22
Set
2014

Articolo 18: quel che sappiamo degli effetti, per un riformismo serio

Alla politica piace ragionare per slogan. Sulle intenzioni di Renzi sul Jobs Act, e in particolare sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fioccano i “timbri”. C’è chi l’ha avvicinato alla Thatcher, chi a Blair, o a Craxi. Il traslato è un modo per non parlare della realtà, ma per definire a prescindere – con giudizi “valoriali” – le intenzioni di modificarla. Un serio riformismo dovrebbe usare un altro metodo. Partire dai fatti: cioè valutare oggettivamente quali effetti reali ha provocato una certa norma, e che cosa determinerebbe invece la sua modifica. Dopodiché, ma solo ”dopo” e non “prima”, ciascuno resta libero di giudicare secondo le proprie idee, che in Italia in materia di lavoro sono ancora quasi sempre “ideologie”.

Se analizziamo oggettivamente le disfunzionalità del mercato del lavoro, come ho già scritto si dovrebbe partire dalla bassa occupazione, e dalla bassa produttività. Sulla prima questione, ricordiamo che tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Sulla seconda: se guardiamo alla manifattura italiana e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita al 2013 solo verso quota 110 mentre i salari orari sono arrivati oltre quota 155; nell’eurozona nel frattempo la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dovrebbe deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia di quelli alla produttività.

Ma non è di queste macro disfunzionalità che si parla, purtroppo. Bensì, ancora una volta, dell’abolizione eventuale del reintegro giudiziario in caso di licenziamenti economici, nei nuovi contratti triennali a tutele crescenti che il governo vuole introdurre. Per evitare la divisione “ideologica” di una scelta favorevole o contraria in via pregiudiziale, cerchiamo di capire gli effetti determinati dall’articolo 18.

L’OCSE valuta ogni anno in termini comparati le diverse forme nazionali delle restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi: l’Italia dopo decenni di stabilità a quota 2,76 è scesa con la riforma Fornero a quota 2,51, ma il confronto è con la media Ocse a 2,04, UK a quota 1,03, Svizzera 1,60, Spagna 2,05, Francia a 2,38. Tutti dunque più flessibili di noi. Solo la Germania ci supera, a quota 2,87.

I vincoli al licenziamento assicurano il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro, ne trasferiscono l’onere sull’impresa, che dovrebbe fronteggiarne gli effetti con maggiore facilità. Ma in concreto, la tutela più forte come modifica il comportamento delle imprese? Per rispondere a questa domanda, c’è una copiosa letteratura di ricerche comparate in sede Ocse. Maggiore è la protezione, minori risultano i flussi da occupazione a disoccupazione, e viceversa. E’ il classico effetto di tutela dell’occupazione stabile: da noi amplificata col sistema CIG. Le imprese razionalizzano prodotti e sistemi produttivi meno rapidamente di quanto dovrebbero fare inseguendo le curve di costo e domanda; si abbassa l’utilizzo degli impianti, salvaguardando piante organiche lasciate in CIG ma alzando il costo fisso del capitale fisico e finanziario; e infine grazie alla frammentazioopne del mercato del lavoro in Italia la variabilità della domanda di lavoro si risolve con contratti a tempo determinato – i precari a minori tutele come capita in Italia da molti anni, bruciando generazioni intere di più giovani. Ridurre la velocità di distruzione di posti di lavoro sembra una cosa positiva ma non lo è: si accompagna alla riduzione di velocità della creazione di quelli nuovi.

Tanto è vero che gli studi comparati Ocse rivelano che maggiore è la protezione dell’occupazione, con limiti a licenziamento e reintegri giudiziali, peggio va per donne e giovani, sia in termini di minor occupazione sia di maggior disoccupazione. Tutto ciò con effetti quantitativamente ancor più negativi quanto più forte è il livello di contrattazione collettiva, cioè quanto i salari fanno più difficoltà a variare tanto verso l’alto se le cose vanno bene, quanto verso il basso se vanno male. In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano inoltre più selettive, e assumono con maggiore probabilità lavoratori più istruiti. Mentre quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioè più persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.

Sin qui, appare evidente dagli studi comparati che esiste uno “scambio” tra protezione al licenziamento ed effetti collettivi positivi se il primo si attenua, quando i benefici verificati della tutela superano i costi privati e pubblici. Ma cerchiamo di capire anche se studi seri sono stati fatti in Italia, sugli effetti dell’articolo 18. Molte ricerche si sono incentrate sull’effetto-soglia. Se cioè la tutela per i lavoratori sopra le 15 unità di dipendenti per impresa rappresentasse un freno alla crescita dimensionale delle aziende italiane. Quasi tutte le ricerche – di Garibaldi, Pacelli, Schivardi, Torrini – concordano che l’effetto soglia esiste, ma è meno rilevante di quanto spesso si creda. Non spiegherebbe che il 2% delle decisioni di non crescere. Piuttosto, anche le imprese italiane analizzate sotto i 15 dipendenti hanno manifestato effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita. Assunzioni e licenziamento nei contratti a tempo indeterminato sono calati nelle imprese piccole rispetto alle grandi, sostituiti anche qui dal ricorso massicico dei contratti a tempo determinato. Tutto ciò ha in sostanza allungato i tempi di attesa verso “posti protetti” nella vita di ogni lavoratore.

Ci sono poi altri due effetti, ai quali i più non guardano. Quello dell’articolo 18 sui salari, e quello sulla produttività. Le ricerche italiane mostrano che le imprese traslano l’effetto-assicurazione al posto fisso – quella che in gergo tecnico si chiama job property – riducendo i salari settimanali: solo che la rigidità dei contratti nazionali di categoria per la parte salariale garantisce anche qui i già tutelati, e la riduzione comparata di salario va a carico dei contratti a tempo determinato che dalle tutele sono esclusi. L’apartheid di cui parla Renzi non è solo quella tra chi è tutelato dall’articolo 18, una minoranza secca dei 22,4 milioni di lavoratori italiani, e chi no. C’è anche quella dovuta al fatto che gli oneri assicurativi a favore dei tutelati, in una stessa impresa si traduce in minori salari di chi la tutela non ce l’ha. Stiamo parlando di minori salari tra il 10 e il 15%, a seconda dei diversi settori, e una quota di questo gap si deve proprio alla copertura degli oneri di licenziamento dei “tutelati” a tempo indeterminato. Infine, la produtitvità. La tutela elevata ai licenziamenti induce le imprese anche a un minore stock di capitale per unità di lavoro. C’è chi ha stimato che la riduzione della tutela al licenziamento verso il coefficiente OCSE della Danimarca – 2,20 rispetto al nostro 2,53 – produrrebbe negli anni un incremento dell’11,2%, degli investimenti, e del 7% della produttività del lavoro.

Analizzati tutti questi effetti, la soluzione obbligata è riscrivere il trade off tra tutela al licenziamento ed esternalità negative che ne vengono all’occupabilità e alla crescita della produttività. La soluzione dell’equazione non si fa solo abolendo il reintegro giudiziale, ma con:

-una seria riforma contestuale degli ammortizzatori sociali ( attenti al costo e a chi lo paga, se le imprese e in che misura, se la fiscalità generale e in che misura: non ho visto sinora alcuna stima attendibile degli oneri relativi all’estensione da subito a tutti di un ASPI più elevato a 3,2 milioni di disoccupati come Renzi apparentemente propone!)

-evitando ulteriori frammentazioni delle tutele e del mercato del lavoro: il che significa 1) – superare l’illicenziabilità di fatto nella PA mentre si diminuisce la tutela nel contratto d’insertimento privato; 2) – definire riforme che valgano per tutti e da subito, non per coorti nuove di dipendenti privati avviati al contratto d’inserimento mentre per tutti gli altri la disciplina resta uguale; 3)- NON confodnere il trade off tra licenziabilità ed esternalità positiove nel tempo indeterminato con la contrarietà pregiudiziale ai contratti a tempo determinato, di cui le imprese continueranno ad avere assoluto bisogno

-realizzando la contestuale riforma del sistema di intermediazione tra domanda e offerta del lavoro, aprendo agli intermediari privati

– scegliendo nettamente più contrattazione decentrata al posto di quella nazionale, compresa la parte salariale, se vogliamo che il trade off tra tutele e occuopabilitàò investa anche la maggior produttività del lavoro e delle imprese.

Giudicate voi, ora, se il Jobs Act su cui Pd e sindacati si accapigliano proceda secondo questi criteri.

 

22
Set
2014

La legge è legge! Quando il protezionismo è a carico del contribuente

“La legge è legge!”Con questo ritornello il grande attore comico francese Fernandel, nei panni del coprotagonista Ferdinand Pastorellì, ricordava a se stesso l’imperativo morale che doveva costantemente guidarlo nella propria attività professionale di gendarme di frontiera addetto al contrasto dei contrabbandieri Anche quando si trattava di mandare in gattabuia il suo migliore amico, l’indimenticabile Totò, (altro coprotagonista nei panni di Giuseppe La Paglia) che di crediti di riconoscenza con lui ne aveva contratti e non poco, ma che viveva di contrabbando, il gendarme Pastorellì non sentiva ragioni. Il film si intitola appunto: “La legge è legge!”ed è la prima narrazione che mi è venuta in mente durante la lettura di una sentenza del TAR Napoli di cui vado brevissimamente a darvi il resoconto.

Read More

19
Set
2014

La ripresa economica nel 2015?

Sorprende non poco che i nostri politici e governanti si entusiasmino così facilmente di fronte all’illusione di un apparente segnale di ripresa e poi si meraviglino che i dati smentiscono le loro previsioni: basterebbe che scendessero fra la Gente per capire quale è la situazione reale e come intervenire per invertire la tendenza; … ma sono troppo saldamente incollati alle loro teorie e convinzioni personali. Sic!
E’ già da qualche anno che sistematicamente il Premier o Ministro di turno rassicurano sulla imminente ripresa dal prossimo trimestre o semestre o anno e puntualmente arriva la smentita! … Ma la Gente lo sapeva già, senza bisogno di complicati calcoli economico-finanziari.
Gutta cavat lapidem” e perciò giova ripetersi. C’è solo un modo per uscire da questo tunnel: far ripartire i consumi interni (le esportazioni pare resistano) con misure non più rinviabili per far tornare a circolare il danaro, allentando gli inconcepibili divieti (il limite per il contante è di € 1.000,00) e allontanando la paura degli accertamenti fiscali incontrollati e sconsiderati: non è concepibile che, da un lato, si introducano incentivi per auto, elettrodomestici, arredi, ristrutturazioni edilizie, riqualificazioni energetiche, investimenti immobiliari e, dall’altra parte, si espongano i contribuenti al rischio incontrollato di spesometro, redditometro, studi di settore, ecc. … enfatizzando l’invio di 75.000 lettere chi ha sostenuto spese superiori al reddito dichiarato! Non c’è solo la pressione fiscale esagerata, ma c’è anche una oppressione fiscale intollerabile nella fase accertativa!
Chi ha dimestichezza con la materia tributaria sa bene come funziona realmente il rapporto col Fisco: non conta pressoché nulla la storia reddituale dei contribuenti e la loro capacità contributiva effettiva, spesso giustificabile con le risorse finanziarie disponibili accantonate negli anni (anche con sacrificio) o ereditate; gli Uffici finanziari sono animati dal luogo comune che i contribuenti sono tutti evasori, si considerano paladini della lotta all’evasione, hanno l’esigenza di raggiungere il budget assegnato e godono dei trattamenti economici incentivanti su quello che accertano e su quello che riscuotono. In questo contesto le giustificazioni anche documentate dei contribuenti hanno sempre qualcosa che non va ed espongono inevitabilmente a prelievi anche ingiusti; rivolgersi al Giudice può costare infatti assai caro (oltre alla salata tassa di ingresso “contributo unificato”, va intanto pagata una parte della pretesa col criterio del solve et repete!) e non sempre si ha la forza o il coraggio di resistere.
E’ perciò indispensabile e non più rinviabile che si allenti immediatamente l’alta tensione nei rapporti fra il Fisco e i contribuenti, che si apra una fase di tregua fiscale per restituire alla Gente la libertà e il gusto di spendere (meglio € 100 utilizzati per fare acquisti che pretesi dal Fisco!), che si cancellino dalle norme tributarie le varie presunzioni legali gravemente responsabili della sottrazione di ingenti risorse dalle tasche dei contribuenti e del grave deterioramento nei loro rapporti col Fisco; volenti o nolenti, si debbono introdurre meccanismi adeguati per liberare le risorse finanziarie ferme sotto i materassi o all’estero facilitandone la reintroduzione nel sistema finanziario interno e favorendo la circolazione del danaro. Solo se ripartirà la spesa interna, ricominceranno i consumi: le imprese aumenteranno la produzione, serviranno più lavoratori, salirà l’occupazione, aumenteranno i redditi prodotti e le entrate tributarie, si ridurranno i costi del welfare e ripartirà la crescita economica tanto agognate. Riduzione della pressione fiscale, semplificazione amministrativa e burocratica e tagli alla spesa pubblica improduttiva ne accentueranno gli effetti positivi.
Anche con bonus o inventivi vari la Gente non spende quando ha paura, le imprese non assumono quando non hanno di che produrre, gli investimenti non si fanno quando mancano le prospettive ed espongono ad oneri permanenti gravosi ed imprevedibili, l’intraprendenza delle persone operose è repressa quando viene perseguitata come sintomo di evasione fiscale.
Serve una svolta vera: basta con le minacce estorsive e con le prepotenze fiscali del Fisco predatore!

18
Set
2014

Buttanissimo Montalbano—di Filippo Cavazzoni ed Edoardo Garibaldi

Si trattava di una non-notizia. Montalbano, a quanto pare, rimarrà siciliano, il set della fiction non si sposterà in Puglia.
“Non c’è nessun contatto ufficiale con la Palomar per la produzione della fiction Montalbano”. A spegnere ogni tipo di polemica sul trasferimento della produzione televisiva dalle coste siciliane a quelle pugliesi è la presidente di Apulia Film Commission, Antonella Gaeta. “Siamo lusingati dall’attenzione che ci ha riservato Carlo Degli Esposti, lui conosce come lavoriamo e avrà pensato a noi, ma non ci sono state richieste di finanziamento”.
Il caso però merita di essere analizzato anche nella sua virtualità perché pone delle questioni importanti. I commenti riportati sulla stampa lasciavano infatti trasparire, nemmeno troppo velatamente, come fosse sconcertante che la società di produzione non venisse “aiutata” dalla regione Sicilia. Ma una delle fiction più seguite e trasmesse sulla rete ammiraglia della Rai, non dovrebbe camminare sulle proprie gambe? Ha davvero bisogno di “aiuti” pubblici una società di produzione che riesce a garantire cachet di tutto rispetto per attori acclamati dal pubblico e che generano ricavi pubblicitari considerevoli? Read More

18
Set
2014

Il Pd si rispacca sul “mito” art.18, e della produttività non si parla neanche stavolta

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Si misurano con metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa, che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modifcarlo, usando a sua volta termini “valoriali”, e proclamando “basta con l’apartheid dei diritti”. Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito. Il Pd ha gruppi parlamentari su cui Bersani, Damiano, Fassina, cobn la loro difesa del “mito” avranno gioco facile. E il rischio forte – ancora una volta – è che per unj compromesso dopo tanti aspri scontri NON si tocchi né si risolva il problema fondamentale.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima “riforma al margine” delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli, a cominciare da giovani, donne e over-55enni. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali, visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire “basta apartheid” visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite IVA, ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto -disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso “per sempre”, in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile. Visto che è proprio sull’export verso il mondo, che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi.

Di conseguenza, la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante. Con la delega emendata dal governo – e che in parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmente e a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento del reintegro giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Immagino di no, sarebbe sposare la posizione di Pietro Ichino in tutto e per tutto. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema CIG e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.

Da questo schema resta ancora totalmente fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale. Lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni , orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male. Lo ha scritto anche Tito Boeri ieri su Repubblica, e non è certo sospettabile di essere indifferente alla sinistra o sostenitore di Renzi.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato, ed è stato saggio col decreto Poletti alleggerirne i vincoli. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono. Gli stessi numeri che ci dicono che il problema vero è la produttività e la bassa partecipazione al lavoro dei giovani – per una scuola sbagliata – delle donne – per un welfare sbagliato – e degli anziani – per un sistema di riorientamento formazione-lavoro che manca.

16
Set
2014

NCC e taxi: la Regione Lazio li vuole a chilometro zero, interviene l’Antitrust

Nella giornata di ieri, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inviato una segnalazione alla Regione Lazio, riguardante alcuni profili restrittivi della concorrenza relativi alle norme che disciplinano l’esercizio del trasporto pubblico non di linea. Il presupposto della segnalazione è la legge regionale n. 58 del 26 ottobre 1993 (e s.m.i.), con cui la Regione Lazio disciplina – appunto – l’esercizio del trasporto pubblico non di linea. In particolare, l’art. 5-bis della legge citata, come modificato dalla legge regionale n. 7 del 14 febbraio 2005, limita l’effettuazione del servizio di taxi e di noleggio con conducente da/per porti e aeroporti ai titolari di licenze e autorizzazioni rilasciate dal comune capoluogo di Regione, oppure dal comune o dai comuni nel cui ambito territoriale i porti e gli aeroporti si trovano.

Tanto per capirci, i collegamenti da e per Fiumicino possono essere svolti solo da tassisti e conducenti del servizio NCC con autorizzazione rilasciata dai comuni di Roma o di Fiumicino, non invece se l’autorizzazione è stata rilasciata, per esempio, dal comune di Civitavecchia. La norma è, quindi, evidentemente incompatibile con i principi comunitari di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, perché vengono posti dei vincoli di natura territoriale che non sono funzionali né proporzionali a eventuali esigenze dei comuni interessati. L’AGCM, peraltro, aveva già invitato la Regione Lazio a riesaminare la normativa previgente, ove disponeva che “il prelevamento dell’utente e l’inizio del servizio avvengano esclusivamente nel territorio del Comune che ha rilasciato l’autorizzazione” (art. 5, legge regionale n. 58/93), risultando tale disciplina già allora – cioè prima delle modifiche intervenute con la legge regionale n. 7/05 – restrittiva della concorrenza.

Probabilmente, l’Autorità avrebbe fatto meglio a contestare in toto la legge regionale citata, dopo che solo qualche anno fa (cfr. segnalazione AS736, in Boll. N. 30/2010) aveva evidenziato ulteriori distorsioni della concorrenza nella previsione dell’iscrizione ad un ruolo provinciale come requisito indispensabile per lo svolgimento dell’attività di autotrasporto pubblico non di linea (e della sua cancellazione come requisito in caso di trasferimento ad altro ruolo).

Più in generale, la nuova segnalazione testimonia la crescente attenzione dell’AGCM per il settore del servizio di trasporto pubblico non di linea, intravedendovi – giustamente – vari e ampli profili non concorrenziali. Risale a meno di due mesi fa, infatti, la segnalazione a Governo e Parlamento con cui la stessa Autorità li aveva invitati a “eliminare le distorsioni concorrenziali nel settore degli autoservizi di trasporto pubblico non di linea, causate dall’esclusione della disciplina dei taxi e del servizio di Noleggio auto con conducente (NCC), di cui alla l. n. 21/1992, dall’ambito di applicazione delle recenti norme di liberalizzazione”, e che avevamo già trattato su questo stesso blog. L’auspicio – oggi come ieri – è che i continui interventi dell’Antitrust vengano finalmente riconosciuti come un monito a ripensare integralmente la disciplina sul trasporto pubblico non di linea; il fondatissimo sospetto – oggi come ieri – è che ne siamo ben lungi.

Twitter: @glmannheimer

15
Set
2014

Sicilia: ingiustizie e sottosviluppo—di Rocco Todero

La Regione Sicilia proroga d’ufficio le concessioni demaniali marittime sino al 2020. Nelle more delle more ingiustizie e sottosviluppo.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

La notizia è che l’assessorato al Territorio ed all’Ambiente della Regione Sicilia con un provvedimento amministrativo di pochissime righe ha rinnovato qualche settimana fa le concessioni demaniali marittime che sarebbero scadute il 31.12.2015 prorogandole d’imperio ed in maniera generalizzata sino al 31.12.2020 (qui il provvedimento in Gazzetta Ufficiale pag. 73).

Non si svolgeranno gare e non vi sarà possibilità, per chi avesse voluto investire e migliorare i servizi di migliaia di stabilimenti balneari, di provare ad accedere ad un mercato che dovrebbe rappresentare tanta parte del sistema turistico dell’isola. Gli attuali concessionari possono continuare indisturbati a trarre profitti dall’utilizzo commerciale di un bene pubblico per altri 5 anni dopo avere beneficiato già per un decennio della posizione di vantaggio che deriva dall’operare in un mercato rigorosamente chiuso. Read More

14
Set
2014

“Adesso lo so, investire in Italia mette paura”—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

La Puglia del boom turistico potrebbe perdere un investimento da 70 milioni di euro per la costruzione di un nuovo hotel. Perché? Dopo sei anni e 8,8 milioni di euro di spesa, i permessi per costruire su di un suolo edificatorio non sono ancora arrivati. “Ho investito troppa passione per chiudere completamente la porta – dichiara al Corriere della Sera Alison Deighton, l’imprenditrice americana che voleva investire nel comune salentino di Nardò – Ma quando l’incertezza si prolunga, per un investitore è meglio cambiare. Il mondo è grande”. Certo non è detta l’ultima parola, ma Deighton e il suo socio Ian Taylor, sono davvero “frustrati”. Come dare torto a due cittadini inglesi che nel loro Paese hanno la certezza di ricevere un permesso di costruire in 88 giorni, e qui in Italia dopo sei anni non riescono ancora a capire cosa possa accadere. Read More

13
Set
2014

Le ordinanze più pazze del mondo

Ha già suscitato vivaci reazioni, prima ancora di essere approvato, il nuovo regolamento di polizia urbana del comune di Padova che contiene una lunga serie di bizzarre proibizioni al fine di «assicurare la serena e civile convivenza» e «tutelare la tranquillità sociale, il decoro ambientale, la fruibilità e il corretto uso del luogo pubblico e dei beni comuni». Read More