18
Set
2014

Il Pd si rispacca sul “mito” art.18, e della produttività non si parla neanche stavolta

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Si misurano con metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa, che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modifcarlo, usando a sua volta termini “valoriali”, e proclamando “basta con l’apartheid dei diritti”. Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito. Il Pd ha gruppi parlamentari su cui Bersani, Damiano, Fassina, cobn la loro difesa del “mito” avranno gioco facile. E il rischio forte – ancora una volta – è che per unj compromesso dopo tanti aspri scontri NON si tocchi né si risolva il problema fondamentale.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima “riforma al margine” delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli, a cominciare da giovani, donne e over-55enni. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali, visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire “basta apartheid” visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite IVA, ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto -disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso “per sempre”, in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile. Visto che è proprio sull’export verso il mondo, che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi.

Di conseguenza, la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante. Con la delega emendata dal governo – e che in parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmente e a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento del reintegro giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Immagino di no, sarebbe sposare la posizione di Pietro Ichino in tutto e per tutto. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema CIG e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.

Da questo schema resta ancora totalmente fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale. Lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni , orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male. Lo ha scritto anche Tito Boeri ieri su Repubblica, e non è certo sospettabile di essere indifferente alla sinistra o sostenitore di Renzi.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato, ed è stato saggio col decreto Poletti alleggerirne i vincoli. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono. Gli stessi numeri che ci dicono che il problema vero è la produttività e la bassa partecipazione al lavoro dei giovani – per una scuola sbagliata – delle donne – per un welfare sbagliato – e degli anziani – per un sistema di riorientamento formazione-lavoro che manca.

16
Set
2014

NCC e taxi: la Regione Lazio li vuole a chilometro zero, interviene l’Antitrust

Nella giornata di ieri, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha inviato una segnalazione alla Regione Lazio, riguardante alcuni profili restrittivi della concorrenza relativi alle norme che disciplinano l’esercizio del trasporto pubblico non di linea. Il presupposto della segnalazione è la legge regionale n. 58 del 26 ottobre 1993 (e s.m.i.), con cui la Regione Lazio disciplina – appunto – l’esercizio del trasporto pubblico non di linea. In particolare, l’art. 5-bis della legge citata, come modificato dalla legge regionale n. 7 del 14 febbraio 2005, limita l’effettuazione del servizio di taxi e di noleggio con conducente da/per porti e aeroporti ai titolari di licenze e autorizzazioni rilasciate dal comune capoluogo di Regione, oppure dal comune o dai comuni nel cui ambito territoriale i porti e gli aeroporti si trovano.

Tanto per capirci, i collegamenti da e per Fiumicino possono essere svolti solo da tassisti e conducenti del servizio NCC con autorizzazione rilasciata dai comuni di Roma o di Fiumicino, non invece se l’autorizzazione è stata rilasciata, per esempio, dal comune di Civitavecchia. La norma è, quindi, evidentemente incompatibile con i principi comunitari di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, perché vengono posti dei vincoli di natura territoriale che non sono funzionali né proporzionali a eventuali esigenze dei comuni interessati. L’AGCM, peraltro, aveva già invitato la Regione Lazio a riesaminare la normativa previgente, ove disponeva che “il prelevamento dell’utente e l’inizio del servizio avvengano esclusivamente nel territorio del Comune che ha rilasciato l’autorizzazione” (art. 5, legge regionale n. 58/93), risultando tale disciplina già allora – cioè prima delle modifiche intervenute con la legge regionale n. 7/05 – restrittiva della concorrenza.

Probabilmente, l’Autorità avrebbe fatto meglio a contestare in toto la legge regionale citata, dopo che solo qualche anno fa (cfr. segnalazione AS736, in Boll. N. 30/2010) aveva evidenziato ulteriori distorsioni della concorrenza nella previsione dell’iscrizione ad un ruolo provinciale come requisito indispensabile per lo svolgimento dell’attività di autotrasporto pubblico non di linea (e della sua cancellazione come requisito in caso di trasferimento ad altro ruolo).

Più in generale, la nuova segnalazione testimonia la crescente attenzione dell’AGCM per il settore del servizio di trasporto pubblico non di linea, intravedendovi – giustamente – vari e ampli profili non concorrenziali. Risale a meno di due mesi fa, infatti, la segnalazione a Governo e Parlamento con cui la stessa Autorità li aveva invitati a “eliminare le distorsioni concorrenziali nel settore degli autoservizi di trasporto pubblico non di linea, causate dall’esclusione della disciplina dei taxi e del servizio di Noleggio auto con conducente (NCC), di cui alla l. n. 21/1992, dall’ambito di applicazione delle recenti norme di liberalizzazione”, e che avevamo già trattato su questo stesso blog. L’auspicio – oggi come ieri – è che i continui interventi dell’Antitrust vengano finalmente riconosciuti come un monito a ripensare integralmente la disciplina sul trasporto pubblico non di linea; il fondatissimo sospetto – oggi come ieri – è che ne siamo ben lungi.

Twitter: @glmannheimer

15
Set
2014

Sicilia: ingiustizie e sottosviluppo—di Rocco Todero

La Regione Sicilia proroga d’ufficio le concessioni demaniali marittime sino al 2020. Nelle more delle more ingiustizie e sottosviluppo.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo, da Rocco Todero.

La notizia è che l’assessorato al Territorio ed all’Ambiente della Regione Sicilia con un provvedimento amministrativo di pochissime righe ha rinnovato qualche settimana fa le concessioni demaniali marittime che sarebbero scadute il 31.12.2015 prorogandole d’imperio ed in maniera generalizzata sino al 31.12.2020 (qui il provvedimento in Gazzetta Ufficiale pag. 73).

Non si svolgeranno gare e non vi sarà possibilità, per chi avesse voluto investire e migliorare i servizi di migliaia di stabilimenti balneari, di provare ad accedere ad un mercato che dovrebbe rappresentare tanta parte del sistema turistico dell’isola. Gli attuali concessionari possono continuare indisturbati a trarre profitti dall’utilizzo commerciale di un bene pubblico per altri 5 anni dopo avere beneficiato già per un decennio della posizione di vantaggio che deriva dall’operare in un mercato rigorosamente chiuso. Read More

14
Set
2014

“Adesso lo so, investire in Italia mette paura”—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

La Puglia del boom turistico potrebbe perdere un investimento da 70 milioni di euro per la costruzione di un nuovo hotel. Perché? Dopo sei anni e 8,8 milioni di euro di spesa, i permessi per costruire su di un suolo edificatorio non sono ancora arrivati. “Ho investito troppa passione per chiudere completamente la porta – dichiara al Corriere della Sera Alison Deighton, l’imprenditrice americana che voleva investire nel comune salentino di Nardò – Ma quando l’incertezza si prolunga, per un investitore è meglio cambiare. Il mondo è grande”. Certo non è detta l’ultima parola, ma Deighton e il suo socio Ian Taylor, sono davvero “frustrati”. Come dare torto a due cittadini inglesi che nel loro Paese hanno la certezza di ricevere un permesso di costruire in 88 giorni, e qui in Italia dopo sei anni non riescono ancora a capire cosa possa accadere. Read More

13
Set
2014

Le ordinanze più pazze del mondo

Ha già suscitato vivaci reazioni, prima ancora di essere approvato, il nuovo regolamento di polizia urbana del comune di Padova che contiene una lunga serie di bizzarre proibizioni al fine di «assicurare la serena e civile convivenza» e «tutelare la tranquillità sociale, il decoro ambientale, la fruibilità e il corretto uso del luogo pubblico e dei beni comuni». Read More

12
Set
2014

Spesa pubblica: Renzi deve decidersi. Nella sanità partiti e forniture non sono neanche stati sfiorati

I tecnici no, i politici neanche. Il dramma della spesa pubblica italiana è un continuo rimpallo, tra chi la deve tagliare. E la risposta è: nessuno dei due.  Nel frattempo, a pagarla però siamo noi tutti. Ci si sono bruciate le mani a tutti i governi italiani, in questi anni di crisi. E ora è la volta di Renzi. Per non scottarsi, deve decidersi.

Uno sgradito Bollettino mensile della BCE ha ieri richiamato l’Italia a tirare i cordoni della spesa pubblica. Perché quest’anno non verrà rispettato l’obiettivo di contenere il deficit entro il 2,6% del Pil, e a maggior ragione si aggrava l’impegno che andrà rispettato per il 2015, con la legge di stabilità attesa a ottobre. Al netto delle tante variabili tecniche – l’attesa entro 3 settimane per il ricalcolo del Pil per gli anni 2012-2013, dopo che l’Istat ha rialzato del 3,7% quello 2011 grazie a un diverso computo di investimenti ed economia illegale; il vertice straordinario europeo sulla crescita voluto da Renzi e previsto per il 6 ottobre; l’effetto che avrà su Commissione e Consiglio europei la posizione della Francia, che non rispetterà né nel 2015 né nel 2016 il promesso rientro entro il 3% del deficit sul Pil – anche per Renzi è ormai maturo un ragionamento di fondo, sulla spesa pubblica. Ha a che fare con il rapporto tra politica e tecnici, l’eterno dilemma di questi duri anni di crisi italiana.

Partiamo dalla realtà. La spesa pubblica continua a salire. Ha rallentato la sua ascesa, ma sale. Tutti quelli che dicono che scende lo fanno escludendo gli interessi sul debito, o magari anche la spesa previdenziale e quella per prestazioni dovute: peccato che il contribuente debba pagare tutto, non è che lo Stato ci faccia lo sconto su questa o quella posta di spesa. Dai 605 miliardi del 2001 è salita a 797 nel 2011, e in questo 2014 chiuderà intorno a quota 820 o, speriamo, poco più. Ma nello stesso DEF presentato dal governo Renzi ad aprile scorso, la spesa era prevista crescere fino a oltre 850 miliardi al 2018.

Dalla crisi del governo Berlusconi a oggi, escludendo le leggi di stabilità, i DEF e gli interventi ordinari di disposizione di nuove entrate e uscite, si contano ben 14 provvedimenti di reindirizzo strategico delle verifiche, controlli e proposte di riordino della spesa pubblica. A parole, i governi precedenti all’attuale, quelli di Berlusconi, Monti e Letta, non ci hanno fatto mancare una nutrita batteria di strumenti volti a creare le premesse per tenere sotto controllo la sete di spesa pubblica. Sono nati i nuclei ministeriali di valutazione della spesa, il coordinamento interministeriale sui suoi andamenti, un rapporto annuale che dal 2012 andava presentato entro novembre ogni anno.

Ma tutto ciò ha prodotto poco, rispetto alla scelta che ha avuto più eco pubblica: affidare a dei tecnici l’incarico di studiare la spesa pubblica nelle sue mille pieghe, e avanzare proposte per ridurla, ottimizzarla, identificare sprechi di massa per concentrare invece risorse su poste più essenziali allo sviluppo e alla coesione sociale. I commissari alla spending review: Giarda prima, Bondi poi, infine Carlo Cottarelli, scelto dal governo Letta e subìto – ormai si può dire, visto che tornerà a Washington tra poco – dal governo Renzi. I commissari nascevano dalla ripulsa della politica verso il sistema-Tremonti: quello dei tagli lineari che, per funzionare nell’immediato, non facevano distinzioni tra priorità ed effetti economico-sociali, e soprattutto avevano bisogno di un ministro dell’Economia capace di farsi odiare da tutti i colleghi, senza per questo poter essere sostituito dal premier. Di fronte all’insurrezione giustificata di tanti, si disse: sia un tecnico estraneo agli interessi elettorali, coadiuvato da esperti interni ed esterni alla PA, a indicare alla politica come intervenire.

Ma è stato identico, l’esito delle analisi e proposte avanzate da Giarda, Bondi e Cottarelli. I governi cambiavano, ma i rapporti dei commissari restavano nei cassetti. Con una politica sempre più infastidita. Perché le tante proposte dei commissari, appena rese pubbliche, intanto suscitavano nuove ondate di proteste. E per questo mai divenivano provvedimenti. Mentre la spesa saliva.

Renzi sin dall’inizio non si è nascosto dietro un dito. Appena Cottarelli ha presentato le sue slides gli ha levato la palla, ha chiarito che si tornava al primato della politica. E’ il governo che sceglie e decide, punto. Benissimo. Poi però – dopo i poco più di 2 miliardi di tagli operati appena nato il governo – ha scelto prima di aspettare 6 mesio rinviando ogni ogni scelta alla legge di stabilità, che da settembre è slittatata ad ottobre. Poi, la settimana scorsa, ha annunciato che avrebbe chiesto a ciascun ministro proposte per tagliare ognuno del 3% il proprio bilancio. Tutto per portare a casa circa 6 miliardi, visto che i bilanci ministeriali, fuori dalle spese per funzioni come trasferimenti alle Autonomie, previdenza sanità eccetera, cubano meno di 180 degli oltre 800 miliardi di pesa pubblica.

Con il che, eccoci tornati alla casella d’inizio, come in un gioco dell’oca. I tagli lineari di Tremonti sono stati bocciati perché ciechi delle conseguenze, e di fatto dettati dalla Ragioneria Generale dello Stato e dai direttori generali dei ministeri, cioè dai tecnici della burocrazia pubblica e non dai politici. Ma, dopo aver fatto tappezzeria dei commissari alla spending review, ecco che in nome del primato della politica si torna esattamente ai tecnici ministeriali. Come tre anni fa. Nel frattempo, le 35 mila stazioni appaltanti e di procacciamento di forniture pubbliche restano 35 mila, le partecipate locali non si toccano perché l’Anci ha messo il veto. E la spesa pubblica continua a salire.

Per Renzi, a questo punto, è il momento della scelta. Lo dica, se vuole ridurre il più possibile i tagli veri, sposando la linea che invoca la minoranza del suo partito e limitando la legge di stabilità a incamerare i risparmi sugli interessi pubblici realizzati quest’anno e l’anno prossimo grazie a Mario Draghi, cioè alle scelte della BCE. Se invece resta convinto di voler fare tagli veri per coprire tagli alle tasse su impresa e lavoro, proceda con decisione. Ma decida lui e spieghi lui. Non ha senso, continuare a dire che non sforiamo il 3% né quest’anno né l’anno prossimo senza però prendere decisioni coerenti a quel che si dice. Non ricominciamo con i veti posti dai mandarini dell’alta burocrazia pubblica. Altrimenti, sarà inevitabile che anche a Renzi tocchi l’indebolimento che ha minato i suoi indecisi predecessori.

Facciamo l’esempio che ieri ha fatto insorgere le Regioni: la sanità. A luglio il ministro Lorenzin ha siglato con le Regioni l’intesa sul patto per la salute pluriennale. E visto che si parla di tagli, ricordiamo bene a tutti che in quel patto la spesa del fondo sanitario nazionale aumenta, sale e non scende: a 109,9 miliardi in questo 29014, e di altri 5,7 miliardi aggiuntivi entro il 2016. Se anche Renzi chiedesse 3 miliardi di risparmi nel biennio, la spesa sanitaria resterebbe in crescita di 3 miliardi, non ci sarebbe nessun taglio. I presidenti di Regione che sono insorti ieri sanno benissimo che non è vero, che intervenire su quell’ammontare di spesa significhi dover tagliare i servizi. Perché – al netto degli interventi di rientro coatto disposti in alcune Regioni a conclamato default sanitario in questi anni – la sanità resta un sistema in cui i capi delle ASL sono uomini dei partiti politici, visto che nessuno ha avuto il fegato di modificarne strutturalmente i criteri di nomina, con bandi pubblici riservati a manager del settore. E perché le forniture sanitarie continuano a essere un mercato parallelo segmentato e opaco, subottimale per i costi a carico pubblico e largamente sospetto per l’improprio intreccio di interesse tra pubblico e privati.

Prenda le sue decisioni e proceda, Renzi. Nella sanità come in tanti altri comparti, la volta buona che al premier sta tanto a cuore può garantire servizi migliori ai cittadini quanto più il premier vorrà incidere in interessi e lobby che, con il benessere pubblico e lo sviluppo, nulla hanno a che vedere. Altrimenti: che delusione.

11
Set
2014

Sequestro penale preventivo finalizzato alla confisca per presunto reato tributario

I Cittadini di questo strano Paese debbono averla combinata davvero grossa se lo Stato si fida così poco di Loro da considerarli pregiudizialmente dei “poco di buono” ed i Suoi apparati non perdono occasione per dimostrarlo, specie quando si tratta della materia tributaria nel cui ambito siamo considerati tutti “evasori fino a prova contraria”! Una recentissima Sentenza della Sezione Penale della Corte di Cassazione sembra ribadire questo pregiudizio ed appare particolarmente emblematica.
Si verte in tema di “sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente” (art. 321 c. 2 c.p.p.), utilizzato nel corso del procedimento penale per anticipare gli effetti cautelari di una eventuale futura sentenza di condanna che dovesse accertare la sussistenza di una ipotesi di reato a carico dell’indagato/imputato; la Finanziaria 2008 ha sostanzialmente esteso l’applicabilità di questo istituto anche a taluni reati tributari (dichiarazione omessa o infedele per importi superiori ad una determinata soglia, dichiarazione fraudolenta, emissione di fatture per operazioni inesistenti, omessi versamenti di ritenute fiscali o di iva o indebite compensazioni tributarie per importi superiori a determinate soglie); fin qui nulla quaestio, visto anche il disvalore economico-sociale degli illeciti tributari “veri”. Del resto, il presupposto dell’applicazione della particolare misura cautelativa risiede normalmente nella sussistenza del fumus commissi delicti e cioè nella presenza di elementi particolarmente incisivi da cui si possa ragionevolmente presumere la sussistenza in concreto dell’illecito penale ipotizzato: non un semplice sospetto dunque, ma una rilevante probabilità che il crimine si sia stato effettivamente commesso.
In tal senso si è più volte espressa la Giurisprudenza di legittimità: <<… la verifica del Giudice del riesame, ancorché non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa …, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti”, … deve rappresentare in modo puntuale e coerente le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrare la congruenza dell’ipotesi di reato prospettato rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale …; … il compendio probatorio, se non deve avere la consistenza dei gravi indizi di colpevolezza richiesta per l’applicazione delle misure cautelari personali, … non può essere del tutto assente e deve configurarsi quale prospettazione da parte del Pubblico Ministero dell’esistenza di concreti elementi per riferire il reato alla persona dell’indagato …>> (Sent. n. 31155/2013, con vari riferimenti ad altre pronunce). Si tratta peraltro di un orientamento preesistente e diffusamente condiviso, tant’è che era stato anche menzionato in occasione dell’Incontro di Studi sul tema “Laboratorio su problematiche e prassi in tema di misure cautelari” tenutosi a Roma il 12-12.12.201 a cura del Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito dei lavori della Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale: in quella occasione, dopo aver precisato che la verifica del fumus <<… non può essere limitata a un giudizio di astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto delle concrete emergenze processuali …>>veniva riportato lo stralcio di una pronuncia di legittimità (Sent. n. 38411/2010) la quale considerava errato che il Tribunale del Riesame potesse limitarsi <<… a valutare esclusivamente che l’ipotesi dell’accusa non sia manifestamente infondata … >> e statuiva che <<… il Tribunale del riesame non può limitarsi alla mera verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzato, ma deve … prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato ipotizzato …>>.
Rispetto a questa ben più equilibrata impostazione della questione, suggerita in sede formativa, con la recentissima Sentenza n. 36734 del 03.09.2014 la Cassazione sembra adottare criteri assai meno rigorosi, facilitando in tal modo l’applicazione di uno strumento che le Procure già utilizzano ormai col ciclostile, senza particolari remore: ha infatti statuito che <<… in tema di sequestro preventivo non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità di una determinata ipotesi del fatto contestato …>>; per la verità non sarebbe neanche una novità, perché esisteva già un identico filone interpretativo (cfr. ad esempio Sent. n. 5656/2014 e Sent. n. 10100/2011). Astraendo dalla fattispecie concreta (i cui elementi ovviamente non sono noti) e concentrando l’attenzione sulla statuizione di principio, la decisione appare particolarmente grave, perché sembra enfatizzare il sospetto più come “sensazione” del Giudice che come “ponderata riflessione” sulla effettiva consistenza indiziaria degli elementi a carico dell’indagato e sul grado di persuasività che essi rappresentano rispetto all’illecito ipotizzato.
In materia penal-tributaria tale orientamento giurisprudenziale è ancor più preoccupante se solo si considera quanti accertamenti di violazioni tributarie penalmente rilevanti (le soglie quantitative sono state anche abbassate nell’autunno 2011) scaturiscono dalla applicazione di assurde presunzioni legali o dagli esiti di discutibili ricostruzioni analitico-induttive basate su presunzioni ritenute (sic!) gravi, precise e concordanti. Si profila dunque vita dura per i malcapitati che finiscono sotto le grinfie fameliche dei controlli tributari troppo spesso finalizzati a rincorrere i budget assegnati agli Uffici finanziari: oltre al danno della riscossione provvisoria in pendenza del Giudizio tributario secondo la logica del solve et repete infatti, sono esposti anche alla beffa del sequestro preventivo finalizzato alla confisca secondo una medesima logica con conseguenze che potrebbero essere devastanti in un periodo in cui la sofferenza economico-finanziaria è così diffusa tra i Cittadini e non accenna ancora a migliorare. Evviva lo Stato di diritto!

9
Set
2014

Renzi alla Fiera del Levante: 4 idee sul Sud, cominciando da chiusura dell’Ente Fiera

Sabato prossimo il premier Matteo Renzi inaugurerà la 78esima fiera del Levante. Da un po’ di anni a questa parte, i presidenti del Consiglio italiani intervengono a Bari ma non parlano di Mezzogiorno. Monti ebbe a dichiarare esplicitamente, come premier, che per il Sud il suo governo non aveva una politica specifica: il problema era salvare l’Italia, e al Sud innanzitutto partiti e politica dovevano cambiare testa, e occupare meno la macchina pubblica. Un anno fa, quando toccava a Letta, rileggendo il suo discorso si vedevano in filigrana già tutte le debolezze di un governo esausto. Disse che la legge di stabilità l’avrebbe scritta Roma e non Bruxelles, e che sbagliava chi incalzava il governo scambiano per meri annunci la pluralità di riforme in cantiere. Il consiglio non richiesto che diamo a Renzi è di rileggere Letta, e di non commettere lo stesso errore del suo predecessore, visto che sembrano rubrasi le parole. E neppure quello di Monti.

Non è vero, che non bisogna avere una politica per il Sud. E mettiamo subito le mani avanti. Diamo atto al governo Renzi di arrivare a Bari avendo continuato nella battaglia per recuperare buona parte dei fondi europei 2007-2013 non spesi nel Mezzoggiorno per colpa innanzitutto delle Regioni meridionali e di chi le amministra (con percentuali di inefficienza diverse, non esiste da tempo un Sud indifferenziato, il disastro di Calabria e Sicilia non è il ritardo della Campania, e la Puglia fa storia a sé). E di aver instradato con la Commissione Europea un percorso – richiestoci duramente da Bruxelles con circa 250 puntuali osservazioni, e instradato dal governo Letta e da Moavero Milanesi con Monti – per “blindare” con nuovi criteri responsabilità amministrative, priorità e controlli l’uso dei fondi europei 2014-2021, a oggi il più del volano degli investimenti immaginabili nel Mezzogiorno per gli anni a venire. In più, il governo ha inserito nello sblocca-Italia opere come l’Alta Velocità ferroviaria tra Napoli e Bari (semrope senza una seria analisi costi-benefici, ma questo è un altro paio di maniche). E dei 24 contratti di programma annunciato a luglio, per 1,4 miliardi di cui 700 milioni di fondi nazionai, l’80% riguarda il Mezzogiono.

Detto questo, a Renzi che afferma con energia l’importanza dello storytelling e di una narrativa ottimistica delle possibilità italiane, in questi mesi è sin qui mancata l’occasione e la voglia per un discorso sul Sud. Vi ha dedicato tappe del suo viaggio in Italia al Sud, alle scuole come a insediamenti industriali. Ma altra cosa è capire che cosa il Sud debba aspettarsi, dai mille giorni del programma di Renzi sino alle prossime elezioni. Perché, nel sito dedicato al programma, il Sud è una spezia per condire il tutto. Ma un piatto proprio non ce l’ha, nel menu del governo.

Quando, nel giugno scorso, il ministro dell’Economia Padoan rispose a una puntuta intervista del Mattino che gli poneva questa questione, fece un accorato appello a una miglior efficienza e qualità delle Autonomie, Regioni e Comuni. Giusto ed essenziale. Ma anche se i toni non erano duri e “settentrionalisti” come quelli di Monti, la sostanza era la stessa.

Il problema è quel che manca, oltre all’appello a cambiare la qualità della politica e dell’amministrazione meridionale. Sin dai tempi delle chiacchiere Berlusconi non c’è, una strategia per il recupero dei tremendi gap accumulati dal Sud nella crisi: di bassissima partecipazione al mercato del lavoro di giovani, donne e over 55enni, di desertificazione d’impresa, di restrizione di credito. L’ultimo a parlarne fu Prodi, e c’era da discutere sulle sue idee, ma comunque il suo governo non ebbe fortuna. Ora occorre una scelta strategica che veda il governo, le Regioni e le maggiori città del Sud stilare una serie ristretta di priorità per i fondi 2015-2021, con un meccanismo che di anno in anno faccia scattare allocazioni sussidiarie e prioritarie per evitare di restare indietro. Noi non possiamo offrire al Sud il cambio alla pari che la Repubblica Federale Tedesca con il lungimirante Kohl garantì alla Germania Est all’atto dell’unificazione, zittendo la Bundesbank che era contraria. Ma al Mezzogiorno e alla sua gente dobbiamo costruire non la possibilità, ma la necessità di potersi battere alla pari, per il miglior utilizzo di risorse scarse.

Per far questo, facciamo quattro esempi concreti. Nella spending review – che il governo ha sin qui tenuto nel cassetto – occorrerebbe prevedere un capitolo a sé che riguardi il Sud. Perché l’accentrarsi “storico” di spesa e trasferimenti procapite, dipendenti pubblici a parità di perimetri o trattamenti d’invalidità, dovrebbe conoscere logiche di ridimensionamento “diverse” dal resto del Paese, cioè capaci di tener conto dell’impatto sociale. Altrimenti, con le nuove assunzioni di precari nella scuola, torniamo a un Sud con un insegnante per ogni 10 alunni, come comprovano le prime proiezioni elaborate la settimana scorsa. Ed è una cosa che semplicemente non ci possiamo permettere. Tanto per cominciare, allora, sarebbe bello che Renzi dalla stessa tribuna della Fiera del levante dicesse che l’Ente omonimo di diritto pubblico deve chiudere o essere ceduto a privati, visto che perde cumulativamente da 5 anni come abbiamo qui documentato.

Secondo esempio. Nel Sud più che altrove serve un’agenzia pubblica ma indipendente, composta da professionalità economiche e d’impresa elevate, capace di valutare ex ante in autonomia rispetto ai governi e alle Regioni i costi-benefici delle agevolazioni e degli investimenti pubblici, capace di monitorare nel tempo l’attuazione dei piani industriali agevolati (facendo anche scomparire i contributi a fondo perduto, che ancora restano anche nei programmi di sviluppo attuali, e che non aiutano la serietà dei progetti), e capace di fare un serio bilancio ex post degli interventi, in modo da spingere i successivi impieghi di capitale pubblico verso sempre migliori pratiche. La politica non ama le valutazioni di efficienza indipendenti. Ma dalla fine dell’epoca gloriosa della primissima Cassa del mezzogiorno, la serietà delle valutazioni tecniche a corredo degli investimenti e delle agevolazioni troppe volte ha piegato il capo a criteri clientelari e di consenso. E’ per questo che nel Sud in passato troppe volte gli aiuti pubblici si traducevano in “prendi i soldi e scappa”, desertificando vieppiù l’impresa sana. Ed è per questo che un’eguale unità di capitale pubblico investita in Germania ha un rendimento superiore dui quasi il 40% a un eguale impiego in Italia, stando all’ultimo outlook del Fondo Monetario.

Il terzo esempio riguarda la ricerca e l’innovazione nelle imprese, che – tranne eccezioni che per fortuna esistono – nella media però ha un divario negativo tra il 40 e il 60% rispetto al CentroNord. Il quarto esempio investe il Jobs Act: pensare che la nuova Agenzia del lavoro sia fatta al Sud dalla somma dei vecchi uffici provinciali all’impiego, significa fallire con assoluta certezza.

Bari è l’occasione per colmare questi vuoti. Renzi la sfrutti. Non parli dei gufi. Spieghi al Mezzogiorno che, del suo disastro attuale, non conta solo indicare i colpevoli. Ma anche coloro da cui sperare il riscatto con svolte concrete. Se ci sono.

 

5
Set
2014

Statali e forze dell’ordine: dove e perché i governi sbagliano

La cattiva politica genera ingiustizie. Su una affermazione di questo genere, possiamo star certi che concorderebbero tutti i politici, di destra sinistra e centro. Naturalmente, come sempre nella vita la difficoltà sta nel fatto che una cosa è dirlo, altra è farlo. Ecco, il nodo dello stop protratto per cinque anni agli aumenti retributivi dei dipendenti pubblici, e tra questi naturalmente delle forze dell’ordine e militari, rientra perfettamente nella categoria “conseguenze ingiuste”. Perché? Per almeno due ordini di ragioni. Perché aveva un senso nel 2011, che però oggi numeri alla mano non ha più. E perché il blocco protratto degli aumenti, cioè una perdita reale di reddito a doppia cifra percentuale cumulando i 5 anni, è la conseguenza di un errore commesso dalla politica: dai governi Berlusconi, Letta, Monti e sin qui – ma può ancora riparare – Renzi.

Cominciamo dalla ragione di ordine generale. Storicamente, la dinamica delle retribuzioni procapite nel settore pubblico italiano rispetto a quella delle retribuzioni private ha la tendenza a essere superiore all’unità. In parole povere, a parità di qualifica e anzianità si guadagnava meglio nel pubblico che nel privato. Il che creava un problema di ingiustizia (aggiunto all’intoccabilità di fatto del posto pubblico, ditelo ai disoccupati privati…), e di onere aggiuntivo per la finanza pubblica, cioè per il contribuente. Dal 1980 a oggi, la media del rapporto tra compensi pubblici e privati è di 1,28. Ma ci sono stati anni in cui il rapporto – coi nuovi contratti – è salito a 1,3 e anche 1,4, come tra il 1989 e il 1992. E negli anni 2005-2010 il rapporto a favore del pubblico si era di nuovo impennato verso 1,35. Ecco perché aveva un senso eccome, lo stop per un certo periodo agli aumenti pubblici. Serviva a rendere meno squilibrata a favore del lavoro pubblico la dinamica dei redditi complessiva. E naturalmente, insieme al blocco del turnover, consentiva di alleggerire gli oneri per il bilancio dello Stato.

Infatti, la spesa di 164 miliardi di retribuzioni pubbliche, grazie a questi due fattori, si è assolutamente stabilizzata, il che significa che tende a diminuire in termini reali se il Pil riprende a crescere. E’ l’unica, tra le grandi voci del bilancio pubblico, ad essersi fermata. L’effetto dello stop retributivo ha naturalmente riabbassato il rapporto tra salari pubblici e privati. Tra 2012 e 2014 è sceso sotto la media trentennale di 1,25. Nel 2015 raggiunge la soglia paritaria dell’unità se non, probabilmente, al di sotto. Quindi la protrazione del blocco non serve più a ridurre la precedente sperequazione a vantaggio dei dipendenti pubblici.

Ma a questo punto si potrebbe obiettare che resta comunque l’esigenza di finanza pubblica, e dunque di proseguire a fermare e tagliare la spesa. Figuratevi se siamo insensibili a questa tesi, visto che non facciamo altro che ripetere che solo con meno spesa pubblica si crea lo spazio per tagliare il peso delle fameliche imposte che gravano su imprese e lavoro. Senonché in questi duri anni di crisi italiana avremmo dovuto tutti – e la politica per prima – imparare una lezione chiara. E cioè che i fermi o i tagli di spesa dove è più facile, e quelli lineari, sono i tagli sbagliati, perché non distinguono né le priorità di giustizia né l’effetto economico piò o meno recessivo che si crea nel breve, diminuendo la spesa pubblica. Purtroppo, il blocco protratto alle retribuzioni pubbliche – venuto meno lo squilibrio degli anni precedenti a loro favore – ricade esattamente nei “tagli sbagliati”.

La politica – i governi da Berlusconi a Renzi – ha avuto non solo in 3 anni la possibilità di “scegliere” con tutta calma i “tagli buoni” da fare. Ha avuto soprattutto quel che non c’era prima: le basi tecniche per farlo, cioè studi approfonditi comparto per comparto degli oltre 800 miliardi di spesa pubblica, e analisi per verificare “che cosa scegliere” per alleggerire spesa e tasse, e per reperire risorse da aggiungere invece dove più servono (Renzi dice di volerlo fare, ad esempio, per la scuola). I rapporti accumulati negli anni da Piero Giarda, Enrico Bondi, e Carlo Cottarelli, servivano proprio a questo. Solo che la politica non ha voluto ascoltarli, li ha lasciati nel cassetto. Un grave errore. E’ per non aver voluto imboccare la via di tagli selettivi nei settori della spesa pubblica dove si possono fare – e anche a bizzeffe – con effetti non recessivi nel medio termine, che la politica si riduce ancora al blocco retributivo dei dipendenti pubblici, militari e poliziotti.

Limitiamoci alle 5 forze dell’ordine che complessivamente costano circa 20 miliardi l’anno, e la cui protesta ha acceso il dibattito assai più di quella dei sindacati confederali sul totale dei dipendenti pubblici. Innanzitutto è abbastanza incredibile, che tutti facciano finta di dimenticare l’articolo 84 della legge 121 del 1981, che prescrive “gli appartenenti alla Polizia di Stato non esercitano il diritto di sciopero né azioni che pregiudichino la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Lo stesso divieto vale naturalmente per i militari, carabinieri e finanzieri compresi. Ma detto questo, è difficile dar torto a chi protesta sostenendo che 1200 euro al mese a un poliziotto e carabiniere sono pochi, per quel che fanno e rischiano (la Guardia di Finanza ha varato un programma per riaccasermare finanzieri in seria difficoltà, separati e con figli che devono pagare l’assegno di mantenimento).

Ebbene proprio da questo comparto specifico delle forze dell’ordine Giarda aveva cominciato i suoi approfondimenti anni fa, giungendo alla proposta che dal solo efficientamento dei 5 corpi, in termini di ottimizzazione di sedi e forniture, poteva stimarsi un risparmio non inferiore a 1,7 miliardi di euro. Cottarelli si è spinto oltre, e oltre all’efficientamento ha studiato le possibili sinergie tra le 5 forze – centralini congiunti, servizi condivisi, centrali di acquisto comuni, uniformazione dei mezzi utilizzati – stimando in non meno di 2,5 miliardi i risparmi conseguibili in un biennio. Ecco, dove si potevano e si possono ricavare le risorse per tornare ad adeguamenti retributivi “scegliendo”, in base alle priorità pubbliche di ordine e sicurezza, a quelle di giustizia rispetto al rischio corso, e premiando il merito professionale invece di farlo per puri scatti di anzianità (la rivoluzione che Renzi annuncia per la scuola, anche se ai comitati di autovalutazione del merito in ogni istituto mi permetto di sorridere e di non credere assolutamente).

Perché la politica non ha voluto sinora farlo? Perché mettere mano nel fatto che nel 2011 il costo medio annuo per carabiniere – compresi straordinario e missioni – variava dai 53.390 euro in Basilicata e a ben 67.476 euro in Friuli, oppure al fatto che per le forze dell’Arma spendiamo 59 euro per abitante in Lombardia e 164 in Sardegna, significa mettere in conto un confronto forte con il Comando Generale dell’Arma, e i suoi criteri organizzativi, territoriali e funzionali. Idem dicasi per la Polizia, nei cui oltre 7 miliardi di spesa l’anno è macroevidente che se i costi di Questure e Commissariati sono – come sono – del 60% superiori al Sud rispetto al Nord, il problema non è l’emergenza-mafie da affrontare, ma profonde disfunzionalità da risolvere.

Abbiamo 466 rappresentanti di forze di polizia ogni 100mila abitanti, rispetto ai 312 della Francia e ai 298 della Germania, ed è l’effetto della somma dei 5 corpi diversi. Ma se anche è impensabile riunificarli, è una sciocchezza non intervenire negli sprechi accumulati dalla loro sovrapposizione: per non affrontare le ire di generali e capi della polizia, si fa pagare il conto ai loro subordinati.