2
Ott
2014

Il valore della salute e il prezzo dei farmaci

In un articolo apparso domenica 7 settembre sulle pagine del Domenicale, il professor Luzzatto ha sostenuto che ciò che manca al settore farmaceutico è la concorrenza. Un libero mercato si reggerebbe sue due caposaldi, la libertà dei prezzi e la concorrenza, e quest’ultima calmiererebbe la prima. Commentando l’altissimo costo negli USA dell’unico farmaco ora in commercio per curare l’epatite C (per il quale il Senato americano sta chiedendo spiegazioni al produttore), Luzzatto conclude che il prezzo dei medicinali non debba più arbitrariamente essere stabilito dal mercato.

Anche ammettendo che il prezzo di mercato, quello che risulta dall’incontro di domanda e offerta, sia arbitrario, quello dei farmaci è tutto fuorché un libero mercato. Questo non perché l’offerta è concentrata, ma perché manca proprio il pilastro della autonoma determinazione del prezzo. Read More

30
Set
2014

Interchange fees: regolare per peggiorare

La Commissione Europea sta cercando di regolamentare i tassi delle commissioni interbancarie, attraverso i quali le banche che emettono carte di credito vengono compensate per i costi e rischi assunti al fine di dare al consumatore questa possibilità. Si tratta della classica pezza peggiore del buco.

Il processo di una transazione a mezzo carta di credito si sviluppa solitamente in un sistema a quattro parti: consumatore, commerciante e corrispondenti banche di riferimento. Quando il consumatore vuole pagare un bene a un commerciante con una carta di credito, il commerciante manda la richiesta (attraverso il POS) alla propria banca. Quest’ultima accerta la possibilità della transazione girando la richiesta alla banca che ha emesso la carta di credito che, verificate le condizioni del proprio cliente, approva la transazione. A questo punto la banca del commerciante comunica l’approvazione al suo cliente (il commerciante), il quale completa lo scambio con il consumatore. A scambio terminato, le banche regolano la transazione ed è proprio in questo momento che la banca emittente la carta di credito sottrae una commissione dal prezzo dovuto alla banca del commerciante.

In Italia, tali commissioni (d’ora in avanti IF: interchange fees) stanno mediamente intorno allo 0,73% per le carte di credito e allo 0,51% per le carte di debito. Sono tassi, questi, piuttosto moderati e in linea con la media europea, risultato di un buon grado di sviluppo del mercato rispetto alla media europea, come mostrano i grafici seguenti tratti da un recente studio di Europe Economics.

Figura 1: numero di carte

numero carte

Figura 2: valore totale delle transazioni a mezzo carte

valore carte

È bene specificare che queste fee sono solo una componente di un’altra commissione, la merchant service charge (d’ora in avanti MSC), che i commercianti pagano alla propria banca al fine di avere il servizio (accettare le carte) da offrire ai propri clienti. Le IF rappresentano comunque buona parte delle MSC. A titolo di esempio, in UK il peso delle IF sta tra il 70 e il 90 per cento delle MSC.

Stando al rapporto di Europe Economics, alla base della proposta della Commissione Europea di intervenire con un regolamento sulle IF, ci sarebbe l’argomento per cui gli operatori che forniscono i circuiti di carte (VISA, MASTERCARD ecc.), nel tentativo di attrarre un maggior numero di banche emittenti, hanno un incentivo ad alzare le IF. Ma se si alzano le IF, si alzano anche le MSC, che alla fine vengono trasferite al consumatore dai commercianti. Poiché in questo modo, secondo la Commissione, non è garantita una concorrenza effettiva nel mercato delle carte di pagamento, vi sarebbero i presupposti per un intervento di regolazione.

Nel report vengono elencati punto per punto le motivazioni della Commissione, seguite da apposita critica. Cercando di riassumere la critica generale dello studio, il problema principale che ne viene fuori è che l’idea della Commissione di regolamentare le IF sia frutto di quel tipo di economisti che Bastiat definirebbe “cattivi economisti”, che tengono conto cioè, solo degli effetti visibili dei provvedimenti e non anche di quelli, pur non meno reali, che sfuggono a un primo sguardo.

È evidente che c’è un incentivo, per gli operatori, ad alzare le IF al fine di accaparrarsi nuovi clienti. Questo equivale a dire che c’è un incentivo per ogni impresa ad aumentare i prezzi per incrementare i profitti. Nulla di nuovo (né di sbagliato). Tuttavia la Commissione non tiene conto delle altre forze in campo che invece producono incentivi opposti, volti ad abbassare prezzi e costi. Tali forze in campo, illustrate nel report, sono ad esempio la convenienza per il commerciante ad avere IF più basse. Non è folle credere che molti commercianti si rifiuteranno di accettare quelle carte che prevedono un livello troppo altro di IF (lo sa bene chi possiede una American Express). Ancora, per un dato livello di MSC, la banca di riferimento del commerciante spingerà per IF più basse, così da potersi tenere una fetta più grande della torta. Infine i consumatori, la cui forza viene spesso sottovalutata, sono gli utilizzatori delle carte a cui compete la scelta su quali tipi utilizzare, e questo è il principale degli incentivi competitivi: la libertà di scelta.

Fortuna vuole che anche l’esperienza possa darci qualche suggerimento in materia. Nel report infatti, vengono presentati i casi di Australia, Spagna e Stati Uniti, già palcoscenici di regolazione di questo tipo. L’evidenza di questi casi ci mostra alcuni effetti comuni a seguito dell’intervento. Le banche hanno visto ridursi i ricavi dalle IF e li hanno recuperati trasferendo parte di questi costi sui consumatori, in termini di commissioni dirette sul possesso di carte di credito. I vantaggi principali sono arrivati per alcune tipologie di commercianti, consentendo un abbassamento delle IF soprattutto per la grande distribuzione, dal momento che il metodo per calcolare le MSC differisce a seconda della dimensione del rivenditore. Non c’è evidenza che questo risparmio per i rivenditori sia diventato risparmio anche per i consumatori. Per questo, il consumatore alla fine risulta danneggiato dalla regolazione: il recupero dei mancati ricavi delle banche ricade su di esso ma ciò non accade, almeno non con la stessa forza e immediatezza, per i minori costi dei commercianti.

Un capitolo dedicato allo scenario più probabile che si manifesterebbe in Italia a seguito della regolamentazione, ci mostra, attraverso un’analisi molto dettagliata, che gli effetti sarebbero gli stessi dei tre casi analizzati sopra. Ecco le cifre:

  • Le banche avrebbero un calo dei ricavi pari a 494 milioni di euro;
  • I commercianti vedranno ridursi le MSC di circa 445 milioni di euro. In gran parte, se non tutti, questi risparmi saranno catturati dalla grande distribuzione;
  • I consumatori pagheranno 494 milioni di euro in più di commissioni bancarie, senza vedere alcuna riduzione dei prezzi dei beni al consumo.

Concludendo, a seguito dell’aumento dei costi per i consumatori e della riduzione dei ricavi per le banche emittenti, il mercato dei pagamenti elettronici ne uscirebbe indebolito. Da qui la probabile riduzione del loro utilizzo, dovuta alla minor convenienza, alla faccia della retorica politica sulla promozione dei pagamenti tracciabili come efficace strumento di contrasto all’evasione. In più, è ben possibile che il peggioramento delle condizioni competitive porti con sé minori incentivi a innovare per le banche emittenti. Con il solito risultato: consumatori che stanno peggio.

 

Twitter: @paolobelardinel

 

 

 

29
Set
2014

Le parole oltre i numeri: brevi riflessioni sulla relazione del Commissario alla spending review—di Gemma Mantovani

Del “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali” ovvero della relazione predisposta dal gruppo coordinato dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli del 7.8.2014 forse non hanno colpito tanto e solo i numeri: credo piuttosto abbiano fatto tanta paura le parole.
Il documento è sintetico. Molte tabelle, numeri, appunto. Uno lo riporto: le partecipate in Italia sono circa 10.000, nella “statalista” Francia circa 1000!
Mi soffermo su alcuni concetti espressi:
1) “circoscrivere il perimetro” delle partecipate: dare attuazione piena alla finanziaria 2008 ossia l’ente pubblico deve evitare di produrre beni e servizi che il settore privato può offrire;
2) trasparenza e opinione pubblica: trasparenza sulle partecipate vuol dire maggior pressione da parte dell’opinione pubblica e quindi maggiore efficienza. Si propone la messa a disposizione al pubblico di indicatori di efficienza e strumenti di business intelligence. I cittadini devono essere in grado di valutare la maggiore o minore economicità ed efficienza gestionale che deriverebbe dal togliere dalla mano pubblica la gestione/offerta di un bene o servizio. Read More

28
Set
2014

L’art.18 ed il silenzio cerchiobottista dei costituzionalisti

Nel dibattito delle ultime settimane sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori e sulla eventuale eliminazione dell’istituto della reintegra del dipendente licenziato mi è sembrato di notare una mancanza di riferimenti alle indicazioni che si potrebbero trarre dalla Carta costituzionale per sbrogliare un’intricata matassa dalla quale l’opinione pubblica e persino i principali attori della controversia (decisori politici, sindacati ed organizzazione dei datori di lavoro) fanno fatica a districare il bandolo.

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27
Set
2014

Peer review e investimenti in ricerca scientifica: la giusta via di Telethon—di Edoardo Garibaldi

Fare ricerca è una cosa seria, questo è noto a tutti, e inter omnes constat che in Italia la ricerca sia, in un certo qual modo, mortificata. Gli investimenti, pubblici e privati, sono pochi e spesso, questi soldi, sono pure spesi male
“Ma c’è un modo per creare, anche in Italia, sacche importanti di competitività”. A dirlo è la direttrice generale di Telethon, Francesca Pasinelli, che di recente ha partecipato a uno dei policy breakfast organizzati dall’IBL. Quando ormai 25 anni fa nasceva la fondazione famosa per le sue maratone televisive – molto importanti per la raccolta dei fondi impiegati nella ricerca scientifica – il dilemma era a quale modello ispirarsi, ovvero come gestire i denari che venivano raccolti per gli investimenti in ricerca biomedica: finanziamenti a pioggia, o modello anglosassone della peer review.
La fondazione un tempo presieduta da Susanna Agnelli decise di ispirarsi al modello anglosassone. “Siamo un gruppo di interesse a tutela dei malati di malattie rare – spiega Pasinelli – Queste malattie non godono di grandi finanziamenti in ricerca, le case farmaceutiche non investono tanto quanto fanno per le malattie comuni. E il metodo del peer review garantisce una più alta performatività dei progetti, una maggior garanzia per il donatore e un maggiore speranza per i malati di potersi curare. Con questo metodo i loro soldi portano a dei risultati concreti”.
Il processo del peer review è, ad oggi, il metodo più efficace per l’allocazione delle risorse in ambito scientifico. “Non è un modello perfetto – ammette Pasinelli – ma è anche il metodo di selezione scientifica che più di tutti minimizza la possibilità di errore. Un gran numero di premi Nobel proviene da ambiti scientifici che adottano questo metodo”.
E per questo, ad esempio, dopo la pubblicazione del bando di ricerca, viene nominata un’agenzia terza che gestisca le nomine dei revisori. “Colui che deve valutare un progetto di ricerca non può scegliere quale proposta valutare – aggiunge Pasinelli – è un’agenzia terza, che dopo averli selezionati seguendo rigidi parametri (non possono aver lavorato negli stessi dipartimenti dai quali proviene la proposta, non possono essere parenti, si evita che siano della stessa nazionalità etc.), affida ad almeno tre revisori il compito di esprimere un parere in forma scritta”. Alla fine di questo processo i revisori si incontrano in una sessione plenaria per assumere la decisione finale: la proposta è degna di ricevere il finanziamento oppure no.
La fondazione Telethon, nel solo 2013, ha deliberato oltre 10 milioni di di finanziamenti a progetti di ricerca con dei risultati strabilianti. Le analisi bibliometriche, basate sul numero di citazioni su riviste scientifiche di ciascuna ricerca in un periodo di osservazione di 5 anni, pongono Telethon al fianco dei dipartimenti delle università di Harvard e di Oxford, università che operano in un contesto dove si investe in ricerca e sviluppo molto più che in Italia. “Questo non vuol dire che la fondazione Telethon non sbagli un colpo – conclude Pasinelli – Ma ci dice che un sistema competitivo come il peer review, costruito per minimizzare l’influenza dell’errore umano e del conflitto di interesse in piccole comunità come quelle scientifiche, aiuta ad allocare meglio le risorse”.
Sul totale degli investimenti in ricerca e sviluppo il comparto delle organizzazioni no-profit contribuisce solo per il 3%. Nel Regno Unito l’insieme delle associazioni caritatevoli impegnate in ricerca biomedica contribuisce per oltre il 30% degli investimenti totali. Il terzo settore è un comparto in espansione in Italia, la speranza è che chi deciderà di investire e chi già ora investe, adotti lo stesso metodo che ha portato Telethon al successo.

25
Set
2014

Un sindacato che “cambi testa”: perché milioni di lavoratori gli sono estranei

Ora che l’addio di Bonanni alla CISL è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo vuole battersi per difendere il suo posto sui mercati mondiali. E’ invece il suo rapporto con mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia.

In Italia i fatti non sono andati come si immaginava ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni. Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite IVA e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

E’ in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’ACTA, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

E’ questa, la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Spesso: dannosi. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni si stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. E’ un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte.

Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

 

23
Set
2014

Uber alles ma non a Genova (i taxi, il servizio pubblico e l’eterogenesi dei fini)—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Da qualche giorno anche a Genova è sbarcata Uber, la nuova applicazione per smartphone nata nel 2009 a San Francisco, a metà tra il taxi e il noleggio, che sfrutta il Gps per collegare in tempo reale la posizione di chi ha bisogno di un passaggio e gli autisti disponibili più vicini, e in base all’itinerario prescelto indica il prezzo da pagare.

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23
Set
2014

Viaggio a Cuba

Nel film Fresa y chocolate non sembrava così difficile mangiare un gelato a Cuba. Eppure, acquistare due palline di fragola e cioccolato da Coppelia è una lunga coda burocratica, come ogni cosa in quel paese. Prima di tutto, devi azzeccare la fila giusta, a seconda della moneta con cui vuoi pagare. Da quando, per uscire dalle secche in cui il crollo dell’Unione Sovietica l’aveva lasciata, Cuba ha due valute, con la straniera che vale 25 volte quella nazionale, ci sono cose che si comprano solo con l’una e cose che si comprano solo con l’altra, e poi cose che si comprano con entrambe ma con la prima costano molto di più, e infine cose che si comprerebbero con l’una ma volendo si possono negoziare con l’altra. Un gran casino. Read More

23
Set
2014

Art bonus… o malus?—di Angelo Miglietta

“Adesso i privati non hanno più nessun alibi” sembra che abbia detto Il ministro dei Beni Culturali Franceschini. Si riferisce alla norma introdotta dal governo per premiare con un importante credito di imposta le donazioni effettuate da privati per sostenere gli enti, perlopiù pubblici, che gestiscono i beni culturali. La tesi è che servono più soldi per la cultura, lo stato non li ha, ma il governo offre un incentivo enorme, che mai si era visto. E così, sembra di poter leggere fra le righe, si è finalmente trovata una soluzione ai problemi della cultura, che sono dovuti alla mancanza di fondi.

Questa tesi è purtroppo invece la causa del grave problema del declino della gestione e conservazione dei beni culturali nel nostro Paese. Perché presuppone che il problema sia quello della mancanza di fondi, non del modo come essi vengono spesi, e, in altre parole, gestiti i beni culturali. Per fare un confronto con i temi di gestione d’impresa, sarebbe come dire che siccome un’impresa non va bene occorre reperire maggiori fondi per consentirne la sopravvivenza. Una cosa peraltro verificatasi nel caso delle crisi delle banche, giudicate troppo importanti per potere fallire e perciò salvate dagli interventi pubblici, a carico dei contribuenti. Read More