilo, in particolare, sarebbe auspicabile un rilassamento delle scadenze per l’invio della certificazione e, soprattutto, un’attenuazione della disciplina in materia responsabilità degli intermediari e di sanzioni a carico dei sostituti d’imposta; inspiegabile, poi, è l’abolizione del compenso alle imprese che svolgono l’attività di assistenza fiscale, evidentemente figlia di una logica che equipara la semplificazione alla riduzione dei costi visibili, ma non si preoccupa di quelli invisibili.
Anche rispetto ai rimborsi d’imposta si osserva una certa ambivalenza da parte del legislatore delegato, che ha commendevolmente proposto l’abrogazione dell’obbligo di fideiussione, rimpiazzandolo, però, con la richiesta di un visto di conformità per i crediti superiori a 15.000 euro, requisito altrettanto gravoso e di efficacia discutibile. Ulteriori interventi si rendono necessari in ambito Iva: per semplificare il recupero dell’imposta su crediti non riscossi e per sfrondare la normativa sovrabbondante che regola le operazioni intracomunitarie.
Altrettanto urgente – e già promessa a più riprese – è, infine, l’abrogazione della responsabilità solidale fiscale negli appalti, che peraltro si sovrappone ad una responsabilità solidale contributiva. Si tratta di una misura che scarica impropriamente sui committenti e sugli appaltatori oneri di contrasto del lavoro nero e dell’evasione fiscale che non possono competere loro – e che sovente si traducono in un irrigidimento dei rapporti di questi soggetti con appaltatori e subappaltatori.
Certo, la delega delinea un percorso legislativo articolato in una pluralità di decreti che il governo potrà emanare nell’arco di trenta mesi, entro un confronto costante con il parlamento: pertanto, non mancheranno le possibilità di correggere la rotta in corso d’opera. Ma l’aurea massima “non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi” acquista una valenza particolarmente significativa quando è rivolta ai decisori politici, la cui agenda è costantemente rimodulata sulla base delle urgenze e delle emergenze del momento. Il momento per la semplificazione fiscale è oggi. Del resto, quelli suggeriti sin qui non sono ripensamenti radicali dell’impianto del decreto, ma semplici aggiustamenti che meglio adeguerebbero il tenore delle sue previsioni all’intento perseguito dalla delega evitando di fare di una molto necessaria riforma l’ennesima occasione perduta.

8
Ago
2014

Le tre misure semplici che potrebbero salvare il paese

Dopo l’ultimo dato sul Pil [1] è impossibile resistere alla tentazione di cimentarsi nello sport preferito dagli italiani (quando non gioca la nazionale) ossia mettersi nei panni del presidente del consiglio per trovare soluzioni facili efficaci e veloci che “chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.” Ecco quindi al volo tre Quick Win fulminanti per salvare il paese dalla brutta china su cui è avviato.

 Prima misura semplice ed efficace per salvare il paese: mettersi in testa che il paese non si salva con misure semplici ed efficaci [2]. La tentazione è molto forte e qualche volta scantona nell’esagerazione contro-fattuale[3], in fondo basta prendere qualche grandezza di finanza pubblica a tante cifre, o altra fonte similare di risorse, in un paese dove praticamente tutto funziona in modo subottimale e dire “volete che non si riesca a risparmiare/ recuperare/ ottimizzare un x% (con x più o meno ragionevole a piacere)?” L’alternativa controfattuale è ancora più facile: “se avessimo i salari dei tedeschi o la qualità dei servizi pubblici svedesi…” e ovviamente se ne infischia dal fatto che, forse, altre nazioni hanno caratteristiche differenti perché in passato hanno fatto scelte differenti dalle nostre.

Peccato che sfuggano sempre quei piccoli dettagli inerenti l’implementazione operativa [4] delle proprie idee geniali. La realtà non è mai bianca o nera, ma purtroppo sempre inesorabilmente grigia: ad esempio, se la pubblica amministrazione funziona male non è perché tutti i dipendenti pubblici lavorano male o poco in egual misura, ma, moto più verosimilmente, perché ci sono un numero limitato di missionari, che lavorano bene e tanto e portano in spalla il peso dei colleghi meno volenterosi e/o capaci. Allora qualsiasi intervento incondizionato, penalizzerà i pochi “buoni” beneficiando relativamente i “cattivi”. Qualsiasi intervento invece volto a discriminare comporta meticolose verifiche di dettaglio, che necessitano di competenze specifiche, ma soprattutto costi politici enormi dal punto di vista degli incentivi: non solo occorre qualcuno che si faccia carico di trovare delle misure obbiettive per capire cosa può e deve essere migliorato, occorrono le competenze giuste perché questa operazione sia fatta in modo opportuno e soprattutto gli incentivi adeguata per renderla praticata altrimenti si infrangeranno sempre contro la cortina invisibile del: “chi me lo fa fare?”

La conclusione sarebbe dunque che non si può far nulla per cogliere i miglioramenti del sistema che agli occhi di tutti sembrano possibili? No la conclusione è che non c’è un modo semplice per farlo, e che mettere in pratica [5] i risultati dell’algebra da carta di formaggio comporta costi di esecuzione rilevanti.

 La seconda misura salva paese non può che discendere dalla prima: se abbiamo inteso che non esistono risposte semplici per ai problemi del paese, occorre prendere atto che le soluzioni non saranno a buon mercato. L’ostacolo principale a qualsiasi serio programma di riforme degno di questo nome risiede nella mancata presa di coscienza che “qualcuno dovrà pagare il conto”. Non si può rendere efficiente lo stato senza imporre a chi oggi non lavora o lavora male di fare per bene quello per cui è pagato [6]. La conseguenza diretta è che che qualcuno venga rimosso da posizioni per le quali non è adeguato o che venga pagato di meno per l’attività che svolte o che gli venga richiesto di fare di più per lo stesso compenso. Saranno ovvietà ma quando di stratta di dire che tutto va male e che bisogna fare qualcosa sono tutti concordi. Quando c’è da trovare dove intervenire il bersaglio è sempre qualcun altro. Non si cambia l’Italia senza toccare nessuna rendita di posizione, senza intaccare un diritto acquisito senza insomma prendere atto che qualcuno deve pagare il costo del cambiamento, altrimenti nessun cambiamento sarà mai possibile.

La terza e ultima misura è la più difficile: se non ci sono ricette semplici e se qualcuno il conto deve pagarlo, forse potremmo smetterla di affidarci a coloro i quali dicono il contrario. Le narrazioni in base alle quali la causa di tutti i mali è unica e (guarda caso) attribuibile a un gruppo di interesse diverso da quello a cui apparteniamo (vedi la demonizzazione degli evasori o degli statali fannulloni) sono la più efficace arma di distrazione di massa nei confronti delle riforme di cui il nostro paese ha realmente bisogno

 

@massimofamularo

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Apologia di Socrate

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[1]http://www.istat.it/it/archivio/130059

[2] http://www.leoniblog.it/2014/04/03/quel-proiettile-dargento-che-non-ce/

[3] http://www.linkiesta.it/blogs/apologia-di-socrate/come-ho-sconfitto-la-fame-nel-mondo

[4] http://www.lastampa.it/2014/03/23/cultura/opinioni/editoriali/spesa-pubblica-perch-i-tagli-sono-difficili-q8l2AOHRCDTexdus3DzBlK/pagina.html

[5] http://www.linkiesta.it/blogs/apologia-di-socrate/due-o-tre-dettagli-sulla-staffetta-generazionale

[6] http://noisefromamerika.org/articolo/tutti-meritocrati-col-culo-altri

 

7
Ago
2014

Dove vola Etihad? Il lungo raggio (verde) di Alitalia

Su Alitalia vi sarebbe molto da (ri)dire. Sia sul passato remoto della vecchia azienda a totale controllo pubblico, sia sul passato prossimo della nuova Alitalia (ma ormai anch’essa vecchia) dei capitani coraggiosi, gli imprenditori di Stato che subentrarono allo Stato imprenditore. Tuttavia, essendo tutto quel che c’era da dire già stato detto a suo tempo non vi è la necessità di ripeterlo. Che il piano Fenice non avrebbe retto alla prova del mercato lo avevo scritto, ancora prima che ne fossero noti i dettagli e che venisse assemblata la cordata degli azionisti ‘privati’, in un pezzo per il Sussidiario.net del 5 agosto 2008 e ribadito in numerosi interventi successivi. Da allora la nuova-vecchia Alitalia ha perso più di 1,5 miliardi (al 31 dicembre 2013, non sappiamo ancora della parte trascorsa del 2014).

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7
Ago
2014

La malattia degenerativa dello statalismo: il caso dei sussidi ferroviari

Uno dei grandi problemi dell’espansione dello Stato è che crea problemi rispetto ai quali la soluzione sembra sempre e solo essere più Stato. Su LeoniBlog.it, Ivan Beltramba ha scritto un rovente articolo contro le disposizioni contenute nel decreto competitività, che avviano un processo di riduzione degli sconti sui prezzi elettrici per gli operatori ferroviari.

Si tratta di una misura che va parzialmente incontro a quanto l’Istituto Bruno Leoni chiede da tempo: per le ragioni illustrate da Beltramba, dal 1963 le Ferrovie dello Stato (e poi, con la sommaria liberalizzazione, anche gli operatori privati del settore) godono di una riduzione sui prezzi dell’elettricità, finanziata da tutti i consumatori (non dai produttori, come viene erroneamente sostenuto nel pezzo) attraverso una specifica componente tariffaria (A2) il cui gettito è stimabile attorno ai 400 milioni di euro / anno. Questa forma di sussidio incrociato è doppiamente inefficiente: in primo luogo perché è iniqua dal punto di vista distributivo (se proprio si ritiene che il trasporto ferroviario debba godere di un trasferimento di quelle dimensioni, non c’è ragione di imputarlo al consumatore elettrico, che già paga prezzi tra i più alti d’Europa, e non alla fiscalità generale). Inoltre gli effetti di questo balzello sono probabilmente regressivi. Secondariamente si tratta di una mancanza di trasparenza, perché di fatto questo sconto non viene conteggiato tra i trasferimenti ai trasporti ferroviari e quindi determina una sistematica sottostima del volume di risorse che ogni anno gli italiani versano nelle casse dei ferrovieri.

Il DL91 non abolisce la componente A2, ma ne limita l’ambito di applicazione al solo servizio universale: come dire, nella misura in cui gli operatori ferroviari svolgono un servizio pubblico (in particolare il trasporto pendolari) è in qualche modo accettabile che essi gravino sul consumatore elettrico. Ma quando offrono servizi a mercato, questa agevolazione non ha ragione di esistere. In fase di conversione del decreto, la Camera ha ridotto la portata del provvedimento, mantenendo gli sconti per il trasporto merci.

Si tratta dunque di un piccolo passo nella giusta direzione, che è quella di limitare i trasferimenti di denaro da una tasca a quell’altra. Naturalmente restano molti altri problemi da risolvere, sia in ambito ferroviario (la separazione della rete, l’enforcement della disciplina della concorrenza, ecc.) sia in altri campi (i vari sussidi all’autotrasporto che lo stesso Beltramba ricorda). Ma è davvero ironico difendere un sussidio in virtù dell’esistenza di un altro sussidio: questa logica è uno scudo impenetrabile a difesa dello status quo. Se si vuole davvero iniziare a ridurre la dimensione dello Stato e il suo ruolo nell’allocare le risorse dei privati, da qualche parte bisogna pur cominciare. Questa volta il governo ha iniziato da qui.

 

6
Ago
2014

Case dell’Acqua, una replica al nostro Focus (con risposta).

Riceviamo e volentieri pubblichiamo i commenti di Giorgio Moro, presidente Associazione Aqua Italia – ANIMA (Confindustria), al nostro focus Limpido come l’acqua? Il lato oscuro delle “case dell’acqua”. A margine la nostra risposta.

 

Egr. Luciano Capone,

ho avuto occasione di leggere il suo articolo “Limpida come l’acqua?” apparso su IBL n.242 del 18 luglio 2014 e desidero segnalarle alcuni passaggi nei quali ho riscontrato importanti inesattezze che, mi auguro, vorrà accogliere nello spirito della rivista stessa ovvero di fornire una comunicazione chiara e trasparente al fine di favorire la libertà di scelta dei vostri lettori.

Per quanto concerne il finanziamento pubblico delle installazioni desidero portare alla Sua attenzione alcuni dati ulteriori. L’ultima mappa di consistenza che abbiamo consegnato anche al Ministero della Salute per realizzare il Manuale di Corretta Prassi Igienica, evidenzia come oltre il 50% dei Chioschi dell’Acqua siano iniziativa dei comuni e la stragrande maggioranza di esse siano frutto di iniziative imprenditoriali locali che mettono a disposizione del comune e dei cittadini le installazioni e ne gestiscono la regolare manutenzione rientrando dell’investimento grazie alla vendita dell’acqua.

Per quanto concerne il riferimento all’industria dell’acqua in bottiglia, la invitiamo a leggere il recentissimo dossier “Regioni imbottigliate” di Legambiente e Altreconomia dove emerge come queste aziende paghino 1 euro di concessioni ogni 1000 litri, ovvero 1 millesimo di euro per litro imbottigliato.

I Chioschi dell’Acqua sono, a tutti gli effetti, imprese alimentari e quindi sottoposti ad un regime legislativo e di controlli che non ha nulla a che vedere con qualsiasi impresa alimentare comprese le aziende di imbottigliamento; da ciò anche l’incidenza sui costi di erogazione del prodotto qualora venga venduto. Tutte le fontane riportano chiaramente la definizione di ciò che si sta erogando ovvero acqua di acquedotto affinata attraverso processi di filtrazione, refrigerazione, gassatura che consentono all’utente di apprezzarne il gusto ed aumentarne il consumo. Peraltro è noto come i limiti e i controlli ai quali sono sottoposte le acque minerali sono decisamente più permissivi rispetto ai controlli cui viene sottoposta l’acqua di acquedotto.

Infine, ricordo che i Chioschi dell’acqua sono un vero servizio al cittadino volto a ridurre e limitare le emissioni di gas serra (2002/358/CE) e orientato a modificare gli attuali modelli di consumo in ambito di prevenzione dei rifiuti (2008/98/CE) oltre ad essere una attività finalizzata all’attuazione del principio dello sviluppo sostenibile (D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (TUA)).

Spero di ricevere da Lei o dalla Redazione un riscontro per un confronto costruttivo sul tema e con l’occasione rinnovo la nostra disponibilità e auspico in una collaborazione per futuri articoli sul tema.

 

Gentile presidente Moro, intanto la ringrazio per l’attenzione rivolta al nostro focus. Rispondo brevemente ai punti da lei sollevati: per quanto concerne il finanziamento delle “case dell’acqua” il fatto che “oltre il 50% siano iniziativa dei comuni” non mi pare smentisca che vengano finanziate con soldi pubblici e anche l’osservazione che “la stragrande maggioranza di esse siano frutto di iniziative imprenditoriali locali” mi pare non dica tutto, visto che le imprese di cui si parla sono quasi esclusivamente multiutility e società partecipate i cui bilanci pesano sempre sui conti pubblici. Riguardo alle concessioni pagate dalle aziende di acque minerali è senz’altro un tema interessante, ma che non era l’oggetto del focus. Quanto all’osservazione che “i Chioschi dell’Acqua sono imprese alimentari e quindi sottoposti ad un regime legislativo e di controlli che non ha nulla a che vedere con qualsiasi impresa alimentare”, oltre a segnalare una condizione anomala (se non bizzarra), mi sembra che non faccia altro che ribadire la tesi del focus secondo cui i chioschi non rientrano nel servizio pubblico, ma sono un’attività imprenditoriale che quindi dovrebbe essere lasciata fare ai  privati che vogliono investire e ai consumatori che vogliono pagare. Mi sento quindi di dover respingere l’accusa di aver scritto “inesattezze”, mentre accetto con piacere la differenza di idee e di opinioni, che è il sale di un dibattito e di un confronto costruttivo.

LC

6
Ago
2014

Ma guarda, il PIL scende mentre spesa e incassi pubblici salgono: ora basta scuse, rinvii e propaganda

L’Istat ha purtroppo confermato le attese. Nel secondo trimestre del 2014 il PIL italiano è diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% nei confronti del secondo trimestre 2013. Dopo il deludente -0,1% del primo trimestre su quello precedente (e -0,5% sullo stesso periodo 2013), abbiamo oggi la conferma che non è alla nostra portata il più 0,8% annuo di PIL previsto nel DEF ad aprile dal governo Renzi appena insediato. C’è poco da gioire, anche per chi come noi l’aveva detto per tempo. Si può solo esser tristi due volte, perché inascoltati.

Ed è su questo sfondo, che ieri il premier non ha troppo gradito le osservazioni venute da Confcommercio, sull’effetto praticamente nullo su consumi e crescita sin qui manifestato dal bonus di 80 euro lordi mensili disposto dal governo ai lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro lordi di reddito. “Andatelo a chiedere agli 11 milioni di beneficiari, se l’effetto è nullo”, ha seccamente replicato Renzi. Bisogna riconoscere che tra Confcommercio e Renzi non hanno ragione l’una e torto l’altro. Hanno ragione entrambi. E non per cerchiobottismo, ma semplicemente perché parlano di due cose diverse. Confcommercio parla degli effetti che il bonus non ha avuto sulla crescita. Mentre Renzi si riferisce all’effetto che il bonus ha esercitato sul reddito disponibile di chi l’ha percepito. A entrambi i numeri danno ragione, visto che si parla di cose diverse. Quanto agli effetti del bonus sulla crescita, l’ISTAT parla chiaro: il contribuito alla crescita della domanda interna è nullo, nel secondo trimestre 2014. L’Indicatore dei Consumi Confcommercio di giugno rileva una crescita limitatissima su maggio, appena dello 0,1%. Aumenta dello 0,3% la domanda di beni, ma per i servizi la spesa cala dello 0,2%. Venendo invece ai redditi delle famiglie che stanno a cuore a Renzi, in termini reali procapite in 7 anni la caduta rispetto al precrisi è tra il 13 e il 14%, siamo tornati indietro a livelli da anni Ottanta. E’ effetto di oltre 3 milioni di disoccupati, dell’elevata disoccupazione giovanile, dei mancati pagamenti e della bassa liquidità di cui soffrono autonomi e piccole imprese.

E’ ovvio dunque che, in condizioni di progressiva asfissia quanto a livelli di reddito, Renzi abbia ragione a sottolineare che aver disposto bombole ad ossigeno per alcuni milioni di italiani è stato utile, e in effetti in proporzioni senza precedenti (la copertura del decreto Irpef è stata effettuata per 3 miliardi con tagli di spesa e per 4,5 miliardi con nuove entrate, il bonus vale 12 miliardi su base annua che vanno trovati per confermarlo nel 2015). E’ anche vero, però, che il governo ha scelto di concentrare il più degli sgravi 2014 sul versante Irpef-famiglie meno abbienti considerando un criterio di equità e redistribuzione, non quello dei maggiori effetti a brevi ottenibili in termini di crescita. Una considerevole evidenza di dati e letteratura scientifica accumulati mostra che, se il governo avesse anteposto la crescita, avrebbe ottenuto maggiori effetti quanto più avesse concentrato gli sgravi sulle imprese, abbassando l’IRAP molto più della limatina concessa nel 2014. Per una stessa quantità di sgravi, l’elasticità nell’unità di tempo al rilancio dell’offerta da parte delle imprese è maggiore di quanto sia quella delle famiglie al rilancio della domanda, cioè dei consumi.

Perché? Presto detto. Con livelli di reddito tanto depauperati, le famiglie traducono una minima percentuale del bonus in consumi, perché tornano ad elevare – come è ripreso ad avvenire dal 2013 – la propensione al risparmio. Per tre ragioni. La prima è che ricostituiscono cuscinetti di liquidità per integrare redditi in calo. La seconda – definita in gergo tecnico “equivalenza ricardiana”- è che avendo sperimentato in questi anni forti progressivi aumenti della pretesa fiscale dello Stato, a maggior ragione preservano risorse per fronteggiarla. La terza è che nel frattempo è caduto anche il valore medio del proprio portafoglio patrimoniale, a cominciare soprattutto da ciò che in Italia ne costituisce l’85%, e cioè il mattone di proprietà delle famiglie. Era assolutamente prevedibile, dunque, che il bonus 80 euro si traducesse in pochi consumi aggiuntivi. E molti infatti – anche noi – lo scrivemmo. Ma il governo, sotto elezioni europee, ha preferito la via “sociale” a quella “economica”.

Il problema del nostro paese non è affatto quello di considerare “sociale” ed “economico” in alternativa. Questo lo affermano i fautori del deficit e del debito pubblico a briglia sciolta, incaponendosi in una demagogica quanto popolare campagna contro il presunto “rigore”. Che in italia è solo a carico del contribuente, visto che fatto pari a 100 la pressione fiscale del 2000, qui da noi a oggi è aumentata del 5%, mentre in Germania è scesa del 7% rispetto ad allora: il che spiega perché da noi il Pil reale procapite sia sceso del 6% rispetto al 2000 (e dell’11% rispetto al 2008), mentre quello tedesco è salito del 15% rispetto al 2000. Ma mentre da noi c’è rigore fiscale per famiglie e imprese, il rigore nella spesa pubblica non c’è: continua a crescere, meno di prima in questi tre anni ma continua a salire. ll rigore per lo Stato non c’è: e ancora nel DEF presentato da Renzi ad aprile, dagli 809 miliardi di pesa pubblica 2014 si continua a salire sino a quota 852 nel 2018. Se guardiamo all’ultimo dato reale del 2014, l’aumento della spesa è anzi ben maggiore di quanto si proponesse il DEF: stiamo arrivando a 825 miliardi di spesa pubblica in questo solo 2014, con un più 7,8% sul 2013 e una spesa corrente che da sola aumenta del 3,4% a 535 miliardi..

Se dobbiamo dunque pensare a riprendere con più forza il sentiero della crescita, i problema non è tanto quello di strappare nuovi margini dall’Europa per sforare i tetti di deficit, ma deciderci sul serio a interventi energici per meno imposte su imprese e lavoro, il che significa prendere sul serio la spending review invece di continuare a parlarne e polemizzarne. Se c’è un errore da cui i governo deve guardarsi, è quello di cadere nella trappola “stazionaria” che incombe nelle teste di molti componenti l’attuale maggioranza. Pensando che reddito e occupazione siano una torta data e ferma, ragionano in termini di mera redistribuzione: di qui idee come la staffetta generazionale con prepensionamenti nel settore pubblico, basati sull’idea “levati-tu-che-mi-ci-metto-io”. I sei milioni di occupati che ci mancano per raggiungere il tasso di occupazione tedesco non li costruiamo con onerosi prepensionamenti pubblici e staffette generazionali. E’ un errore, per recuperare reddito e produttività abbiamo bisogno di aver più occupati sia giovani sia anziani, e per fare questo bisogna tagliare molta spesa per realizzare non in deficit tagli alle imposte su impresa e lavoro, e bisogna cambiare l’idea stessa del lavoro e del welfare, rispetto alla mentalità novecentesca che continua a vivere nella nostra preferenza per le politiche passive del lavoro e per la sciocca difesa del lavoro com’è-e-dov’è. Non si tratta di farlo “al posto” del bonus 80 euro. Si tratta di farlo “insieme”, unendo crescita ed equità. E’ questa, per il governo Renzi, la difficile strada obbligata della prossima legge di stabilità.

Ricordando tre cose. Le polemiche contro i gufi – cioè contro chi ha avvisato per tempo degli effetti negativi di spesa e tasse che continuano a salire mentre il PIL arretra – sono senza senso. La cosiddetta “rivincita della politica sui tecnici” rischia di sfociare in un autogol clamoroso: in assenza di manovre correttive, il governo nella prossima legge di stabilità per correggere i saldi e tagliare di almeno 15 miliardi la spesa pubblica – e non bastano! – dovrà più che mai affidarsi all’apparato tecnico del Tesoro e della Ragioneria Generale, che fin d’ora pensa alla tanto rinviata manovra sulle tax expenditures il cui effetto è quello di accrescere gli incassi fiscali. Terzo: il quadro internazionale – crisi russo-ucraina, Medio Oriente, rallentamento BRICS, uscita progressiva dal QE della FED, tutto ciò significa che a domanda interna stagnante si somma meno domanda internazionale del previsto – non rappresenta per nulla un aiuto alla pretesa italiana di avere più comprensione nell’affrontare i propri ritardi. Se quello di oggi è il dato peggiore da 14 anni, come dice l’ISTAT, è perché i mali italiani vengono da un tempo lunghissimo. Scuse, rinvii e propaganda sono da troppo tempo il copione della finanza pubblica nazionale.

6
Ago
2014

Troppe esenzioni di accise per aerei, tir e autobus? Tagliamo la corrente ai treni! – di Ivan Beltramba

I treni passeggeri e merci in Italia viaggiano di solito con la corrente elettrica. In Europa proprio le Ferrovie Italiane furono un pioniere nella utilizzazione del “carbone bianco” per i treni, avendo noi pochissimo “carbone nero”. Dopo i deludenti esperimenti con gli accumulatori di fine Ottocento (non c’erano ancora le FS, si cimentarono la Rete Adriatica e la Rete Mediterranea), si svilupparono due sistemi, le elettrificazioni alternata trifase a 3600V 162/3 Hz (con linea aerea bifilare) ispirata ad esperimenti Svizzeri, Ungheresi e degli USA e la “terza rotaia” a 650 V continua derivata dalla elettrificazione del “Network Southeast” inglese. Di estensione relativamente limitata, soprattutto la terza rotaia (rete “Varesine” a Nord-Ovest di Milano e Passante di Napoli), dopo la Prima Guerra Mondiale si dimostrarono molto carenti, soprattutto per la velocità massima sviluppabile (100 km/h), per le basse prestazioni delle locomotive e per la necessità di moltissime sottostazioni.
Si cercò quindi un nuovo sistema che unisse i vantaggi della elettrificazione a quelli della semplicità degli impianti. Dopo alcuni viaggi di Ingegneri della Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato (nata nel 1905 per l’insuccesso della gestione privata) negli Stati Uniti in Idaho e Montana si optò per la corrente continua a 3000 Volt, utilizzata all’epoca da Butte Anaconda and Pacific Railroad ed in grande stile da Chicago, Milwaukee, St Paul and Pacific Railroad (“The Milwaukee Road”). Nel 1928 va in esercizio regolare la Foggia-Benevento, sotto tensione dal 1925, e da lì la 3000 si estende a tuttala Penisola, nel 1955 si passa lo Stretto e poi lentamente vengono convertite da trifase a continua le linee non modificate con la ricostruzione postbellica. La terza rotaia era già eliminata nel 1951, mentre l’ultima trifase (la Alessandria-Acqui Terme) passa a continua nel maggio 1976.

Per poter “dare la scossa” con soddisfacente affidabilità e con potenze adeguate, le FS costruirono negli anni una serie di Centrali Idroelettriche in varie zone del Paese, anche perché la trifase ferroviaria aveva frequenza (162/3 Hz) differente dalla industriale (50 Hz) e necessitava di generatori propri e di linee primarie (elettrodotti ad alta tensione) dedicate.

Quando nei primi Anni Sessanta parte la nazionalizzazione della rete e delle centrali elettriche (legge 1643/1962) il successivo DPR 730/1963 costringe le FS a cedere le proprie centrali (per fortuna solo alcune linee primarie…) a ENEL. Alcune rimasero a FS fino alla conversione delle linee trifase a continua, con abbandono degli alternatori dedicati, ma l’economicità della produzione in-house andò persa. In compenso vi fu un trattamento tariffario vantaggioso, che permise di espandere l’elettrificazione a (oggi) circa il 71% delle linee in esercizio e oltre il 95% del traffico.
Però il Governo pensa che questa tariffa sia un costo eccessivo per i produttori di energia elettrica, quindi sensibile riduzione degli sconti con la Delibera AEEG n. 641 del 27/12/2013 che ad una prima proiezione indicativa fatta da RFI nello scorso gennaio annuncia un sovracosto per l’elettricità di circa 25 milioni/anno, cioè equivale a circa 1,1 Centesimi€/kmper tutti i treni. Non contenti di questo piccolo sgambetto, arriva il colpo decisivo grazie all’art. 29 del D.L. 91/2014, che riduce dal 1.1.2015 le agevolazioni annuali per RFI in campo “bolletta elettrica” di 120 milioni€/anno, “da non applicare ai servizi universali”. Che significa? Il trasporto regionale e locale è compreso? O si riducono per altra via i trasferimenti alle Regioni già tagliati “linearmente” più volte senza tenere conto della programmazione più o meno attenta dei relativi servizi e risorse? Paradossalmente guardando qui non ci sono procedure di infrazione UE al riguardo, mentre solo in campo trasporti ce ne sono ben 16 aperte, parecchie in campo ferroviario.
Per quanto riguarda gli sconti e le esenzioni di accise sui combustibili fossili guardando qui: con un rapido conto arriviamo a circa 5,7 miliardi; DI CUI: trasporto aereo commerciale 1,6, poco più di quello a TIR e autolinee, e 640 milioni a trasporto marittimo e pesca (ma non i trasporti lacuali…). Probabilmente una parte di questi “aiutini” sono anche in violazione della Dir. 2003/96/CE.

Come se i treni la elettricità la sprecassero in resistenze per scaldare l’acqua e il progresso tecnologico (chopper, inverter GTO prima e IGBT poi, motori asincroni, frenatura a recupero) non ne avesse ridotto sensibilmente i consumi specifici, ma forse questi sono dettagli troppo tecnici e sottili per un governo del fare. Bontà loro, nel D.L. è previsto che le “Autorità Indipendenti” possano esprimere un parere, obbligatorio ma inutile; evidentemente i ben pagati superesperti non devono disturbare il manovratore. Solo burocrazia aggiuntiva che non aiuta a risolvere i problemi. Probabilmente a RFI converrà chiedere la restituzione delle centrali elettriche confiscate e poi buttarsi nel business elettrico, oppure comprare la corrente all’estero, visto che qui continua a costare molto di più che nella media europea, evidentemente per colpa dei treni.

Gli operatori merci indipendenti hanno già fatto sapere che cesseranno l’attività perché i loro già esigui margini verrebbero completamente erosi, ma hanno promesso battaglia. Dalle proiezioni fatte il costo medio a km per i treni merci passa da 3 a 4,20 €/km, un aumento di oltre il 33%. Su base generale il costo per la circolazione dei treni merci aumenta del 10%. NTV ha pronosticato un aumento di 20 milioni di Euro all’anno per i propri pedaggi. Forse non è altro che un modo “elegante” di eliminare gli scomodi concorrenti dell’incumbent sia per AV che merci. In questi giorni in Senato vi è stata una serie di emendamenti presentati da gruppi di tutte le aree ma il Governo ha concesso solo una modesta graduazione del taglio in tre anni. Al MISE evidentemente pensano che RFI possa rivolgersi per i suoi modesti consumi elettrici (CIRCA 5000 GWh/anno con comprensibile garanzia di assoluta affidabilità della fornitura) a qualsiasi produttore para-artigianale. Il sospetto che alla fine a trarre vantaggio da questa norma saranno i camionisti sembra una anticamera della verità. Camionisti che non godono di alcun aiuto di stato e che per questo non hanno causato in passato nessuna procedura di infrazione UE, vero?

Nelle more della approvazione nei due rami del parlamento la riduzione dello sconto era stata prima graduata su 3 anni, adesso con un ultimo emendamento sono stati esclusi anche i trasporti merci. Quindi NTV chiuderà (a questo punto anziché 20 milioni in più prevedo 40 milioni in più per ITALO). E un altro migliaio di 1000 dipendenti (oltre ai circa 800 che già ne usufruiscono) andranno in CIG o ai contratti di solidarietà. Cioè a carico dei contribuenti. Ed a vantaggio dell’Incumbent. Sarebbe stato più corretto, a questo punto, dire a RFI che il mancato sconto NON va ribaltato sulle imprese ferroviarie tout-court, o al massimo che il pedaggio potrà aumentare, per la parte elettrica, solo del 1% annuo oltre al normale aumento che il MIT tutti gli anni applica. Già, ma RFI è dello Stato, anche se ha un bilancio più che florido. Però se RFI ribalta automaticamente i costi energetici sulle IF, non avrà mai alcun interesse a cercare un di spuntare un prezzo più basso, anche perché non ha altri Gestori di Infrastruttura che possano fare concorrenza con pedaggi “più buoni”.
Ad un certo punto si è sfiorato l’incredibile con un emendamento del MEF: “il Ministero dello sviluppo economico ha promosso e fatto passare in Commissione Industria del Senato un emendamento che salva dall’enorme incremento del prezzo dell’energia elettrica il “traffico transfrontaliero”, ovvero i treni merci che hanno origine o destino all’estero” (da sito FERCARGO). Apprendisti stregoni che hanno messo le dita nella presa di corrente rimanendo attaccati, verrebbe da pensare.

E se proprio di competitività deve trattarsi, perché non permettere alle Imprese Ferroviarie di “comprarsi” la corrente da chi credono, come in Germania dove un operatore privato (Benex) sta cercando un fornitore di corrente (da 55 a 90 GWh/anno); corrente che va poi consegnata a DB-Energie per la conversione a 15kV e 16,7Hz.
Come a volte capita però la soluzione è semplicissima: non usare più gli inutili pantografi, i fili di rame e la corrente elettrica! Passiamo al gasolio (e magari al carbone!) così finalmente anche i treni puzzeranno e faranno rumore come e più di TIR e autobus, anche se un treno diesel che passa su linea elettrificata devo pagare ugualmente l’usura dei fili come se avesse un pantografo in presa. Ecco la bellissima “livella” dei trasporti: un bel pieno di gasolio per la gioia dei petrolieri, approfittando delle accise ridotte.

5
Ago
2014

A cosa serve (davvero) il Parlamento?

Si è molto dibattuto in questo periodo in Italia sul progetto di riforma del Senato tuttavia mi pare non sia stato sollevato quello che a mio avviso è il quesito più importante: a cosa serve davvero il Parlamento? A una lettura superficiale sembra trattarsi di una domanda superflua. Tutti sappiamo a cosa serve. Nel Parlamento i rappresentanti, liberamente eletti dai cittadini e senza vincolo di mandato, approvano le leggi che regolano i comportamenti dei cittadini, perimetrandone le libertà. Tuttavia vi sono due aree di intervento radicalmente differenti per amministrare le libertà dei cittadini: i) regolare attraverso le norme ciò che essi possono o non possono fare; ii) spostarne le risorse economiche (attraverso provvedimenti di tassazione e spesa pubblica e, purtroppo, anche attraverso provvedimenti che limitano senza ragione attività economiche).

Questi due differenti modi, di cui non si sono evidenziate a sufficienza le peculiarità, identificano in realtà due differenti funzioni complessivamente svolte dagli organi costituzionali e generano, di fatto, differenti priorità di ruoli:

  1. Se si amministrano le libertà (negative) dei cittadini è necessario che sia centrale il Parlamento e secondario il Governo;
  2. Se si amministrano le risorse è invece opportuno che sia centrale il Governo e secondario il Parlamento.

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