4
Set
2014

Provvedimenti del Governo Renzi in materia penale: né riformismo, né liberalismo—di Rocco Todero

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

Non è una novità che l’amministrazione della giustizia in Italia sia afflitta dall’incapacità di portare a compimento migliaia di processi penali in tempo utile ad evitare la prescrizione del reato prevista dalla legge.

Lo Stato procede ad imbastire prima le indagini e poi il processo, mette in campo considerevoli risorse umane e materiali e poi, in molte occasioni (migliaia come detto), non riesce a concludere i tre gradi di giudizio – Cassazione compresa – entro i termini previsti. Risultato: l’imputato viene prosciolto per prescrizione del reato contestatogli.

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2
Set
2014

Viva Modell Deutschland? Quante teste dovrebbero cambiare nei partiti, sindacati e imprese…

Ieri a sorpresa il premier Matteo Renzi ha difeso il Modell Deutschland, il mercato del lavoro e l’esempio della crescita tedesca come esempio positivo da seguire. Una sorpresa, in tempi in cui la piega assunta dalla politica italiana, ma anche dal dibattito pubblico, dai media e da vasta parte dell’accademia italiana, è nettamente critico verso la Germania, se non antitedesco tout court. E’ un bene , se non è una provocazione fine a se stessa. Perché l’Agenda Germania 2010, che il cancelliere socialdemocratico Schroeder ebbe il merito e il coraggio di lanciare nel 2003, è davvero stata la svolta che ha rimesso in piedi prima, e rilanciato poi, una Germania che nel 2001 era il malato d’Europa, col massimo dei disoccupati dal dopoguerra, costi del welfare fuori controllo, spesa pubblica e tasse parecchio più elevate di quelle italiane. Il problema è che per seguire davvero – sia pur con enorme ritardo – il Modell Deutschland, a cambiar la testa dovrebbero essere in tanti. Non solo la politica. Ma i sindacati, nel pubblico e nel privato. E la stessa impresa privata, per molte ragioni.

La Germania mise le basi per abbassare spesa pubblica e tasse di più di 5 punti di PIl, da noi spesa e tasse sono sempre salite. Ma di questo facciamo pure stato, è pressoché inutile immaginare oggi che la politica tagli davvero spesa e tasse di 5 punti di Pil, come sarebbe necessario e come anche ieri proponeva il professor Guido Tabellini, ma immaginando sconsolatamente che a questo punto la cosa possa avvenire solo se l’Europa ci consentisse di farlo in deficit. Mentre la Germania l’ha fatto mettendo in Costituzione un divieto vincolate a far debito pubblico aggiuntivo dal 2015 sia per lo Stato federale che per i Laender, non la nostra ridicola riscrittura dell’articolo 81 contro cui molti belluinamente protestano, e che pure non fissa proprio per nulla l’obbligo del deficit zero.

Ciò su cui dovremmo innanzitutto seguire il Modell Deutschland è il rilancio della produttività. Il problema ormai di lungo periodo del declino italiano, che dura da oltre 20 anni. E che politica, sindacati e imprese italiane (sì, anche loro come vedremo) stentano a considerare il problema numero uno italiano: persino peggiore della finanza pubblica visto che il debito pubblico al 135% del Pil è per fortuna – o purtroppo, dipende dai punti di vista – garantito dall’elevata patrimonializzazione e dal basso indebitamento delle famiglie italiane. Ma se guardiamo alle determinanti della svolta della competitività tedesca, se consideriamo gli elementi fondamentali grazie ai quali in Germania il tasso di occupazione è superiore di 18 punti percentuali al nostro scarso 55%, e la competitività misurata in termini di costo comparato a parità di input multifattoriali ha perso in Italia oltre 35 punti percentuali sulla Germania in un ventennio, allora voler seguire il Modell Deutschland imporrebbe una vera rivoluzione, collettiva, di testa e comportamenti.

Il mercato del lavoro tedesco è stato ridisegnato dai pacchetti Hartz, dal nome dell’ex capo del personale Volkswagen che, nel 1999, vincendo su un sindacato all’inizio riottoso, cambiò dalle fondamenta le relazioni industriali. Propose uno schema per il quale si impiegavano disoccupati con un costo del lavoro inferiore sino al 30% dei loro colleghi ipertutelati, vincolati a un obiettivo quantitativo di auto da costruire anche a costo di sfondare fino a 42 ore settimanali e festivi compresi i limiti dell’orario contrattuale nazionale. L’esempio fu poi seguito da moltissime grandi e medie imprese germaniche.

Il sindacato dei metalmeccanici, la grande IG Metall tedesca – lì non c’è un grande sindacato per ogni vecchia cultura politico-partitica, che da noi è sopravvissuto alla fine dei vecchi partiti – prima disse no, ma poi disse sì sotto il peso delle richieste dal basso, nelle assemblee dei lavoratori. Ciò significa abbandonare l’idea che sia il contratto nazionale collettivo di lavoro a determinare oltre il 90% del salario, come continua ad accadere da noi, accettando invece l’idea che il più del salario si contratta aziendalmente secondo produttività. Significa accettare l’idea che il sindacato non è più cinghia di trasmissione di un partito o della sinistra, come da noi continua a essere invece la Cgil, ma il sindacato fa solo il suo mestiere nelle aziende, portando a casa la miglior difesa di impresa e lavoro insieme. E perché le basi di tutto questo vengano poste – per esempio nel Jobs Act che riprende il suo iter in Senato in questi giorni – occorrerebbe una sinistra che avesse fatto decenni fa una scelta pienamente riformista come fece la Spd a Bad Godesberg, mandando in soffitta una volta per sempre i vecchi criteri della rappresentanza di classe e del collateralismo sindacale.

Altro esempio: i diritti acquisiti. Una cosa dura da buttar giù per il sindacato tedesco, nei pacchetti Hartz, fu il taglio ai sussidi troppo generosi alla disoccupazione, che frenavano la rioccupabilità. Eppure in Germania la scelta passò: con una riforma che apriva ai privati l’intermediazione pubblica tra domanda e offerta di lavoro; disincentivava il diniego delle nuove domande di lavoro ai disoccupati, tagliando loro i sussidi se venivano rifiutate; e abbinando anche un enorme programma di minijobs sociali a 4-500 euro al mese, che qui in Italia moltissimi si ostinano a considerare schiavitù, una specie di riedizione dei prigionieri di guerra obbligati al lavoro della famigerata organizzazione Todt nazista: baggianate.  E’ così che la disoccupazione tedesca è oggi la metà del 12,7% italiano.

C’è tutto questo, nel Jobs Act italiano? La risposta è no. Noi non abbiamo certo il problema di sostegni al reddito dei disoccupati troppo generosi. Ma la questione di fondo è che in Germania tagliarono quelli che da noi si chiamano “diritti acquisiti”, mentre da noi di ricalcolare per tutti le pensioni retributive su base contributiva non se ne parla nemmeno.

Ma anche i privati hanno le loro colpe, troppo facile prendersela solo con partiti e sindacati. La Confindustria non ha mai avuto il fegato di perseguire fino in fondo la “rottura” di chiedere un’inversione di priorità, contro i contratti nazionali di categoria –che dovrebbero limitarsi a fissare il quadro normativo della tutela dei diritti, e solo minimi retributivi in materia salariale- e a favore di quelli di produttività. Le aziende indicano – come Renzi ha fatto ieri – il modello dell’istruzione tecnica superiore e dell’apprendistato tedesco, un altro pilastro dell’alto tasso di attività germanico, ma non osano dire al sindacato della scuola e alla politica che questo significa cambiare radicalmente l’intero impianto scolastico e universitario, mettendo le aziende “dentro” i percorsi formativi, e con risorse proprie. Gli imprenditori italiani hanno colpe pesanti per la bassa patrimonializzazione delle loro aziende. Per non aver sposato il modello delle Hausbanken che in Germania ha portato per decenni il Mittelstandt tedesco a crescere di dimensione, innovazione ed export, mentre l’impresa italiana preferiva il multiaffidamento bancario che “nasconde” a ogni intermediario finanziario le debolezze produttive e patrimoniali delle imprese. Le imprese private hanno la loro colpa nel basso tasso di trasferimento tecnologico: perché, come ricorda sempre il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, la produttività comparata della ricerca italiana in termini di citazioni sui maggiori Journals internazionali è buona, ma è quando si tratta di trasferire le innovazioni dalla ricerca all’impresa che si incontra un deserto.

Ben venga dunque la difesa di Renzi del modello tedesco. Ma a patto che non sia una battuta, e che tutti sano disposti a cambiar testa e a tirarsi su le maniche. Il che significa uan soa cosa: l’obbligo, per noi, è lo scetticismo.

30
Ago
2014

L’Ente Fiera del Levante è pieno di debiti. Fallisca o sia ceduto al mercato–di Rocco Todero

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

Mercoledì 27 agosto il Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, ha rilasciato al quotidiano La Stampa un’intervista (qui) nel corso della quale ha opportunamente sottolineato la necessità che Parlamento e Governo intervengano al più presto sulla pletora di società ed enti partecipati da amministrazioni pubbliche con una nuova disciplina legislativa che ponga fine al grave e non più tollerabile dispendio di risorse pubbliche.

La lettura dell’intervista mi ha fatto ricordare di una recente deliberazione della Corte dei Conti – sezione regionale di controllo per la Puglia – del 30 luglio 2014 (PDF qui) che si è occupata della situazione economica dell’Ente Autonomo Fiera del Levante e che mi è parsa di grande interesse, proprio alla luce di quanto affermato da Mingardi, perché aiuta a comprendere quale sia lo stato attuale della legislazione in materia di partecipazioni in imprese, società o enti pubblici e quali siano in definitiva gli interventi necessari.

L’Ente Autonomo Fiera del Levante è stato fondato ed è partecipato, tra gli altri, dal Comune di Bari, dalla Provincia di Bari e dalla locale Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, ed è un ente senza scopo di lucro che per statuto deve (dovrebbe) rispettare il principio del pareggio di bilancio (qui lo statuto). Lo scopo sociale dell’Ente è quello di sostenere lo sviluppo economico della Puglia e più in generale dell’intera Italia, favorendo, tra l’altro, “i processi di promozione commerciale delle imprese in Italia e all’estero”.

Negli ultimi 5 anni, tuttavia, la gestione dell’Ente Fiera ha fatto registrare perdite d’esercizio consecutive per complessivi 15.165.914 euro così ripartiti: 857.050,00 per l’esercizio 2008, 4.745.640,00 per il 2009, 4.116.233,00 per il 2010, 2.346.350,00 per il 2011 e 3.100.641,00 per il 2013 (qui i bilanci).

Il Presidente della Provincia di Bari ha domandato alla Corte dei Conti se sia legittimo contribuire al ripianamento delle perdite dell’Ente con un contributo straordinario richiesto nella misura di 1,5 milioni di euro.

I Giudici contabili hanno ricostruito la disciplina oggi vigente, nella materia in esame, evidenziando:

  1. Che in linea generale esiste un divieto per le amministrazioni pubbliche di provvedere ad aumenti di capitale, trasferimenti straordinari ed aperture di credito in favore di società partecipate non quotate che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio;
  2. Che l’Ente Fiera del Levante non è una società pubblica ma un organismo di diritto pubblico e che a stretto rigore, dunque, le limitazioni imposte alle pubbliche amministrazioni per le contribuzioni nelle partecipate non dovrebbero riguardarlo;
  3. Che tuttavia è necessario tenere conto della natura di Ente partecipato da pubbliche amministrazioni che erogano risorse pubbliche e della “tendenza” della più recente legislazione di procedere nel senso del divieto “di interventi tampone con dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, erogate senza un programma industriale o una prospettiva che realizzi l’economicità e l’efficienza della gestione nel medio e lungo periodo

Insomma, un divieto chiaro e categorico di salvare l’Ente Fiera del Levante, anche alla luce di un’interpretazione semplicemente letterale, sembrerebbe non esserci, ma i giudici contabili invitano il Presidente della Provincia di Bari a pensarci bene prima di disperdere ulteriori risorse pubbliche a fondo perduto e senza alcuna ragione, viste le condizioni apparentemente irrimediabili in cui versano le finanze dell’organismo di diritto pubblico.

Riallacciando il discorso di Mingardi con ciò che emerge dal caso “Ente Fiera del Levante”, vi è da sottolineare la necessità che in un Paese culturalmente poco avvezzo a farsi guidare coscienziosamente da regole di efficienza, economicità e di sana gestione delle risorse pubbliche esistano norme giuridiche chiare, semplici e soprattutto inderogabili che impongano la dismissione, la cessione e persino il fallimento di tutti i soggetti partecipati da pubbliche amministrazioni e che producono regolarmente perdite d’esercizio.

L’Ente Fiera del Levante, già oggi, alla luce dei risultati di gestione, dovrebbe avviarsi verso il fallimento e la conseguente messa in liquidazione in tempi certi e rapidi, in modo da non arrecare ulteriore danno alle finanze pubbliche. Se è veramente servito sin’ora a soddisfare una reale esigenza di mercato saranno gli operatori privati che ne hanno eventualmente tratto beneficio a rivelarlo, associandosi per costituire un nuovo soggetto commerciale che ne proseguirà l’attività. In alternativa, dovrebbe essere collocato sul mercato, salvaguardandone magari il brand, per verificare, anche in questo secondo caso, la sostenibilità economica del suo business model.

Ma, allo stato, mancano norme che impongano soluzioni nette ed uniformi a favore della dismissione pro-mercato e così la scelta ricade sui vertici della pubblica amministrazione che si sentono rispondere dalla Corte dei Conti, come nel caso qui considerato dell’Ente Fiera, un sonoro “NI” al quesito proposto. Mezzo no e mezzo sì. Si può erogare un contributo straordinario ad un organismo di diritto pubblico in perdita da 5 anni? Si, no, forse: NI!

Sta di fatto che ad oggi la gestione con risorse prevalentemente pubbliche dell’Ente Fiera non ha consentito di verificare se l’attività di promozione commerciale delle imprese in Italia ed all’estero sia stata realmente profittevole per tutte le aziende coinvolte direttamente ed indirettamente dalla predetta attività, atteso che i costi di gestioni e delle attività sono state sopportate anche dai cittadini e dalla fiscalità generale degli enti partecipanti.

Sinora, infatti, è accaduto che tasse di lavoratori, imprese e professionisti sono state destinate al finanziamento di attività che nelle intenzioni dell’imprenditore pubblico dovevano rivelarsi vantaggiose per altri lavoratori, imprese e professionisti. Peccato però che, a tacer d’altro (dell’economicità della gestione, ad esempio), i soggetti finanziatori non coincidano affatto con quelli beneficiati.

Speriamo, dunque, che le invocate regole semplici, chiare e pro mercato arrivino al più presto, prima che la confusione e le ambiguità di cui sono sempre gravide le leggi italiane finiscano per paralizzare del tutto anche il raziocinio dei Tribunali.

@roccotodero

27
Ago
2014

Perché non credo a Frontex Plus, e alle proteste italiane prive di proposte

Mi spiace, ma non credo molto anzi per nulla all’annuncio odierno, e cioè che da autunno-inverno una missione “Frontex Plus” sostituirà i mezzi italiani impegnato nel Mediterraneo nella missione Mare Nostrum. Era ottobre del 2013, quando dopo una terrificante strage nel mare fuori Lampedusa l’Italia portava al Consiglio Europeo la necessità di un cambio di marcia nei confronti dell’emergenza migranti dalla sponda Sud del mediterraneo. Il cambio di marcia non è mai avvenuto. Ho scritto all’inizio del semestre di presidenza italiana Ue che il tema andava riaffermato al centro del tavolo europeo. Nel frattempo, quasi duemila morti in mare solo da inizio anno. E oltre 123 mila salvati dall’Italia da sola, dalla nostra Marina Militare, Guardia costiera, dai mezzi delle Capitanerie di Porto, Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri. Un flusso gigantesco che entrando in Italia affanna le stremate strutture residue dei Cie, dei Comuni, della Protezione civile, della CRI e dei volontari delle ONG italiane.

Nell’incontro odierno con il ministro Alfano, la commissaria europea (uscente) agli Affari Interni Cecilia Malmström ha ribadito la verità. Frontex, l’agenzia europea alle frontiere, non ha risorse e mezzi per affiancare l’Italia. Figuriamoci per sostituirla.  Sono i Paesi della Ue, nazionalmente, che dorranno decidere se impegnarsi o meno. Finora non l’hanno fatto. E il perché è scontato. Attualmente, se a salvare i disperati nel Mediterraneo fosse un mezzo militare tedesco o francese, a loro poi spetterebbe occuparsi anche del destino successivo dei salvati, in assenza di nuove regole europee che oggi mancano, in materia di comuni indirizzi su immigrazione, asilo e meri trattamenti umanitari.

E’ politico, il problema. Finora Alfano e altri hanno strillato contro l’Europa.  Sui soldi. Ma – almeno per quanto è noto – non hanno stilato un pacchetto di norme che identifichi un codice comune europeo a fronte dei migranti e dei trafficanti di carne umana. Il governo italiano deve portare al Consiglio dei ministri degli Affari Interni Ue, il 9 e 10 ottobre, un pacchetto di proposte su cui o si schioda il consenso politico dei 28 Paesi dell’Unione, pppure l’Italia deve essere pronta a una strategia alternativa. Già nel prossimo summit europeo dedicato alla scelta di alcuni componenti essenziali della nuova Commissione Juncker, Renzi dovrebbe porre il punto.

E’ ovvio che l’optimum sarebbe una compartecipazione di mezzi e risorse dei maggiori paesi Ue: proprie unità navali a fianco alle nostre, con turni plurimensili per aree assegnate come si fa nella task force internazionale antipirateria operante al largo del Corno d’Africa. Ma per una missione simile manca la cosa fondamentale: stabilire PRIMA chi dovrebbe farsi carico poi dei salvati. E c’è un altro fattore, che dovrebbe far alzare il tiro politico all’Italia. Quanto si è letto da alcune fonti europee in questi ultimi giorni, e cioè che l’operazione Mare Nostrum italiana ha il difetto di apparire ai trafficanti di carne umana come un incentivo, cioè la scontata garanzia che tanto c’è chi salva anche in alto mare gli schiavi trasportati, la dice lunga non sul cinismo della politica estera di altri Paesi Ue, bensì sulla totale mancanza di consapevolezza di quanto sta avvenendo in queste settimane.

Non è più solo il costo finanziario proibitivo per la sola Italia, l’argomento di Renzi ed Alfano al tavolo europeo. Nel frattempo è riesploso l’intero Medio Oriente. E’ questa, la terribile realtà dietro il flusso che si abbatte su Mare Nostrum. Berlino e Parigi è meglio riflettano bene su una Libia ormai in preda alle bande islamiste. Contro le quali Egitto ed Emirati Arabi bombardano senza alcuna informazione condivisa né con gli Usa né con Ue, tenendo rapporti riservati solo con Tunisia e Algeria. Mentre Obama non sa che fare in Siria, visto che deve colpire l’ISIS ma contemporaneamente non può farlo a fianco di Assad. E mentre centinaia di migliaia di nuovi profughi tentano di sopravvivere fuggendo nel Mediterraneo dal nord dell’Iraq, dal presunto nuovo Califfato, da Gaza. Aree su cui Iran (e Qatar) hanno interessi distinti dall’Egitto di al-Sisi, contro Isis da una parte, con Hamas dall’altra.

E’ l’esplosione mediorientale oggi la vera ragione politica e geostrategica che dovrebbe smuovere le capitali europee. L’imbarazzato silenzio di Bruxelles su quanto avviene in Medio Oriente può essere superato se al prossimo vertice europeo davvero c’è un’intesa su chi guiderà la politica estera comune. E se sarà il ministro Mogherini, come ormai sembra e nel caso per Renzi è una buona vittoria, a maggior ragione occorre che abbia un mandato chiaro.

Se fino a ieri mancavano i presupposti internazionali per un vero intervento extraterritoriale di contenimento dei flussi di carne umana, la richiesta rivolta ieri all’ONU da quanto resta del parlamento libico eletto offre una cornice da raccogliere, che legittimi una presenza internazionale sulle coste libiche a fianco all’Egitto e alle monarchie moderate islamiche, che a differenza del Qatar temono la deriva neoislamista.

L’esperienza deve renderci duri. In caso di mancata risposta europea bisogna essere allora pronti a dire che useremmo tutto ciò che il diritto internazionale marittimo consentisse alle autorità italiane, a cominciare dal disporre alle navi battenti bandiera estera transitanti nel canale di Sicilia di prestarsi non al salvataggio, ma a ospitare i salvati fino al regolare porto di arrivo ma non su coste italiane. E’ una misura durissima, ma fattibile. L’extrema ratio, per far ragionare l’Europa: visto che alzerebbe i noli per tutti i maggiori porti spagnoli e francesi, colpendo i traffici anche verso il Centro Europa, Germania e Austria comprese. Non possono essere i tecnici di Frontex, a compiere una svolta politica tanto radicale. Bisogna porla al centro della scelta del nuovo Mr o Miss Pesc, e come priorità della nuova commissione Juncker.

La spirale riavanzante del terrorismo islamista è la nuova emegenza. Ma è la reciproca convenienza, ciò che all’Europa sfugge. Sinora in realtà è mancata una comune politica dell’immigrazione, come fattore essenziale della crescita e stabilità economica complessiva. I diversi Paesi membri dell’Unione hanno legislazioni diverse sulle procedure di ammissione temporanea, sui requisiti di lavoro, sul diritto al ricongiungimento delle famiglie e sulla cittadinanza. Ma oggi sono le vie nazionali a superare una frontiera comune, a non funzionare più. Erano figlie di un’era in cui ciascuno pensava alla propria crescita economica, ai diversi retaggi coloniali, a confliggenti teorie e prassi giuridiche della cittadinanza. E a fabbisogni di manodopera, contributi sociali e tasse, completamente slegati da paese a paese.

La drammatica crisi dell’Europa ha mostrato in questi anni che non è più così. La devastante curva demografica italiana e l’invecchiamento della popolazione tedesca sono due facce di una stessa medaglia. Più l’Italia è lasciata sola nel salvataggio e nel filtro impossibile di duecentomila disperati l’anno, meno potrà concentrarsi su una politica di “scelta” di migranti per qualità dell’offerta, come invece da tempo hanno iniziato a fare i paesi nordeuropei. Ma meno lo faremo noi, più metteremo anche gli altri paesi europei nelle stesse condizioni. Perché nessuno tra chi viene ripescato in mare, oggi, vuole restare nel nostro impoverito paese. Amaro dirlo, ma giusto riconoscerlo. E farlo presente a tutti, con la dovuta chiarezza.

 

26
Ago
2014

Non solo calcio: il goal della trasparenza.

La recente vicenda riguardante la nomina del nuovo allenatore della Nazionale di calcio italiana può essere esaminata sotto molteplici punti di vista, quello tecnico innanzitutto. Del resto, la presenza nel Bel Paese di 60 milioni di CT – come si usa dire al fine di evidenziare la propensione degli italiani all’esercizio di tale ruolo – renderebbe di sicuro detto esame appassionante. Invece, poiché le valutazioni calcistiche devono essere effettuate da chi ne abbia competenza, è forse più opportuno in questa sede analizzare taluni profili inerenti al conferimento dell’incarico suddetto, al fine di verificare se le relative modalità procedurali siano state tali da consentire al nuovo allenatore di espletare, con piena autonomia e responsabilità personale, il compito cui è chiamato.  Read More

22
Ago
2014

Declamazioni, dirigismo e soluzioni concrete—di Rocco Todero

Certificazione dei crediti e garanzia dello Stato per i debiti delle PPAA

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.
Con due provvedimenti di recente emanazione – il decreto legge n. 66/2014 convertito in legge n.89/2014 ed il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 27 giugno 2014 – Governo e Parlamento hanno introdotto la garanzia dello Stato per il pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati da imprese e professionisti nei confronti delle pubbliche amministrazioni diverse dallo Stato.

Si tratta di una serie di regole in virtù delle quali il creditore privato ottiene dalla amministrazione debitrice, per il tramite della piattaforma informatica del ministero dell’economia e delle finanze, la certificazione dei propri crediti maturati al 31.12.2013 ed iscritti nel bilancio della P.A. come debiti di parte corrente. Grazie a tale certificazione, che in sostanza altro non è che un riconoscimento di debito da parte dell’amministrazione, lo Stato garantisce di provvedere al pagamento del credito per l’ipotesi in cui l’amministrazione debitrice dovesse risultare inadempiente nei confronti della banca o dell’istituto di intermediazione finanziaria al quale l’originario creditore privato abbia ceduto la propria pretesa patrimoniale.

Il creditore privato, dunque, verrà immediatamente soddisfatto dalla banca che accetterà la cessione del credito vantato nei confronti della P.A. e lo Stato interverrà solo nell’ipotesi in cui, giunto a scadenza il termine per il pagamento del credito da parte della amministrazione debitrice nei confronti della banca che lo ha acquistato, il debito medesimo non verrà estinto col pagamento.

Per le operazioni di cessione il legislatore ha previsto che non potrà essere richiesto uno sconto superiore all’1,9% annuo sui crediti ceduti sino a 50.000 euro ed all’1,6% sui crediti superiori a tale cifra.

Lo Stato, infine, si rifarà del pagamento del credito nei confronti di Comuni, Provincie e Regioni inadempienti decurtando le somme che periodicamente dovrà trasferirgli e che non siano preordinate al finanziamento dei livelli essenziali d’assistenza e qualora non sia possibile provvedere al recupero integrale delle somme dovute dagli enti interessati si procederà alla riduzione delle somme a qualsiasi titolo dovute e quindi anche di quelle destinate ai livelli essenziali d‘assistenza.(artt. 8 e 9 D.M. 27 giugno 2014).

L’introduzione della garanzia dello Stato – la vera novità di questi interventi normativi, atteso che la certificazione dei crediti è già in vigore da alcuni anni – ha il fine di “ assicurare il completo ed immediato pagamento di tutti i debiti di parte corrente certi, liquidi ed esigibili,” ed il legislatore ha ritenuto di potere raggiungere questo obiettivo cercando di stimolare e di rendere appetibili per le banche le operazioni di cessione del credito.

Il meccanismo introdotto dai recenti interventi normativi appare, ad una prima lettura, di indubbio interesse soprattutto perché spinge nella direzione dell’adempimento obbligatorio dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei privati fornitori di beni e servizi e lo fa condendo il tutto con l’enfasi di affermazioni categoriche come quelle che prescrivono che “La garanzia del fondo è a prima richiesta, diretta, esplicita, incondizionata ed irrevocabile..”; ma stimola, allo stesso tempo, alcuni rilievi critici per superare i quali sarà necessario attendere la “messa a regime” dell’intera operazione.

Occorre, innanzitutto, osservare che la garanzia dello Stato è oggi limitata ad un fondo capiente nella misura di euro 150 milioni mentre i debiti certificati risultano già adesso essere nell’ordine di decine di volte di più. Altri 1.000 milioni di euro dovranno essere recuperati all’interno del bilancio del Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso opportune variazioni di spese sulle quali non vi è stata tuttavia alcuna indicazione.

La possibilità di ottenere la certificazione dei crediti al fine di potere usufruire della garanzia dello Stato è poi limitata ai crediti certificati alla data di entrata in vigore del decreto legge (24 aprile 2014) o a quelli la cui istanza di certificazione sarà presentata entro un determinato termine ( il 23 agosto 2014, poi prorogato al 31 ottobre 2014).

A ciò si aggiunga che il meccanismo della garanzia dello Stato rischia di alterare il principio di parità di trattamento dei creditori, poiché coloro che riusciranno a cedere tempestivamente i loro crediti alle banche saranno soddisfatti, grazie all’intervento dello Stato, a scapito di quanti potranno vantare un credito più vecchio ma ancora non ceduto, magari perché non hanno trovato l’istituto di credito disponibile alla cessione. Chi prima arriverà meglio alloggerà, dunque.

L’impatto concreto dei provvedimenti varati, inoltre, dipenderà dall’adesione del sistema bancario al volere del Governo e del Legislatore e, in particolare, dall’accettazione del tasso di sconto che dovrebbe rendere conveniente per gli istituti di credito la cessione del credito, tasso che, è opportuno sottolinearlo, non è il risultato della volontà del “mercato” quanto piuttosto di un’imposizione dello Stato.

Tutto dipenderà, poi, dalla fiducia che le banche riporranno nella garanzia che lo Stato offre per il pagamento dei crediti che hanno acquisito, e non è detto che questa garanzia ispiri la fiducia che occorre, tenuto conto anche del fatto che il decreto ministeriale citato impone un accantonamento a coefficiente di rischio in un apposito fondo del solo 8%. del valore del credito certificato e ceduto, mentre la garanzia dello Stato è concessa per l’intero ammontare della pretesa patrimoniale.

La maggior parte dei Comuni, delle Province e delle Regioni, infine, versano in condizioni di grave crisi di liquidità e presumibilmente si avvarranno della facoltà, prevista nel decreto legge, di proporre alle banche di rateizzare e riscadenzare i debiti ceduti. Le banche valuteranno tali proposte in base alle loro convenienze come è giusto che sia.

Quindi, siamo in presenza: 1) di una riserva limitata per la garanzia di pagamento dei crediti, 2) di una discrasia fra la somma garantita e quella effettivamente disponibile ed accantonata per ogni cessione del credito, 3) dell’impossibilità di garantire il pagamento dei crediti secondo la loro anzianità, 4) dell’impossibilità di garantire l’efficacia dell’intera operazione senza l’adesione massiva delle banche, 5) di un’impostazione sostanzialmente dirigista.

Proviamo ad articolare una modesta proposta che possa evitare, o quanto meno ridurre, gli inconvenienti illustrati.

Invece di chiamare in causa le banche, cui riconoscere un tasso di sconto annuale dalla cessione del credito, lo Stato potrebbe più semplicemente imporre – con una misura di lungo periodo – la riduzione graduale del debito a tutte le pubbliche amministrazioni non statali, costringendole a pagare annualmente un stock di debito certificato e predefinito, sotto la minaccia, per il caso di inadempimento, di destinare l’equivalente dei trasferimenti statali di competenza della P.A. per l’anno di riferimento direttamente al pagamento dei crediti dei privati. Le norme sul coordinamento della finanza pubblica lo consentirebbero di certo.

Così facendo, lo Stato potrebbe innanzitutto imporre il pagamento dei debiti seguendo l’ordine della loro anzianità, oppure potrebbe assicurare periodicamente un pagamento frazionato a tutti i creditori; quindi potrebbe tentare di risolvere in gran parte il problema dei pagamenti perché non avrebbe bisogno della disponibilità di alcuna somma posta a garanzia delle corresponsioni, ma dovrebbe più semplicemente prevedere per un certo numero di anni – o finché i debiti non saranno definitivamente estinti – la possibilità di destinare i trasferimenti ordinari alle pubbliche amministrazioni ai pagamenti dei loro debiti tutte le volte che lo stock predefinito di debito non sarà stato pagato.

Non ci sarebbe bisogno dell’adesione delle banche per assicurare il buon esito dell’intera operazione, né di alcun tasso di sconto imposto invece in perfetto stile dirigista. Non essendo necessari né le risorse in capo allo Stato per garantire i pagamenti, né il consenso delle banche per addivenire alla cessione dei crediti, non potrebbe sussistere a quel punto alcun ostacolo ad impedire la corresponsione di quanto dovuto ai creditori da parte dello Stato.

Sarebbe necessario, tuttavia, avere a disposizione una nozione chiaramente definita e quanto più restrittiva possibile dei livelli essenziali d’ assistenza d’assicurare ai cittadini, al fine di escludere i finanziamenti all’uopo destinati dal novero di quelli che possono essere dirottati dallo Stato al pagamento dello stock annuale di debito predefinito. La pretesa da parte dello Stato, infatti, di volere recuperare le somme utilizzate per il pagamento dei debiti degli enti locali e delle regioni anche attraverso la compensazione con i fondi destinati ai livelli essenziali d’assistenza che non verrebbero più trasferiti agli enti debitori appare più una vacua declamazione nell’attuale contesto costituzionale di “Stato sociale” e di profonda crisi economica piuttosto che una vera e propria “ garanzia” a favore del medesimo soggetto garante.

P.S. Interpellate le filiali di due delle maggiori banche operanti in Italia in una cittadina di 350.000 abitanti è risultato che nessuno sa niente della cessione dei crediti e della garanzia dello Stato.

@roccotodero

20
Ago
2014

Addolora il no al ricalcolo contributivo delle pensioni da parte del Corriere e di molti riformatori

Mi dispiace, non sono d’accordo. Nel giro di 24 ore, si è ricreata in Italia una santa alleanza tra destra, sinistra e sindacati al grido “il governo non tocchi le pensioni”. Il Corriere della Sera ha dato il suo per una volta potente contributo, insistendo per due giorni sul fatto che Renzi non può tradire il contratto con i pensionati, che hanno versato i loro contributi quando lavoravano e che oggi beneficiano dell’assegno maturato in base a quel contratto. Apparentemente è un principio sacrosanto. Se non fosse per il fatto che il sistema previdenziale italiano è stato costruito dalla politica sulla base di una grande ingiustizia. E mi addolora che si uniscano oggi nel negarlo anche  liberali costretti ad arrampicassi sugli specchi, perché da una parte hanno sostenuto che era un errore escludere interventi sulle pensioni quando a proporli a marzo fu Cottarelli, e ora dicono no per il solo fatto di sparare sul governo Renzi pensando un domani di lucrar voti.

I 15,7 milioni di pensionati nel 2013 a carico dell’INPS, che incassano 21 milioni di trattamenti perché in diversi casi si sommano (pensioni di anzianità, vecchiaia, superstiti), sono per 14,1 milioni del settore privato, il resto ex lavoratori pubblici. Dei pensionati “privati”, 12,7 milioni incassano un assegno maturato col sistema “retributivo”, cioè precedente alla riforma Dini del 1995, in cui il trattamento era agganciato alle ultime retribuzioni, solo 356mila col sistema “contributivo” introdotto dalla Dini – in cui contano i contributi versati nel corso della vita lavorativa, moltiplicati con un certo coefficiente per l’andamento del Pil, ed erogabili per vecchiaia oggi a 66 anni ma via via ad età maggiori, man mano che cresce l’attesa di vita. C’è poi poco più di un milione di pensionati privati che incassa trattamenti col sistema “misto”.

E’ l’effetto della troppo lunga transizione da un sistema all’altro – circa 20 anni – decisa dalla politica quando votò la riforma Dini, dopo che per troppi anni aveva rinviato la riforma del vecchio sistema concepito quando l’Italia cresceva del 3% l’anno, e aveva molti meno anziani a carico dei lavoratori. Perché il sistema, sia quello retributivo che quello contributivo, a differenza di quanto credano i più, non è affatto tarato in modo tale da pagare le pensioni sulla base dei contnributi effettivamente versati , rivalutati a seconda di come sono stati investiti anno per anno come funziona nella previdenza privata. Le pensioni erogate, sia quelle retributive sia quelle contributive, sono pagate dai contributi di chi è oggi al lavoro. Resta cioè un sistema a “ripartizione”.

Qual è l’ingiustizia creata da questa transizione troppo lunga, che la politica ha deciso per non inimicarsi nelle urne milioni di voti? Il fatto che i troppo pochi che lavorano oggi, e se sono giovani lo fanno a tempo determinato e soggetti a frequentissime interruzioni della regolarità dei versamenti contributivi, debbano pagare milioni coi loro contributi gli assegni previdenziali a chi col vecchio sistema continuerà ad avere pensioni pari anche al 90% dello stipendio dell’ultimo mese lavorativo, mentre chi paga oggi andrà in pensione a età molto più avanzate di loro – per effetto della riforma Fornero – e con un assegno che potrebbe non coprire – dipende da come va il Pil italiano nel frattempo., oggi e da anni va male- che il 40 o il 50% di quanto guadagnava finché ha lavorato.

Eccolo, il problema: un’enorme ingiustizia tra le generazioni. A questo fine, non per far cassa e risparmiare soldi, avrebbe senso reintervenire sulle pensioni, e ricalcolare per tutti i trattamenti sulla base del sistema contributivo e non retributivo. Ovviamente si tratterebbe di farlo con senso della misura, sottraendo di più a chi ha pensioni più elevate, magari superiori ai 3 o 4 mjila euro al mese (il 7,8% dei pensionati, che stanno sopra i 2500 euro al mese, incassano 58 miliardi l’anno dei 256 miliardi di pensioni, cioè quasi il 20%),  e di meno a chi le ha più basse. Attualmente è previsto un contributo di solidarietà a partire dal 6% per chi ha pensioni tra i 7 e i 10mila mila euro, del 12% per la quota tra i 10mila e 14800 euro, e del18% per la parte eccedente tale soglia. Ma così concepito l’intervento è una tassa, mentre il problema di giustizia tra generazioni imporrebbe invece una rivisitazione eguale per tutti del sistema in base al quale, dato il montante dei contributi versati lavorando, si determina poi la pensione erogata.

Oggi, un enorme regalo viene pagato da chi lavora e non ne avrà più diritto. Vi sembra giusto, pensando ai vostri figli?

Si dirà: sì, ma queste regole mica le hanno scritte i pensionati. Giusto, le ha scritte la politica. Ma ingiuste restano. Si aggiungerà: sì, ma così facendo leveremmo ulteriori risorse agli impoveriti italiani.. E qui la risposta è no, eviteremmo di consegnare alla povertà le generazioni a venire per sostenere quelle precedenti, più patrimonializzate.

Purtroppo, però, la parola d’ordine prevalente, come si è visto in 24 ore, resta “non toccate le pensioni”. I giovani senza lavoro e senza pensione a venire, o nel migliore dei casi molto basse, commossi ringraziano.

Era lecito attendersi che di fronte alle indiscrezioni attribuite al governo di un intervento sulle pensioni – per quanto confuse fossero le indiscrezioni, perché diverso è parlare di un altro ritocco al “contributo di solidarietà”, altro è il ricalcolo generale dei trattamenti, e molte possono essere le soluzioni intermedie – il fronte riformatore liberale fosse unito nell’incoraggiare a perseguire la via, magari proponendo soluzioni tecniche adeguate. Invece no, il Corriere ha suonato la tromba del “non si toccano le pensioni” – e mi addolora sia stato anche Ostellino, un liberale a mille carati – e partiti e sindacati han subito fatto coro. Mi spiace che anche Passera sia sia unito, sia pure, come Cazzola, sparando contro l’ipotesi che i ritocchi alle pensioni retributive servano a coprire eventuali prepensionamenti che scardinano i tetti pensionabili posti dalla riforma Fornero.  E’ ovvio che ai prepensionamenti si debba dire no, ma quando si dice “non toccate le pensioni” l’addendo “per pagare eventuali prepensionamenti” sparisce: in politichese conta solo il messaggio forte “non toccate le pensioni”.

Ed è esattamente quel che Corriere e Passera hanno fatto: chi per tutelare lettori anziani col loro regalo di pensione retributiva, chi pensando di lucrar voti contro Renzi. Dimenticando allegramente che la differenza tra contributi raccolti e trattamenti erogati è di oltre 54 miliardi nei conti 2012 se ci limitiamo alla previdenza “stretta”, mentre se ci allarghiamo ai trattamenti anche assistenziali e sociali erogati dall’INPS il deficit a carico del contribuente è di 83,6 miliardi l’anno, come stamane ancora sul Corriere ricordava Alberto Brambilla. E dimenticando che la politica, pur avendo aspettato 20 anni per mutare sistema di calcolo previdenziale con la riforma Dini, e quasi il doppio per elevare l’età pensionabile con la riforma Fornero, ha bellamente sempre riconfermato i trattamenti ancor più privilegiati nel privilegio, concessi per il calcolo delle pensioni retributive ad alcuni fondi come quello dei dirigenti, dei postelegrafonici, del personale di volo delle compagnie aeree, rispetto agli standard che valgono per gli altri sempre soggetti ai trattamenti retributivi.

E’ l’ennesima prova che un fronte liberal-riformatore, su questi temi, non c’è, è troppo debole, troppo accecato da transeunti calcoletti politici.  In un paese sempre più vecchio, si ragiona da vecchi.

 

E in tutto questo, nessuno si scandalizza per un piccolo particolare che dovrebbe invece far urlare tutti: l’istat ancora ieri ha chiarito che l’eventuale ricalcolo col sistema contributivo per tutti i pensionati non lo può fare. E sapete perché? Perché dei milioni di pensionati pubblici mancano conti attendibili della loro reale storia contributiva. Perché lo Stato che tanto persegue gli evasori, i contributi ai dipendenti pubblici non li pagava, tanto era una partita di giro. Ecco, questa sola cosa dovrebbe far riflettere tutti, su come funziona davvero il sistema previdenziale italiano. E farci vergognare dei 6,8 milioni di pensionati che non arrivano a incassare oggi mille euro al mese.