27
Set
2014

Peer review e investimenti in ricerca scientifica: la giusta via di Telethon—di Edoardo Garibaldi

Fare ricerca è una cosa seria, questo è noto a tutti, e inter omnes constat che in Italia la ricerca sia, in un certo qual modo, mortificata. Gli investimenti, pubblici e privati, sono pochi e spesso, questi soldi, sono pure spesi male
“Ma c’è un modo per creare, anche in Italia, sacche importanti di competitività”. A dirlo è la direttrice generale di Telethon, Francesca Pasinelli, che di recente ha partecipato a uno dei policy breakfast organizzati dall’IBL. Quando ormai 25 anni fa nasceva la fondazione famosa per le sue maratone televisive – molto importanti per la raccolta dei fondi impiegati nella ricerca scientifica – il dilemma era a quale modello ispirarsi, ovvero come gestire i denari che venivano raccolti per gli investimenti in ricerca biomedica: finanziamenti a pioggia, o modello anglosassone della peer review.
La fondazione un tempo presieduta da Susanna Agnelli decise di ispirarsi al modello anglosassone. “Siamo un gruppo di interesse a tutela dei malati di malattie rare – spiega Pasinelli – Queste malattie non godono di grandi finanziamenti in ricerca, le case farmaceutiche non investono tanto quanto fanno per le malattie comuni. E il metodo del peer review garantisce una più alta performatività dei progetti, una maggior garanzia per il donatore e un maggiore speranza per i malati di potersi curare. Con questo metodo i loro soldi portano a dei risultati concreti”.
Il processo del peer review è, ad oggi, il metodo più efficace per l’allocazione delle risorse in ambito scientifico. “Non è un modello perfetto – ammette Pasinelli – ma è anche il metodo di selezione scientifica che più di tutti minimizza la possibilità di errore. Un gran numero di premi Nobel proviene da ambiti scientifici che adottano questo metodo”.
E per questo, ad esempio, dopo la pubblicazione del bando di ricerca, viene nominata un’agenzia terza che gestisca le nomine dei revisori. “Colui che deve valutare un progetto di ricerca non può scegliere quale proposta valutare – aggiunge Pasinelli – è un’agenzia terza, che dopo averli selezionati seguendo rigidi parametri (non possono aver lavorato negli stessi dipartimenti dai quali proviene la proposta, non possono essere parenti, si evita che siano della stessa nazionalità etc.), affida ad almeno tre revisori il compito di esprimere un parere in forma scritta”. Alla fine di questo processo i revisori si incontrano in una sessione plenaria per assumere la decisione finale: la proposta è degna di ricevere il finanziamento oppure no.
La fondazione Telethon, nel solo 2013, ha deliberato oltre 10 milioni di di finanziamenti a progetti di ricerca con dei risultati strabilianti. Le analisi bibliometriche, basate sul numero di citazioni su riviste scientifiche di ciascuna ricerca in un periodo di osservazione di 5 anni, pongono Telethon al fianco dei dipartimenti delle università di Harvard e di Oxford, università che operano in un contesto dove si investe in ricerca e sviluppo molto più che in Italia. “Questo non vuol dire che la fondazione Telethon non sbagli un colpo – conclude Pasinelli – Ma ci dice che un sistema competitivo come il peer review, costruito per minimizzare l’influenza dell’errore umano e del conflitto di interesse in piccole comunità come quelle scientifiche, aiuta ad allocare meglio le risorse”.
Sul totale degli investimenti in ricerca e sviluppo il comparto delle organizzazioni no-profit contribuisce solo per il 3%. Nel Regno Unito l’insieme delle associazioni caritatevoli impegnate in ricerca biomedica contribuisce per oltre il 30% degli investimenti totali. Il terzo settore è un comparto in espansione in Italia, la speranza è che chi deciderà di investire e chi già ora investe, adotti lo stesso metodo che ha portato Telethon al successo.

25
Set
2014

Un sindacato che “cambi testa”: perché milioni di lavoratori gli sono estranei

Ora che l’addio di Bonanni alla CISL è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo vuole battersi per difendere il suo posto sui mercati mondiali. E’ invece il suo rapporto con mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia.

In Italia i fatti non sono andati come si immaginava ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni. Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite IVA e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

E’ in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’ACTA, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

E’ questa, la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Spesso: dannosi. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni si stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. E’ un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte.

Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

 

23
Set
2014

Uber alles ma non a Genova (i taxi, il servizio pubblico e l’eterogenesi dei fini)—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Da qualche giorno anche a Genova è sbarcata Uber, la nuova applicazione per smartphone nata nel 2009 a San Francisco, a metà tra il taxi e il noleggio, che sfrutta il Gps per collegare in tempo reale la posizione di chi ha bisogno di un passaggio e gli autisti disponibili più vicini, e in base all’itinerario prescelto indica il prezzo da pagare.

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23
Set
2014

Viaggio a Cuba

Nel film Fresa y chocolate non sembrava così difficile mangiare un gelato a Cuba. Eppure, acquistare due palline di fragola e cioccolato da Coppelia è una lunga coda burocratica, come ogni cosa in quel paese. Prima di tutto, devi azzeccare la fila giusta, a seconda della moneta con cui vuoi pagare. Da quando, per uscire dalle secche in cui il crollo dell’Unione Sovietica l’aveva lasciata, Cuba ha due valute, con la straniera che vale 25 volte quella nazionale, ci sono cose che si comprano solo con l’una e cose che si comprano solo con l’altra, e poi cose che si comprano con entrambe ma con la prima costano molto di più, e infine cose che si comprerebbero con l’una ma volendo si possono negoziare con l’altra. Un gran casino. Read More

23
Set
2014

Art bonus… o malus?—di Angelo Miglietta

“Adesso i privati non hanno più nessun alibi” sembra che abbia detto Il ministro dei Beni Culturali Franceschini. Si riferisce alla norma introdotta dal governo per premiare con un importante credito di imposta le donazioni effettuate da privati per sostenere gli enti, perlopiù pubblici, che gestiscono i beni culturali. La tesi è che servono più soldi per la cultura, lo stato non li ha, ma il governo offre un incentivo enorme, che mai si era visto. E così, sembra di poter leggere fra le righe, si è finalmente trovata una soluzione ai problemi della cultura, che sono dovuti alla mancanza di fondi.

Questa tesi è purtroppo invece la causa del grave problema del declino della gestione e conservazione dei beni culturali nel nostro Paese. Perché presuppone che il problema sia quello della mancanza di fondi, non del modo come essi vengono spesi, e, in altre parole, gestiti i beni culturali. Per fare un confronto con i temi di gestione d’impresa, sarebbe come dire che siccome un’impresa non va bene occorre reperire maggiori fondi per consentirne la sopravvivenza. Una cosa peraltro verificatasi nel caso delle crisi delle banche, giudicate troppo importanti per potere fallire e perciò salvate dagli interventi pubblici, a carico dei contribuenti. Read More

22
Set
2014

Articolo 18: quel che sappiamo degli effetti, per un riformismo serio

Alla politica piace ragionare per slogan. Sulle intenzioni di Renzi sul Jobs Act, e in particolare sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fioccano i “timbri”. C’è chi l’ha avvicinato alla Thatcher, chi a Blair, o a Craxi. Il traslato è un modo per non parlare della realtà, ma per definire a prescindere – con giudizi “valoriali” – le intenzioni di modificarla. Un serio riformismo dovrebbe usare un altro metodo. Partire dai fatti: cioè valutare oggettivamente quali effetti reali ha provocato una certa norma, e che cosa determinerebbe invece la sua modifica. Dopodiché, ma solo ”dopo” e non “prima”, ciascuno resta libero di giudicare secondo le proprie idee, che in Italia in materia di lavoro sono ancora quasi sempre “ideologie”.

Se analizziamo oggettivamente le disfunzionalità del mercato del lavoro, come ho già scritto si dovrebbe partire dalla bassa occupazione, e dalla bassa produttività. Sulla prima questione, ricordiamo che tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Sulla seconda: se guardiamo alla manifattura italiana e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita al 2013 solo verso quota 110 mentre i salari orari sono arrivati oltre quota 155; nell’eurozona nel frattempo la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dovrebbe deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia di quelli alla produttività.

Ma non è di queste macro disfunzionalità che si parla, purtroppo. Bensì, ancora una volta, dell’abolizione eventuale del reintegro giudiziario in caso di licenziamenti economici, nei nuovi contratti triennali a tutele crescenti che il governo vuole introdurre. Per evitare la divisione “ideologica” di una scelta favorevole o contraria in via pregiudiziale, cerchiamo di capire gli effetti determinati dall’articolo 18.

L’OCSE valuta ogni anno in termini comparati le diverse forme nazionali delle restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi: l’Italia dopo decenni di stabilità a quota 2,76 è scesa con la riforma Fornero a quota 2,51, ma il confronto è con la media Ocse a 2,04, UK a quota 1,03, Svizzera 1,60, Spagna 2,05, Francia a 2,38. Tutti dunque più flessibili di noi. Solo la Germania ci supera, a quota 2,87.

I vincoli al licenziamento assicurano il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro, ne trasferiscono l’onere sull’impresa, che dovrebbe fronteggiarne gli effetti con maggiore facilità. Ma in concreto, la tutela più forte come modifica il comportamento delle imprese? Per rispondere a questa domanda, c’è una copiosa letteratura di ricerche comparate in sede Ocse. Maggiore è la protezione, minori risultano i flussi da occupazione a disoccupazione, e viceversa. E’ il classico effetto di tutela dell’occupazione stabile: da noi amplificata col sistema CIG. Le imprese razionalizzano prodotti e sistemi produttivi meno rapidamente di quanto dovrebbero fare inseguendo le curve di costo e domanda; si abbassa l’utilizzo degli impianti, salvaguardando piante organiche lasciate in CIG ma alzando il costo fisso del capitale fisico e finanziario; e infine grazie alla frammentazioopne del mercato del lavoro in Italia la variabilità della domanda di lavoro si risolve con contratti a tempo determinato – i precari a minori tutele come capita in Italia da molti anni, bruciando generazioni intere di più giovani. Ridurre la velocità di distruzione di posti di lavoro sembra una cosa positiva ma non lo è: si accompagna alla riduzione di velocità della creazione di quelli nuovi.

Tanto è vero che gli studi comparati Ocse rivelano che maggiore è la protezione dell’occupazione, con limiti a licenziamento e reintegri giudiziali, peggio va per donne e giovani, sia in termini di minor occupazione sia di maggior disoccupazione. Tutto ciò con effetti quantitativamente ancor più negativi quanto più forte è il livello di contrattazione collettiva, cioè quanto i salari fanno più difficoltà a variare tanto verso l’alto se le cose vanno bene, quanto verso il basso se vanno male. In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano inoltre più selettive, e assumono con maggiore probabilità lavoratori più istruiti. Mentre quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioè più persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.

Sin qui, appare evidente dagli studi comparati che esiste uno “scambio” tra protezione al licenziamento ed effetti collettivi positivi se il primo si attenua, quando i benefici verificati della tutela superano i costi privati e pubblici. Ma cerchiamo di capire anche se studi seri sono stati fatti in Italia, sugli effetti dell’articolo 18. Molte ricerche si sono incentrate sull’effetto-soglia. Se cioè la tutela per i lavoratori sopra le 15 unità di dipendenti per impresa rappresentasse un freno alla crescita dimensionale delle aziende italiane. Quasi tutte le ricerche – di Garibaldi, Pacelli, Schivardi, Torrini – concordano che l’effetto soglia esiste, ma è meno rilevante di quanto spesso si creda. Non spiegherebbe che il 2% delle decisioni di non crescere. Piuttosto, anche le imprese italiane analizzate sotto i 15 dipendenti hanno manifestato effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita. Assunzioni e licenziamento nei contratti a tempo indeterminato sono calati nelle imprese piccole rispetto alle grandi, sostituiti anche qui dal ricorso massicico dei contratti a tempo determinato. Tutto ciò ha in sostanza allungato i tempi di attesa verso “posti protetti” nella vita di ogni lavoratore.

Ci sono poi altri due effetti, ai quali i più non guardano. Quello dell’articolo 18 sui salari, e quello sulla produttività. Le ricerche italiane mostrano che le imprese traslano l’effetto-assicurazione al posto fisso – quella che in gergo tecnico si chiama job property – riducendo i salari settimanali: solo che la rigidità dei contratti nazionali di categoria per la parte salariale garantisce anche qui i già tutelati, e la riduzione comparata di salario va a carico dei contratti a tempo determinato che dalle tutele sono esclusi. L’apartheid di cui parla Renzi non è solo quella tra chi è tutelato dall’articolo 18, una minoranza secca dei 22,4 milioni di lavoratori italiani, e chi no. C’è anche quella dovuta al fatto che gli oneri assicurativi a favore dei tutelati, in una stessa impresa si traduce in minori salari di chi la tutela non ce l’ha. Stiamo parlando di minori salari tra il 10 e il 15%, a seconda dei diversi settori, e una quota di questo gap si deve proprio alla copertura degli oneri di licenziamento dei “tutelati” a tempo indeterminato. Infine, la produtitvità. La tutela elevata ai licenziamenti induce le imprese anche a un minore stock di capitale per unità di lavoro. C’è chi ha stimato che la riduzione della tutela al licenziamento verso il coefficiente OCSE della Danimarca – 2,20 rispetto al nostro 2,53 – produrrebbe negli anni un incremento dell’11,2%, degli investimenti, e del 7% della produttività del lavoro.

Analizzati tutti questi effetti, la soluzione obbligata è riscrivere il trade off tra tutela al licenziamento ed esternalità negative che ne vengono all’occupabilità e alla crescita della produttività. La soluzione dell’equazione non si fa solo abolendo il reintegro giudiziale, ma con:

-una seria riforma contestuale degli ammortizzatori sociali ( attenti al costo e a chi lo paga, se le imprese e in che misura, se la fiscalità generale e in che misura: non ho visto sinora alcuna stima attendibile degli oneri relativi all’estensione da subito a tutti di un ASPI più elevato a 3,2 milioni di disoccupati come Renzi apparentemente propone!)

-evitando ulteriori frammentazioni delle tutele e del mercato del lavoro: il che significa 1) – superare l’illicenziabilità di fatto nella PA mentre si diminuisce la tutela nel contratto d’insertimento privato; 2) – definire riforme che valgano per tutti e da subito, non per coorti nuove di dipendenti privati avviati al contratto d’inserimento mentre per tutti gli altri la disciplina resta uguale; 3)- NON confodnere il trade off tra licenziabilità ed esternalità positiove nel tempo indeterminato con la contrarietà pregiudiziale ai contratti a tempo determinato, di cui le imprese continueranno ad avere assoluto bisogno

-realizzando la contestuale riforma del sistema di intermediazione tra domanda e offerta del lavoro, aprendo agli intermediari privati

– scegliendo nettamente più contrattazione decentrata al posto di quella nazionale, compresa la parte salariale, se vogliamo che il trade off tra tutele e occuopabilitàò investa anche la maggior produttività del lavoro e delle imprese.

Giudicate voi, ora, se il Jobs Act su cui Pd e sindacati si accapigliano proceda secondo questi criteri.

 

22
Set
2014

La legge è legge! Quando il protezionismo è a carico del contribuente

“La legge è legge!”Con questo ritornello il grande attore comico francese Fernandel, nei panni del coprotagonista Ferdinand Pastorellì, ricordava a se stesso l’imperativo morale che doveva costantemente guidarlo nella propria attività professionale di gendarme di frontiera addetto al contrasto dei contrabbandieri Anche quando si trattava di mandare in gattabuia il suo migliore amico, l’indimenticabile Totò, (altro coprotagonista nei panni di Giuseppe La Paglia) che di crediti di riconoscenza con lui ne aveva contratti e non poco, ma che viveva di contrabbando, il gendarme Pastorellì non sentiva ragioni. Il film si intitola appunto: “La legge è legge!”ed è la prima narrazione che mi è venuta in mente durante la lettura di una sentenza del TAR Napoli di cui vado brevissimamente a darvi il resoconto.

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19
Set
2014

La ripresa economica nel 2015?

Sorprende non poco che i nostri politici e governanti si entusiasmino così facilmente di fronte all’illusione di un apparente segnale di ripresa e poi si meraviglino che i dati smentiscono le loro previsioni: basterebbe che scendessero fra la Gente per capire quale è la situazione reale e come intervenire per invertire la tendenza; … ma sono troppo saldamente incollati alle loro teorie e convinzioni personali. Sic!
E’ già da qualche anno che sistematicamente il Premier o Ministro di turno rassicurano sulla imminente ripresa dal prossimo trimestre o semestre o anno e puntualmente arriva la smentita! … Ma la Gente lo sapeva già, senza bisogno di complicati calcoli economico-finanziari.
Gutta cavat lapidem” e perciò giova ripetersi. C’è solo un modo per uscire da questo tunnel: far ripartire i consumi interni (le esportazioni pare resistano) con misure non più rinviabili per far tornare a circolare il danaro, allentando gli inconcepibili divieti (il limite per il contante è di € 1.000,00) e allontanando la paura degli accertamenti fiscali incontrollati e sconsiderati: non è concepibile che, da un lato, si introducano incentivi per auto, elettrodomestici, arredi, ristrutturazioni edilizie, riqualificazioni energetiche, investimenti immobiliari e, dall’altra parte, si espongano i contribuenti al rischio incontrollato di spesometro, redditometro, studi di settore, ecc. … enfatizzando l’invio di 75.000 lettere chi ha sostenuto spese superiori al reddito dichiarato! Non c’è solo la pressione fiscale esagerata, ma c’è anche una oppressione fiscale intollerabile nella fase accertativa!
Chi ha dimestichezza con la materia tributaria sa bene come funziona realmente il rapporto col Fisco: non conta pressoché nulla la storia reddituale dei contribuenti e la loro capacità contributiva effettiva, spesso giustificabile con le risorse finanziarie disponibili accantonate negli anni (anche con sacrificio) o ereditate; gli Uffici finanziari sono animati dal luogo comune che i contribuenti sono tutti evasori, si considerano paladini della lotta all’evasione, hanno l’esigenza di raggiungere il budget assegnato e godono dei trattamenti economici incentivanti su quello che accertano e su quello che riscuotono. In questo contesto le giustificazioni anche documentate dei contribuenti hanno sempre qualcosa che non va ed espongono inevitabilmente a prelievi anche ingiusti; rivolgersi al Giudice può costare infatti assai caro (oltre alla salata tassa di ingresso “contributo unificato”, va intanto pagata una parte della pretesa col criterio del solve et repete!) e non sempre si ha la forza o il coraggio di resistere.
E’ perciò indispensabile e non più rinviabile che si allenti immediatamente l’alta tensione nei rapporti fra il Fisco e i contribuenti, che si apra una fase di tregua fiscale per restituire alla Gente la libertà e il gusto di spendere (meglio € 100 utilizzati per fare acquisti che pretesi dal Fisco!), che si cancellino dalle norme tributarie le varie presunzioni legali gravemente responsabili della sottrazione di ingenti risorse dalle tasche dei contribuenti e del grave deterioramento nei loro rapporti col Fisco; volenti o nolenti, si debbono introdurre meccanismi adeguati per liberare le risorse finanziarie ferme sotto i materassi o all’estero facilitandone la reintroduzione nel sistema finanziario interno e favorendo la circolazione del danaro. Solo se ripartirà la spesa interna, ricominceranno i consumi: le imprese aumenteranno la produzione, serviranno più lavoratori, salirà l’occupazione, aumenteranno i redditi prodotti e le entrate tributarie, si ridurranno i costi del welfare e ripartirà la crescita economica tanto agognate. Riduzione della pressione fiscale, semplificazione amministrativa e burocratica e tagli alla spesa pubblica improduttiva ne accentueranno gli effetti positivi.
Anche con bonus o inventivi vari la Gente non spende quando ha paura, le imprese non assumono quando non hanno di che produrre, gli investimenti non si fanno quando mancano le prospettive ed espongono ad oneri permanenti gravosi ed imprevedibili, l’intraprendenza delle persone operose è repressa quando viene perseguitata come sintomo di evasione fiscale.
Serve una svolta vera: basta con le minacce estorsive e con le prepotenze fiscali del Fisco predatore!

18
Set
2014

Buttanissimo Montalbano—di Filippo Cavazzoni ed Edoardo Garibaldi

Si trattava di una non-notizia. Montalbano, a quanto pare, rimarrà siciliano, il set della fiction non si sposterà in Puglia.
“Non c’è nessun contatto ufficiale con la Palomar per la produzione della fiction Montalbano”. A spegnere ogni tipo di polemica sul trasferimento della produzione televisiva dalle coste siciliane a quelle pugliesi è la presidente di Apulia Film Commission, Antonella Gaeta. “Siamo lusingati dall’attenzione che ci ha riservato Carlo Degli Esposti, lui conosce come lavoriamo e avrà pensato a noi, ma non ci sono state richieste di finanziamento”.
Il caso però merita di essere analizzato anche nella sua virtualità perché pone delle questioni importanti. I commenti riportati sulla stampa lasciavano infatti trasparire, nemmeno troppo velatamente, come fosse sconcertante che la società di produzione non venisse “aiutata” dalla regione Sicilia. Ma una delle fiction più seguite e trasmesse sulla rete ammiraglia della Rai, non dovrebbe camminare sulle proprie gambe? Ha davvero bisogno di “aiuti” pubblici una società di produzione che riesce a garantire cachet di tutto rispetto per attori acclamati dal pubblico e che generano ricavi pubblicitari considerevoli? Read More