26
Ago
2014

Non solo calcio: il goal della trasparenza.

La recente vicenda riguardante la nomina del nuovo allenatore della Nazionale di calcio italiana può essere esaminata sotto molteplici punti di vista, quello tecnico innanzitutto. Del resto, la presenza nel Bel Paese di 60 milioni di CT – come si usa dire al fine di evidenziare la propensione degli italiani all’esercizio di tale ruolo – renderebbe di sicuro detto esame appassionante. Invece, poiché le valutazioni calcistiche devono essere effettuate da chi ne abbia competenza, è forse più opportuno in questa sede analizzare taluni profili inerenti al conferimento dell’incarico suddetto, al fine di verificare se le relative modalità procedurali siano state tali da consentire al nuovo allenatore di espletare, con piena autonomia e responsabilità personale, il compito cui è chiamato.  Read More

22
Ago
2014

Declamazioni, dirigismo e soluzioni concrete—di Rocco Todero

Certificazione dei crediti e garanzia dello Stato per i debiti delle PPAA

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.
Con due provvedimenti di recente emanazione – il decreto legge n. 66/2014 convertito in legge n.89/2014 ed il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 27 giugno 2014 – Governo e Parlamento hanno introdotto la garanzia dello Stato per il pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati da imprese e professionisti nei confronti delle pubbliche amministrazioni diverse dallo Stato.

Si tratta di una serie di regole in virtù delle quali il creditore privato ottiene dalla amministrazione debitrice, per il tramite della piattaforma informatica del ministero dell’economia e delle finanze, la certificazione dei propri crediti maturati al 31.12.2013 ed iscritti nel bilancio della P.A. come debiti di parte corrente. Grazie a tale certificazione, che in sostanza altro non è che un riconoscimento di debito da parte dell’amministrazione, lo Stato garantisce di provvedere al pagamento del credito per l’ipotesi in cui l’amministrazione debitrice dovesse risultare inadempiente nei confronti della banca o dell’istituto di intermediazione finanziaria al quale l’originario creditore privato abbia ceduto la propria pretesa patrimoniale.

Il creditore privato, dunque, verrà immediatamente soddisfatto dalla banca che accetterà la cessione del credito vantato nei confronti della P.A. e lo Stato interverrà solo nell’ipotesi in cui, giunto a scadenza il termine per il pagamento del credito da parte della amministrazione debitrice nei confronti della banca che lo ha acquistato, il debito medesimo non verrà estinto col pagamento.

Per le operazioni di cessione il legislatore ha previsto che non potrà essere richiesto uno sconto superiore all’1,9% annuo sui crediti ceduti sino a 50.000 euro ed all’1,6% sui crediti superiori a tale cifra.

Lo Stato, infine, si rifarà del pagamento del credito nei confronti di Comuni, Provincie e Regioni inadempienti decurtando le somme che periodicamente dovrà trasferirgli e che non siano preordinate al finanziamento dei livelli essenziali d’assistenza e qualora non sia possibile provvedere al recupero integrale delle somme dovute dagli enti interessati si procederà alla riduzione delle somme a qualsiasi titolo dovute e quindi anche di quelle destinate ai livelli essenziali d‘assistenza.(artt. 8 e 9 D.M. 27 giugno 2014).

L’introduzione della garanzia dello Stato – la vera novità di questi interventi normativi, atteso che la certificazione dei crediti è già in vigore da alcuni anni – ha il fine di “ assicurare il completo ed immediato pagamento di tutti i debiti di parte corrente certi, liquidi ed esigibili,” ed il legislatore ha ritenuto di potere raggiungere questo obiettivo cercando di stimolare e di rendere appetibili per le banche le operazioni di cessione del credito.

Il meccanismo introdotto dai recenti interventi normativi appare, ad una prima lettura, di indubbio interesse soprattutto perché spinge nella direzione dell’adempimento obbligatorio dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei privati fornitori di beni e servizi e lo fa condendo il tutto con l’enfasi di affermazioni categoriche come quelle che prescrivono che “La garanzia del fondo è a prima richiesta, diretta, esplicita, incondizionata ed irrevocabile..”; ma stimola, allo stesso tempo, alcuni rilievi critici per superare i quali sarà necessario attendere la “messa a regime” dell’intera operazione.

Occorre, innanzitutto, osservare che la garanzia dello Stato è oggi limitata ad un fondo capiente nella misura di euro 150 milioni mentre i debiti certificati risultano già adesso essere nell’ordine di decine di volte di più. Altri 1.000 milioni di euro dovranno essere recuperati all’interno del bilancio del Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso opportune variazioni di spese sulle quali non vi è stata tuttavia alcuna indicazione.

La possibilità di ottenere la certificazione dei crediti al fine di potere usufruire della garanzia dello Stato è poi limitata ai crediti certificati alla data di entrata in vigore del decreto legge (24 aprile 2014) o a quelli la cui istanza di certificazione sarà presentata entro un determinato termine ( il 23 agosto 2014, poi prorogato al 31 ottobre 2014).

A ciò si aggiunga che il meccanismo della garanzia dello Stato rischia di alterare il principio di parità di trattamento dei creditori, poiché coloro che riusciranno a cedere tempestivamente i loro crediti alle banche saranno soddisfatti, grazie all’intervento dello Stato, a scapito di quanti potranno vantare un credito più vecchio ma ancora non ceduto, magari perché non hanno trovato l’istituto di credito disponibile alla cessione. Chi prima arriverà meglio alloggerà, dunque.

L’impatto concreto dei provvedimenti varati, inoltre, dipenderà dall’adesione del sistema bancario al volere del Governo e del Legislatore e, in particolare, dall’accettazione del tasso di sconto che dovrebbe rendere conveniente per gli istituti di credito la cessione del credito, tasso che, è opportuno sottolinearlo, non è il risultato della volontà del “mercato” quanto piuttosto di un’imposizione dello Stato.

Tutto dipenderà, poi, dalla fiducia che le banche riporranno nella garanzia che lo Stato offre per il pagamento dei crediti che hanno acquisito, e non è detto che questa garanzia ispiri la fiducia che occorre, tenuto conto anche del fatto che il decreto ministeriale citato impone un accantonamento a coefficiente di rischio in un apposito fondo del solo 8%. del valore del credito certificato e ceduto, mentre la garanzia dello Stato è concessa per l’intero ammontare della pretesa patrimoniale.

La maggior parte dei Comuni, delle Province e delle Regioni, infine, versano in condizioni di grave crisi di liquidità e presumibilmente si avvarranno della facoltà, prevista nel decreto legge, di proporre alle banche di rateizzare e riscadenzare i debiti ceduti. Le banche valuteranno tali proposte in base alle loro convenienze come è giusto che sia.

Quindi, siamo in presenza: 1) di una riserva limitata per la garanzia di pagamento dei crediti, 2) di una discrasia fra la somma garantita e quella effettivamente disponibile ed accantonata per ogni cessione del credito, 3) dell’impossibilità di garantire il pagamento dei crediti secondo la loro anzianità, 4) dell’impossibilità di garantire l’efficacia dell’intera operazione senza l’adesione massiva delle banche, 5) di un’impostazione sostanzialmente dirigista.

Proviamo ad articolare una modesta proposta che possa evitare, o quanto meno ridurre, gli inconvenienti illustrati.

Invece di chiamare in causa le banche, cui riconoscere un tasso di sconto annuale dalla cessione del credito, lo Stato potrebbe più semplicemente imporre – con una misura di lungo periodo – la riduzione graduale del debito a tutte le pubbliche amministrazioni non statali, costringendole a pagare annualmente un stock di debito certificato e predefinito, sotto la minaccia, per il caso di inadempimento, di destinare l’equivalente dei trasferimenti statali di competenza della P.A. per l’anno di riferimento direttamente al pagamento dei crediti dei privati. Le norme sul coordinamento della finanza pubblica lo consentirebbero di certo.

Così facendo, lo Stato potrebbe innanzitutto imporre il pagamento dei debiti seguendo l’ordine della loro anzianità, oppure potrebbe assicurare periodicamente un pagamento frazionato a tutti i creditori; quindi potrebbe tentare di risolvere in gran parte il problema dei pagamenti perché non avrebbe bisogno della disponibilità di alcuna somma posta a garanzia delle corresponsioni, ma dovrebbe più semplicemente prevedere per un certo numero di anni – o finché i debiti non saranno definitivamente estinti – la possibilità di destinare i trasferimenti ordinari alle pubbliche amministrazioni ai pagamenti dei loro debiti tutte le volte che lo stock predefinito di debito non sarà stato pagato.

Non ci sarebbe bisogno dell’adesione delle banche per assicurare il buon esito dell’intera operazione, né di alcun tasso di sconto imposto invece in perfetto stile dirigista. Non essendo necessari né le risorse in capo allo Stato per garantire i pagamenti, né il consenso delle banche per addivenire alla cessione dei crediti, non potrebbe sussistere a quel punto alcun ostacolo ad impedire la corresponsione di quanto dovuto ai creditori da parte dello Stato.

Sarebbe necessario, tuttavia, avere a disposizione una nozione chiaramente definita e quanto più restrittiva possibile dei livelli essenziali d’ assistenza d’assicurare ai cittadini, al fine di escludere i finanziamenti all’uopo destinati dal novero di quelli che possono essere dirottati dallo Stato al pagamento dello stock annuale di debito predefinito. La pretesa da parte dello Stato, infatti, di volere recuperare le somme utilizzate per il pagamento dei debiti degli enti locali e delle regioni anche attraverso la compensazione con i fondi destinati ai livelli essenziali d’assistenza che non verrebbero più trasferiti agli enti debitori appare più una vacua declamazione nell’attuale contesto costituzionale di “Stato sociale” e di profonda crisi economica piuttosto che una vera e propria “ garanzia” a favore del medesimo soggetto garante.

P.S. Interpellate le filiali di due delle maggiori banche operanti in Italia in una cittadina di 350.000 abitanti è risultato che nessuno sa niente della cessione dei crediti e della garanzia dello Stato.

@roccotodero

20
Ago
2014

Addolora il no al ricalcolo contributivo delle pensioni da parte del Corriere e di molti riformatori

Mi dispiace, non sono d’accordo. Nel giro di 24 ore, si è ricreata in Italia una santa alleanza tra destra, sinistra e sindacati al grido “il governo non tocchi le pensioni”. Il Corriere della Sera ha dato il suo per una volta potente contributo, insistendo per due giorni sul fatto che Renzi non può tradire il contratto con i pensionati, che hanno versato i loro contributi quando lavoravano e che oggi beneficiano dell’assegno maturato in base a quel contratto. Apparentemente è un principio sacrosanto. Se non fosse per il fatto che il sistema previdenziale italiano è stato costruito dalla politica sulla base di una grande ingiustizia. E mi addolora che si uniscano oggi nel negarlo anche  liberali costretti ad arrampicassi sugli specchi, perché da una parte hanno sostenuto che era un errore escludere interventi sulle pensioni quando a proporli a marzo fu Cottarelli, e ora dicono no per il solo fatto di sparare sul governo Renzi pensando un domani di lucrar voti.

I 15,7 milioni di pensionati nel 2013 a carico dell’INPS, che incassano 21 milioni di trattamenti perché in diversi casi si sommano (pensioni di anzianità, vecchiaia, superstiti), sono per 14,1 milioni del settore privato, il resto ex lavoratori pubblici. Dei pensionati “privati”, 12,7 milioni incassano un assegno maturato col sistema “retributivo”, cioè precedente alla riforma Dini del 1995, in cui il trattamento era agganciato alle ultime retribuzioni, solo 356mila col sistema “contributivo” introdotto dalla Dini – in cui contano i contributi versati nel corso della vita lavorativa, moltiplicati con un certo coefficiente per l’andamento del Pil, ed erogabili per vecchiaia oggi a 66 anni ma via via ad età maggiori, man mano che cresce l’attesa di vita. C’è poi poco più di un milione di pensionati privati che incassa trattamenti col sistema “misto”.

E’ l’effetto della troppo lunga transizione da un sistema all’altro – circa 20 anni – decisa dalla politica quando votò la riforma Dini, dopo che per troppi anni aveva rinviato la riforma del vecchio sistema concepito quando l’Italia cresceva del 3% l’anno, e aveva molti meno anziani a carico dei lavoratori. Perché il sistema, sia quello retributivo che quello contributivo, a differenza di quanto credano i più, non è affatto tarato in modo tale da pagare le pensioni sulla base dei contnributi effettivamente versati , rivalutati a seconda di come sono stati investiti anno per anno come funziona nella previdenza privata. Le pensioni erogate, sia quelle retributive sia quelle contributive, sono pagate dai contributi di chi è oggi al lavoro. Resta cioè un sistema a “ripartizione”.

Qual è l’ingiustizia creata da questa transizione troppo lunga, che la politica ha deciso per non inimicarsi nelle urne milioni di voti? Il fatto che i troppo pochi che lavorano oggi, e se sono giovani lo fanno a tempo determinato e soggetti a frequentissime interruzioni della regolarità dei versamenti contributivi, debbano pagare milioni coi loro contributi gli assegni previdenziali a chi col vecchio sistema continuerà ad avere pensioni pari anche al 90% dello stipendio dell’ultimo mese lavorativo, mentre chi paga oggi andrà in pensione a età molto più avanzate di loro – per effetto della riforma Fornero – e con un assegno che potrebbe non coprire – dipende da come va il Pil italiano nel frattempo., oggi e da anni va male- che il 40 o il 50% di quanto guadagnava finché ha lavorato.

Eccolo, il problema: un’enorme ingiustizia tra le generazioni. A questo fine, non per far cassa e risparmiare soldi, avrebbe senso reintervenire sulle pensioni, e ricalcolare per tutti i trattamenti sulla base del sistema contributivo e non retributivo. Ovviamente si tratterebbe di farlo con senso della misura, sottraendo di più a chi ha pensioni più elevate, magari superiori ai 3 o 4 mjila euro al mese (il 7,8% dei pensionati, che stanno sopra i 2500 euro al mese, incassano 58 miliardi l’anno dei 256 miliardi di pensioni, cioè quasi il 20%),  e di meno a chi le ha più basse. Attualmente è previsto un contributo di solidarietà a partire dal 6% per chi ha pensioni tra i 7 e i 10mila mila euro, del 12% per la quota tra i 10mila e 14800 euro, e del18% per la parte eccedente tale soglia. Ma così concepito l’intervento è una tassa, mentre il problema di giustizia tra generazioni imporrebbe invece una rivisitazione eguale per tutti del sistema in base al quale, dato il montante dei contributi versati lavorando, si determina poi la pensione erogata.

Oggi, un enorme regalo viene pagato da chi lavora e non ne avrà più diritto. Vi sembra giusto, pensando ai vostri figli?

Si dirà: sì, ma queste regole mica le hanno scritte i pensionati. Giusto, le ha scritte la politica. Ma ingiuste restano. Si aggiungerà: sì, ma così facendo leveremmo ulteriori risorse agli impoveriti italiani.. E qui la risposta è no, eviteremmo di consegnare alla povertà le generazioni a venire per sostenere quelle precedenti, più patrimonializzate.

Purtroppo, però, la parola d’ordine prevalente, come si è visto in 24 ore, resta “non toccate le pensioni”. I giovani senza lavoro e senza pensione a venire, o nel migliore dei casi molto basse, commossi ringraziano.

Era lecito attendersi che di fronte alle indiscrezioni attribuite al governo di un intervento sulle pensioni – per quanto confuse fossero le indiscrezioni, perché diverso è parlare di un altro ritocco al “contributo di solidarietà”, altro è il ricalcolo generale dei trattamenti, e molte possono essere le soluzioni intermedie – il fronte riformatore liberale fosse unito nell’incoraggiare a perseguire la via, magari proponendo soluzioni tecniche adeguate. Invece no, il Corriere ha suonato la tromba del “non si toccano le pensioni” – e mi addolora sia stato anche Ostellino, un liberale a mille carati – e partiti e sindacati han subito fatto coro. Mi spiace che anche Passera sia sia unito, sia pure, come Cazzola, sparando contro l’ipotesi che i ritocchi alle pensioni retributive servano a coprire eventuali prepensionamenti che scardinano i tetti pensionabili posti dalla riforma Fornero.  E’ ovvio che ai prepensionamenti si debba dire no, ma quando si dice “non toccate le pensioni” l’addendo “per pagare eventuali prepensionamenti” sparisce: in politichese conta solo il messaggio forte “non toccate le pensioni”.

Ed è esattamente quel che Corriere e Passera hanno fatto: chi per tutelare lettori anziani col loro regalo di pensione retributiva, chi pensando di lucrar voti contro Renzi. Dimenticando allegramente che la differenza tra contributi raccolti e trattamenti erogati è di oltre 54 miliardi nei conti 2012 se ci limitiamo alla previdenza “stretta”, mentre se ci allarghiamo ai trattamenti anche assistenziali e sociali erogati dall’INPS il deficit a carico del contribuente è di 83,6 miliardi l’anno, come stamane ancora sul Corriere ricordava Alberto Brambilla. E dimenticando che la politica, pur avendo aspettato 20 anni per mutare sistema di calcolo previdenziale con la riforma Dini, e quasi il doppio per elevare l’età pensionabile con la riforma Fornero, ha bellamente sempre riconfermato i trattamenti ancor più privilegiati nel privilegio, concessi per il calcolo delle pensioni retributive ad alcuni fondi come quello dei dirigenti, dei postelegrafonici, del personale di volo delle compagnie aeree, rispetto agli standard che valgono per gli altri sempre soggetti ai trattamenti retributivi.

E’ l’ennesima prova che un fronte liberal-riformatore, su questi temi, non c’è, è troppo debole, troppo accecato da transeunti calcoletti politici.  In un paese sempre più vecchio, si ragiona da vecchi.

 

E in tutto questo, nessuno si scandalizza per un piccolo particolare che dovrebbe invece far urlare tutti: l’istat ancora ieri ha chiarito che l’eventuale ricalcolo col sistema contributivo per tutti i pensionati non lo può fare. E sapete perché? Perché dei milioni di pensionati pubblici mancano conti attendibili della loro reale storia contributiva. Perché lo Stato che tanto persegue gli evasori, i contributi ai dipendenti pubblici non li pagava, tanto era una partita di giro. Ecco, questa sola cosa dovrebbe far riflettere tutti, su come funziona davvero il sistema previdenziale italiano. E farci vergognare dei 6,8 milioni di pensionati che non arrivano a incassare oggi mille euro al mese.

19
Ago
2014

C’è correlazione tra fondi pubblici in R&S e crescita? Non secondo l’OCSE

e Paolo Belardinelli

***

Da cosa deriva la crescita economica? Quali sono le cause che permettono a determinati paesi di sviluppare la propria economia? E quali sono, invece, i freni alla crescita? Un tentativo di rispondere a queste complesse e ambiziose domande è contenuto in una ricerca pubblicata di recente dall’OCSE. Con conclusioni certamente non banali.

Uno degli aspetti determinanti dell’analisi dell’OCSE è quello relativo al campo degli investimenti, pubblici e privati, in ricerca e sviluppo (R&S). La spesa per R&S può essere considerata come un investimento sulla conoscenza, che può tradursi in nuove tecnologie e in modi più efficienti di utilizzare le risorse esistenti, indipendentemente dal fatto che venga sostenuta dal settore pubblico o dalle imprese. Sui grandi numeri, perciò, è plausibile che una spesa maggiore in R&S conduca a tassi di crescita permanentemente più elevati.

1

Anche per questo motivo, come mostra la tabella 2.2 (colonna C), negli ultimi decenni si è registrato, nei paesi membri dell’OCSE, un tendenziale aumento della spesa destinata a R&S. Per i paesi presi in esame dallo studio, infatti, la spesa totale media in R&S è stata, rispetto al PIL, del 1,825% e 1,867% rispettivamente per gli anni 1985 e 1995. Una crescita notevole si è registrata a cavallo del 2000, con un picco del 2,162% nel 2005 e una diminuzione avvenuta solamente negli ultimi anni, soprattutto a causa di tagli alla difesa.

Il descritto aumento della spesa totale in R&S è stato tendenzialmente accompagnato dall’incanalamento delle risorse direttamente nel mercato, facendo leva su un ruolo sempre più attivo da parte delle imprese. Un cambio di passo che può determinare implicazioni positive per l’efficacia dei processi di innovazione tecnologica, sia per le differenze significative nell’impatto che la spesa in R&S ha nei suoi diversi ambiti, sia perché il settore privato si è dimostrato in grado di canalizzare con maggiore efficienza le risorse destinate a R&S.

Molti governi di paesi dell’OCSE, di conseguenza, incoraggiano gli investimenti in R&S nel settore privato con sovvenzioni, finanziamenti, agevolazioni e crediti d’imposta. Con risultati decisamente migliori in queste ultime ipotesi, dove i rendimenti generati sono molto più alti rispetto a quelli derivanti da forme di sostegno dirette. Analizzando le regressioni nello studio dell’OCSE, infatti, è vero che, in generale, esiste un effetto positivo, statisticamente significativo, della spesa totale in R&S sulla crescita. Ma una volta distinte le variabili, discriminando tra spesa in R&S privata e pubblica, a determinare l’effetto positivo del totale risulta essere solo la spesa privata.

2

Come si vede nella tabella dello studio OCSE, la spesa pubblica in R&S, a differenza di quanto comunemente sostenuto, presenta un coefficiente negativo statisticamente significativo. Stando a questi dati, dunque, la spesa pubblica in R&S non favorisce la crescita, ma, al contrario, la ostacola.

Come mai, dunque, il settore pubblico interviene direttamente nella promozione di R&S? Il coinvolgimento dello Stato, attraverso misure dirette e indirette, viene normalmente giustificato dall’esigenza di tutelare i diritti di proprietà intellettuale: in caso contrario, nessun imprenditore avrebbe interesse ad innovare. Ma per quale motivo la conseguenza di questa esigenza dovrebbe essere l’intervento diretto dello Stato nei processi economici? Chi lo critica, infatti, sostiene che gli investimenti pubblici non siano complementari a quelli privati, ma vi si sostituiscano. Come si è visto, analizzando la spesa in R&S come percentuale del PIL, in effetti, i dati che emergono supportano quest’ultima tesi, suggerendo un effetto significativo delle attività di R&S private sul processo di crescita dei vari paesi. E confermando che, invece, le risorse pubbliche affollano mercati in cui l’intervento dei privati potrebbe fare di più, e meglio.

C’è un fatto importante da considerare: il settore pubblico tende a supportare settori (come ad esempio quello della difesa, della ricerca medica o dell’università) in cui l’impatto sulla crescita, essendo indiretto, diffuso e più lento, non può apportare innovazioni significative nel breve periodo, ma può d’altronde generare fenomeni di spillover (in cui, cioè, gli investimenti producono effetti positivi anche molto al di fuori degli ambiti cui erano destinati) difficilmente identificabili. Le risorse private, invece, sono destinate, ovviamente, a settori a più alta innovazione, soprattutto dal punto di vista della produzione, e quindi più (rapidamente) remunerativi e identificabili.

Resta però un dato: non vi è alcuna correlazione dimostrata empiricamente tra la spesa pubblica in R&S e crescita economica. Nello studio analizzato, viene confermato e verificato il fatto che le risorse private destinate agli investimenti in R&S favoriscono la crescita. Per quanto riguarda le risorse pubbliche aventi la stessa destinazione, invece, non solo non vi è alcun riscontro del fatto che esse siano utili a perseguire l’obiettivo della crescita, ma al contrario l’effetto generato è (sorprendentemente?) opposto: la spesa pubblica in R&S ostacola la crescita economica.

@paolobelardinel

@glmannheimer

17
Ago
2014

Riduzione dell’IVA sugli eBook: galeotto sarà il semestre europeo?

Nei mesi passati, prima con un paper pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni e poi su questo stesso blog, ci siamo occupati a più riprese dell’iniquo trattamento fiscale riservato agli eBook, cui non viene applicata l’IVA agevolata al 4% – riservata ai libri cartacei -, bensì quella ordinaria al 22%. Ebbene: ancora nel campo delle intenzioni, ma dal MiBACT qualcosa sembra finalmente muoversi. Read More

15
Ago
2014

Eurostagnazione? Ridere della Germania, dimenticando i numeri e prendendosela con l’Istat

E’ una svolta? Presto per dirlo, ma di sicuro il ferragosto di stagnazione dell’intera eurozona è una cattiva notizia. Nel secondo trimestre del 2014, solo Cipro ha registrato un dato congiunturale del PIL – fotografa l’andamento sul trimestre precedente – peggiore di quelli di Germania e Italia, entrambe arretrate dello 0,2% mentre per i ciprioti è stato meno 0,25%. La Francia è rimasta sconsolatamente ferma a quota zero. Ma il peso delle economie dei tre grandi paesi fondatori è tale, che l’intera euroarea nel secondo trimestre ferma a zero la sua moderata crescita che lentamente avanzava da trimestri. Neutralizzando il quasi +0,5% di Olanda e Finlandia, e il risultato lievemente superiore messo a segno da Portogallo e Spagna. Cerchiamo di capire in pochi punti sintetici che cosa significa davvero, e che cosa può comportare. Ma con due premesse. Primo: per me, è una scemenza gioire a gogo del dato tedesco, come molti – politici e osservatori – hanno fatto in Italia. Secondo: per me, è surreale aver ordinato all’Istat di rilasciare ‘ora in poi le stime del PIL italiano non prima degli altri paesi europei, altrimenti si parla male di noi. E’ una cosa da film di Totò: solo che lui  “castigava ridendo i Mori” (cit. da Totò sceicco), il dramma è che all’Istat il governo l’ha ordinato sul serio.

Attenti ai dati. Sui social network il dato negativo tedesco ha prodotto in Italia quasi un’esplosione di gioia. Ognuno la pensi come vuole, ma rifletta sui numeri. Il dato di un trimestre non deve far dimenticare che la Germania resta avviata a una crescita stimata 2014 tra l’1,2  e l’1,5%, e la stessa Francia a un moderatissimo +0,4%. L’italia rischia ancora un 2014 col segno meno. Soprattutto, è diverso il pregresso. Il reddito procapite tedesco è cresciuto del 21,5% e quello francese del 9,5% negli ultimi 15 anni, il nostro è arretrato del 3%, e addirittura del 14% nei 7 anni di crisi alle nostre spalle. In Germania anche nel secondo trimestre la domanda interna ha tirato positivamente il PIL insieme agli investimenti pubblici, mentre a mancare è stata la domanda estera e gli investimenti in costruzioni che nel primo trimestre erano stati a livello boom. Da noi la domanda interna latita, le costruzioni sono al lumicino da anni. Andiamoci piano insomma, prima di gioire rispetto a un paese che ha la più bassa disoccupazione da decenni come la Germania. Ne abbiamo, di strada da recuperare. E per colpe tutte nostre. Che, appunto, si vogliono negare gioendo delle frenate altrui.

Il terno di Renzi. Il premier italiano vince però una scommessa. A tutti coloro che da mesi lo invitavano a una manovra correttiva per evitare di sforare il 3% di deficit, visto che la crescita non andava certo verso quel più 0,8% indicato dal governo appena insediato, Renzi rispondeva che non serviva e non serve, perché l’intera eurozona avrebbe dovuto prendere atto che il problema non è l’Italia, ma la frenata europea complessiva. E’ esattamente avvenuto quel che Renzi pensava. E’ ovvio che in questo quadro si rafforza la richiesta italiana al tavolo europeo di un “cambio di passo”, sfruttando davvero e fino in fondo tutti i margini di flessibilità che nel patto di stabilità e di crescita esistono: ed esistono davvero, malgrado quel che dicono gli accaniti antieuro professi.

L’esterno e l’interno. Due fattori di frenata pesano per tutti i membri dell’eurozona, a prescindere cioè dalle magagne nazionali che si sommano (nel nostro caso, tantissime e gravi). Su un fattore l’Europa può fare poco o nulla. Sul secondo, invece, può fare parecchio. L’elemento pressoché ininfluenzabile è il calo rispetto alle attese del commercio internazionale e dunque della domanda estera, che frena i grandi esportatori manifatturieri come Germania e Italia. Purtroppo, è l’effetto di 4 fattori esterni: la crisi russo-ucraina (che raffredda gli investimenti tedeschi assai più di quelli italiani), quella mediorientale, la progressiva diminuzione degli interventi sui mercati della FED, il rallentamento dei paesi emergenti. Ciò invece su cui l’Ue e l’euroarea devono riflettere è la gamba interna che manca ancora: cioè il rafforzamento del commercio intra-europeo. La Germania, a dire il vero, sotto il governo Merkel-Spd sta aumentando consumi e potere d’acquisto ai suoi lavoratori. Dunque ha iniziato a dare un contributo al rilancio dell’export degli altri paesi europei verso la Germania Ma ancora non ci siamo. Tra settembre e dicembre, quando al termine del semestre italiano di presidenza si metterà mano a una riflessione di fondo su fiscal compact e patto di stabilità, potrebbe essere la volta buona per attuare quel che ha detto la settimana scorsa Mario Draghi. E che, purtroppo, è stato equivocato dallo stesso Renzi. Che ha dovuto recuperare andando di corsa a trovarlo.

Cedere sovranità. Il presidente della BCE non ha affatto additato ai paesi “fuori linea” come l’Italia il rischio della Troijka. Ha detto un’altra cosa. E cioè che il coordinamento delle politiche economiche, e non solo di finanza pubblica, dovrebbe fare per tutti un passo avanti. Ovviamente, l’emergenza è maggiore per chi sta più indietro, come noi. Ma immaginare da una parte un bollino europeo “rafforzato” – ex ante ed ex post – alle riforme economiche prioritarie per i paesi più arretrati (ripetiamo: come noi), e dall’altra un accordo complessivo per riequilibrare le bilance dei pagamenti attraverso consumi più sostenuti e dunque flussi di commercio intra-Ue più vigorosi, questo è l’esempio di una complessiva “cessione di sovranità comune”, assai diversa dal commissariamento di chi di suo continua a spendere e tassare troppo, e così facendo si fa male da solo (ripetiamo ancora: come noi). La commissione Juncker non è ancora formata, il 30 agosto si entra nel vivo dei nomi da scegliere. Ma più dei nomi, conta una comune volontà politica di registrare un passo avanti nei meccanismi cooperativi. Altrimenti inutile illudersi: l’euro da solo, come era scontato, non risolve ma accentua le asimmetrie delle politiche dei diversi paesi membri. E alla lunga un euro così salta, smontato dalle pressioni dal basso espresse nelle urne d chi sta peggio. Chi qui scrive non è affatto convinto che si vada nella direzione di un maggior coordinamento europeo: i primi a non volerlo sono i governi che pure si dicono più europeisti, come è accaduto con Renzi che suol Ft ha riservato a Draghi parole durissime (ma lo stesso vale in Francia con Hollande). E aggiungo anche di essere molto scettico, sul come il coordinamento avverrebbe: servirebbero drastici abbattimenti delle barriere nazionali che separano i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, quando partiti e sindacati da destra a sinistra sono invece tutti corrivi con la difesa delle regolamentazioni autarchiche. Detto questo, se i sedicenti europeisti non vanno avanti sulla via delle cessioni concordate di sovranità, le contraddizioni europee non potranno che aggravarsi.

La BCE. La stagnazione europea non è solo una cattiva notizia per la politica, e un invito a mettere in campo la volontà comune di novità serie. Anche per Mario Draghi e l’Eurotower è un segnale che invita a nuove decisioni. La BCE ha il merito di aver salvato l’euro con le aste di liquidità straordinarie prima e le OMT poi, lo scudo di ultima istanza che mai è stato necessario sfoderare. Un terzo contributo straordinario l’ha dato nel negoziato per accelerare l’unione bancaria. E un quarto con le recenti decisioni del tasso negativo di deposito per le banche a Francoforte, con le nuove aste di liquidità che partiranno in autunno finalizzate al credito delle PMI, e con la disponibilità futura – in corso di studio – a rilevare pacchetti di crediti cartolarizzati (utili per sfoltire le sofferenze bancarie). Ma diciamola tutta: la deflazione ormai conclamata nei paesi eurodeboli spinge l’andamento dei prezzi dell’intera eurozona sempre più lontano da quell’obiettivo del +2% dichiarato programmaticamente dalla Bce come dato di riferimento. Continuare a dire che non ci sono rischi di deflazione è impossibile, perché la deflazione è tra noi. E anche Draghi, dunque, ha di che riflettere seriamente. Non tutte le deflazioni sono uguali, e la deflazione non è affatto detto che sia un male in sé 8come pensano i keynesiani). Vi sono esempi nella storia numerosi esempi di deflazione “virtuosa”. Quando è l’effetto dell’afflosciarsi di bolle mobiliari o immobiliari, per esempio. Oppure pensate alla Svizzera, che dal 2010 ha avuto prima inflazione inferiore all’1% annuo e poi 2 anni di deflazione, ma con un’economia che continuava a crescere intorno al 2% e la disoccupazione di poco superiore al 3%. Caso diverso è il nostro: perché la componente nominale del Pil depressa mentre quella reale stagna o recede non fa che peggiorare la situazione. E allora è anche in prima battuta la BCE che può e deve agire come titolare della politica monetaria, perché la deflazione “non virtuosa” cambi segno.

14
Ago
2014

Il controllo sulle spese dei gruppi consiliari regionali e le tentazioni di populismo giudiziario – Di Rocco Todero

Qualche giorno fa il Corriere della sera on line, accostava il faccione pacioso di Franco Fiorito, assurto alle cronache giudiziarie per l’utilizzo improprio dei fondi pubblici destinati ai gruppi consiliari regionali, alla notizia della pubblicazione di una sentenza della Corte dei Conti a Sezioni riunite (la n. 29/2014) che si sarebbe pronunciata per l’insindacabilità delle spese effettuate dai gruppi consiliari della Regione Emilia Romagna per il tramite dei finanziamenti pubblici ai partiti. Nonostante la cautela dell’autore (Sergio Rizzo) nel commentare la sentenza, la sensazione che, in sintesi, il lettore traeva dal complesso composto dal titolo, dalla foto, dal sottotitolo e da alcuni titoli dei sottoparagrafi che hanno scandito il pezzo (es: “ La norma c’è ma si aggira con la discrezionalità politica”) era quella di un radicale cambio di direzione, quasi un tradimento, rispetto alla consolidata tendenza degli ultimi anni della Corte dei Conti di bastonare sonoramente la classe politica per le spese improprie effettuate con le disponibilità derivanti dal finanziamento pubblico ai partiti.

La materia, va da sé, è particolarmente sensibile, non fosse altro per l’enorme mole di procedimenti penali e di giudizi di responsabilità, promossi dai pubblici ministeri (penali e contabili) per chiamare decine di politici a dare conto e ragione delle modalità con le quali hanno utilizzato i denari pubblici del finanziamento ai partiti, processi i cui esiti, correttamente documentati dalla stampa nazionale e locale, hanno contribuito in magna parte ad alimentare quel fiume in piena dell’antipolitica che non accenna ad arrestarsi.

Ma l’argomento è sensibile soprattutto perché porta alla ribalta una questione forse non proprio commestibile per il cosiddetto “ grande pubblico” ma che, tuttavia, rappresenta un caposaldo dello Stato di diritto, della nostra Costituzione e del pensiero liberale e che, per tale ragione, anche “ il quarto potere” dovrebbe sforzarsi di veicolare adeguatamente a beneficio della coscienza critica di una nazione.

Faccio riferimento alla divisione dei poteri ed al principio cardine del costituzionalismo liberale secondo il quale all’interno dello Stato e della Repubblica ciascun potere deve essere sottomesso alla legge (principio di legalità) e deve agire all’interno di un perimetro dalla legge circoscritto senza invadere gli ambiti riservati alla competenza degli altri poteri. Diversamente lo Stato di diritto di stampo costituzionale regredirebbe a Monarchia assoluta.

Ed è cosi che il potere politico e la pubblica amministrazione devono agire esclusivamente per il perseguimento degli obiettivi fissati dalla legge (ordinaria e costituzionale) e secondo le modalità dalla stessa preordinate in un alveo all’interno del quale l’arbitrio è inammissibile ma la discrezionalità è consentita per assicurare un irrinunciabile margine di autonomia politica e per permettere l’attuazione delle più disparate forme d’indirizzo politico sempre all’interno della legalità costituzionale.

Limitato deve essere anche il potere esercitato dall’ordine giurisdizionale il quale 1) deve tutelare i diritti dei singoli cittadini salvaguardandone un insopprimibile margine di autonomia, 2) deve sanzionare le deviazioni delle condotte del potere politico e della pubblica amministrazione dagli argini della legalità facendosi carico, però, di non travalicare col proprio giudizio, debordando, e di non sindacare le scelte di merito politiche ed amministrative.

Diversamente il potere giurisdizionale da cane da guardia del potere politico e della pubblica amministrazione si trasformerebbe in tutore di soggetti ritenuti letteralmente incapaci di intendere e di volere.

A ciò si aggiunga che se il malcostume del potere politico ed amministrativo di tentare perennemente di sottomettere a sé ogni forma di regola, ogni disposizione di legge, ogni altro “ potere” è di sicuro censurabile, la stessa tendenza messa in atto dal potere giurisdizionale è letteralmente inammissibile e non tollerabile in alcun modo perché foriera di un’irrecuperabile frattura della legalità costituzionale e di una perdita di credibilità del soggetto deputato ad assicurare il rispetto delle regole.

Non si può dimenticare, infatti, che se il politico e l’amministratore sono deviati nelle loro condotte dalla logica del “ potere” che tradizionalmente, infatti, rappresenta il paradigma del loro agire, il terreno d’elezione della loro esistenza, il giudice deve essere guidato esclusivamente dalla logica della giurisdizione, dalla cultura della tutela dei diritti di ciascuno, dall’ossequio rigoroso alle regole. Perché il giudice, a differenza del politico, non lotta per alcunché, se non per il rispetto della legge. Soprattutto non lotta per la palingenesi dei costumi e del mondo intero.

Banalità, ovvietà, stucchevole lezioncina di diritto pubblico, potrebbero dire i più!

Forse. Ma vale la pena verificare se i legittimi dubbi del lettore resistono all’esame della deliberazione della sezione regionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna 120/2014 (deliberazione poi impugnata innanzi alle sezioni riunite che hanno pronunziato la sentenza n. 29/2014) la quale nel dichiarare irregolari le spese dei gruppi consiliari ne ha letteralmente annientato l’autonomia pretendendo di subordinare il giudizio sulla legittimità degli esborsi alla dimostrazione di una “ stretta necessità” che svilisce, ogni oltre ragionevole esigenza di controllo, il ruolo istituzionale dei gruppi consiliari.

La Corte dei Conti ha preteso la dimostrazione dell’utilità dell’acquisto di una banca dati giuridica, la specificazione delle pubblicazioni acquistate, del relativo numero di copie, dell’indicazione del titolo e dell’autore dei libri acquistati. Ha ritenuto necessaria la dimostrazione che le spese relative a materiali di consumo ( cancelleria, ecc..) si siano rese necessarie dall’indisponibilità dello stesso materiale da parte degli uffici della regione; ha condizionato la legittimità delle spese di viaggio e ristorazione alla dimostrazione dell’occasione, collegata con l’attività istituzionale del gruppo, alla quale tali spese si riconnettano.

In sostanza la Corte di primo grado ha ridotto a zero il margine di discrezionalità dei gruppi consiliari nel determinare come spendere i fondi pubblici ed ha preteso di “imporre” ai gruppi medesimi la nozione di finalità istituzionale della spese percome dalla medesima implicitamente elaborata ma non espressa. In altre parole: è la Corte dei Conti a delimitare la nozione di “ finalità istituzionale” della spese dei gruppi consiliari non già limitandosi a sanzionare una spesa arbitraria, palesemente eterogenea cioè rispetto alla medesima finalità istituzionale, ma sindacando voce per voce, evento per evento, rivista per rivista, copia per copia, se la spesa rientri nelle finalità istituzionali del gruppo politico.

Leggendo la deliberazione di primo grado della corte dei conti si trae la convinzione che bisognerebbe passare il permesso ai giudici per stabilire se rientri meglio nella finalità istituzionale del gruppo consiliare l’acquisto di una copia di una rivista di storia piuttosto che di una di geografia, se siano meglio due copie o forse una sola. Se un convegno sui problemi dell’agricoltura rientri fra le finalità istituzionali del gruppo politico meglio di quello sul traffico selvaggio nelle città ecc… Se le spese di viaggio per partecipare alla presentazione di un libro rientrino fra le finalità istituzionali meglio di quelle utilizzate per recarsi ad uno sciopero di metalmeccanici. Solo i Giudici possono sapere a questo punto cosa sia la “ finalità istituzionale” del gruppo politico.

E’ questo un controllo di legalità? E’ questo un controllo che si limita a sanzionare l’arbitrio ed a rispettare la discrezionalità del potere politico ? E’ un giudizio equo, imparziale, privo di un qualche pregiudizio culturale? E soprattutto: è un giudizio che attribuisce autorevolezza a chi lo emette?

Ecco, allora, che le sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sull’appello presentato da tutti i gruppi consiliari, hanno dovuto, seppur sbrigativamente, riaffermare i seguenti elementari principi di diritto posti a fondamento dello Stato liberale:

  1. Nessun’azione del potere politico/amministrativo può sottrarsi al controllo giurisdizionale sulla base dei parametri della legge e della costituzione;

  2. Anche le spese effettuate dai gruppi consiliari regionali in quanto poste in essere con risorse pubbliche devono di necessità essere sottoposte ad un controllo di legalità tendente a verificare il rispetto del perseguimento delle finalità istituzionali dei gruppi medesimi;

  3. La nozione di finalità istituzionale e di attività politica è naturalmente da intendersi in senso lato, di tal che il controllo deve sanzionare l’arbitrio di spese palesemente disancorate dalle medesime finalità del gruppo consiliare;

  4. Al gruppo politico deve essere riconosciuto un margine di discrezionalità che salvaguardi l’autonomia di alcune scelte di merito che, se rientrano nel perseguimento della nozione di finalità istituzionale da intendersi obbligatoriamente in senso lato, sono insindacabili in ossequio al principio della separazione dei poteri;

  5. L’eccesso di potere giurisdizionale continua ad essere una figura di esercizio illegittimo della funzione giudiziaria.

Un’ultima notazione. La sezione di controllo in primo grado dell’Emilia Romagna ha stabilito che le regole di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 2012 introduttive dei criteri cui subordinare la legittimità delle spese dei gruppi consiliari devono essere applicate retroattivamente anche per l’anno 2012 e non già a decorrere dal 2013, devono essere applicate, cioè, per un tempo in cui non erano esistenti all’interno dell’ordinamento giuridico e non potevano orientare le condotte dei gruppi consiliari.

Anche su questo aspetto le sezioni riunite hanno rimesso le cose al posto giusto, riaffermando l’inderogabilità del principio di irretroattività e la cogenza delle regole di cui al D.P.C.M. solo a partire dal 2013.

Anche questa un’ovvietà, naturalmente.

12
Ago
2014

Articolo 18: la bandiera ideologica contro la realtà dei fatti

Si torna allo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che disciplina le norme per i licenziamenti e i reintegri nelle aziende sopra i 15 dipendenti. Nei decenni, la norma è diventata una lizza obbligata per tornei a partiti contrapposti. Cerchiamo di capire che cosa è davvero in gioco, e che cosa sia meglio sperare.

Premessa obbligata: il rinvio non aiuta. La legge delega di riforma del lavoro – impropriamente detta Jobs Act – in Senato è stata rinviata a settembre, sotto il peso delle migliaia di emendamenti che impegnavano l’aula sulla riforma della Costituzione. L’ingorgo delle misure – c’erano anche 4 decreti legge pendenti in parlamento – e la ristrettezza dei tempi hanno avuto un effetto negativo.  Dalle parole di Draghi alle analisi delle agenzie di rating e della stampa estera dopo la conferma della recessione italiana nel secondo trimestre, la riforma del mercato del lavoro è in testa alla lista delle misure per le quali si rimprovera al governo il ritardo sulle misure di maggior impatto economico. Di conseguenza, a settembre governo e maggioranza devono cercare di arrivare al varo del provvedimento con idee chiare e soluzioni efficaci. Se si reimpantanano in contese ideologiche, sarà un’altra ragione per diffidare dell’Italia. Non è proprio il momento.

Poiché la politica procede per semplificazioni comunicative, ora sembra essersi riaperto il classico scontro già visto tante volte: Alfano punterebbe all’abrogazione all’abrogazione, Brunetta e Forza Italia si sono aggiunti, mentre buona parte del Pd e naturalmente Cgil e sindacato sono contrari. Come vedremo, non è così. Ma poiché la comunicazione prevale sulla sostanza, messa così il governo si farà male, non potendo certo ammettere che su una simile misura “sociale” mezzo Pd contrario sia pareggiato dal voto compatto di Forza Italia. Ed è alto il rischio che non ne esca niente di buono.

La soluzione deve invece venire da un ragionamento il più possibile oggettivo, basato su dati di fatto cioè numeri, e incardinato su ciò che davvero è nelle norme proposte: nessuna delle quali – sorpresa! – attualmente in Senato propone il superamento dell’articolo 18 per tutti i dipendenti e per sempre.

I numeri. La politica bisogna che si rassegni: tutti i suoi tentativi di piegare il mercato del lavoro volgendolo verso “un” tipo ideale di contratto  ottengono effetti contrari e negativi, cioè meno occupati. Nei nuovi rapporti di lavoro attivati dal 2011 al 2013, sono diminuiti i contratti a tempo indeterminato (-14,2%), è sceso l’apprendistato (-18,4%), i contratti di collaborazione per lo più a progetto (-24,3%) e il lavoro a chiamata (-31,6%). Di qui l’intervento fatto dal governo col decreto Poletti, per semplificare l’uso dei contratti a termine e l’apprendistato, riducendo gli spazi per altre formule contrattuali, ritenute più a rischio di abusi, come le collaborazioni a progetto, l’uso di partite Iva, il lavoro a chiamata. Una cosa è sicura, da questi dati: l’intento della riforma Fornero sul lavoro – piaciuta ai sindacati, a differenza di quella sulle pensioni – cioè scoraggiare il ricorso alle collaborazioni a tempo più “sospette”, non ha avuto affatto l’effetto di rafforzare il lavoro a tempo indeterminato, che è l’idea molto “novecentesca” che sindacati e sinistra hanno del lavoro, non rendendosi conto – ma questa è la nostra opinione – che il mondo è cambiato. Siamo riusciti a scoraggiare anche i contratti di lavoro a chiamata (o di lavoro intermittente), molto usati negli alberghi e nella ristorazione, scesi dal 10% al 5% sul totale degli avviamenti al lavoro, e poi diciamo di voler rilanciare turismo e cultura… Nella crisi italiana, dal 2010 a oggi, nessun intervento politico favorevole ai contratti a tempo indeterminato ha mutato di un millimetro la realtà concreta della domanda italiana di lavoro: i contratti a tempo rappresentano il 67% delle nuove assunzioni, quelli a tempo indeterminato meno del 18%. Sul totale dei circa 16,6 milioni di lavoratori dipendenti, ben 14,5 milioni sono a tempo indeterminato (tra tempo pieno e tempo parziale): dunque non siamo in presenza di un mercato del lavoro a maggioranza precario, ma resta il fatto che voler “spingere” le imprese sui neoassunti a solo tempo indeterminato non fa bere il cavallo.

Perché questo excursus numerico? Perché l’articolo 18 – nella mente di chi lo difende ideologicamente – è una tutela che dovrebbe contraddistinguere il mondo ideale, quello in cui il più della nuova occupazione “deve” essere rappresentata dal lavoro a tempo indeterminato. Non solo così non è, e dunque è una tutela per una minoranza di ipertutelati rispetto alla maggioranza degli avviati al lavoro. Ma finisce per rappresentare un freno e non un incentivo, proprio al se si ha in mente come obiettivo la crescita della quota di lavoro a tempo indeterminato. Ed è esattamente questa la “trappola mentale” che può riscattare sul Jobs Act.

Veniamo infatti alle norme sulle quali il confronto era andato avanti, in Commissione Lavoro al Senato. La modifica dell’articolo 18 rispetto alla riforma Fornero – che aveva fatto restare l’appellabilità giudiziale e la reintegra anche per i licenziamenti economici, sia pure dando come alternativa l’indennizzo – nel disegno di legge delega è una sorta di appendice a uno dei suoi pilastri, cioè il contratto di inserimento triennale a tutele crescenti. Oltre a prevedere sgravi contributivi ancora una volta caratterizzati dal favore verso il tempo indeterminato – fino due terzi degli attuali contributi per un neo assunto a tempo indeterminato, solo metà verso il tempo determinato – si pensa nel contratto d’inserimento anche a una modifica dell’articolo 18 attuale, facendolo restare la reintegra obbligatoria giudiziale solo per i licenziamenti discriminatori, e sostituendo il giudizio del magistrato su quelli economici con una indennità proporzionata all’anzianità di lavoro maturata.

E qui insorgono le differenze. Pietro Ichino, di Scelta Civica, da sempre propone che la reintegra per i licenziamenti economici scompaia gradualmente per tutti, sostituendola con un’indennità a carico dell’impresa anche comprensiva del finanziamento a tempo della ricollocazione del lavoratore. Non è questo, ciò che propongono Alfano e Brunetta: dalle parole che usano si intende che parlano di una “moratoria” dell’articolo 18 per i neoassunti, Brunetta ha specificato per tre anni, in modo che alla fine del contratto d’inserimento e una volta assunti a tempo indeterminato la tutela attuale torni a valere per tutti. Il Pd si era spinto al massimo a far capire invece che la moratoria può valere solo per i primi sei mesi di prova, dopo i quali scatta il contratto d’inserimento a pieno titolo e resta la piena tutela dell’attuale art. 18.

Chiarita la questione, arriviamo al punto. Una riforma vera dell’articolo 18 dovrebbe riguardare tutti i lavoratori ed essere collegata dunque alla riforma degli ammortizzatori sociali pure preista nel Jobs Act, come da sempre chiede Ichino. E come ha fatto la Spagna, dove il licenziamento per motivi economici è stato consentito anche individualmente e la giudiziabilità è esclusa, sostituendola con indennizzo. Anche in Francia, la giudiziabilità del licenziamento economico è esclusa e si procede con un indennizzo. Se ci s’impicca allo scontro ideologico tra chi la vuole una moratoria per i soli neo avviati al lavoro dividendosi tra chi la vuole per sei mesi o per tre anni, è uno scontro che non vale la candela, e allora ha ragione Michele Tiraboschi: frammenta solo ulteriormente il regime di tutele, ma l’imprenditore saprà sin dall’inizio che alla fine le cose restano come oggi. Sarebbe l’ennesimo “intervento a margine” che ogni governo propone, con poco successo sulla domanda effettiva di lavoro. Mentre il punto vero è sgravare le imprese di troppe tasse sul lavoro, la riforma degli ammortizzatori con la fine della CIG, un sistema efficiente e aperto al privato di incrocio tra domanda e offerta di lavoro, la formazione ricorrente (abbian speso nella crisi 100 miliardi di CIG senza un’ora di formazione per ricollocarsi), e molto più apprendistato.

Soprattutto, il governo eviti un rischio aggiuntivo: quello di graduare una riforma dell’articolo 18 limitata a una moratoria più o meno lunga, peggiorando però come oggetto di scambio il contratto d’inserimento, che sindacati e parte della sinistra vogliono – tanto per cambiare – il più possibile sostitutivo di tutte le altre forme di contratto, da quelli a tempo all’apprendistato, che dovrebbe rappresentare invece la via maestra per il lavoro in moltissimi settori.

Solo Renzi in persona può scogliere il nodo. Ma una riforma ambiziosa non può essere una norma a tempo col rischio di peggiorare il resto.