12
Set
2014

Spesa pubblica: Renzi deve decidersi. Nella sanità partiti e forniture non sono neanche stati sfiorati

I tecnici no, i politici neanche. Il dramma della spesa pubblica italiana è un continuo rimpallo, tra chi la deve tagliare. E la risposta è: nessuno dei due.  Nel frattempo, a pagarla però siamo noi tutti. Ci si sono bruciate le mani a tutti i governi italiani, in questi anni di crisi. E ora è la volta di Renzi. Per non scottarsi, deve decidersi.

Uno sgradito Bollettino mensile della BCE ha ieri richiamato l’Italia a tirare i cordoni della spesa pubblica. Perché quest’anno non verrà rispettato l’obiettivo di contenere il deficit entro il 2,6% del Pil, e a maggior ragione si aggrava l’impegno che andrà rispettato per il 2015, con la legge di stabilità attesa a ottobre. Al netto delle tante variabili tecniche – l’attesa entro 3 settimane per il ricalcolo del Pil per gli anni 2012-2013, dopo che l’Istat ha rialzato del 3,7% quello 2011 grazie a un diverso computo di investimenti ed economia illegale; il vertice straordinario europeo sulla crescita voluto da Renzi e previsto per il 6 ottobre; l’effetto che avrà su Commissione e Consiglio europei la posizione della Francia, che non rispetterà né nel 2015 né nel 2016 il promesso rientro entro il 3% del deficit sul Pil – anche per Renzi è ormai maturo un ragionamento di fondo, sulla spesa pubblica. Ha a che fare con il rapporto tra politica e tecnici, l’eterno dilemma di questi duri anni di crisi italiana.

Partiamo dalla realtà. La spesa pubblica continua a salire. Ha rallentato la sua ascesa, ma sale. Tutti quelli che dicono che scende lo fanno escludendo gli interessi sul debito, o magari anche la spesa previdenziale e quella per prestazioni dovute: peccato che il contribuente debba pagare tutto, non è che lo Stato ci faccia lo sconto su questa o quella posta di spesa. Dai 605 miliardi del 2001 è salita a 797 nel 2011, e in questo 2014 chiuderà intorno a quota 820 o, speriamo, poco più. Ma nello stesso DEF presentato dal governo Renzi ad aprile scorso, la spesa era prevista crescere fino a oltre 850 miliardi al 2018.

Dalla crisi del governo Berlusconi a oggi, escludendo le leggi di stabilità, i DEF e gli interventi ordinari di disposizione di nuove entrate e uscite, si contano ben 14 provvedimenti di reindirizzo strategico delle verifiche, controlli e proposte di riordino della spesa pubblica. A parole, i governi precedenti all’attuale, quelli di Berlusconi, Monti e Letta, non ci hanno fatto mancare una nutrita batteria di strumenti volti a creare le premesse per tenere sotto controllo la sete di spesa pubblica. Sono nati i nuclei ministeriali di valutazione della spesa, il coordinamento interministeriale sui suoi andamenti, un rapporto annuale che dal 2012 andava presentato entro novembre ogni anno.

Ma tutto ciò ha prodotto poco, rispetto alla scelta che ha avuto più eco pubblica: affidare a dei tecnici l’incarico di studiare la spesa pubblica nelle sue mille pieghe, e avanzare proposte per ridurla, ottimizzarla, identificare sprechi di massa per concentrare invece risorse su poste più essenziali allo sviluppo e alla coesione sociale. I commissari alla spending review: Giarda prima, Bondi poi, infine Carlo Cottarelli, scelto dal governo Letta e subìto – ormai si può dire, visto che tornerà a Washington tra poco – dal governo Renzi. I commissari nascevano dalla ripulsa della politica verso il sistema-Tremonti: quello dei tagli lineari che, per funzionare nell’immediato, non facevano distinzioni tra priorità ed effetti economico-sociali, e soprattutto avevano bisogno di un ministro dell’Economia capace di farsi odiare da tutti i colleghi, senza per questo poter essere sostituito dal premier. Di fronte all’insurrezione giustificata di tanti, si disse: sia un tecnico estraneo agli interessi elettorali, coadiuvato da esperti interni ed esterni alla PA, a indicare alla politica come intervenire.

Ma è stato identico, l’esito delle analisi e proposte avanzate da Giarda, Bondi e Cottarelli. I governi cambiavano, ma i rapporti dei commissari restavano nei cassetti. Con una politica sempre più infastidita. Perché le tante proposte dei commissari, appena rese pubbliche, intanto suscitavano nuove ondate di proteste. E per questo mai divenivano provvedimenti. Mentre la spesa saliva.

Renzi sin dall’inizio non si è nascosto dietro un dito. Appena Cottarelli ha presentato le sue slides gli ha levato la palla, ha chiarito che si tornava al primato della politica. E’ il governo che sceglie e decide, punto. Benissimo. Poi però – dopo i poco più di 2 miliardi di tagli operati appena nato il governo – ha scelto prima di aspettare 6 mesio rinviando ogni ogni scelta alla legge di stabilità, che da settembre è slittatata ad ottobre. Poi, la settimana scorsa, ha annunciato che avrebbe chiesto a ciascun ministro proposte per tagliare ognuno del 3% il proprio bilancio. Tutto per portare a casa circa 6 miliardi, visto che i bilanci ministeriali, fuori dalle spese per funzioni come trasferimenti alle Autonomie, previdenza sanità eccetera, cubano meno di 180 degli oltre 800 miliardi di pesa pubblica.

Con il che, eccoci tornati alla casella d’inizio, come in un gioco dell’oca. I tagli lineari di Tremonti sono stati bocciati perché ciechi delle conseguenze, e di fatto dettati dalla Ragioneria Generale dello Stato e dai direttori generali dei ministeri, cioè dai tecnici della burocrazia pubblica e non dai politici. Ma, dopo aver fatto tappezzeria dei commissari alla spending review, ecco che in nome del primato della politica si torna esattamente ai tecnici ministeriali. Come tre anni fa. Nel frattempo, le 35 mila stazioni appaltanti e di procacciamento di forniture pubbliche restano 35 mila, le partecipate locali non si toccano perché l’Anci ha messo il veto. E la spesa pubblica continua a salire.

Per Renzi, a questo punto, è il momento della scelta. Lo dica, se vuole ridurre il più possibile i tagli veri, sposando la linea che invoca la minoranza del suo partito e limitando la legge di stabilità a incamerare i risparmi sugli interessi pubblici realizzati quest’anno e l’anno prossimo grazie a Mario Draghi, cioè alle scelte della BCE. Se invece resta convinto di voler fare tagli veri per coprire tagli alle tasse su impresa e lavoro, proceda con decisione. Ma decida lui e spieghi lui. Non ha senso, continuare a dire che non sforiamo il 3% né quest’anno né l’anno prossimo senza però prendere decisioni coerenti a quel che si dice. Non ricominciamo con i veti posti dai mandarini dell’alta burocrazia pubblica. Altrimenti, sarà inevitabile che anche a Renzi tocchi l’indebolimento che ha minato i suoi indecisi predecessori.

Facciamo l’esempio che ieri ha fatto insorgere le Regioni: la sanità. A luglio il ministro Lorenzin ha siglato con le Regioni l’intesa sul patto per la salute pluriennale. E visto che si parla di tagli, ricordiamo bene a tutti che in quel patto la spesa del fondo sanitario nazionale aumenta, sale e non scende: a 109,9 miliardi in questo 29014, e di altri 5,7 miliardi aggiuntivi entro il 2016. Se anche Renzi chiedesse 3 miliardi di risparmi nel biennio, la spesa sanitaria resterebbe in crescita di 3 miliardi, non ci sarebbe nessun taglio. I presidenti di Regione che sono insorti ieri sanno benissimo che non è vero, che intervenire su quell’ammontare di spesa significhi dover tagliare i servizi. Perché – al netto degli interventi di rientro coatto disposti in alcune Regioni a conclamato default sanitario in questi anni – la sanità resta un sistema in cui i capi delle ASL sono uomini dei partiti politici, visto che nessuno ha avuto il fegato di modificarne strutturalmente i criteri di nomina, con bandi pubblici riservati a manager del settore. E perché le forniture sanitarie continuano a essere un mercato parallelo segmentato e opaco, subottimale per i costi a carico pubblico e largamente sospetto per l’improprio intreccio di interesse tra pubblico e privati.

Prenda le sue decisioni e proceda, Renzi. Nella sanità come in tanti altri comparti, la volta buona che al premier sta tanto a cuore può garantire servizi migliori ai cittadini quanto più il premier vorrà incidere in interessi e lobby che, con il benessere pubblico e lo sviluppo, nulla hanno a che vedere. Altrimenti: che delusione.

11
Set
2014

Sequestro penale preventivo finalizzato alla confisca per presunto reato tributario

I Cittadini di questo strano Paese debbono averla combinata davvero grossa se lo Stato si fida così poco di Loro da considerarli pregiudizialmente dei “poco di buono” ed i Suoi apparati non perdono occasione per dimostrarlo, specie quando si tratta della materia tributaria nel cui ambito siamo considerati tutti “evasori fino a prova contraria”! Una recentissima Sentenza della Sezione Penale della Corte di Cassazione sembra ribadire questo pregiudizio ed appare particolarmente emblematica.
Si verte in tema di “sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente” (art. 321 c. 2 c.p.p.), utilizzato nel corso del procedimento penale per anticipare gli effetti cautelari di una eventuale futura sentenza di condanna che dovesse accertare la sussistenza di una ipotesi di reato a carico dell’indagato/imputato; la Finanziaria 2008 ha sostanzialmente esteso l’applicabilità di questo istituto anche a taluni reati tributari (dichiarazione omessa o infedele per importi superiori ad una determinata soglia, dichiarazione fraudolenta, emissione di fatture per operazioni inesistenti, omessi versamenti di ritenute fiscali o di iva o indebite compensazioni tributarie per importi superiori a determinate soglie); fin qui nulla quaestio, visto anche il disvalore economico-sociale degli illeciti tributari “veri”. Del resto, il presupposto dell’applicazione della particolare misura cautelativa risiede normalmente nella sussistenza del fumus commissi delicti e cioè nella presenza di elementi particolarmente incisivi da cui si possa ragionevolmente presumere la sussistenza in concreto dell’illecito penale ipotizzato: non un semplice sospetto dunque, ma una rilevante probabilità che il crimine si sia stato effettivamente commesso.
In tal senso si è più volte espressa la Giurisprudenza di legittimità: <<… la verifica del Giudice del riesame, ancorché non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa …, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti”, … deve rappresentare in modo puntuale e coerente le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrare la congruenza dell’ipotesi di reato prospettato rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale …; … il compendio probatorio, se non deve avere la consistenza dei gravi indizi di colpevolezza richiesta per l’applicazione delle misure cautelari personali, … non può essere del tutto assente e deve configurarsi quale prospettazione da parte del Pubblico Ministero dell’esistenza di concreti elementi per riferire il reato alla persona dell’indagato …>> (Sent. n. 31155/2013, con vari riferimenti ad altre pronunce). Si tratta peraltro di un orientamento preesistente e diffusamente condiviso, tant’è che era stato anche menzionato in occasione dell’Incontro di Studi sul tema “Laboratorio su problematiche e prassi in tema di misure cautelari” tenutosi a Roma il 12-12.12.201 a cura del Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito dei lavori della Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale: in quella occasione, dopo aver precisato che la verifica del fumus <<… non può essere limitata a un giudizio di astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto delle concrete emergenze processuali …>>veniva riportato lo stralcio di una pronuncia di legittimità (Sent. n. 38411/2010) la quale considerava errato che il Tribunale del Riesame potesse limitarsi <<… a valutare esclusivamente che l’ipotesi dell’accusa non sia manifestamente infondata … >> e statuiva che <<… il Tribunale del riesame non può limitarsi alla mera verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzato, ma deve … prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato ipotizzato …>>.
Rispetto a questa ben più equilibrata impostazione della questione, suggerita in sede formativa, con la recentissima Sentenza n. 36734 del 03.09.2014 la Cassazione sembra adottare criteri assai meno rigorosi, facilitando in tal modo l’applicazione di uno strumento che le Procure già utilizzano ormai col ciclostile, senza particolari remore: ha infatti statuito che <<… in tema di sequestro preventivo non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità di una determinata ipotesi del fatto contestato …>>; per la verità non sarebbe neanche una novità, perché esisteva già un identico filone interpretativo (cfr. ad esempio Sent. n. 5656/2014 e Sent. n. 10100/2011). Astraendo dalla fattispecie concreta (i cui elementi ovviamente non sono noti) e concentrando l’attenzione sulla statuizione di principio, la decisione appare particolarmente grave, perché sembra enfatizzare il sospetto più come “sensazione” del Giudice che come “ponderata riflessione” sulla effettiva consistenza indiziaria degli elementi a carico dell’indagato e sul grado di persuasività che essi rappresentano rispetto all’illecito ipotizzato.
In materia penal-tributaria tale orientamento giurisprudenziale è ancor più preoccupante se solo si considera quanti accertamenti di violazioni tributarie penalmente rilevanti (le soglie quantitative sono state anche abbassate nell’autunno 2011) scaturiscono dalla applicazione di assurde presunzioni legali o dagli esiti di discutibili ricostruzioni analitico-induttive basate su presunzioni ritenute (sic!) gravi, precise e concordanti. Si profila dunque vita dura per i malcapitati che finiscono sotto le grinfie fameliche dei controlli tributari troppo spesso finalizzati a rincorrere i budget assegnati agli Uffici finanziari: oltre al danno della riscossione provvisoria in pendenza del Giudizio tributario secondo la logica del solve et repete infatti, sono esposti anche alla beffa del sequestro preventivo finalizzato alla confisca secondo una medesima logica con conseguenze che potrebbero essere devastanti in un periodo in cui la sofferenza economico-finanziaria è così diffusa tra i Cittadini e non accenna ancora a migliorare. Evviva lo Stato di diritto!

9
Set
2014

Renzi alla Fiera del Levante: 4 idee sul Sud, cominciando da chiusura dell’Ente Fiera

Sabato prossimo il premier Matteo Renzi inaugurerà la 78esima fiera del Levante. Da un po’ di anni a questa parte, i presidenti del Consiglio italiani intervengono a Bari ma non parlano di Mezzogiorno. Monti ebbe a dichiarare esplicitamente, come premier, che per il Sud il suo governo non aveva una politica specifica: il problema era salvare l’Italia, e al Sud innanzitutto partiti e politica dovevano cambiare testa, e occupare meno la macchina pubblica. Un anno fa, quando toccava a Letta, rileggendo il suo discorso si vedevano in filigrana già tutte le debolezze di un governo esausto. Disse che la legge di stabilità l’avrebbe scritta Roma e non Bruxelles, e che sbagliava chi incalzava il governo scambiano per meri annunci la pluralità di riforme in cantiere. Il consiglio non richiesto che diamo a Renzi è di rileggere Letta, e di non commettere lo stesso errore del suo predecessore, visto che sembrano rubrasi le parole. E neppure quello di Monti.

Non è vero, che non bisogna avere una politica per il Sud. E mettiamo subito le mani avanti. Diamo atto al governo Renzi di arrivare a Bari avendo continuato nella battaglia per recuperare buona parte dei fondi europei 2007-2013 non spesi nel Mezzoggiorno per colpa innanzitutto delle Regioni meridionali e di chi le amministra (con percentuali di inefficienza diverse, non esiste da tempo un Sud indifferenziato, il disastro di Calabria e Sicilia non è il ritardo della Campania, e la Puglia fa storia a sé). E di aver instradato con la Commissione Europea un percorso – richiestoci duramente da Bruxelles con circa 250 puntuali osservazioni, e instradato dal governo Letta e da Moavero Milanesi con Monti – per “blindare” con nuovi criteri responsabilità amministrative, priorità e controlli l’uso dei fondi europei 2014-2021, a oggi il più del volano degli investimenti immaginabili nel Mezzogiorno per gli anni a venire. In più, il governo ha inserito nello sblocca-Italia opere come l’Alta Velocità ferroviaria tra Napoli e Bari (semrope senza una seria analisi costi-benefici, ma questo è un altro paio di maniche). E dei 24 contratti di programma annunciato a luglio, per 1,4 miliardi di cui 700 milioni di fondi nazionai, l’80% riguarda il Mezzogiono.

Detto questo, a Renzi che afferma con energia l’importanza dello storytelling e di una narrativa ottimistica delle possibilità italiane, in questi mesi è sin qui mancata l’occasione e la voglia per un discorso sul Sud. Vi ha dedicato tappe del suo viaggio in Italia al Sud, alle scuole come a insediamenti industriali. Ma altra cosa è capire che cosa il Sud debba aspettarsi, dai mille giorni del programma di Renzi sino alle prossime elezioni. Perché, nel sito dedicato al programma, il Sud è una spezia per condire il tutto. Ma un piatto proprio non ce l’ha, nel menu del governo.

Quando, nel giugno scorso, il ministro dell’Economia Padoan rispose a una puntuta intervista del Mattino che gli poneva questa questione, fece un accorato appello a una miglior efficienza e qualità delle Autonomie, Regioni e Comuni. Giusto ed essenziale. Ma anche se i toni non erano duri e “settentrionalisti” come quelli di Monti, la sostanza era la stessa.

Il problema è quel che manca, oltre all’appello a cambiare la qualità della politica e dell’amministrazione meridionale. Sin dai tempi delle chiacchiere Berlusconi non c’è, una strategia per il recupero dei tremendi gap accumulati dal Sud nella crisi: di bassissima partecipazione al mercato del lavoro di giovani, donne e over 55enni, di desertificazione d’impresa, di restrizione di credito. L’ultimo a parlarne fu Prodi, e c’era da discutere sulle sue idee, ma comunque il suo governo non ebbe fortuna. Ora occorre una scelta strategica che veda il governo, le Regioni e le maggiori città del Sud stilare una serie ristretta di priorità per i fondi 2015-2021, con un meccanismo che di anno in anno faccia scattare allocazioni sussidiarie e prioritarie per evitare di restare indietro. Noi non possiamo offrire al Sud il cambio alla pari che la Repubblica Federale Tedesca con il lungimirante Kohl garantì alla Germania Est all’atto dell’unificazione, zittendo la Bundesbank che era contraria. Ma al Mezzogiorno e alla sua gente dobbiamo costruire non la possibilità, ma la necessità di potersi battere alla pari, per il miglior utilizzo di risorse scarse.

Per far questo, facciamo quattro esempi concreti. Nella spending review – che il governo ha sin qui tenuto nel cassetto – occorrerebbe prevedere un capitolo a sé che riguardi il Sud. Perché l’accentrarsi “storico” di spesa e trasferimenti procapite, dipendenti pubblici a parità di perimetri o trattamenti d’invalidità, dovrebbe conoscere logiche di ridimensionamento “diverse” dal resto del Paese, cioè capaci di tener conto dell’impatto sociale. Altrimenti, con le nuove assunzioni di precari nella scuola, torniamo a un Sud con un insegnante per ogni 10 alunni, come comprovano le prime proiezioni elaborate la settimana scorsa. Ed è una cosa che semplicemente non ci possiamo permettere. Tanto per cominciare, allora, sarebbe bello che Renzi dalla stessa tribuna della Fiera del levante dicesse che l’Ente omonimo di diritto pubblico deve chiudere o essere ceduto a privati, visto che perde cumulativamente da 5 anni come abbiamo qui documentato.

Secondo esempio. Nel Sud più che altrove serve un’agenzia pubblica ma indipendente, composta da professionalità economiche e d’impresa elevate, capace di valutare ex ante in autonomia rispetto ai governi e alle Regioni i costi-benefici delle agevolazioni e degli investimenti pubblici, capace di monitorare nel tempo l’attuazione dei piani industriali agevolati (facendo anche scomparire i contributi a fondo perduto, che ancora restano anche nei programmi di sviluppo attuali, e che non aiutano la serietà dei progetti), e capace di fare un serio bilancio ex post degli interventi, in modo da spingere i successivi impieghi di capitale pubblico verso sempre migliori pratiche. La politica non ama le valutazioni di efficienza indipendenti. Ma dalla fine dell’epoca gloriosa della primissima Cassa del mezzogiorno, la serietà delle valutazioni tecniche a corredo degli investimenti e delle agevolazioni troppe volte ha piegato il capo a criteri clientelari e di consenso. E’ per questo che nel Sud in passato troppe volte gli aiuti pubblici si traducevano in “prendi i soldi e scappa”, desertificando vieppiù l’impresa sana. Ed è per questo che un’eguale unità di capitale pubblico investita in Germania ha un rendimento superiore dui quasi il 40% a un eguale impiego in Italia, stando all’ultimo outlook del Fondo Monetario.

Il terzo esempio riguarda la ricerca e l’innovazione nelle imprese, che – tranne eccezioni che per fortuna esistono – nella media però ha un divario negativo tra il 40 e il 60% rispetto al CentroNord. Il quarto esempio investe il Jobs Act: pensare che la nuova Agenzia del lavoro sia fatta al Sud dalla somma dei vecchi uffici provinciali all’impiego, significa fallire con assoluta certezza.

Bari è l’occasione per colmare questi vuoti. Renzi la sfrutti. Non parli dei gufi. Spieghi al Mezzogiorno che, del suo disastro attuale, non conta solo indicare i colpevoli. Ma anche coloro da cui sperare il riscatto con svolte concrete. Se ci sono.

 

5
Set
2014

Statali e forze dell’ordine: dove e perché i governi sbagliano

La cattiva politica genera ingiustizie. Su una affermazione di questo genere, possiamo star certi che concorderebbero tutti i politici, di destra sinistra e centro. Naturalmente, come sempre nella vita la difficoltà sta nel fatto che una cosa è dirlo, altra è farlo. Ecco, il nodo dello stop protratto per cinque anni agli aumenti retributivi dei dipendenti pubblici, e tra questi naturalmente delle forze dell’ordine e militari, rientra perfettamente nella categoria “conseguenze ingiuste”. Perché? Per almeno due ordini di ragioni. Perché aveva un senso nel 2011, che però oggi numeri alla mano non ha più. E perché il blocco protratto degli aumenti, cioè una perdita reale di reddito a doppia cifra percentuale cumulando i 5 anni, è la conseguenza di un errore commesso dalla politica: dai governi Berlusconi, Letta, Monti e sin qui – ma può ancora riparare – Renzi.

Cominciamo dalla ragione di ordine generale. Storicamente, la dinamica delle retribuzioni procapite nel settore pubblico italiano rispetto a quella delle retribuzioni private ha la tendenza a essere superiore all’unità. In parole povere, a parità di qualifica e anzianità si guadagnava meglio nel pubblico che nel privato. Il che creava un problema di ingiustizia (aggiunto all’intoccabilità di fatto del posto pubblico, ditelo ai disoccupati privati…), e di onere aggiuntivo per la finanza pubblica, cioè per il contribuente. Dal 1980 a oggi, la media del rapporto tra compensi pubblici e privati è di 1,28. Ma ci sono stati anni in cui il rapporto – coi nuovi contratti – è salito a 1,3 e anche 1,4, come tra il 1989 e il 1992. E negli anni 2005-2010 il rapporto a favore del pubblico si era di nuovo impennato verso 1,35. Ecco perché aveva un senso eccome, lo stop per un certo periodo agli aumenti pubblici. Serviva a rendere meno squilibrata a favore del lavoro pubblico la dinamica dei redditi complessiva. E naturalmente, insieme al blocco del turnover, consentiva di alleggerire gli oneri per il bilancio dello Stato.

Infatti, la spesa di 164 miliardi di retribuzioni pubbliche, grazie a questi due fattori, si è assolutamente stabilizzata, il che significa che tende a diminuire in termini reali se il Pil riprende a crescere. E’ l’unica, tra le grandi voci del bilancio pubblico, ad essersi fermata. L’effetto dello stop retributivo ha naturalmente riabbassato il rapporto tra salari pubblici e privati. Tra 2012 e 2014 è sceso sotto la media trentennale di 1,25. Nel 2015 raggiunge la soglia paritaria dell’unità se non, probabilmente, al di sotto. Quindi la protrazione del blocco non serve più a ridurre la precedente sperequazione a vantaggio dei dipendenti pubblici.

Ma a questo punto si potrebbe obiettare che resta comunque l’esigenza di finanza pubblica, e dunque di proseguire a fermare e tagliare la spesa. Figuratevi se siamo insensibili a questa tesi, visto che non facciamo altro che ripetere che solo con meno spesa pubblica si crea lo spazio per tagliare il peso delle fameliche imposte che gravano su imprese e lavoro. Senonché in questi duri anni di crisi italiana avremmo dovuto tutti – e la politica per prima – imparare una lezione chiara. E cioè che i fermi o i tagli di spesa dove è più facile, e quelli lineari, sono i tagli sbagliati, perché non distinguono né le priorità di giustizia né l’effetto economico piò o meno recessivo che si crea nel breve, diminuendo la spesa pubblica. Purtroppo, il blocco protratto alle retribuzioni pubbliche – venuto meno lo squilibrio degli anni precedenti a loro favore – ricade esattamente nei “tagli sbagliati”.

La politica – i governi da Berlusconi a Renzi – ha avuto non solo in 3 anni la possibilità di “scegliere” con tutta calma i “tagli buoni” da fare. Ha avuto soprattutto quel che non c’era prima: le basi tecniche per farlo, cioè studi approfonditi comparto per comparto degli oltre 800 miliardi di spesa pubblica, e analisi per verificare “che cosa scegliere” per alleggerire spesa e tasse, e per reperire risorse da aggiungere invece dove più servono (Renzi dice di volerlo fare, ad esempio, per la scuola). I rapporti accumulati negli anni da Piero Giarda, Enrico Bondi, e Carlo Cottarelli, servivano proprio a questo. Solo che la politica non ha voluto ascoltarli, li ha lasciati nel cassetto. Un grave errore. E’ per non aver voluto imboccare la via di tagli selettivi nei settori della spesa pubblica dove si possono fare – e anche a bizzeffe – con effetti non recessivi nel medio termine, che la politica si riduce ancora al blocco retributivo dei dipendenti pubblici, militari e poliziotti.

Limitiamoci alle 5 forze dell’ordine che complessivamente costano circa 20 miliardi l’anno, e la cui protesta ha acceso il dibattito assai più di quella dei sindacati confederali sul totale dei dipendenti pubblici. Innanzitutto è abbastanza incredibile, che tutti facciano finta di dimenticare l’articolo 84 della legge 121 del 1981, che prescrive “gli appartenenti alla Polizia di Stato non esercitano il diritto di sciopero né azioni che pregiudichino la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Lo stesso divieto vale naturalmente per i militari, carabinieri e finanzieri compresi. Ma detto questo, è difficile dar torto a chi protesta sostenendo che 1200 euro al mese a un poliziotto e carabiniere sono pochi, per quel che fanno e rischiano (la Guardia di Finanza ha varato un programma per riaccasermare finanzieri in seria difficoltà, separati e con figli che devono pagare l’assegno di mantenimento).

Ebbene proprio da questo comparto specifico delle forze dell’ordine Giarda aveva cominciato i suoi approfondimenti anni fa, giungendo alla proposta che dal solo efficientamento dei 5 corpi, in termini di ottimizzazione di sedi e forniture, poteva stimarsi un risparmio non inferiore a 1,7 miliardi di euro. Cottarelli si è spinto oltre, e oltre all’efficientamento ha studiato le possibili sinergie tra le 5 forze – centralini congiunti, servizi condivisi, centrali di acquisto comuni, uniformazione dei mezzi utilizzati – stimando in non meno di 2,5 miliardi i risparmi conseguibili in un biennio. Ecco, dove si potevano e si possono ricavare le risorse per tornare ad adeguamenti retributivi “scegliendo”, in base alle priorità pubbliche di ordine e sicurezza, a quelle di giustizia rispetto al rischio corso, e premiando il merito professionale invece di farlo per puri scatti di anzianità (la rivoluzione che Renzi annuncia per la scuola, anche se ai comitati di autovalutazione del merito in ogni istituto mi permetto di sorridere e di non credere assolutamente).

Perché la politica non ha voluto sinora farlo? Perché mettere mano nel fatto che nel 2011 il costo medio annuo per carabiniere – compresi straordinario e missioni – variava dai 53.390 euro in Basilicata e a ben 67.476 euro in Friuli, oppure al fatto che per le forze dell’Arma spendiamo 59 euro per abitante in Lombardia e 164 in Sardegna, significa mettere in conto un confronto forte con il Comando Generale dell’Arma, e i suoi criteri organizzativi, territoriali e funzionali. Idem dicasi per la Polizia, nei cui oltre 7 miliardi di spesa l’anno è macroevidente che se i costi di Questure e Commissariati sono – come sono – del 60% superiori al Sud rispetto al Nord, il problema non è l’emergenza-mafie da affrontare, ma profonde disfunzionalità da risolvere.

Abbiamo 466 rappresentanti di forze di polizia ogni 100mila abitanti, rispetto ai 312 della Francia e ai 298 della Germania, ed è l’effetto della somma dei 5 corpi diversi. Ma se anche è impensabile riunificarli, è una sciocchezza non intervenire negli sprechi accumulati dalla loro sovrapposizione: per non affrontare le ire di generali e capi della polizia, si fa pagare il conto ai loro subordinati.

 

4
Set
2014

Provvedimenti del Governo Renzi in materia penale: né riformismo, né liberalismo—di Rocco Todero

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

Non è una novità che l’amministrazione della giustizia in Italia sia afflitta dall’incapacità di portare a compimento migliaia di processi penali in tempo utile ad evitare la prescrizione del reato prevista dalla legge.

Lo Stato procede ad imbastire prima le indagini e poi il processo, mette in campo considerevoli risorse umane e materiali e poi, in molte occasioni (migliaia come detto), non riesce a concludere i tre gradi di giudizio – Cassazione compresa – entro i termini previsti. Risultato: l’imputato viene prosciolto per prescrizione del reato contestatogli.

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2
Set
2014

Viva Modell Deutschland? Quante teste dovrebbero cambiare nei partiti, sindacati e imprese…

Ieri a sorpresa il premier Matteo Renzi ha difeso il Modell Deutschland, il mercato del lavoro e l’esempio della crescita tedesca come esempio positivo da seguire. Una sorpresa, in tempi in cui la piega assunta dalla politica italiana, ma anche dal dibattito pubblico, dai media e da vasta parte dell’accademia italiana, è nettamente critico verso la Germania, se non antitedesco tout court. E’ un bene , se non è una provocazione fine a se stessa. Perché l’Agenda Germania 2010, che il cancelliere socialdemocratico Schroeder ebbe il merito e il coraggio di lanciare nel 2003, è davvero stata la svolta che ha rimesso in piedi prima, e rilanciato poi, una Germania che nel 2001 era il malato d’Europa, col massimo dei disoccupati dal dopoguerra, costi del welfare fuori controllo, spesa pubblica e tasse parecchio più elevate di quelle italiane. Il problema è che per seguire davvero – sia pur con enorme ritardo – il Modell Deutschland, a cambiar la testa dovrebbero essere in tanti. Non solo la politica. Ma i sindacati, nel pubblico e nel privato. E la stessa impresa privata, per molte ragioni.

La Germania mise le basi per abbassare spesa pubblica e tasse di più di 5 punti di PIl, da noi spesa e tasse sono sempre salite. Ma di questo facciamo pure stato, è pressoché inutile immaginare oggi che la politica tagli davvero spesa e tasse di 5 punti di Pil, come sarebbe necessario e come anche ieri proponeva il professor Guido Tabellini, ma immaginando sconsolatamente che a questo punto la cosa possa avvenire solo se l’Europa ci consentisse di farlo in deficit. Mentre la Germania l’ha fatto mettendo in Costituzione un divieto vincolate a far debito pubblico aggiuntivo dal 2015 sia per lo Stato federale che per i Laender, non la nostra ridicola riscrittura dell’articolo 81 contro cui molti belluinamente protestano, e che pure non fissa proprio per nulla l’obbligo del deficit zero.

Ciò su cui dovremmo innanzitutto seguire il Modell Deutschland è il rilancio della produttività. Il problema ormai di lungo periodo del declino italiano, che dura da oltre 20 anni. E che politica, sindacati e imprese italiane (sì, anche loro come vedremo) stentano a considerare il problema numero uno italiano: persino peggiore della finanza pubblica visto che il debito pubblico al 135% del Pil è per fortuna – o purtroppo, dipende dai punti di vista – garantito dall’elevata patrimonializzazione e dal basso indebitamento delle famiglie italiane. Ma se guardiamo alle determinanti della svolta della competitività tedesca, se consideriamo gli elementi fondamentali grazie ai quali in Germania il tasso di occupazione è superiore di 18 punti percentuali al nostro scarso 55%, e la competitività misurata in termini di costo comparato a parità di input multifattoriali ha perso in Italia oltre 35 punti percentuali sulla Germania in un ventennio, allora voler seguire il Modell Deutschland imporrebbe una vera rivoluzione, collettiva, di testa e comportamenti.

Il mercato del lavoro tedesco è stato ridisegnato dai pacchetti Hartz, dal nome dell’ex capo del personale Volkswagen che, nel 1999, vincendo su un sindacato all’inizio riottoso, cambiò dalle fondamenta le relazioni industriali. Propose uno schema per il quale si impiegavano disoccupati con un costo del lavoro inferiore sino al 30% dei loro colleghi ipertutelati, vincolati a un obiettivo quantitativo di auto da costruire anche a costo di sfondare fino a 42 ore settimanali e festivi compresi i limiti dell’orario contrattuale nazionale. L’esempio fu poi seguito da moltissime grandi e medie imprese germaniche.

Il sindacato dei metalmeccanici, la grande IG Metall tedesca – lì non c’è un grande sindacato per ogni vecchia cultura politico-partitica, che da noi è sopravvissuto alla fine dei vecchi partiti – prima disse no, ma poi disse sì sotto il peso delle richieste dal basso, nelle assemblee dei lavoratori. Ciò significa abbandonare l’idea che sia il contratto nazionale collettivo di lavoro a determinare oltre il 90% del salario, come continua ad accadere da noi, accettando invece l’idea che il più del salario si contratta aziendalmente secondo produttività. Significa accettare l’idea che il sindacato non è più cinghia di trasmissione di un partito o della sinistra, come da noi continua a essere invece la Cgil, ma il sindacato fa solo il suo mestiere nelle aziende, portando a casa la miglior difesa di impresa e lavoro insieme. E perché le basi di tutto questo vengano poste – per esempio nel Jobs Act che riprende il suo iter in Senato in questi giorni – occorrerebbe una sinistra che avesse fatto decenni fa una scelta pienamente riformista come fece la Spd a Bad Godesberg, mandando in soffitta una volta per sempre i vecchi criteri della rappresentanza di classe e del collateralismo sindacale.

Altro esempio: i diritti acquisiti. Una cosa dura da buttar giù per il sindacato tedesco, nei pacchetti Hartz, fu il taglio ai sussidi troppo generosi alla disoccupazione, che frenavano la rioccupabilità. Eppure in Germania la scelta passò: con una riforma che apriva ai privati l’intermediazione pubblica tra domanda e offerta di lavoro; disincentivava il diniego delle nuove domande di lavoro ai disoccupati, tagliando loro i sussidi se venivano rifiutate; e abbinando anche un enorme programma di minijobs sociali a 4-500 euro al mese, che qui in Italia moltissimi si ostinano a considerare schiavitù, una specie di riedizione dei prigionieri di guerra obbligati al lavoro della famigerata organizzazione Todt nazista: baggianate.  E’ così che la disoccupazione tedesca è oggi la metà del 12,7% italiano.

C’è tutto questo, nel Jobs Act italiano? La risposta è no. Noi non abbiamo certo il problema di sostegni al reddito dei disoccupati troppo generosi. Ma la questione di fondo è che in Germania tagliarono quelli che da noi si chiamano “diritti acquisiti”, mentre da noi di ricalcolare per tutti le pensioni retributive su base contributiva non se ne parla nemmeno.

Ma anche i privati hanno le loro colpe, troppo facile prendersela solo con partiti e sindacati. La Confindustria non ha mai avuto il fegato di perseguire fino in fondo la “rottura” di chiedere un’inversione di priorità, contro i contratti nazionali di categoria –che dovrebbero limitarsi a fissare il quadro normativo della tutela dei diritti, e solo minimi retributivi in materia salariale- e a favore di quelli di produttività. Le aziende indicano – come Renzi ha fatto ieri – il modello dell’istruzione tecnica superiore e dell’apprendistato tedesco, un altro pilastro dell’alto tasso di attività germanico, ma non osano dire al sindacato della scuola e alla politica che questo significa cambiare radicalmente l’intero impianto scolastico e universitario, mettendo le aziende “dentro” i percorsi formativi, e con risorse proprie. Gli imprenditori italiani hanno colpe pesanti per la bassa patrimonializzazione delle loro aziende. Per non aver sposato il modello delle Hausbanken che in Germania ha portato per decenni il Mittelstandt tedesco a crescere di dimensione, innovazione ed export, mentre l’impresa italiana preferiva il multiaffidamento bancario che “nasconde” a ogni intermediario finanziario le debolezze produttive e patrimoniali delle imprese. Le imprese private hanno la loro colpa nel basso tasso di trasferimento tecnologico: perché, come ricorda sempre il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, la produttività comparata della ricerca italiana in termini di citazioni sui maggiori Journals internazionali è buona, ma è quando si tratta di trasferire le innovazioni dalla ricerca all’impresa che si incontra un deserto.

Ben venga dunque la difesa di Renzi del modello tedesco. Ma a patto che non sia una battuta, e che tutti sano disposti a cambiar testa e a tirarsi su le maniche. Il che significa uan soa cosa: l’obbligo, per noi, è lo scetticismo.

30
Ago
2014

L’Ente Fiera del Levante è pieno di debiti. Fallisca o sia ceduto al mercato–di Rocco Todero

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

Mercoledì 27 agosto il Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, ha rilasciato al quotidiano La Stampa un’intervista (qui) nel corso della quale ha opportunamente sottolineato la necessità che Parlamento e Governo intervengano al più presto sulla pletora di società ed enti partecipati da amministrazioni pubbliche con una nuova disciplina legislativa che ponga fine al grave e non più tollerabile dispendio di risorse pubbliche.

La lettura dell’intervista mi ha fatto ricordare di una recente deliberazione della Corte dei Conti – sezione regionale di controllo per la Puglia – del 30 luglio 2014 (PDF qui) che si è occupata della situazione economica dell’Ente Autonomo Fiera del Levante e che mi è parsa di grande interesse, proprio alla luce di quanto affermato da Mingardi, perché aiuta a comprendere quale sia lo stato attuale della legislazione in materia di partecipazioni in imprese, società o enti pubblici e quali siano in definitiva gli interventi necessari.

L’Ente Autonomo Fiera del Levante è stato fondato ed è partecipato, tra gli altri, dal Comune di Bari, dalla Provincia di Bari e dalla locale Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, ed è un ente senza scopo di lucro che per statuto deve (dovrebbe) rispettare il principio del pareggio di bilancio (qui lo statuto). Lo scopo sociale dell’Ente è quello di sostenere lo sviluppo economico della Puglia e più in generale dell’intera Italia, favorendo, tra l’altro, “i processi di promozione commerciale delle imprese in Italia e all’estero”.

Negli ultimi 5 anni, tuttavia, la gestione dell’Ente Fiera ha fatto registrare perdite d’esercizio consecutive per complessivi 15.165.914 euro così ripartiti: 857.050,00 per l’esercizio 2008, 4.745.640,00 per il 2009, 4.116.233,00 per il 2010, 2.346.350,00 per il 2011 e 3.100.641,00 per il 2013 (qui i bilanci).

Il Presidente della Provincia di Bari ha domandato alla Corte dei Conti se sia legittimo contribuire al ripianamento delle perdite dell’Ente con un contributo straordinario richiesto nella misura di 1,5 milioni di euro.

I Giudici contabili hanno ricostruito la disciplina oggi vigente, nella materia in esame, evidenziando:

  1. Che in linea generale esiste un divieto per le amministrazioni pubbliche di provvedere ad aumenti di capitale, trasferimenti straordinari ed aperture di credito in favore di società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio;
  2. Che l’Ente Fiera del Levante non è una società pubblica ma un organismo di diritto pubblico e che a stretto rigore, dunque, le limitazioni imposte alle pubbliche amministrazioni per le contribuzioni nelle partecipate non dovrebbero riguardarlo;
  3. Che tuttavia è necessario tenere conto della natura di Ente partecipato da pubbliche amministrazioni che erogano risorse pubbliche e della “tendenza” della più recente legislazione di procedere nel senso del divieto “di interventi tampone con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l’economicità e l’efficienza della gestione nel medio e lungo periodo

Insomma, un divieto chiaro e categorico di salvare l’Ente Fiera del Levante, anche alla luce di un’interpretazione semplicemente letterale, sembrerebbe non esserci, ma i giudici contabili invitano il Presidente della Provincia di Bari a pensarci bene prima di disperdere ulteriori risorse pubbliche a fondo perduto e senza alcuna ragione, viste le condizioni apparentemente irrimediabili in cui versano le finanze dell’organismo di diritto pubblico.

Riallacciando il discorso di Mingardi con ciò che emerge dal caso “Ente Fiera del Levante”, vi è da sottolineare la necessità che in un Paese culturalmente poco avvezzo a farsi guidare coscienziosamente da regole di efficienza, economicità e di sana gestione delle risorse pubbliche esistano norme giuridiche chiare, semplici e soprattutto inderogabili che impongano la dismissione, la cessione e persino il fallimento di tutti i soggetti partecipati da pubbliche amministrazioni e che producono regolarmente perdite d’esercizio.

L’Ente Fiera del Levante, già oggi, alla luce dei risultati di gestione, dovrebbe avviarsi verso il fallimento e la conseguente messa in liquidazione in tempi certi e rapidi, in modo da non arrecare ulteriore danno alle finanze pubbliche. Se è veramente servito sin’ora a soddisfare una reale esigenza di mercato saranno gli operatori privati che ne hanno eventualmente tratto beneficio a rivelarlo, associandosi per costituire un nuovo soggetto commerciale che ne proseguirà l’attività. In alternativa, dovrebbe essere collocato sul mercato, salvaguardandone magari il brand, per verificare, anche in questo secondo caso, la sostenibilità economica del suo business model.

Ma, allo stato, mancano norme che impongano soluzioni nette ed uniformi a favore della dismissione pro-mercato e così la scelta ricade sui vertici della pubblica amministrazione che si sentono rispondere dalla Corte dei Conti, come nel caso qui considerato dell’Ente Fiera, un sonoro “NI” al quesito proposto. Mezzo no e mezzo sì. Si può erogare un contributo straordinario ad un organismo di diritto pubblico in perdita da 5 anni? Si, no, forse: NI!

Sta di fatto che ad oggi la gestione con risorse prevalentemente pubbliche dell’Ente Fiera non ha consentito di verificare se l’attività di promozione commerciale delle imprese in Italia ed all’estero sia stata realmente profittevole per tutte le aziende coinvolte direttamente ed indirettamente dalla predetta attività, atteso che i costi di gestioni e delle attività sono state sopportate anche dai cittadini e dalla fiscalità generale degli enti partecipanti.

Sinora, infatti, è accaduto che tasse di lavoratori, imprese e professionisti sono state destinate al finanziamento di attività che nelle intenzioni dell’imprenditore pubblico dovevano rivelarsi vantaggiose per altri lavoratori, imprese e professionisti. Peccato però che, a tacer d’altro (dell’economicità della gestione, ad esempio), i soggetti finanziatori non coincidano affatto con quelli beneficiati.

Speriamo, dunque, che le invocate regole semplici, chiare e pro mercato arrivino al più presto, prima che la confusione e le ambiguità di cui sono sempre gravide le leggi italiane finiscano per paralizzare del tutto anche il raziocinio dei Tribunali.

@roccotodero

27
Ago
2014

Perché non credo a Frontex Plus, e alle proteste italiane prive di proposte

Mi spiace, ma non credo molto anzi per nulla all’annuncio odierno, e cioè che da autunno-inverno una missione “Frontex Plus” sostituirà i mezzi italiani impegnato nel Mediterraneo nella missione Mare Nostrum. Era ottobre del 2013, quando dopo una terrificante strage nel mare fuori Lampedusa l’Italia portava al Consiglio Europeo la necessità di un cambio di marcia nei confronti dell’emergenza migranti dalla sponda Sud del mediterraneo. Il cambio di marcia non è mai avvenuto. Ho scritto all’inizio del semestre di presidenza italiana Ue che il tema andava riaffermato al centro del tavolo europeo. Nel frattempo, quasi duemila morti in mare solo da inizio anno. E oltre 123 mila salvati dall’Italia da sola, dalla nostra Marina Militare, Guardia costiera, dai mezzi delle Capitanerie di Porto, Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri. Un flusso gigantesco che entrando in Italia affanna le stremate strutture residue dei Cie, dei Comuni, della Protezione civile, della CRI e dei volontari delle ONG italiane.

Nell’incontro odierno con il ministro Alfano, la commissaria europea (uscente) agli Affari Interni Cecilia Malmström ha ribadito la verità. Frontex, l’agenzia europea alle frontiere, non ha risorse e mezzi per affiancare l’Italia. Figuriamoci per sostituirla.  Sono i Paesi della Ue, nazionalmente, che dorranno decidere se impegnarsi o meno. Finora non l’hanno fatto. E il perché è scontato. Attualmente, se a salvare i disperati nel Mediterraneo fosse un mezzo militare tedesco o francese, a loro poi spetterebbe occuparsi anche del destino successivo dei salvati, in assenza di nuove regole europee che oggi mancano, in materia di comuni indirizzi su immigrazione, asilo e meri trattamenti umanitari.

E’ politico, il problema. Finora Alfano e altri hanno strillato contro l’Europa.  Sui soldi. Ma – almeno per quanto è noto – non hanno stilato un pacchetto di norme che identifichi un codice comune europeo a fronte dei migranti e dei trafficanti di carne umana. Il governo italiano deve portare al Consiglio dei ministri degli Affari Interni Ue, il 9 e 10 ottobre, un pacchetto di proposte su cui o si schioda il consenso politico dei 28 Paesi dell’Unione, pppure l’Italia deve essere pronta a una strategia alternativa. Già nel prossimo summit europeo dedicato alla scelta di alcuni componenti essenziali della nuova Commissione Juncker, Renzi dovrebbe porre il punto.

E’ ovvio che l’optimum sarebbe una compartecipazione di mezzi e risorse dei maggiori paesi Ue: proprie unità navali a fianco alle nostre, con turni plurimensili per aree assegnate come si fa nella task force internazionale antipirateria operante al largo del Corno d’Africa. Ma per una missione simile manca la cosa fondamentale: stabilire PRIMA chi dovrebbe farsi carico poi dei salvati. E c’è un altro fattore, che dovrebbe far alzare il tiro politico all’Italia. Quanto si è letto da alcune fonti europee in questi ultimi giorni, e cioè che l’operazione Mare Nostrum italiana ha il difetto di apparire ai trafficanti di carne umana come un incentivo, cioè la scontata garanzia che tanto c’è chi salva anche in alto mare gli schiavi trasportati, la dice lunga non sul cinismo della politica estera di altri Paesi Ue, bensì sulla totale mancanza di consapevolezza di quanto sta avvenendo in queste settimane.

Non è più solo il costo finanziario proibitivo per la sola Italia, l’argomento di Renzi ed Alfano al tavolo europeo. Nel frattempo è riesploso l’intero Medio Oriente. E’ questa, la terribile realtà dietro il flusso che si abbatte su Mare Nostrum. Berlino e Parigi è meglio riflettano bene su una Libia ormai in preda alle bande islamiste. Contro le quali Egitto ed Emirati Arabi bombardano senza alcuna informazione condivisa né con gli Usa né con Ue, tenendo rapporti riservati solo con Tunisia e Algeria. Mentre Obama non sa che fare in Siria, visto che deve colpire l’ISIS ma contemporaneamente non può farlo a fianco di Assad. E mentre centinaia di migliaia di nuovi profughi tentano di sopravvivere fuggendo nel Mediterraneo dal nord dell’Iraq, dal presunto nuovo Califfato, da Gaza. Aree su cui Iran (e Qatar) hanno interessi distinti dall’Egitto di al-Sisi, contro Isis da una parte, con Hamas dall’altra.

E’ l’esplosione mediorientale oggi la vera ragione politica e geostrategica che dovrebbe smuovere le capitali europee. L’imbarazzato silenzio di Bruxelles su quanto avviene in Medio Oriente può essere superato se al prossimo vertice europeo davvero c’è un’intesa su chi guiderà la politica estera comune. E se sarà il ministro Mogherini, come ormai sembra e nel caso per Renzi è una buona vittoria, a maggior ragione occorre che abbia un mandato chiaro.

Se fino a ieri mancavano i presupposti internazionali per un vero intervento extraterritoriale di contenimento dei flussi di carne umana, la richiesta rivolta ieri all’ONU da quanto resta del parlamento libico eletto offre una cornice da raccogliere, che legittimi una presenza internazionale sulle coste libiche a fianco all’Egitto e alle monarchie moderate islamiche, che a differenza del Qatar temono la deriva neoislamista.

L’esperienza deve renderci duri. In caso di mancata risposta europea bisogna essere allora pronti a dire che useremmo tutto ciò che il diritto internazionale marittimo consentisse alle autorità italiane, a cominciare dal disporre alle navi battenti bandiera estera transitanti nel canale di Sicilia di prestarsi non al salvataggio, ma a ospitare i salvati fino al regolare porto di arrivo ma non su coste italiane. E’ una misura durissima, ma fattibile. L’extrema ratio, per far ragionare l’Europa: visto che alzerebbe i noli per tutti i maggiori porti spagnoli e francesi, colpendo i traffici anche verso il Centro Europa, Germania e Austria comprese. Non possono essere i tecnici di Frontex, a compiere una svolta politica tanto radicale. Bisogna porla al centro della scelta del nuovo Mr o Miss Pesc, e come priorità della nuova commissione Juncker.

La spirale riavanzante del terrorismo islamista è la nuova emegenza. Ma è la reciproca convenienza, ciò che all’Europa sfugge. Sinora in realtà è mancata una comune politica dell’immigrazione, come fattore essenziale della crescita e stabilità economica complessiva. I diversi Paesi membri dell’Unione hanno legislazioni diverse sulle procedure di ammissione temporanea, sui requisiti di lavoro, sul diritto al ricongiungimento delle famiglie e sulla cittadinanza. Ma oggi sono le vie nazionali a superare una frontiera comune, a non funzionare più. Erano figlie di un’era in cui ciascuno pensava alla propria crescita economica, ai diversi retaggi coloniali, a confliggenti teorie e prassi giuridiche della cittadinanza. E a fabbisogni di manodopera, contributi sociali e tasse, completamente slegati da paese a paese.

La drammatica crisi dell’Europa ha mostrato in questi anni che non è più così. La devastante curva demografica italiana e l’invecchiamento della popolazione tedesca sono due facce di una stessa medaglia. Più l’Italia è lasciata sola nel salvataggio e nel filtro impossibile di duecentomila disperati l’anno, meno potrà concentrarsi su una politica di “scelta” di migranti per qualità dell’offerta, come invece da tempo hanno iniziato a fare i paesi nordeuropei. Ma meno lo faremo noi, più metteremo anche gli altri paesi europei nelle stesse condizioni. Perché nessuno tra chi viene ripescato in mare, oggi, vuole restare nel nostro impoverito paese. Amaro dirlo, ma giusto riconoscerlo. E farlo presente a tutti, con la dovuta chiarezza.