Spesa pubblica: Renzi deve decidersi. Nella sanità partiti e forniture non sono neanche stati sfiorati
I tecnici no, i politici neanche. Il dramma della spesa pubblica italiana è un continuo rimpallo, tra chi la deve tagliare. E la risposta è: nessuno dei due. Nel frattempo, a pagarla però siamo noi tutti. Ci si sono bruciate le mani a tutti i governi italiani, in questi anni di crisi. E ora è la volta di Renzi. Per non scottarsi, deve decidersi.
Uno sgradito Bollettino mensile della BCE ha ieri richiamato l’Italia a tirare i cordoni della spesa pubblica. Perché quest’anno non verrà rispettato l’obiettivo di contenere il deficit entro il 2,6% del Pil, e a maggior ragione si aggrava l’impegno che andrà rispettato per il 2015, con la legge di stabilità attesa a ottobre. Al netto delle tante variabili tecniche – l’attesa entro 3 settimane per il ricalcolo del Pil per gli anni 2012-2013, dopo che l’Istat ha rialzato del 3,7% quello 2011 grazie a un diverso computo di investimenti ed economia illegale; il vertice straordinario europeo sulla crescita voluto da Renzi e previsto per il 6 ottobre; l’effetto che avrà su Commissione e Consiglio europei la posizione della Francia, che non rispetterà né nel 2015 né nel 2016 il promesso rientro entro il 3% del deficit sul Pil – anche per Renzi è ormai maturo un ragionamento di fondo, sulla spesa pubblica. Ha a che fare con il rapporto tra politica e tecnici, l’eterno dilemma di questi duri anni di crisi italiana.
Partiamo dalla realtà. La spesa pubblica continua a salire. Ha rallentato la sua ascesa, ma sale. Tutti quelli che dicono che scende lo fanno escludendo gli interessi sul debito, o magari anche la spesa previdenziale e quella per prestazioni dovute: peccato che il contribuente debba pagare tutto, non è che lo Stato ci faccia lo sconto su questa o quella posta di spesa. Dai 605 miliardi del 2001 è salita a 797 nel 2011, e in questo 2014 chiuderà intorno a quota 820 o, speriamo, poco più. Ma nello stesso DEF presentato dal governo Renzi ad aprile scorso, la spesa era prevista crescere fino a oltre 850 miliardi al 2018.
Dalla crisi del governo Berlusconi a oggi, escludendo le leggi di stabilità, i DEF e gli interventi ordinari di disposizione di nuove entrate e uscite, si contano ben 14 provvedimenti di reindirizzo strategico delle verifiche, controlli e proposte di riordino della spesa pubblica. A parole, i governi precedenti all’attuale, quelli di Berlusconi, Monti e Letta, non ci hanno fatto mancare una nutrita batteria di strumenti volti a creare le premesse per tenere sotto controllo la sete di spesa pubblica. Sono nati i nuclei ministeriali di valutazione della spesa, il coordinamento interministeriale sui suoi andamenti, un rapporto annuale che dal 2012 andava presentato entro novembre ogni anno.
Ma tutto ciò ha prodotto poco, rispetto alla scelta che ha avuto più eco pubblica: affidare a dei tecnici l’incarico di studiare la spesa pubblica nelle sue mille pieghe, e avanzare proposte per ridurla, ottimizzarla, identificare sprechi di massa per concentrare invece risorse su poste più essenziali allo sviluppo e alla coesione sociale. I commissari alla spending review: Giarda prima, Bondi poi, infine Carlo Cottarelli, scelto dal governo Letta e subìto – ormai si può dire, visto che tornerà a Washington tra poco – dal governo Renzi. I commissari nascevano dalla ripulsa della politica verso il sistema-Tremonti: quello dei tagli lineari che, per funzionare nell’immediato, non facevano distinzioni tra priorità ed effetti economico-sociali, e soprattutto avevano bisogno di un ministro dell’Economia capace di farsi odiare da tutti i colleghi, senza per questo poter essere sostituito dal premier. Di fronte all’insurrezione giustificata di tanti, si disse: sia un tecnico estraneo agli interessi elettorali, coadiuvato da esperti interni ed esterni alla PA, a indicare alla politica come intervenire.
Ma è stato identico, l’esito delle analisi e proposte avanzate da Giarda, Bondi e Cottarelli. I governi cambiavano, ma i rapporti dei commissari restavano nei cassetti. Con una politica sempre più infastidita. Perché le tante proposte dei commissari, appena rese pubbliche, intanto suscitavano nuove ondate di proteste. E per questo mai divenivano provvedimenti. Mentre la spesa saliva.
Renzi sin dall’inizio non si è nascosto dietro un dito. Appena Cottarelli ha presentato le sue slides gli ha levato la palla, ha chiarito che si tornava al primato della politica. E’ il governo che sceglie e decide, punto. Benissimo. Poi però – dopo i poco più di 2 miliardi di tagli operati appena nato il governo – ha scelto prima di aspettare 6 mesio rinviando ogni ogni scelta alla legge di stabilità, che da settembre è slittatata ad ottobre. Poi, la settimana scorsa, ha annunciato che avrebbe chiesto a ciascun ministro proposte per tagliare ognuno del 3% il proprio bilancio. Tutto per portare a casa circa 6 miliardi, visto che i bilanci ministeriali, fuori dalle spese per funzioni come trasferimenti alle Autonomie, previdenza sanità eccetera, cubano meno di 180 degli oltre 800 miliardi di pesa pubblica.
Con il che, eccoci tornati alla casella d’inizio, come in un gioco dell’oca. I tagli lineari di Tremonti sono stati bocciati perché ciechi delle conseguenze, e di fatto dettati dalla Ragioneria Generale dello Stato e dai direttori generali dei ministeri, cioè dai tecnici della burocrazia pubblica e non dai politici. Ma, dopo aver fatto tappezzeria dei commissari alla spending review, ecco che in nome del primato della politica si torna esattamente ai tecnici ministeriali. Come tre anni fa. Nel frattempo, le 35 mila stazioni appaltanti e di procacciamento di forniture pubbliche restano 35 mila, le partecipate locali non si toccano perché l’Anci ha messo il veto. E la spesa pubblica continua a salire.
Per Renzi, a questo punto, è il momento della scelta. Lo dica, se vuole ridurre il più possibile i tagli veri, sposando la linea che invoca la minoranza del suo partito e limitando la legge di stabilità a incamerare i risparmi sugli interessi pubblici realizzati quest’anno e l’anno prossimo grazie a Mario Draghi, cioè alle scelte della BCE. Se invece resta convinto di voler fare tagli veri per coprire tagli alle tasse su impresa e lavoro, proceda con decisione. Ma decida lui e spieghi lui. Non ha senso, continuare a dire che non sforiamo il 3% né quest’anno né l’anno prossimo senza però prendere decisioni coerenti a quel che si dice. Non ricominciamo con i veti posti dai mandarini dell’alta burocrazia pubblica. Altrimenti, sarà inevitabile che anche a Renzi tocchi l’indebolimento che ha minato i suoi indecisi predecessori.
Facciamo l’esempio che ieri ha fatto insorgere le Regioni: la sanità. A luglio il ministro Lorenzin ha siglato con le Regioni l’intesa sul patto per la salute pluriennale. E visto che si parla di tagli, ricordiamo bene a tutti che in quel patto la spesa del fondo sanitario nazionale aumenta, sale e non scende: a 109,9 miliardi in questo 29014, e di altri 5,7 miliardi aggiuntivi entro il 2016. Se anche Renzi chiedesse 3 miliardi di risparmi nel biennio, la spesa sanitaria resterebbe in crescita di 3 miliardi, non ci sarebbe nessun taglio. I presidenti di Regione che sono insorti ieri sanno benissimo che non è vero, che intervenire su quell’ammontare di spesa significhi dover tagliare i servizi. Perché – al netto degli interventi di rientro coatto disposti in alcune Regioni a conclamato default sanitario in questi anni – la sanità resta un sistema in cui i capi delle ASL sono uomini dei partiti politici, visto che nessuno ha avuto il fegato di modificarne strutturalmente i criteri di nomina, con bandi pubblici riservati a manager del settore. E perché le forniture sanitarie continuano a essere un mercato parallelo segmentato e opaco, subottimale per i costi a carico pubblico e largamente sospetto per l’improprio intreccio di interesse tra pubblico e privati.
Prenda le sue decisioni e proceda, Renzi. Nella sanità come in tanti altri comparti, la volta buona che al premier sta tanto a cuore può garantire servizi migliori ai cittadini quanto più il premier vorrà incidere in interessi e lobby che, con il benessere pubblico e lo sviluppo, nulla hanno a che vedere. Altrimenti: che delusione.