Immigrati, Tor Sapienza, Viminale e le competenze che mancano
Dopo giorni di scontri e tensioni crescenti a Tor Sapienza, il Viminale ieri ha convocato il Comune di Roma. Ma lo ha fatto dopo che il Campidoglio aveva concordato con la Questura il trasferimento dei minori dal centro immigrati di via Morandi, l’epicentro del fenomeno. Il solo fatto che il ministero dell’Interno si sia mosso dopo e non prima, e per di più davanti a fatti estremamente gravi che avvengono nella capitale, consegna la chiave del problema irrisolto dell’immigrazione nel nostro Paese. Abbiamo dedicato migliaia di ore di dibattiti pubblici e radiotelevisivi alle tragedie dei migranti in mare. Ma continuiamo a non avere uno straccio di schema politico-amministrativo efficace, per gestire il fenomeno entro il territorio nazionale e fuori dai Cie.
Ogni paese in ogni secolo ha un suo medioevo. Che si manifesta quando improvvisamente un futuro imprevisto diventa presente, e non si ha alle spalle un passato di esperienze per affrontarlo. In Italia capita con l’immigrazione. Perché a metà degli anni Novanta avevamo un numero di immigrati totali di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.
E’ vero, nel 2014 il fenomeno apicale sono stati gli sbarchi, 150 mila solo da gennaio a ottobre, rispetto a poco più di 40mila nell’intero 2013. E di qui le richieste insistenti perché l’Europa con Frontex sostituisse o per meglio dire integrasse la nostra missione Mare Nostrum. Ma, mare a parte, restiamo totalmente sprovvisti di politiche e risposte organizzate quando l’immigrazione, nelle grandi città e nei territori, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in piccolo centro.
A Roma a Tor Sapienza oggi, come a Corcolle a settembre – e in termini diversi a Milano, con le occupazioni clandestine ma di massa delle case popolari ALER – si sommano tre fattori diversi. Si tratta di periferie o aggregati urbani nei quali il reddito medio degli italiani residenti è anche del 40-50% inferiore alla media, cioè aree già per loro conto a fortissimo disagio sociale. Dove in pochi mesi o settimane si determina una concentrazione di immigrati per i quali i già scarsissimi servizi offerti ai residenti italiani diventano ancor più deficitari. E in ogni caso, se aggiuntivi per gli immigrati, avvertiti dagli italiani come uno schiaffo alla propria condizione, come allo stesso modo viene avvertita la loro disponibilità per lavori a bassissima remunerazione, in diretta concorrenza con gli oltre 3 milioni di disoccupati italiani. Ma l’ulteriore a novità è che su questo malcontento da qualche tempo hanno preso a risoffiare gli aliti di estreme minoranze politiche, però determinate a incitare allo scontro, a fini populistici e per proprio tornaconto.
E’ ovvio che il problema e l’emergenza di ordine pubblico siano rappresentati dal terzo fattore, e dal secondo quando tracima in violenze e cacce all’uomo spontanee e non “incitate” da mestatori. Non fosse che per questo, è ancor più singolare che ieri il Viminale si sia svegliato quando già Comune e Questura avevano attuato una prima decisione. Ma il problema è un altro. Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali.
In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. E’ quello il modello al quale guardare, visto che non siamo francesi né britannici, non abbiamo avuto secoli di imperi coloniali, e di conseguenti eredità postcoloniali di immigrazione da gestire. Per capirci, le Council Houses municipali, che nel Regno Unito sono riservate ai meno abbienti e agli immigrati, hanno una tradizione che affonda le radici nell’XII° secolo, e nelle Poor Laws che dal ’600 fino a Lord Beveridge hanno costituito un modello di soluzione, sia pur in presenza di uno Stato molto parco nella spesa pubblica.
Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere le competenze (e risorse) per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei come quello di via Morando a Tor Sapienza, calato dall’alto in realtà di degrado per decisione di qualche funzionario del ministero e del Comune individuato dall’alto come “recipiente”. Il governo prenda l’iniziativa di avviare questa svolta.
Che avrà tempi ovviamente lunghi, visto che è in corso un bel braccio di ferro con Comuni e Regioni per i tagli chiesti in legge di stabilità. E dunque nel periodo transitorio Stato centrale e Città dovranno percorrere un bel tratto di strada insieme. Perché è vero che il più degli immigrati oggi sbarcano per non restare in un’Italia disastrata ma nel tentativo di andare verso il Nord Europa. E che i permessi di soggiorno per lavoro sono scesi dai 350 mila del 2010 a poco più di 60mila nel 2012. Ma al contempo gli immigrati sono oggi milioni. E dalla casa al lavoro, alla scuola e all’università, occorre pensarci. Ficchiamocelo in testa: credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.