19
Ago
2014

C’è correlazione tra fondi pubblici in R&S e crescita? Non secondo l’OCSE

e Paolo Belardinelli

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Da cosa deriva la crescita economica? Quali sono le cause che permettono a determinati paesi di sviluppare la propria economia? E quali sono, invece, i freni alla crescita? Un tentativo di rispondere a queste complesse e ambiziose domande è contenuto in una ricerca pubblicata di recente dall’OCSE. Con conclusioni certamente non banali.

Uno degli aspetti determinanti dell’analisi dell’OCSE è quello relativo al campo degli investimenti, pubblici e privati, in ricerca e sviluppo (R&S). La spesa per R&S può essere considerata come un investimento sulla conoscenza, che può tradursi in nuove tecnologie e in modi più efficienti di utilizzare le risorse esistenti, indipendentemente dal fatto che venga sostenuta dal settore pubblico o dalle imprese. Sui grandi numeri, perciò, è plausibile che una spesa maggiore in R&S conduca a tassi di crescita permanentemente più elevati.

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Anche per questo motivo, come mostra la tabella 2.2 (colonna C), negli ultimi decenni si è registrato, nei paesi membri dell’OCSE, un tendenziale aumento della spesa destinata a R&S. Per i paesi presi in esame dallo studio, infatti, la spesa totale media in R&S è stata, rispetto al PIL, del 1,825% e 1,867% rispettivamente per gli anni 1985 e 1995. Una crescita notevole si è registrata a cavallo del 2000, con un picco del 2,162% nel 2005 e una diminuzione avvenuta solamente negli ultimi anni, soprattutto a causa di tagli alla difesa.

Il descritto aumento della spesa totale in R&S è stato tendenzialmente accompagnato dall’incanalamento delle risorse direttamente nel mercato, facendo leva su un ruolo sempre più attivo da parte delle imprese. Un cambio di passo che può determinare implicazioni positive per l’efficacia dei processi di innovazione tecnologica, sia per le differenze significative nell’impatto che la spesa in R&S ha nei suoi diversi ambiti, sia perché il settore privato si è dimostrato in grado di canalizzare con maggiore efficienza le risorse destinate a R&S.

Molti governi di paesi dell’OCSE, di conseguenza, incoraggiano gli investimenti in R&S nel settore privato con sovvenzioni, finanziamenti, agevolazioni e crediti d’imposta. Con risultati decisamente migliori in queste ultime ipotesi, dove i rendimenti generati sono molto più alti rispetto a quelli derivanti da forme di sostegno dirette. Analizzando le regressioni nello studio dell’OCSE, infatti, è vero che, in generale, esiste un effetto positivo, statisticamente significativo, della spesa totale in R&S sulla crescita. Ma una volta distinte le variabili, discriminando tra spesa in R&S privata e pubblica, a determinare l’effetto positivo del totale risulta essere solo la spesa privata.

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Come si vede nella tabella dello studio OCSE, la spesa pubblica in R&S, a differenza di quanto comunemente sostenuto, presenta un coefficiente negativo statisticamente significativo. Stando a questi dati, dunque, la spesa pubblica in R&S non favorisce la crescita, ma, al contrario, la ostacola.

Come mai, dunque, il settore pubblico interviene direttamente nella promozione di R&S? Il coinvolgimento dello Stato, attraverso misure dirette e indirette, viene normalmente giustificato dall’esigenza di tutelare i diritti di proprietà intellettuale: in caso contrario, nessun imprenditore avrebbe interesse ad innovare. Ma per quale motivo la conseguenza di questa esigenza dovrebbe essere l’intervento diretto dello Stato nei processi economici? Chi lo critica, infatti, sostiene che gli investimenti pubblici non siano complementari a quelli privati, ma vi si sostituiscano. Come si è visto, analizzando la spesa in R&S come percentuale del PIL, in effetti, i dati che emergono supportano quest’ultima tesi, suggerendo un effetto significativo delle attività di R&S private sul processo di crescita dei vari paesi. E confermando che, invece, le risorse pubbliche affollano mercati in cui l’intervento dei privati potrebbe fare di più, e meglio.

C’è un fatto importante da considerare: il settore pubblico tende a supportare settori (come ad esempio quello della difesa, della ricerca medica o dell’università) in cui l’impatto sulla crescita, essendo indiretto, diffuso e più lento, non può apportare innovazioni significative nel breve periodo, ma può d’altronde generare fenomeni di spillover (in cui, cioè, gli investimenti producono effetti positivi anche molto al di fuori degli ambiti cui erano destinati) difficilmente identificabili. Le risorse private, invece, sono destinate, ovviamente, a settori a più alta innovazione, soprattutto dal punto di vista della produzione, e quindi più (rapidamente) remunerativi e identificabili.

Resta però un dato: non vi è alcuna correlazione dimostrata empiricamente tra la spesa pubblica in R&S e crescita economica. Nello studio analizzato, viene confermato e verificato il fatto che le risorse private destinate agli investimenti in R&S favoriscono la crescita. Per quanto riguarda le risorse pubbliche aventi la stessa destinazione, invece, non solo non vi è alcun riscontro del fatto che esse siano utili a perseguire l’obiettivo della crescita, ma al contrario l’effetto generato è (sorprendentemente?) opposto: la spesa pubblica in R&S ostacola la crescita economica.

@paolobelardinel

@glmannheimer

17
Ago
2014

Riduzione dell’IVA sugli eBook: galeotto sarà il semestre europeo?

Nei mesi passati, prima con un paper pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni e poi su questo stesso blog, ci siamo occupati a più riprese dell’iniquo trattamento fiscale riservato agli eBook, cui non viene applicata l’IVA agevolata al 4% – riservata ai libri cartacei -, bensì quella ordinaria al 22%. Ebbene: ancora nel campo delle intenzioni, ma dal MiBACT qualcosa sembra finalmente muoversi. Read More

15
Ago
2014

Eurostagnazione? Ridere della Germania, dimenticando i numeri e prendendosela con l’Istat

E’ una svolta? Presto per dirlo, ma di sicuro il ferragosto di stagnazione dell’intera eurozona è una cattiva notizia. Nel secondo trimestre del 2014, solo Cipro ha registrato un dato congiunturale del PIL – fotografa l’andamento sul trimestre precedente – peggiore di quelli di Germania e Italia, entrambe arretrate dello 0,2% mentre per i ciprioti è stato meno 0,25%. La Francia è rimasta sconsolatamente ferma a quota zero. Ma il peso delle economie dei tre grandi paesi fondatori è tale, che l’intera euroarea nel secondo trimestre ferma a zero la sua moderata crescita che lentamente avanzava da trimestri. Neutralizzando il quasi +0,5% di Olanda e Finlandia, e il risultato lievemente superiore messo a segno da Portogallo e Spagna. Cerchiamo di capire in pochi punti sintetici che cosa significa davvero, e che cosa può comportare. Ma con due premesse. Primo: per me, è una scemenza gioire a gogo del dato tedesco, come molti – politici e osservatori – hanno fatto in Italia. Secondo: per me, è surreale aver ordinato all’Istat di rilasciare ‘ora in poi le stime del PIL italiano non prima degli altri paesi europei, altrimenti si parla male di noi. E’ una cosa da film di Totò: solo che lui  “castigava ridendo i Mori” (cit. da Totò sceicco), il dramma è che all’Istat il governo l’ha ordinato sul serio.

Attenti ai dati. Sui social network il dato negativo tedesco ha prodotto in Italia quasi un’esplosione di gioia. Ognuno la pensi come vuole, ma rifletta sui numeri. Il dato di un trimestre non deve far dimenticare che la Germania resta avviata a una crescita stimata 2014 tra l’1,2  e l’1,5%, e la stessa Francia a un moderatissimo +0,4%. L’italia rischia ancora un 2014 col segno meno. Soprattutto, è diverso il pregresso. Il reddito procapite tedesco è cresciuto del 21,5% e quello francese del 9,5% negli ultimi 15 anni, il nostro è arretrato del 3%, e addirittura del 14% nei 7 anni di crisi alle nostre spalle. In Germania anche nel secondo trimestre la domanda interna ha tirato positivamente il PIL insieme agli investimenti pubblici, mentre a mancare è stata la domanda estera e gli investimenti in costruzioni che nel primo trimestre erano stati a livello boom. Da noi la domanda interna latita, le costruzioni sono al lumicino da anni. Andiamoci piano insomma, prima di gioire rispetto a un paese che ha la più bassa disoccupazione da decenni come la Germania. Ne abbiamo, di strada da recuperare. E per colpe tutte nostre. Che, appunto, si vogliono negare gioendo delle frenate altrui.

Il terno di Renzi. Il premier italiano vince però una scommessa. A tutti coloro che da mesi lo invitavano a una manovra correttiva per evitare di sforare il 3% di deficit, visto che la crescita non andava certo verso quel più 0,8% indicato dal governo appena insediato, Renzi rispondeva che non serviva e non serve, perché l’intera eurozona avrebbe dovuto prendere atto che il problema non è l’Italia, ma la frenata europea complessiva. E’ esattamente avvenuto quel che Renzi pensava. E’ ovvio che in questo quadro si rafforza la richiesta italiana al tavolo europeo di un “cambio di passo”, sfruttando davvero e fino in fondo tutti i margini di flessibilità che nel patto di stabilità e di crescita esistono: ed esistono davvero, malgrado quel che dicono gli accaniti antieuro professi.

L’esterno e l’interno. Due fattori di frenata pesano per tutti i membri dell’eurozona, a prescindere cioè dalle magagne nazionali che si sommano (nel nostro caso, tantissime e gravi). Su un fattore l’Europa può fare poco o nulla. Sul secondo, invece, può fare parecchio. L’elemento pressoché ininfluenzabile è il calo rispetto alle attese del commercio internazionale e dunque della domanda estera, che frena i grandi esportatori manifatturieri come Germania e Italia. Purtroppo, è l’effetto di 4 fattori esterni: la crisi russo-ucraina (che raffredda gli investimenti tedeschi assai più di quelli italiani), quella mediorientale, la progressiva diminuzione degli interventi sui mercati della FED, il rallentamento dei paesi emergenti. Ciò invece su cui l’Ue e l’euroarea devono riflettere è la gamba interna che manca ancora: cioè il rafforzamento del commercio intra-europeo. La Germania, a dire il vero, sotto il governo Merkel-Spd sta aumentando consumi e potere d’acquisto ai suoi lavoratori. Dunque ha iniziato a dare un contributo al rilancio dell’export degli altri paesi europei verso la Germania Ma ancora non ci siamo. Tra settembre e dicembre, quando al termine del semestre italiano di presidenza si metterà mano a una riflessione di fondo su fiscal compact e patto di stabilità, potrebbe essere la volta buona per attuare quel che ha detto la settimana scorsa Mario Draghi. E che, purtroppo, è stato equivocato dallo stesso Renzi. Che ha dovuto recuperare andando di corsa a trovarlo.

Cedere sovranità. Il presidente della BCE non ha affatto additato ai paesi “fuori linea” come l’Italia il rischio della Troijka. Ha detto un’altra cosa. E cioè che il coordinamento delle politiche economiche, e non solo di finanza pubblica, dovrebbe fare per tutti un passo avanti. Ovviamente, l’emergenza è maggiore per chi sta più indietro, come noi. Ma immaginare da una parte un bollino europeo “rafforzato” – ex ante ed ex post – alle riforme economiche prioritarie per i paesi più arretrati (ripetiamo: come noi), e dall’altra un accordo complessivo per riequilibrare le bilance dei pagamenti attraverso consumi più sostenuti e dunque flussi di commercio intra-Ue più vigorosi, questo è l’esempio di una complessiva “cessione di sovranità comune”, assai diversa dal commissariamento di chi di suo continua a spendere e tassare troppo, e così facendo si fa male da solo (ripetiamo ancora: come noi). La commissione Juncker non è ancora formata, il 30 agosto si entra nel vivo dei nomi da scegliere. Ma più dei nomi, conta una comune volontà politica di registrare un passo avanti nei meccanismi cooperativi. Altrimenti inutile illudersi: l’euro da solo, come era scontato, non risolve ma accentua le asimmetrie delle politiche dei diversi paesi membri. E alla lunga un euro così salta, smontato dalle pressioni dal basso espresse nelle urne d chi sta peggio. Chi qui scrive non è affatto convinto che si vada nella direzione di un maggior coordinamento europeo: i primi a non volerlo sono i governi che pure si dicono più europeisti, come è accaduto con Renzi che suol Ft ha riservato a Draghi parole durissime (ma lo stesso vale in Francia con Hollande). E aggiungo anche di essere molto scettico, sul come il coordinamento avverrebbe: servirebbero drastici abbattimenti delle barriere nazionali che separano i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, quando partiti e sindacati da destra a sinistra sono invece tutti corrivi con la difesa delle regolamentazioni autarchiche. Detto questo, se i sedicenti europeisti non vanno avanti sulla via delle cessioni concordate di sovranità, le contraddizioni europee non potranno che aggravarsi.

La BCE. La stagnazione europea non è solo una cattiva notizia per la politica, e un invito a mettere in campo la volontà comune di novità serie. Anche per Mario Draghi e l’Eurotower è un segnale che invita a nuove decisioni. La BCE ha il merito di aver salvato l’euro con le aste di liquidità straordinarie prima e le OMT poi, lo scudo di ultima istanza che mai è stato necessario sfoderare. Un terzo contributo straordinario l’ha dato nel negoziato per accelerare l’unione bancaria. E un quarto con le recenti decisioni del tasso negativo di deposito per le banche a Francoforte, con le nuove aste di liquidità che partiranno in autunno finalizzate al credito delle PMI, e con la disponibilità futura – in corso di studio – a rilevare pacchetti di crediti cartolarizzati (utili per sfoltire le sofferenze bancarie). Ma diciamola tutta: la deflazione ormai conclamata nei paesi eurodeboli spinge l’andamento dei prezzi dell’intera eurozona sempre più lontano da quell’obiettivo del +2% dichiarato programmaticamente dalla Bce come dato di riferimento. Continuare a dire che non ci sono rischi di deflazione è impossibile, perché la deflazione è tra noi. E anche Draghi, dunque, ha di che riflettere seriamente. Non tutte le deflazioni sono uguali, e la deflazione non è affatto detto che sia un male in sé 8come pensano i keynesiani). Vi sono esempi nella storia numerosi esempi di deflazione “virtuosa”. Quando è l’effetto dell’afflosciarsi di bolle mobiliari o immobiliari, per esempio. Oppure pensate alla Svizzera, che dal 2010 ha avuto prima inflazione inferiore all’1% annuo e poi 2 anni di deflazione, ma con un’economia che continuava a crescere intorno al 2% e la disoccupazione di poco superiore al 3%. Caso diverso è il nostro: perché la componente nominale del Pil depressa mentre quella reale stagna o recede non fa che peggiorare la situazione. E allora è anche in prima battuta la BCE che può e deve agire come titolare della politica monetaria, perché la deflazione “non virtuosa” cambi segno.

14
Ago
2014

Il controllo sulle spese dei gruppi consiliari regionali e le tentazioni di populismo giudiziario – Di Rocco Todero

Qualche giorno fa il Corriere della sera on line, accostava il faccione pacioso di Franco Fiorito, assurto alle cronache giudiziarie per l’utilizzo improprio dei fondi pubblici destinati ai gruppi consiliari regionali, alla notizia della pubblicazione di una sentenza della Corte dei Conti a Sezioni riunite (la n. 29/2014) che si sarebbe pronunciata per l’insindacabilità delle spese effettuate dai gruppi consiliari della Regione Emilia Romagna per il tramite dei finanziamenti pubblici ai partiti. Nonostante la cautela dell’autore (Sergio Rizzo) nel commentare la sentenza, la sensazione che, in sintesi, il lettore traeva dal complesso composto dal titolo, dalla foto, dal sottotitolo e da alcuni titoli dei sottoparagrafi che hanno scandito il pezzo (es: “ La norma c’è ma si aggira con la discrezionalità politica”) era quella di un radicale cambio di direzione, quasi un tradimento, rispetto alla consolidata tendenza degli ultimi anni della Corte dei Conti di bastonare sonoramente la classe politica per le spese improprie effettuate con le disponibilità derivanti dal finanziamento pubblico ai partiti.

La materia, va da sé, è particolarmente sensibile, non fosse altro per l’enorme mole di procedimenti penali e di giudizi di responsabilità, promossi dai pubblici ministeri (penali e contabili) per chiamare decine di politici a dare conto e ragione delle modalità con le quali hanno utilizzato i denari pubblici del finanziamento ai partiti, processi i cui esiti, correttamente documentati dalla stampa nazionale e locale, hanno contribuito in magna parte ad alimentare quel fiume in piena dell’antipolitica che non accenna ad arrestarsi.

Ma l’argomento è sensibile soprattutto perché porta alla ribalta una questione forse non proprio commestibile per il cosiddetto “ grande pubblico” ma che, tuttavia, rappresenta un caposaldo dello Stato di diritto, della nostra Costituzione e del pensiero liberale e che, per tale ragione, anche “ il quarto potere” dovrebbe sforzarsi di veicolare adeguatamente a beneficio della coscienza critica di una nazione.

Faccio riferimento alla divisione dei poteri ed al principio cardine del costituzionalismo liberale secondo il quale all’interno dello Stato e della Repubblica ciascun potere deve essere sottomesso alla legge (principio di legalità) e deve agire all’interno di un perimetro dalla legge circoscritto senza invadere gli ambiti riservati alla competenza degli altri poteri. Diversamente lo Stato di diritto di stampo costituzionale regredirebbe a Monarchia assoluta.

Ed è cosi che il potere politico e la pubblica amministrazione devono agire esclusivamente per il perseguimento degli obiettivi fissati dalla legge (ordinaria e costituzionale) e secondo le modalità dalla stessa preordinate in un alveo all’interno del quale l’arbitrio è inammissibile ma la discrezionalità è consentita per assicurare un irrinunciabile margine di autonomia politica e per permettere l’attuazione delle più disparate forme d’indirizzo politico sempre all’interno della legalità costituzionale.

Limitato deve essere anche il potere esercitato dall’ordine giurisdizionale il quale 1) deve tutelare i diritti dei singoli cittadini salvaguardandone un insopprimibile margine di autonomia, 2) deve sanzionare le deviazioni delle condotte del potere politico e della pubblica amministrazione dagli argini della legalità facendosi carico, però, di non travalicare col proprio giudizio, debordando, e di non sindacare le scelte di merito politiche ed amministrative.

Diversamente il potere giurisdizionale da cane da guardia del potere politico e della pubblica amministrazione si trasformerebbe in tutore di soggetti ritenuti letteralmente incapaci di intendere e di volere.

A ciò si aggiunga che se il malcostume del potere politico ed amministrativo di tentare perennemente di sottomettere a sé ogni forma di regola, ogni disposizione di legge, ogni altro “ potere” è di sicuro censurabile, la stessa tendenza messa in atto dal potere giurisdizionale è letteralmente inammissibile e non tollerabile in alcun modo perché foriera di un’irrecuperabile frattura della legalità costituzionale e di una perdita di credibilità del soggetto deputato ad assicurare il rispetto delle regole.

Non si può dimenticare, infatti, che se il politico e l’amministratore sono deviati nelle loro condotte dalla logica del “ potere” che tradizionalmente, infatti, rappresenta il paradigma del loro agire, il terreno d’elezione della loro esistenza, il giudice deve essere guidato esclusivamente dalla logica della giurisdizione, dalla cultura della tutela dei diritti di ciascuno, dall’ossequio rigoroso alle regole. Perché il giudice, a differenza del politico, non lotta per alcunché, se non per il rispetto della legge. Soprattutto non lotta per la palingenesi dei costumi e del mondo intero.

Banalità, ovvietà, stucchevole lezioncina di diritto pubblico, potrebbero dire i più!

Forse. Ma vale la pena verificare se i legittimi dubbi del lettore resistono all’esame della deliberazione della sezione regionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna 120/2014 (deliberazione poi impugnata innanzi alle sezioni riunite che hanno pronunziato la sentenza n. 29/2014) la quale nel dichiarare irregolari le spese dei gruppi consiliari ne ha letteralmente annientato l’autonomia pretendendo di subordinare il giudizio sulla legittimità degli esborsi alla dimostrazione di una “ stretta necessità” che svilisce, ogni oltre ragionevole esigenza di controllo, il ruolo istituzionale dei gruppi consiliari.

La Corte dei Conti ha preteso la dimostrazione dell’utilità dell’acquisto di una banca dati giuridica, la specificazione delle pubblicazioni acquistate, del relativo numero di copie, dell’indicazione del titolo e dell’autore dei libri acquistati. Ha ritenuto necessaria la dimostrazione che le spese relative a materiali di consumo ( cancelleria, ecc..) si siano rese necessarie dall’indisponibilità dello stesso materiale da parte degli uffici della regione; ha condizionato la legittimità delle spese di viaggio e ristorazione alla dimostrazione dell’occasione, collegata con l’attività istituzionale del gruppo, alla quale tali spese si riconnettano.

In sostanza la Corte di primo grado ha ridotto a zero il margine di discrezionalità dei gruppi consiliari nel determinare come spendere i fondi pubblici ed ha preteso di “imporre” ai gruppi medesimi la nozione di finalità istituzionale della spese percome dalla medesima implicitamente elaborata ma non espressa. In altre parole: è la Corte dei Conti a delimitare la nozione di “ finalità istituzionale” della spese dei gruppi consiliari non già limitandosi a sanzionare una spesa arbitraria, palesemente eterogenea cioè rispetto alla medesima finalità istituzionale, ma sindacando voce per voce, evento per evento, rivista per rivista, copia per copia, se la spesa rientri nelle finalità istituzionali del gruppo politico.

Leggendo la deliberazione di primo grado della corte dei conti si trae la convinzione che bisognerebbe passare il permesso ai giudici per stabilire se rientri meglio nella finalità istituzionale del gruppo consiliare l’acquisto di una copia di una rivista di storia piuttosto che di una di geografia, se siano meglio due copie o forse una sola. Se un convegno sui problemi dell’agricoltura rientri fra le finalità istituzionali del gruppo politico meglio di quello sul traffico selvaggio nelle città ecc… Se le spese di viaggio per partecipare alla presentazione di un libro rientrino fra le finalità istituzionali meglio di quelle utilizzate per recarsi ad uno sciopero di metalmeccanici. Solo i Giudici possono sapere a questo punto cosa sia la “ finalità istituzionale” del gruppo politico.

E’ questo un controllo di legalità? E’ questo un controllo che si limita a sanzionare l’arbitrio ed a rispettare la discrezionalità del potere politico ? E’ un giudizio equo, imparziale, privo di un qualche pregiudizio culturale? E soprattutto: è un giudizio che attribuisce autorevolezza a chi lo emette?

Ecco, allora, che le sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sull’appello presentato da tutti i gruppi consiliari, hanno dovuto, seppur sbrigativamente, riaffermare i seguenti elementari principi di diritto posti a fondamento dello Stato liberale:

  1. Nessun’azione del potere politico/amministrativo può sottrarsi al controllo giurisdizionale sulla base dei parametri della legge e della costituzione;

  2. Anche le spese effettuate dai gruppi consiliari regionali in quanto poste in essere con risorse pubbliche devono di necessità essere sottoposte ad un controllo di legalità tendente a verificare il rispetto del perseguimento delle finalità istituzionali dei gruppi medesimi;

  3. La nozione di finalità istituzionale e di attività politica è naturalmente da intendersi in senso lato, di tal che il controllo deve sanzionare l’arbitrio di spese palesemente disancorate dalle medesime finalità del gruppo consiliare;

  4. Al gruppo politico deve essere riconosciuto un margine di discrezionalità che salvaguardi l’autonomia di alcune scelte di merito che, se rientrano nel perseguimento della nozione di finalità istituzionale da intendersi obbligatoriamente in senso lato, sono insindacabili in ossequio al principio della separazione dei poteri;

  5. L’eccesso di potere giurisdizionale continua ad essere una figura di esercizio illegittimo della funzione giudiziaria.

Un’ultima notazione. La sezione di controllo in primo grado dell’Emilia Romagna ha stabilito che le regole di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 2012 introduttive dei criteri cui subordinare la legittimità delle spese dei gruppi consiliari devono essere applicate retroattivamente anche per l’anno 2012 e non già a decorrere dal 2013, devono essere applicate, cioè, per un tempo in cui non erano esistenti all’interno dell’ordinamento giuridico e non potevano orientare le condotte dei gruppi consiliari.

Anche su questo aspetto le sezioni riunite hanno rimesso le cose al posto giusto, riaffermando l’inderogabilità del principio di irretroattività e la cogenza delle regole di cui al D.P.C.M. solo a partire dal 2013.

Anche questa un’ovvietà, naturalmente.

12
Ago
2014

Articolo 18: la bandiera ideologica contro la realtà dei fatti

Si torna allo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che disciplina le norme per i licenziamenti e i reintegri nelle aziende sopra i 15 dipendenti. Nei decenni, la norma è diventata una lizza obbligata per tornei a partiti contrapposti. Cerchiamo di capire che cosa è davvero in gioco, e che cosa sia meglio sperare.

Premessa obbligata: il rinvio non aiuta. La legge delega di riforma del lavoro – impropriamente detta Jobs Act – in Senato è stata rinviata a settembre, sotto il peso delle migliaia di emendamenti che impegnavano l’aula sulla riforma della Costituzione. L’ingorgo delle misure – c’erano anche 4 decreti legge pendenti in parlamento – e la ristrettezza dei tempi hanno avuto un effetto negativo.  Dalle parole di Draghi alle analisi delle agenzie di rating e della stampa estera dopo la conferma della recessione italiana nel secondo trimestre, la riforma del mercato del lavoro è in testa alla lista delle misure per le quali si rimprovera al governo il ritardo sulle misure di maggior impatto economico. Di conseguenza, a settembre governo e maggioranza devono cercare di arrivare al varo del provvedimento con idee chiare e soluzioni efficaci. Se si reimpantanano in contese ideologiche, sarà un’altra ragione per diffidare dell’Italia. Non è proprio il momento.

Poiché la politica procede per semplificazioni comunicative, ora sembra essersi riaperto il classico scontro già visto tante volte: Alfano punterebbe all’abrogazione all’abrogazione, Brunetta e Forza Italia si sono aggiunti, mentre buona parte del Pd e naturalmente Cgil e sindacato sono contrari. Come vedremo, non è così. Ma poiché la comunicazione prevale sulla sostanza, messa così il governo si farà male, non potendo certo ammettere che su una simile misura “sociale” mezzo Pd contrario sia pareggiato dal voto compatto di Forza Italia. Ed è alto il rischio che non ne esca niente di buono.

La soluzione deve invece venire da un ragionamento il più possibile oggettivo, basato su dati di fatto cioè numeri, e incardinato su ciò che davvero è nelle norme proposte: nessuna delle quali – sorpresa! – attualmente in Senato propone il superamento dell’articolo 18 per tutti i dipendenti e per sempre.

I numeri. La politica bisogna che si rassegni: tutti i suoi tentativi di piegare il mercato del lavoro volgendolo verso “un” tipo ideale di contratto  ottengono effetti contrari e negativi, cioè meno occupati. Nei nuovi rapporti di lavoro attivati dal 2011 al 2013, sono diminuiti i contratti a tempo indeterminato (-14,2%), è sceso l’apprendistato (-18,4%), i contratti di collaborazione per lo più a progetto (-24,3%) e il lavoro a chiamata (-31,6%). Di qui l’intervento fatto dal governo col decreto Poletti, per semplificare l’uso dei contratti a termine e l’apprendistato, riducendo gli spazi per altre formule contrattuali, ritenute più a rischio di abusi, come le collaborazioni a progetto, l’uso di partite Iva, il lavoro a chiamata. Una cosa è sicura, da questi dati: l’intento della riforma Fornero sul lavoro – piaciuta ai sindacati, a differenza di quella sulle pensioni – cioè scoraggiare il ricorso alle collaborazioni a tempo più “sospette”, non ha avuto affatto l’effetto di rafforzare il lavoro a tempo indeterminato, che è l’idea molto “novecentesca” che sindacati e sinistra hanno del lavoro, non rendendosi conto – ma questa è la nostra opinione – che il mondo è cambiato. Siamo riusciti a scoraggiare anche i contratti di lavoro a chiamata (o di lavoro intermittente), molto usati negli alberghi e nella ristorazione, scesi dal 10% al 5% sul totale degli avviamenti al lavoro, e poi diciamo di voler rilanciare turismo e cultura… Nella crisi italiana, dal 2010 a oggi, nessun intervento politico favorevole ai contratti a tempo indeterminato ha mutato di un millimetro la realtà concreta della domanda italiana di lavoro: i contratti a tempo rappresentano il 67% delle nuove assunzioni, quelli a tempo indeterminato meno del 18%. Sul totale dei circa 16,6 milioni di lavoratori dipendenti, ben 14,5 milioni sono a tempo indeterminato (tra tempo pieno e tempo parziale): dunque non siamo in presenza di un mercato del lavoro a maggioranza precario, ma resta il fatto che voler “spingere” le imprese sui neoassunti a solo tempo indeterminato non fa bere il cavallo.

Perché questo excursus numerico? Perché l’articolo 18 – nella mente di chi lo difende ideologicamente – è una tutela che dovrebbe contraddistinguere il mondo ideale, quello in cui il più della nuova occupazione “deve” essere rappresentata dal lavoro a tempo indeterminato. Non solo così non è, e dunque è una tutela per una minoranza di ipertutelati rispetto alla maggioranza degli avviati al lavoro. Ma finisce per rappresentare un freno e non un incentivo, proprio al se si ha in mente come obiettivo la crescita della quota di lavoro a tempo indeterminato. Ed è esattamente questa la “trappola mentale” che può riscattare sul Jobs Act.

Veniamo infatti alle norme sulle quali il confronto era andato avanti, in Commissione Lavoro al Senato. La modifica dell’articolo 18 rispetto alla riforma Fornero – che aveva fatto restare l’appellabilità giudiziale e la reintegra anche per i licenziamenti economici, sia pure dando come alternativa l’indennizzo – nel disegno di legge delega è una sorta di appendice a uno dei suoi pilastri, cioè il contratto di inserimento triennale a tutele crescenti. Oltre a prevedere sgravi contributivi ancora una volta caratterizzati dal favore verso il tempo indeterminato – fino due terzi degli attuali contributi per un neo assunto a tempo indeterminato, solo metà verso il tempo determinato – si pensa nel contratto d’inserimento anche a una modifica dell’articolo 18 attuale, facendolo restare la reintegra obbligatoria giudiziale solo per i licenziamenti discriminatori, e sostituendo il giudizio del magistrato su quelli economici con una indennità proporzionata all’anzianità di lavoro maturata.

E qui insorgono le differenze. Pietro Ichino, di Scelta Civica, da sempre propone che la reintegra per i licenziamenti economici scompaia gradualmente per tutti, sostituendola con un’indennità a carico dell’impresa anche comprensiva del finanziamento a tempo della ricollocazione del lavoratore. Non è questo, ciò che propongono Alfano e Brunetta: dalle parole che usano si intende che parlano di una “moratoria” dell’articolo 18 per i neoassunti, Brunetta ha specificato per tre anni, in modo che alla fine del contratto d’inserimento e una volta assunti a tempo indeterminato la tutela attuale torni a valere per tutti. Il Pd si era spinto al massimo a far capire invece che la moratoria può valere solo per i primi sei mesi di prova, dopo i quali scatta il contratto d’inserimento a pieno titolo e resta la piena tutela dell’attuale art. 18.

Chiarita la questione, arriviamo al punto. Una riforma vera dell’articolo 18 dovrebbe riguardare tutti i lavoratori ed essere collegata dunque alla riforma degli ammortizzatori sociali pure preista nel Jobs Act, come da sempre chiede Ichino. E come ha fatto la Spagna, dove il licenziamento per motivi economici è stato consentito anche individualmente e la giudiziabilità è esclusa, sostituendola con indennizzo. Anche in Francia, la giudiziabilità del licenziamento economico è esclusa e si procede con un indennizzo. Se ci s’impicca allo scontro ideologico tra chi la vuole una moratoria per i soli neo avviati al lavoro dividendosi tra chi la vuole per sei mesi o per tre anni, è uno scontro che non vale la candela, e allora ha ragione Michele Tiraboschi: frammenta solo ulteriormente il regime di tutele, ma l’imprenditore saprà sin dall’inizio che alla fine le cose restano come oggi. Sarebbe l’ennesimo “intervento a margine” che ogni governo propone, con poco successo sulla domanda effettiva di lavoro. Mentre il punto vero è sgravare le imprese di troppe tasse sul lavoro, la riforma degli ammortizzatori con la fine della CIG, un sistema efficiente e aperto al privato di incrocio tra domanda e offerta di lavoro, la formazione ricorrente (abbian speso nella crisi 100 miliardi di CIG senza un’ora di formazione per ricollocarsi), e molto più apprendistato.

Soprattutto, il governo eviti un rischio aggiuntivo: quello di graduare una riforma dell’articolo 18 limitata a una moratoria più o meno lunga, peggiorando però come oggetto di scambio il contratto d’inserimento, che sindacati e parte della sinistra vogliono – tanto per cambiare – il più possibile sostitutivo di tutte le altre forme di contratto, da quelli a tempo all’apprendistato, che dovrebbe rappresentare invece la via maestra per il lavoro in moltissimi settori.

Solo Renzi in persona può scogliere il nodo. Ma una riforma ambiziosa non può essere una norma a tempo col rischio di peggiorare il resto.

12
Ago
2014

Lo straniero passa (e segna)

La sfida tra Demetrio Albertini e Carlo Tavecchio per la presidenza della Federazione Italiana Gioco Calcio è stata prima di tutto – sarebbe assurdo negarlo – uno scontro tra interessi contrapposti: uno scontro politico nel senso più onesto del termine. Tuttavia, la lettura dei programmi delle rispettive candidature denotava anche profonde differenze sul piano ideale e sotto il profilo dei rimedi di policy all’evidente declino – tecnico, economico, morale – del calcio italiano. Il più significativo tra questi contrasti attiene probabilmente al ruolo dei calciatori stranieri o, più correttamente, extracomunitari – posto che il diritto dell’Unione preclude la discriminazione degli atleti provenienti da altri paesi europei.
Come ha giustamente segnalato Piercamillo Falasca, si trattava di una riedizione della classica diatriba tra liberisti e protezionisti: i primi rappresentati dallo sconfitto Albertini, che avrebbe revocato ogni vincolo geografico, sulla scorta dell’esempio tedesco; i secondi capitanati dal vittorioso Tavecchio, che ha promesso l’adozione di un meccanismo di selezione a monte, in ossequio al modello inglese. Rileviamo sin d’ora un dato paradossale, alla luce di tali premesse: la Premier League è – con la sola eccezione di Cipro – il campionato europeo in cui la rappresentanza internazionale è più rilevante, con il 61% dei giocatori; la Bundesliga si ferma al 44,3%; la Serie A si attesta al 52,5% (CIES Demographic Survey 2013).
Sul Corriere della Sera di sabato 2 agosto, Mario Sconcerti (“Stranieri il nocciolo del problema”) ha illuminato i presupposti dell’opzione protezionistica. L’assioma è che il bene della nazionale italiana coincida con il bene del calcio italiano: «perdendo i risultati della nazionale si perdono i risultati di un intero movimento, cioè soldi, valore, altro mercato». Correlazione opinabile, per dire il meno: perché il campionato più interessante d’Europa, quello inglese, esprime da decenni una nazionale mediocre; perché, viceversa, selezioni di primo piano – come le grandi sudamericane – hanno alle spalle leghe di medio cabotaggio; perché, semmai, il rapporto causale correrà nel verso opposto: nei recenti successi del calcio spagnolo e di quello tedesco, i club hanno avuto il ruolo propulsivo – non il contrario.
Tutto l’apparato argomentativo dell’articolo risente dell’obbedienza a una tesi tanto sbilenca: così, Sconcerti celebra la messe di talenti italiani della metà degli anni ’90, ma lo fa citando rispettabili pedatori (Adani, Pioli, Cravero, Bortolazzi, Manicone…) che l’azzurro l’hanno, al più, assaporato fuggevolmente e che difficilmente oggi vi troverebbero maggior accoglienza; e, soprattutto, trascura che quella generazione ha collezionato tra il 1996 e il 2004, con la sola eccezione degli Europei del 2000, una serie di esibizioni tutt’altro che memorabili. Altrettanto discutibile è il trattamento del calcio tedesco, ansioso, secondo Sconcerti, di «salvaguardare “la razza”» – espressione di per sé infelice, specialmente se riferita a un sistema che ha schiuso le porte della nazionale a cognomi come Özil, Khedira, Mustafi e Boateng. Se è vero che non si è «mai visto un fuoriclasse straniero giocare in Germania», «dove il mercato internazionale quasi non esiste», qualcuno dovrà spiegare come Robben e Ribery siano sbarcati in riva all’Isar e come sia accaduto che otto dei migliori marcatori dell’ultima Bundesliga fossero foresti.
Quando si considera il livello di apertura internazionale, la vera anomalia del calcio italiano risiede non nell’esubero dell’import, bensì nella penuria dell’export. Ne abbiamo avuto prova anche durante i recenti Mondiali. La Germania vittoriosa annoverava sette calciatori attivi nei campionati esteri: quattro in Premier League, due in Serie A, uno nella Liga; l’altra finalista, l’Argentina, disponeva di ben venti atleti impiegati nelle leghe europee; al contrario, tra i convocati di Prandelli, appena tre sgambettavano oltreconfine – e non in uno dei campionati più stimolanti, bensì in Francia. Nella graduatoria delle selezioni autarchiche, solo la già citata Inghilterra e la Russia hanno fatto meglio – cioè peggio.
Esattamente come i cervelli in fuga, anche i piedi in fuga costituiscono, per un occhio attento, un’opportunità: le fughe tendono a esaurirsi, restituendo al paese di origine – purché, naturalmente, esso sia pronto a riceverlo – un capitale umano più ricco e variegato. Nel caso specifico, ciò si traduce in una maggiore familiarità con culture sportive diverse, in una maggior padronanza di movimenti e sistemi di gioco alieni, in una maggior duttilità, in una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. Il tema, allora, è quello di garantire che nel frattempo il flusso in entrata almeno bilanci, quantitativamente e qualitativamente, quello in uscita.
Tavecchio ha promesso sorprese, e deve ancora far dimenticare la grave dichiarazione che ne ha quasi compromesso la corsa alla presidenza: rivedere la propria posizione sugli stranieri sarebbe un buon punto di avvio. Il compito ultimo della Federazione dovrebbe essere quello di innalzare in tutte le categorie il livello della pratica calcistica: ciò richiede, sul piano economico, una riforma dell’industria del pallone; e, su quello sportivo, la più netta apertura al talento, acquistato o sviluppato in casa, a prescindere da ogni segmentazione geografica. I vincoli all’impiego dei calciatori extracomunitari inflazionano il costo di quelli comunitari, inclusi quelli provenienti dai vivai, e alimentano una serie di comportamenti distorsivi ed elusivi che danneggiano tutti gli attori del sistema. Mantenere in vigore tali vincoli in nome della competitività della nazionale significa usare uno strumento controproducente per servire un obiettivo fuorviante. La nazionale è figlia, e non madre, del movimento. Una Federazione che ne anteponga gli interessi a quelli di chi – società, allenatori, calciatori, persino tifosi – produce calcio tutto l’anno si comporterebbe come un governo che si preoccupasse di tutelare una singola impresa pubblica a spese delle aziende private attive nello stesso comparto. Un orientamento che nessuno in Italia sarebbe disposto ad avallare, vero?

11
Ago
2014

Fisco: semplificare la semplificazione

La delega fiscale conferita al governo dalla legge 11 marzo 2014, n. 23 contiene un mandato ampio e chiaro che, riconoscendone il valore dei fini della crescita economica, pone al centro dell’azione riformatrice un obiettivo di semplificazione del sistema tributario. Ciò si evince, in primo, luogo dall’articolo 1, che individua tra i criteri direttivi generali del provvedimento “[il] coordinamento e [la] semplificazione delle discipline concernenti gli obblighi contabili e dichiarativi dei contribuenti”, nonché una maggiore uniformità nella disciplina relative alle obbligazioni tributarie e ai poteri dell’amministrazione finanziaria; ed emerge con maggior chiarezza dall’art. 7, che invita alla revisione sistematica dei regimi fiscali e al loro riordino, al fine di eliminare complessità superflue”, con particolare riferimento agli adempimenti inessenziali, nonché al ruolo dei sostituti d’imposta, dei centri di assistenza fiscale, degli intermediari.
Il primo schema di decreto, sottoposto nelle scorse settimane ai pareri consultivi delle competenti commissioni di Camera e Senato, intraprende la strada indicata dal legislatore delegante, ma manca di coraggio. Il pezzo forte del provvedimento è costituito dalla dichiarazione precompilata, introdotta in via sperimentale per dipendenti e pensionati: secondo alcuni si tratta della soluzione definitiva ai molti mal di testa causati dal 730 e dall’Unico; per altri, invece, è la dimostrazione plastica e un po’ inquietante della nudità del contribuente di fronte al fisco. Quello che interessa rilevare in questa sede è che, più che semplificare la vita al contribuente, la dichiarazione precompilata pare complicarla agli altri soggetti coinvolti – a cominciare dai sostituti d’imposta.
Sotto questo profilo, in particolare, sarebbe auspicabile un rilassamento delle scadenze per l’invio della certificazione e, soprattutto, un’attenuazione della disciplina in materia responsabilità degli intermediari e di sanzioni a carico dei sostituti d’imposta; inspiegabile, poi, è l’abolizione del compenso alle imprese che svolgono l’attività di assistenza fiscale, evidentemente figlia di una logica che equipara la semplificazione alla riduzione dei costi visibili, ma non si preoccupa di quelli invisibili.
Anche rispetto ai rimborsi d’imposta si osserva una certa ambivalenza da parte del legislatore delegato, che ha commendevolmente proposto l’abrogazione dell’obbligo di fideiussione, rimpiazzandolo, però, con la richiesta di un visto di conformità per i crediti superiori a 15.000 euro, requisito altrettanto gravoso e di efficacia discutibile. Ulteriori interventi si rendono necessari in ambito Iva: per semplificare il recupero dell’imposta su crediti non riscossi e per sfrondare la normativa sovrabbondante che regola le operazioni intracomunitarie.
Altrettanto urgente – e già promessa a più riprese – è, infine, l’abrogazione della responsabilità solidale fiscale negli appalti, che peraltro si sovrappone ad una responsabilità solidale contributiva. Si tratta di una misura che scarica impropriamente sui committenti e sugli appaltatori oneri di contrasto del lavoro nero e dell’evasione fiscale che non possono competere loro – e che sovente si traducono in un irrigidimento dei rapporti di questi soggetti con appaltatori e subappaltatori.
Certo, la delega delinea un percorso legislativo articolato in una pluralità di decreti che il governo potrà emanare nell’arco di trenta mesi, entro un confronto costante con il parlamento: pertanto, non mancheranno le possibilità di correggere la rotta in corso d’opera. Ma l’aurea massima “non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi” acquista una valenza particolarmente significativa quando è rivolta ai decisori politici, la cui agenda è costantemente rimodulata sulla base delle urgenze e delle emergenze del momento. Il momento per la semplificazione fiscale è oggi. Del resto, quelli suggeriti sin qui non sono ripensamenti radicali dell’impianto del decreto, ma semplici aggiustamenti che meglio adeguerebbero il tenore delle sue previsioni all’intento perseguito dalla delega evitando di fare di una molto necessaria riforma l’ennesima occasione perduta.

8
Ago
2014

Le tre misure semplici che potrebbero salvare il paese

Dopo l’ultimo dato sul Pil [1] è impossibile resistere alla tentazione di cimentarsi nello sport preferito dagli italiani (quando non gioca la nazionale) ossia mettersi nei panni del presidente del consiglio per trovare soluzioni facili efficaci e veloci che “chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.” Ecco quindi al volo tre Quick Win fulminanti per salvare il paese dalla brutta china su cui è avviato.

 Prima misura semplice ed efficace per salvare il paese: mettersi in testa che il paese non si salva con misure semplici ed efficaci [2]. La tentazione è molto forte e qualche volta scantona nell’esagerazione contro-fattuale[3], in fondo basta prendere qualche grandezza di finanza pubblica a tante cifre, o altra fonte similare di risorse, in un paese dove praticamente tutto funziona in modo subottimale e dire “volete che non si riesca a risparmiare/ recuperare/ ottimizzare un x% (con x più o meno ragionevole a piacere)?” L’alternativa controfattuale è ancora più facile: “se avessimo i salari dei tedeschi o la qualità dei servizi pubblici svedesi…” e ovviamente se ne infischia dal fatto che, forse, altre nazioni hanno caratteristiche differenti perché in passato hanno fatto scelte differenti dalle nostre.

Peccato che sfuggano sempre quei piccoli dettagli inerenti l’implementazione operativa [4] delle proprie idee geniali. La realtà non è mai bianca o nera, ma purtroppo sempre inesorabilmente grigia: ad esempio, se la pubblica amministrazione funziona male non è perché tutti i dipendenti pubblici lavorano male o poco in egual misura, ma, moto più verosimilmente, perché ci sono un numero limitato di missionari, che lavorano bene e tanto e portano in spalla il peso dei colleghi meno volenterosi e/o capaci. Allora qualsiasi intervento incondizionato, penalizzerà i pochi “buoni” beneficiando relativamente i “cattivi”. Qualsiasi intervento invece volto a discriminare comporta meticolose verifiche di dettaglio, che necessitano di competenze specifiche, ma soprattutto costi politici enormi dal punto di vista degli incentivi: non solo occorre qualcuno che si faccia carico di trovare delle misure obbiettive per capire cosa può e deve essere migliorato, occorrono le competenze giuste perché questa operazione sia fatta in modo opportuno e soprattutto gli incentivi adeguata per renderla praticata altrimenti si infrangeranno sempre contro la cortina invisibile del: “chi me lo fa fare?”

La conclusione sarebbe dunque che non si può far nulla per cogliere i miglioramenti del sistema che agli occhi di tutti sembrano possibili? No la conclusione è che non c’è un modo semplice per farlo, e che mettere in pratica [5] i risultati dell’algebra da carta di formaggio comporta costi di esecuzione rilevanti.

 La seconda misura salva paese non può che discendere dalla prima: se abbiamo inteso che non esistono risposte semplici per ai problemi del paese, occorre prendere atto che le soluzioni non saranno a buon mercato. L’ostacolo principale a qualsiasi serio programma di riforme degno di questo nome risiede nella mancata presa di coscienza che “qualcuno dovrà pagare il conto”. Non si può rendere efficiente lo stato senza imporre a chi oggi non lavora o lavora male di fare per bene quello per cui è pagato [6]. La conseguenza diretta è che che qualcuno venga rimosso da posizioni per le quali non è adeguato o che venga pagato di meno per l’attività che svolte o che gli venga richiesto di fare di più per lo stesso compenso. Saranno ovvietà ma quando di stratta di dire che tutto va male e che bisogna fare qualcosa sono tutti concordi. Quando c’è da trovare dove intervenire il bersaglio è sempre qualcun altro. Non si cambia l’Italia senza toccare nessuna rendita di posizione, senza intaccare un diritto acquisito senza insomma prendere atto che qualcuno deve pagare il costo del cambiamento, altrimenti nessun cambiamento sarà mai possibile.

La terza e ultima misura è la più difficile: se non ci sono ricette semplici e se qualcuno il conto deve pagarlo, forse potremmo smetterla di affidarci a coloro i quali dicono il contrario. Le narrazioni in base alle quali la causa di tutti i mali è unica e (guarda caso) attribuibile a un gruppo di interesse diverso da quello a cui apparteniamo (vedi la demonizzazione degli evasori o degli statali fannulloni) sono la più efficace arma di distrazione di massa nei confronti delle riforme di cui il nostro paese ha realmente bisogno

 

@massimofamularo

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Apologia di Socrate

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[1]http://www.istat.it/it/archivio/130059

[2] http://www.leoniblog.it/2014/04/03/quel-proiettile-dargento-che-non-ce/

[3] http://www.linkiesta.it/blogs/apologia-di-socrate/come-ho-sconfitto-la-fame-nel-mondo

[4] http://www.lastampa.it/2014/03/23/cultura/opinioni/editoriali/spesa-pubblica-perch-i-tagli-sono-difficili-q8l2AOHRCDTexdus3DzBlK/pagina.html

[5] http://www.linkiesta.it/blogs/apologia-di-socrate/due-o-tre-dettagli-sulla-staffetta-generazionale

[6] http://noisefromamerika.org/articolo/tutti-meritocrati-col-culo-altri