20
Ott
2014

L’alluvione di Genova ed i cambiamenti climatici: proteggere il clima o proteggersi dal clima?

Come sempre accade in presenza di un “evento estremo”, anche nel caso dell’alluvione di Genova molti politici e commentatori non hanno resistito alla tentazione di tirare in causa l’effetto serra.
A sproposito: vediamo perché.
Prima domanda: una precipitazione intensa come quella che si è verificata nel capoluogo ligure la scorsa settimana sarebbe potuta accadere cinquanta o cento anni fa, prima che l’uomo iniziasse ad emettere anidride carbonica in atmosfera? Sì.
Come racconta Jacopo Giliberto, l’eventualità che potesse verificarsi una precipitazione d’intensità paragonabile a quella degli scorsi giorni era stata prevista nel lontano 1907 dall’ingegner Cannovale del Comune di Genova: se per costruire la copertura del Bisagno fossero stati seguiti i calcoli di Cannovale, il torrente sarebbe in sicurezza da un secolo e la città non ripetutamente sommersa da acqua e fango.
Seconda domanda: se una precipitazone intensa sarebbe potuta accadere già cento anni fa o nei secoli passati, non è però aumentata a causa del riscaldamento globale la frequenza dei fenomeni estremi?
In questo caso la risposta è, forse sorpendentemente per molti, negativa. Con riferimento alla situazione italiana, ad esempio, si legge in un recente documento a cura della Provincia di Torino e della Società Metereologica Subalpina (“Cambiamenti climatici e governo del territorio“) che: “le precipitazioni intense per ora non sono in aumento. Sebbene molti modelli climatici prevedano un futuro aumento dei casi di precipitazione intensa, potenzialmente responsabili di dissesti idrogeologici sul territorio, al momento in Provincia di Torino questa tendenza non sembra essere ancora evidente”.

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Il caso piemontese non costituisce peraltro un’eccezione ma, semmai, la regola a livello mondiale. Di seguito riportiamo alcuni estratti dall’ultimo rapporto IPCC sullo stato del clima:

“Current datasets indicate no significant observed trends in global tropical cyclone frequency over the past century … No robust trends in annual numbers of tropical storms, hurricanes and major hurricanes counts have been identified over the past 100 years in the North Atlantic basin”
“In summary, there continues to be a lack of evidence and thus low confidence regarding the sign of trend in the magnitude and/or frequency of floods on a global scale”
“In summary, there is low confidence in observed trends in small-scale severe weather phenomena such as hail and thunderstorms because of historical data inhomogeneities and inadequacies in monitoring systems”
“In summary, confidence in large scale changes in the intensity of extreme extratropical cyclones since 1900 is low”.

Peraltro, se fino ad oggi non vi sono elementi sufficienti per affermare l’aumento della frequenza dei fenomeni estremi, vi è chiara evidenza di come, grazie al miglioramento della capacità di prevedere l’evoluzione delle condizioni meteorologiche nel breve termine, alla disponibilità di strutture maggiormente in grado di resistere a fenomeni particolarmente violenti ed alla possibilità di evacuare in tempi rapidi – abitualmente grazie alla propria auto – dalle zone che si prevede saranno colpite da calamità naturali, il numero complessivo di persone vittime di tali fenomeni si è ridotto radicalmente negli ultimi decenni e, considerata l’aumento della popolazione, ancor più è diminuito il rischio individuale: negli ultimi anni hanno perso la vita a causa di un evento climatico estremo all’incirca tre persone su un milione a fronte di più di cento nella prima metà del secolo.

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Sono in aumento in valore assoluto i danni economici; tale evoluzione è però esclusivamente da addebitarsi al maggior valore delle proprietà di cui disponiamo oltre che ad una maggiore concentrazione della popolazione nelle aree costiere. Tra il 1990 ed il 2012 l’ammontare complessivo dei danni rapportato alla ricchezza prodotta ha mostrato comunque un trend in riduzione, assestandosi nell’ultimo anno analizzato a circa lo 0,2% del PIL mondiale.

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Da non dimenticare poi il fatto che negli ultimi trent’anni, in presenza di una forte crescita delle emissioni e di un riscaldamento del pianeta di poco superiore a 0,5 °C, si è verificato un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità: la percentuale di persone che vivono in condizione di povertà assoluta dal 52% (1980) al 21% (2010).

Dovremmo quindi ignorare del tutto il problema del riscaldamento del pianeta? No, affatto. Sebbene fino ad oggi e verosimilmente ancora per molti decenni i benefici del riscaldamento saranno superiori ai costi, nel lungo periodo il bilancio verosimilmente cambierà di segno e gli impatti negativi saranno più rilevanti di quelli positivi.
Non dovremmo però porre in atto politiche con ricadute quasi irrilevanti in termini di riduzione delle emissioni ma che comportano costi significativi.
Ad esempio, nel caso italiano, ogni anno i sussidi alle rinnovabili ammontano a circa 12 miliardi di euro, all’incirca lo 0,8% del PIL. I benefici in termini di mitigazione delle emissioni di tali misure sono del tutto irrilevanti. Se, per ipotesi, la stessa cifra fosse destinata ad interventi di sistemazione del territorio, le ricadute in termini di riduzione dei danni di eventi estremi sarebbe senza dubbio maggiore.
Per tornare al caso di Genova: è molto più efficace realizzare opere che consentano alle acque di defluire regolarmente che non influire in misura del tutto marginale sulla frequenza delle precipitazioni più intense.

@ramella_f

20
Ott
2014

Gli autografi di Marino, le reprimende di Alfano e l’ira della CEI.

Non sappiamo se dietro la registrazione presso l’Ufficio dello stato civile di Roma di ben 16 unioni fra persone dello stesso sesso contratte in Paesi stranieri vi sia da parte del Sindaco di Roma, Ignazio Marino, la sincera adesione alle esigenze di chi da anni oramai reclama il “riconoscimento” delle unioni civili o, più cinicamente, il desiderio di rilanciare un’immagine politica che, stando ai commenti più numerosi ed alle impressioni che si possono trarre dai colloqui con i cittadini dell’Urbe, sembrerebbe al minimo storico del gradimento. Trattandosi di politici non si può mai sapere; a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, soleva ripetere la buonanima di Andreotti.
Né possiamo immaginare cosa spinga in realtà il Ministro dell’Interno Angelino Alfano ad ironizzare ferocemente sull’iniziativa di Marino e di altri sindaci italiani che si sarebbero limitati, secondo lui, ad apporre dei semplici autografi privi di valore giuridico sui riconoscimenti delle unioni civili. Autografi pronti ad essere annullati d’imperio dal Prefetto su ordine del Ministro o, perché no, dal Ministro medesimo in prima persona. Ad essere maliziosi si potrebbe pensare al desiderio di Alfano di assumere le vesti di difensore del conservatorismo nazional-popolare o della dottrina della Chiesa, ad essere ironici si potrebbe ipotizzare il desiderio di “ damnatio memoriae” dell’esperienza del Ministro nella Casa e nel Popolo delle “ libertà”, non fosse mai che qualcuno in occasione dei “ ludi democratici” prossimi venturi ne riesumasse le gesta di pericoloso liberale e liberista.
Sappiamo di certo, invece, che la Chiesa cattolica in Italia fa da sempre il Suo mestiere, quello di reclamare l’aiuto della forza connaturata alle leggi statali per agevolare un’evangelizzazione nazionale che le Sue risorse interne da sole non riescono a garantire. Conseguentemente sembrerebbe che la dottrina sociale della Chiesa, amorevolmente spiegata in questa occasione dall’ “ira della Cei” ( Conferenza Episcopale Italiana, titolo del corriere.it del 17 ottobre), preferisca leggi che vietano, impongono e prescrivono a tutti cosa fare e cosa non fare, piuttosto che uomini e donne che liberalmente scelgono ed aderiscono a questo invece che a quello stile di vita.
Brutto mestiere deve essere allora, in questo contesto, quello dei Giudici della Corte Costituzionale le cui sentenze non se le “fila” nessuno quando riguardano le tutele e le garanzie di ogni singolo uomo e cittadino e quando ammoniscono il legislatore che è Suo il compito di assicurare che i diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione valgono per tutti, coppie omosessuali comprese.
Per ben due volte, infatti, negli ultimi quattro anni la Corte Costituzionale ha spiegato (sentenze n. 138/2010 e 170/2014) che quello ad essere riconosciuti come coppie civili omosessuali è un diritto fondamentale che rientra senza alcun dubbio all’interno dell’alveo dell’articolo 2 della Costituzione che, è bene ricordarlo, impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo.
La Corte ha precisato che “ Nella nozione di formazione sociale – nel quadro della quale l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Tuttavia la Corte costituzionale ha ritenuto che l’equiparazione fra unioni civili e matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia una soluzione imposta dalla Carta costituzionale e ciononostante non è nemmeno vietata, cosicché spetta al legislatore stabilire le modalità attraverso le quali disciplinare il riconoscimento delle prime. Di certo vi è che il Parlamento ben potrebbe equipararle del tutto ai matrimoni tradizionali ma non potrebbe negarne mai il riconoscimento.
Come potrebbe del resto un Parlamento che legifera all’interno di un ordinamento liberale, personalista e pluralista negare ad una coppia omosessuale il semplice “ riconoscimento”? L’essere considerati, cioè, quello che si vuole essere, una coppia stabilmente unita in un legame affettivo e giuridico?
Perché mai questo “riconoscimento” dovrebbe essere negato? Chissà cosa penserebbe Alfano se non fosse riconosciuto per quello che è! Niente strette di mano da amici e conoscenti, niente saluto militare da poliziotti e carabinieri, niente “ Sua Eccelleza, sig. Ministro” da burocrati e questuanti. Sarebbe “ uno, nessuno e centomila” alla stesso tempo.
Cosa accadrebbe ad un Vescovo se qualcuno gli dicesse: ciao Paolino Rossi invece che “ Buon giorno Eccellenza” lo possiamo intuire senza soverchi sforzi d’immaginazione.
Paragoni impropri si potrebbe obiettare. Niente affatto sarebbe la replica immediata. L’identità personale è composta oltre che dal nome, dall’immagine che ciascuno da di sé e quindi anche dalle relazioni umane più intime che ognuno identifica con la propria famiglia.
Quale sarebbe poi l’interesse personale di ciascuno di noi, singolarmente considerato e quale membro di una eventuale maggioranza deliberante, a disconoscere la volontà di due persone che vogliono essere considerate unite moralmente e giuridicamente? Quale conseguenza negativa ricadrebbe su ciascuno di noi se due persone dello stesso sesso libere, mature e responsabili depositassero presso l’ufficio dello stato civile un contratto dal quale risulterebbero i diritti e gli obblighi “familiari” cui reciprocamente si sono vincolati?
Il filosofo del diritto Bruno Leoni, al cui insegnamento questo blog si ispira, interpretando splendidamente il senso più profondo del costituzionalismo moderno quale limite al potere delle maggioranze deliberanti, riteneva che in alcuni casi “ Non ci potrebbe essere una volontà comune …a meno che non si identifichi, semplicemente, la volontà comune con la volontà delle maggioranze a prescindere dalla libertà di chi appartiene alle minoranze.
Occorerrebbe, dunque, prendere semplicemente atto della disciplina per mezzo della quale i soggetti che costituiscono coppie omosessuali hanno deciso di regolare i loro rapporti privati. Punto.
Sta di fatto, invece, che oggi il Parlamento non legifera, la Corte Costituzionale non sanziona (sin’ora) l’inerzia del legislatore e tutto questo consente ai giudici di merito di negare la trascrizione delle unioni civili, come ha fatto di recente il Tribunale di Milano con un decreto del 2 luglio 2014. Il diritto alla trascrizione dell’unione civile non c’è perché il ventaglio delle scelte possibili per mezzo delle quali tutelarle e riconoscerle è molto ampio ed il legislatore non ha ancora scelto: quindi mettetevi il cuore in pace! Questo in sostanza il ragionamento del Tribunale meneghino.
Ora, delle due l’una: o il Parlamento legifera, e sarebbe meglio che lo facesse attribuendo il massimo di libertà alle coppie omosessuali riconoscendogli il diritto di costruire un legame giuridico all’interno del quel diritti ed obblighi sono definiti dalle “ parti”, o i giudici si decidono al più presto a prendere sul serio le riflessioni della Corte Costituzionale garantendo alle coppie omosessuali quel riconoscimento e quella tutela dei loro diritti che discende direttamente dalla Costituzione e che la mancata “ mediazione” del legislatore non può in alcun modo sminuire.
Forse se i giudici cominciassero a dire che in assenza di apposita legge la trascrizione negli atti dello Stato civile rappresenta l’unico strumento di tutela che l’ordinamento può apprestare nei confronti delle coppie omosessuali, pena la negazione radicale del loro riconoscimento giuridico, potrebbe anche darsi che il Parlamento decida di svegliarsi dall’eterno stato di coma vegetativo in cui versa.
Le alternative, diversamente, saranno ancora gli autografi di Marino, le reprimende di Alfano e l’ira della Cei. Non proprio il massimo.
@roccotodero

17
Ott
2014

Modesta proposta liberale: ecco i 6 miliardi chiesti a Enti Locali, senza tagli di servizi né aumenti di tasse

Chi ha ragione e chi ha torto nella prima grande battaglia accesasi sulla legge di stabilità, quella tra le regioni e il premier Renzi? Come sempre, dipende da qual è il punto di vista dal quale si guarda la questione. C’è un piano formale, quello delle regole, in Italia ispirate al più puro stile bizantino. C’è poi un piano sostanziale, quello dei numeri. Poiché la legge di stabilità è appena ai suoi inizi, chiarire alcuni punti può servire a trovare una soluzione migliore, fatti alla mano.

Sul piano formale, la protesta delle Regioni ha delle frecce al suo arco. Fermiamoci a due esempi. Sulla sanità, è vero per esempio che tre anni fa dopo lunghe trattative fu alla fine formulato un accordo di compromesso su come considerare i cosiddetti costi standard, con il decreto legislativo 68 del 2011. Mentre tutti continuano a fare l’esempio classico della siringa che costa tre e fino a quattro volte di più in questa regione piuttosto che in un’altra, l’accordo avvenne in modo da evitare due criteri, che le regioni avversarono. Primo, i costi standard non dovevano essere individuati con criteri microeconomici, in cu ricade l’esempio della siringa, ma macroeconomici, cioè per valutazione di spesa in grandi aggregati rispetto ai livelli di assistenza e servizi da garantire. Secondo, bisognava individuare un campione di riferimento che non fosse squilibrato a favore delle regioni “troppo” efficienti – Lombardia, veneto, Emilia-Romagna, Toscana – ma equilibrato con diverse Regioni “medie”. Poiché nel frattempo scoppiava il caos del rientro coatto per la sanità in 8 regioni di cui 5 commissariate, prevalse la prudenza. Il paradosso è che fu la Lega al governo, ad accontentarsi di questo “finto” costo standard, che fa sopravvivere in buona parte la vecchia logica dei costi storici, cioè del premio a chi spendeva più e peggio. Ma la regola formale è quella, ed è in base a quel criterio che avviene il riparto tra Regioni della parte variabile del fondo sanitario nazionale.

Secondo esempio, questa volta proprio sul fondo sanitario nazionale. Dai governi Monti e Letta gli interventi finanziari sulla sanità avvennero con l’impegno a rinviare il riequilibrio al successivo patto per la salute, contrattato con le Regioni. Il governo Renzi si è trovato ad officiarne la parte conclusiva, e a luglio l’accordo è stato concluso: riprendendo a far crescere la spesa sanitaria, dai 109 miliardi pattuiti per il fondo nel 2014 fino a oltre 115 miliardi nel 2016. Con in più un impegno esplicito, in caso di risparmi virtuosi in questi tre anni, a tenerli rigorosamente reinvestiti entro il perimetro della sanità e senza cederli alla diminuzione del deficit pubblico. Secondo me è stato un errore, firmare quell’accordo, ma tant’è.

Certo, il governo Renzi non ha contrattato lui le regole del “finto” costo standard, e ha ereditato l’impegno a rialzare la spesa sanitaria, che pure però ha firmato, con la ministra Lorenzin. Ecco perché formalmente le Regioni non hanno torto, nel protestare che il governo non può di punto in bianco chiedere 4 miliardi a loro e altri 2 a Comuni e province. Perché le Regioni – e in primis quelle sottoposte a rientro coatto – a questo punto lo schema di rientro graduale del deficit per l’anno prossimo l’hanno già impostato. E a questo punto non toccherebbero certo organici e spese fisse, ma taglierebbero i servizi sanitari e quelli di trasporto pubblico locale (la regioni finanziano a catena province e comuni nel TPL). E, soprattutto, alzerebbero le tasse locali, visto che oltretutto già devono affrontare il venir meno della quota parte dovuta all’abbattimento dell’IRAP previsto nella legge di stabilità per la componente occupati nelle imprese.

Sin qui la forma. Ma la sostanza, cioè i numeri, che cosa ci dicono? Cose molto diverse da quelle scritte negli accordi formali. Ci dicono ad esempio che, di 581 partecipate locali di primo livello detenute dalle Regioni nel 2012, ne risultavano in perdita 217, per 234,7 milioni di euro. Ci dicono che delle 4944 partecipate locali di primo livello dai Comuni, ben 1325 erano in perdita per complessivi 1,55 miliardi di euro. Che delle 1965 partecipate locali di primo livello nelle mani delle province, 636 erano in perdita per 349 milioni. Sono tutte cifre ricavate dai diversi rapporti elaborati dall’ormai ex commissario alla spending review Cottarelli: e in quei rapporti sono indicate fin da aprile decine di misure concretissime per passare da circa 10 mila partecipate locali di primo livello a 1000 in 3 anni – parole pronunciate da Renzi il 18 aprile scorso – con incentivi e sanzioni a Regioni e Comuni per ottenere a seconda dei casi chiusure, liquidazioni, dismissioni e accorpamenti. Tre miliardi di euro l’anno per tre anni, era la stima dei risparmi di spesa. Metà della cifra chiesta agli Enti Locali per il 2015, come si vede, si può benissimo ricavare da norme già pronte. Se lo si vuole; senza toccare i servizi offerti, e senza aggravi di tasse locali.

E l’altra metà? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Sempre evitando i tagli lineari. Guardiamo all’universo dei 132 miliardi di euro di spesa pubblica in acquisti e forniture da parte della pubblica amministrazione. Questa volta, i dati 2012 sono quelli elaborati dalla Consip, sempre per l’inascoltato Cottarelli. Dei 132 miliardi complessivi, ben 39 sono operati dagli Enti Locali, e altrettanti ricadono nel recinto della sanità. Come si vede, quasi i due terzi della spesa in forniture è “locale”. Ma dei 39 miliardi in capo alla sanità, e cioè di pertinenza regionale come controllo e coordinamento delle singole aziende sanitarie e ospedaliere, solo 15 miliardi sono operati con procedure digitali trasparenti e centralizzate. E dei 39 miliardi di acquisti in capo a regioni, comuni e province, solo 13 miliardi sono presidiati da procedure digitali trasparenti. In totale, dunque, ci sono la bellezza di 50 miliardi di euro annui di acquisti pubblici da recuperare a una gestione trasparente.

L’esperienza storica accumulata dal modello Consip ha portato a risparmi sull’unghia pari al 12% della spesa praticata fuori da procedure standard e ottimizzate. Il 12% di 50 miliardi sono 6 miliardi. Diciamo per realismo che recuperiamo a procedure unificate di acquisto i 50 miliardi in due anni e non in uno solo? Benissimo, ecco nel 2015 un risparmio di 3 miliardi. Sommati ai 3 miliardi ricavabili dalle partecipate locali, siamo esattamente ai 6 miliardi che chiede il governo. Con la differenza che la Regioni non potrebbero parlare di regole violate, né di servizi da tagliare, né di tasse da alzare. E noi così speriamo che finisca, visto che governo e regioni si devono incontrare. Attacchino in profondità e d’accordo tra loro il perimetro delle inefficienze, perché una cosa è sicura. Quando Renzi dice che di miliardi buttati ce ne sono tanti e troppi, ha ragione. E sono i soldi nostri, di noi che imprechiamo sapendo benissimo che costitutivamente un burocrate non può essere un innovatore: per definizione.

16
Ott
2014

Il Nobel a Tirole: la modernità del rigore teorico—di Simona Benedettini e Carlo Stagnaro

Jean Tirole ha ricevuto il Premio Nobel per l’Economia 2014. La motivazione della Reale Accademia di Svezia fa riferimento alle “sue analisi su potere di mercato e regolazione dei mercati”. Si tratta di una scelta che in quale modo si estende allo storico co-autore di Tirole, Jean-Jacque Laffont, scomparso nel 2004, e che riconosce la rivoluzione avvenuta negli ultimi 30 anni nella microeconomia in generale, e nell’economia industriale e della regolazione in particolare. Ed è un premio che dovrebbe essere letto con particolare attenzione in Italia.

Tirole ha sviluppato un framework teorico, organico e innovativo, nell’ambito della regolazione dei monopoli naturali e ha affrontato in modo pionieristico la questione dell’interazione strategica tra imprese operanti in un contesto oligopolistico. Tuttavia l’originalità delle sue ricerche sta anche negli strumenti di analisi impiegati, come la teoria dei giochi e il mechanism design, che, sfrondando l’analisi dagli elementi inessenziali, come ha scritto Fausto Panunzi, hanno fatto di Tirole quasi uno scultore che “riesce a dare forma alle idee lavorando per sottrazione”. Read More

16
Ott
2014

Legge di stabilità: quel che ci piace, e quel che ci fa fremere

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati, e in chiave interna soprattutto alle imprese italiane. E’ una sfida che in parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del DEF. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato ieri da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’è. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla. In più, la legge di stabilità ha una buona scelta di fondo – sull’IRAP – condita da una debolezza strutturale sulla spesa, e da alcuni seri aggravi d’imposta proprio sba-glia-ti.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale effetto della perdurante recessione italiana, che è diverso da quello europeo. (Chi volesse approfondire, trova qui la miglior spiegazione, alle pagg 12-20 e Allegato 1 dell’audizione parlamentare del neocostituito Ufficio Parlamentare di Bilancio sulla Nota di Aggiornamento del DEF).  Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sarà superiore al 3% (come si desume dai dati ISTAT rilasciati ieri sul primo semestre, il deficit viaggia verso il 4% del Pil) , ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure, non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro, nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit incisive al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti a dire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra. In questo, la linea deficista in Italia non si può definire “di sinistra”: la condividono e invocano tutti.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente IRAP che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Va riconosciuto che l’abbattimento integrale della componente-lavoro dell’IRAP è una scelta pro-crescita senza precedenti, con l’eccezione della diminuzione di 7,5 mld di cuneo fiscale da parte di Prodi nel 2007 (allora per il 60% a imprese e per il 40% a lavoratori). La sinistra si è inventata l’IRAP, in Italia, e alla sinistra tocca pezzo a pezzo rimangiarsela.  Ma se questa scelta è il cuore della scommessa della legge di stabilità, c’è anche un rischio, insieme alla grade occasione. L’abbattimento dell’IRAP aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti ( e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato per tre anni rischia invece il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini: è il prezzo da pagare al fatto che il governo debba tener buoni sinistra Pd e sindacato, convinti di decidere loro al posto delle imprese quali contratti siano preferibili. (Anche Prodi effettuò a sua volta una maxidecontribuzione pro tempo indterminato, e fu flop anche allora. Eppure ogni volta insistono, a voler “pilotare” dall’alto…).

Sul fronte delle entrate i 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale.  Osservazioni in pillole: capisco voler stimolare i consumi, ma la stangata alla previdenza integrativa, con l’aumento dell’aliquota dall’11 al 20% per i fondi complementari e dal 20 al 26% per le casse professionali integrative, vista la voragine dei conti INPS è profondamente sbagliata, oltre che rozzamente travestita da “lotta alla rendita”, giusto per dare un tocco di Piketty alla manovra. Sui 450 milioni di prelievo aggiuntivo dalle fondazioni bancarie non piango, ma è un pizzo di Stato: in cambio del fatto che il governo neanche questa volta obbliga le fondazion a dismettere il controllo bancario, gli estorce mezzo miliardo con la pisto9la sul tavolo. Quanto ai proventi della lotta all’evasione assunti come copertura di spesa ex ante, è una patente violazione di due princìpi: il primo riguarda i criteri della sana e prudente gestione contabile, il secondo riguarda l’impegno – da sempre non  rispettato – di restituire gli incassi da evasione ai contribuenti che di tasse ne pagano troppe, non di utilizzarli a copertura di nuuova spesa.

Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene. Tranne scoprire che, allo stato, l’intervento in favore delle partite Iva in regime “minimi” ha l’aspetto positivo di non avere più la ristretta durata tenmporale triennale e di età del titolare, ma per il resto si traduce in un AUMENTO dell’aliquota attuale dal 5 al 15%, e al posto del tetto di ricavi eguale per tutti a 30muila euro sostituisce la facoltà delo Stato di stabilire lui, attività per attività, quale tetto sia compatibile per il regime di vantaggio fiscale: il range che viene indicato va dai 15 ai 40 mila euro, cosicché di siocuro c’è chi ci perderà rispetto a oggi, sia per l’aliquota più alta, sia per uil tetto di ricavi più basso…

Veniamo alla nebbia su molte poste di spesa da tagliare. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Alle Regioni si chiede nel 2015 cioè in un solo anno un taglio di spesa che equivale al 62% degli aumenti del fondo sanitario nazionale che le Regioni stesse avevano convenuto col governo a luglio, spalmati tra 2014 e 2016. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. Idem dicasi anche per le famose 35 stazioni appaltanti e di acquisto al posto delle 35 mila in cui gli uomini dei partiti fanno malaffare con le imprese che preferiscono lo sgambetto delle relazioni alla concorrenza. Il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce. L’esperienza dei commissari alla spending review si chiude maluinconicamente: destra, tecnici e sinistra li hanno usati per perder tempo. Che errore. Cottarelli proponeva di intervenire sul perimetro dello Stato: meno Comuni (io direi anche meno reguioni), meno partecipate pubbliche, meno centri di spesa. Senza intervenire sul perimetro pubblico ( e sul patrimonio, che resta intatto perché la politica non dismette niente), semplicemente continueremo con sia pur utili interventi a margine di sgravio fiscale, mentre serve una riduzuione drastica. Per dire: l’IRAP che saggiamente si abbatte oggi NON entra nelle statistiche del cuneo fiscale perché è componente tributaria, ergo restiamo cion 30 mld di cuneo in più rispetto alla Germania sia pur abbassando il total tax rate sulle imprese…

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la BCE a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.

13
Ott
2014

I cittadini presi in considerazione sul serio, L’iniziativa di cittadinanzattiva

Fra le mille lacune che contraddistinguono la legislazione italiana quella di non tenere conto della possibilità che cittadini singoli o associati possano contribuire alla realizzazione di attività d’interesse generale in maniera più efficace, efficiente ed economica, anche in alternativa all’intervento pubblico, è forse la più eclatante.
Eppure esiste un’apposita norma della Costituzione Repubblicana, introdotta nel 2001, che al quarto comma dell’articolo 118 così recita: “ Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni, favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
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4
Ott
2014

TFR in busta paga e liberalismo all’amatriciana

Chissà cosa penserebbero oggi John Locke e John Stuart Mill, tra i più illustri padri fondatori della dottrina liberale, nello scoprire che esiste un Paese dove vige il trattamento di fine rapporto (TFR). Un istituto giuridico in virtù del quale una parte della retribuzione del lavoratore, una sua proprietà cioè, gli viene regolarmente sottratta per essere corrisposta solo alla cessazione del rapporto di lavoro in ragione della presunzione che il medesimo lavoratore non sia capace di farne un uso adeguato alle sue necessità e che è meglio che la custodisca qualcun altro in vista di esigenze di vita che il proprietario non può, a causa evidentemente di minorità psichica, opportunamente considerare.
Chissà cosa penserebbero Locke e Mill nello scoprire che le organizzazioni dei lavoratori concordano sulla bontà di questo strumento di retribuzione “differita” e si oppongono a che il lavoratore percepisca subito tutto il corrispettivo del proprio sudore per utilizzarlo come meglio crede. E chissà che faccia farebbero nel sapere che il sindacato tace da diversi decenni sul fatto che la retribuzione “ differita” del lavoratore viene messa a frutto senza il suo consenso dalle imprese che la utilizzano per i loro investimenti e persino dallo Stato professionista della dissipazione.
Locke andrebbe su tutte le furie di sicuro nell’ascoltare i rappresentanti dei datori di lavoro affermare che la retribuzione dei lavoratori rappresenta una fonte di “ autofinanziamento” che non può essere sottratta alla imprese e si chiederebbe, di certo basito, come ci si possa “ autofinanziare” con l’utilizzo di una proprietà altrui. Lui, filosofo britannico fra i primi a riconoscere che il diritto di proprietà è un diritto assoluto al pari del diritto alla vita ed alla libertà.
Mill imprecherebbe come un ossesso nel leggere che milioni di individui adulti e responsabili non sono liberi di scegliere autonomamente come utilizzare la propria retribuzione perché giudicati dallo Stato, dal governo dei sapienti, incapaci di badare a se stessi, bisognosi di un tutore che sappia quando e per quali ragioni “ concedergli” l’utilizzo dei propri denari. Lui, che del paternalismo di Stato fece un bersaglio su cui martellare ininterrottamente in difesa della libertà individuale.
Entrambi i Nostri filosofi si aggirerebbero oggi smarriti fra i numerosi “ liberali all’amatriciana de noatri” che non hanno ancora capito che l’efficienza economica non può essere perseguita a scapito della libertà e della responsabilità individuale. Poi, con un pizzico d’orgoglio misto a tanta costernazione ci ricorderebbero, l’uno che “ …il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso…Non ho infatti alcuna proprietà di ciò che un altro può a buon diritto togliermi quando vuole contro il mio consenso.” ( J.Locke, Trattato sul governo), l’altro che “ Ma nessuna persona, né alcun gruppo di persone, ha titolo per dire a un altro uomo di età matura che per il suo bene non dovrebbe fare della sua vita quello che decide di farne. E’ costui la persona più interessata al proprio benessere: l’interesse che chiunque altro può avere in ciò, se non in casi di forte attaccamento personale, è trascurabile in confronto a quello che egli stesso ha; l’interesse che la società ha nei suoi confronti in quanto individuo è minimo e del tutto indiretto: mentre, per ciò che riguarda i propri sentimenti e le proprie condizioni particolari, l’uomo e la donna più comuni hanno strumenti di conoscenza incommensurabilmente superiori a quelli di chiunque altro.” ( J.S.Mill. Sulla libertà).
@roccotodero

4
Ott
2014

Come valutare i docenti: un esempio su cui riflettere, che in ITA non piace

Uno dei pilastri di una “buona scuola” – l’obiettivo della riforma per la quale è in corso in queste settimane il confronto pubblico e la raccolta di pareri sullo schema presentato dal governo Renzi – è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, e per essere credibile va affidata a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. La riforma del governo promette per le scuole superiori di innestare nuovi criteri INVALSI, di cui siamo in attesa per l’anno prossimo come da recentissima circolare del ministro Giannini, sulla base di un’autovalutazione effettuata istituto per istituto. Collegata a un criterio nuovo, positivo e potenzialmente di svolta, che aumenti di molto la parte retributiva degli insegnanti derivante dalle valutazioni, rispetto a quella dovuta come oggi alla mera anzianità. Ma un punto ancora tutto da chiarire, visto che si è letto negli annunci della riforma che gli aumenti retributivi di merito spetterebbero comunque a tavolino ai due terzi degli insegnanti, il che non depone molto a favore della serietà della valutazione stessa. Oltretutto, una valutazione effettuata per parte prioritaria da parte dei singoli istituti su se stessi, per definizione non è attendibile.

Guardare ai benchmark internazionali significa studiare concretamente i migliori esempi di valutazione praticati altrove. Grazie alla segnalazione di un ascoltatore di radio24, Alessandro Martinello, un economista italiano che insegna in Danimarca e si applica professionalmente alle misure di efficienza dell’economia pubblica, mi sono imbattuto in un esempio che dà l’idea, di che cosa sia un efficace sistema di valutazione. Mi è sembrato tanto efficace che ho chiesto al prof martinelle di esporlo in una puntata su radio24. L’esempio E’ tratto da un recente studio (Incentives, Selection, and Teacher Performance: Evidence from IMPACT, CENTER FOR EDUCATION POLICY ANALYSIS, Stanford University,  Working Paper No. 19529) dedicato alla valutazione scolastica condotto da Thomas Dee, professore a Stanford, e James Wyckoff (University of Virginia). Lo studio tratta di una (molto controversa) riforma scolastica (IMPACT) attuata nel distretto di Washington DC a partire dal 2009, all’epoca uno dei distretti più disastrati d’America in termini di amministrazione e risultati scolastici. IMPACT valuta gli insegnanti combinando in una media ponderata  diversi criteri. Questo sistema risponde direttamente alle critiche che vengono avanzate da più parti, spesso sindacali, quando si parla di misurare il merito, combinando l’attenzione ai risultati con gli aspetti più disparati dell’insegnamento. Tra i più importanti di questi criteri figurano:

–       1)      Individual Value Added. Sostanzialmente, con metodi statistici e test standardizzati, si valuta il cambiamento del rendimento di una classe gestita da un determinato insegnante da un anno all’altro, e non il rendimento della classe in un determinato anno. Questo permette di tener conto, almeno parzialmente, del fatto che certe classi in quartieri disagiati abbiano un livello di partenza inferiore ad altre. Poiché peró anche il progresso di una classe da un anno all’altro può essere influenzato dalla qualitá media degli allievi, non è questo l’unico criterio di valutazione.

–       2)      Teaching and Learning Framework. Questo criterio si fonda su delle valutazioni oggettive (tipicamente 5) svolte da osservatori specializzati che devono attenersi, in uno schema che lascia poco spazio a valutazioni soggettive degli osservatori, alle linee guida stese dall’amministrazione distrettuale. Tra i comportamenti valutati all’interno di questo schema figurano per esempio il controllo costante dell’apprendimento di ogni alunno. Queste valutazioni sono condotte per la maggior parte a sorpresa, talvolta servendosi di registrazioni video.

–       3)      Commitment to School Community. Ovvero il supporto ad iniziative scolastiche, collaborazione con le famiglie, gli studenti o i colleghi etc.

–       4)      Core Professionalism. Questo criterio (dall’importanza limitata) è compilato direttamente dal preside/dirigente scolastico dell’istituto dove lavora l’insegnante. Facoltativamente, il preside può sottrarre fino a un massimo di 40 punti (su 400) a un determinato insegnante sulla base di presenza, puntualità e rispetto dell’istituzione.

COME FUNZIONA. Il sistema attribuisce ad un determinato insegnante un punteggio tra i 100 e i 400 punti. Poiché questo è un sistema oggettivo, non lascia spazio a quei sistemi di valutazione farsa della PA ITA, in cui i dirigenti ottengono sempre il massimo degli obiettivi e tutti sono bravi. La distribuzione dei punteggi è variegata e “ben” distribuita. A seconda del loro punteggio, gli insegnanti vengono assegnati ad una determinata fascia, con i seguenti effetti:

–        meno di 175 punti (circa il 3% degli insegnanti). Sanzione: licenziamento immediato.

 –       tra 175 e 249 punti (10%). Sanzione: in prova, viene concesso un anno di tempo per migliorare il punteggio. Se anche l’anno successivo l’insegnante non raggiunge tale punteggio, viene licenziato.

–       tra 250 e 350 punti (poco meno del 75% degli insegnanti). Nulla accade

 –       più di 350 punti (10-15%). Premio: bonus immediato di 25.000$. Se l’anno successivo l’insegnante si conferma in questa categoria, la sua anzianitá viene aumentata da 3 a 5 anni ed eventualmente promosso a contratto di tipo superiore (il valore attuale di questa promozione può ammontare a 100.000$).

A ciò si aggiunge che i “precari” nel sistema IMPACT sono i presidi e i dirigenti scolastici. I loro contratti sono di fatto annuali, e benché la maggior parte di questi venga rinnovato, il rischio di licenziamento è sempre presente.

Che cosa dimostra l’esperienza del modello IMPACT? Lo studio dimostra che gli insegnanti a rischio di licenziamento o in odore di promozione migliorano il loro punteggio relativamente ai colleghi l’anno successivo, e i risultati degli alunni migliorano. La cosa più interessante di questo studio effettuato dopo 5 anni dall’introduzione di IMPACT è che i risultati si sono visti dopo il secondo anno, quando gli insegnanti impararono a spese dei propri colleghi che la minaccia di licenziamento, inizialmente considerata poco più di una boutade fantascientifica, era effettivamente credibile. Inoltre, lo studio mostra anche come gli insegnanti (giovani) assunti al posto degli ex-colleghi licenziati erano di qualità molto superiore.

Ovviamente la possibilità di licenziare qualcuno nella scuola è fantascienza in Italia. Ma così era anche a Washington DC prima di questa riforma. E strutturando il sistema di valutazione in maniera oggettiva, non lascia spazio alle discrezionalitá tipiche della PA italiana. Un sistema del genere non è solo oggettivo, ma anche equo. La cosa importante da tenere in mente è che invece programmi di valutazione basati su incentivi-disincentivi ad intensità minore (bonus minori, durata del programma limitata del tempo) non hanno mai avuto alcun effetto nel migliorare la qualitá dell’insegnamento. Introdurre un incentivo debole vuol dire semplicemente buttare i soldi dalla finestra. O l’incentivo è forte e le sanzioni sono credibili, o qualsiasi riforma della scuola è peggio di un palliativo, e quindi tanto vale non farla. Questo è quanto insegna la ricerca, e non si capisce perché la si debba ignorare. O meglio: lo si capisce solo se si vorranno assecondare i sindacati, contrari al merito vero.