16
Ott
2014

Legge di stabilità: quel che ci piace, e quel che ci fa fremere

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati, e in chiave interna soprattutto alle imprese italiane. E’ una sfida che in parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del DEF. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato ieri da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’è. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla. In più, la legge di stabilità ha una buona scelta di fondo – sull’IRAP – condita da una debolezza strutturale sulla spesa, e da alcuni seri aggravi d’imposta proprio sba-glia-ti.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale effetto della perdurante recessione italiana, che è diverso da quello europeo. (Chi volesse approfondire, trova qui la miglior spiegazione, alle pagg 12-20 e Allegato 1 dell’audizione parlamentare del neocostituito Ufficio Parlamentare di Bilancio sulla Nota di Aggiornamento del DEF).  Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sarà superiore al 3% (come si desume dai dati ISTAT rilasciati ieri sul primo semestre, il deficit viaggia verso il 4% del Pil) , ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure, non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro, nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit incisive al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti a dire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra. In questo, la linea deficista in Italia non si può definire “di sinistra”: la condividono e invocano tutti.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente IRAP che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Va riconosciuto che l’abbattimento integrale della componente-lavoro dell’IRAP è una scelta pro-crescita senza precedenti, con l’eccezione della diminuzione di 7,5 mld di cuneo fiscale da parte di Prodi nel 2007 (allora per il 60% a imprese e per il 40% a lavoratori). La sinistra si è inventata l’IRAP, in Italia, e alla sinistra tocca pezzo a pezzo rimangiarsela.  Ma se questa scelta è il cuore della scommessa della legge di stabilità, c’è anche un rischio, insieme alla grade occasione. L’abbattimento dell’IRAP aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti ( e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato per tre anni rischia invece il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini: è il prezzo da pagare al fatto che il governo debba tener buoni sinistra Pd e sindacato, convinti di decidere loro al posto delle imprese quali contratti siano preferibili. (Anche Prodi effettuò a sua volta una maxidecontribuzione pro tempo indterminato, e fu flop anche allora. Eppure ogni volta insistono, a voler “pilotare” dall’alto…).

Sul fronte delle entrate i 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale.  Osservazioni in pillole: capisco voler stimolare i consumi, ma la stangata alla previdenza integrativa, con l’aumento dell’aliquota dall’11 al 20% per i fondi complementari e dal 20 al 26% per le casse professionali integrative, vista la voragine dei conti INPS è profondamente sbagliata, oltre che rozzamente travestita da “lotta alla rendita”, giusto per dare un tocco di Piketty alla manovra. Sui 450 milioni di prelievo aggiuntivo dalle fondazioni bancarie non piango, ma è un pizzo di Stato: in cambio del fatto che il governo neanche questa volta obbliga le fondazion a dismettere il controllo bancario, gli estorce mezzo miliardo con la pisto9la sul tavolo. Quanto ai proventi della lotta all’evasione assunti come copertura di spesa ex ante, è una patente violazione di due princìpi: il primo riguarda i criteri della sana e prudente gestione contabile, il secondo riguarda l’impegno – da sempre non  rispettato – di restituire gli incassi da evasione ai contribuenti che di tasse ne pagano troppe, non di utilizzarli a copertura di nuuova spesa.

Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene. Tranne scoprire che, allo stato, l’intervento in favore delle partite Iva in regime “minimi” ha l’aspetto positivo di non avere più la ristretta durata tenmporale triennale e di età del titolare, ma per il resto si traduce in un AUMENTO dell’aliquota attuale dal 5 al 15%, e al posto del tetto di ricavi eguale per tutti a 30muila euro sostituisce la facoltà delo Stato di stabilire lui, attività per attività, quale tetto sia compatibile per il regime di vantaggio fiscale: il range che viene indicato va dai 15 ai 40 mila euro, cosicché di siocuro c’è chi ci perderà rispetto a oggi, sia per l’aliquota più alta, sia per uil tetto di ricavi più basso…

Veniamo alla nebbia su molte poste di spesa da tagliare. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Alle Regioni si chiede nel 2015 cioè in un solo anno un taglio di spesa che equivale al 62% degli aumenti del fondo sanitario nazionale che le Regioni stesse avevano convenuto col governo a luglio, spalmati tra 2014 e 2016. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. Idem dicasi anche per le famose 35 stazioni appaltanti e di acquisto al posto delle 35 mila in cui gli uomini dei partiti fanno malaffare con le imprese che preferiscono lo sgambetto delle relazioni alla concorrenza. Il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce. L’esperienza dei commissari alla spending review si chiude maluinconicamente: destra, tecnici e sinistra li hanno usati per perder tempo. Che errore. Cottarelli proponeva di intervenire sul perimetro dello Stato: meno Comuni (io direi anche meno reguioni), meno partecipate pubbliche, meno centri di spesa. Senza intervenire sul perimetro pubblico ( e sul patrimonio, che resta intatto perché la politica non dismette niente), semplicemente continueremo con sia pur utili interventi a margine di sgravio fiscale, mentre serve una riduzuione drastica. Per dire: l’IRAP che saggiamente si abbatte oggi NON entra nelle statistiche del cuneo fiscale perché è componente tributaria, ergo restiamo cion 30 mld di cuneo in più rispetto alla Germania sia pur abbassando il total tax rate sulle imprese…

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la BCE a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.

13
Ott
2014

I cittadini presi in considerazione sul serio, L’iniziativa di cittadinanzattiva

Fra le mille lacune che contraddistinguono la legislazione italiana quella di non tenere conto della possibilità che cittadini singoli o associati possano contribuire alla realizzazione di attività d’interesse generale in maniera più efficace, efficiente ed economica, anche in alternativa all’intervento pubblico, è forse la più eclatante.
Eppure esiste un’apposita norma della Costituzione Repubblicana, introdotta nel 2001, che al quarto comma dell’articolo 118 così recita: “ Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni, favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
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4
Ott
2014

TFR in busta paga e liberalismo all’amatriciana

Chissà cosa penserebbero oggi John Locke e John Stuart Mill, tra i più illustri padri fondatori della dottrina liberale, nello scoprire che esiste un Paese dove vige il trattamento di fine rapporto (TFR). Un istituto giuridico in virtù del quale una parte della retribuzione del lavoratore, una sua proprietà cioè, gli viene regolarmente sottratta per essere corrisposta solo alla cessazione del rapporto di lavoro in ragione della presunzione che il medesimo lavoratore non sia capace di farne un uso adeguato alle sue necessità e che è meglio che la custodisca qualcun altro in vista di esigenze di vita che il proprietario non può, a causa evidentemente di minorità psichica, opportunamente considerare.
Chissà cosa penserebbero Locke e Mill nello scoprire che le organizzazioni dei lavoratori concordano sulla bontà di questo strumento di retribuzione “differita” e si oppongono a che il lavoratore percepisca subito tutto il corrispettivo del proprio sudore per utilizzarlo come meglio crede. E chissà che faccia farebbero nel sapere che il sindacato tace da diversi decenni sul fatto che la retribuzione “ differita” del lavoratore viene messa a frutto senza il suo consenso dalle imprese che la utilizzano per i loro investimenti e persino dallo Stato professionista della dissipazione.
Locke andrebbe su tutte le furie di sicuro nell’ascoltare i rappresentanti dei datori di lavoro affermare che la retribuzione dei lavoratori rappresenta una fonte di “ autofinanziamento” che non può essere sottratta alla imprese e si chiederebbe, di certo basito, come ci si possa “ autofinanziare” con l’utilizzo di una proprietà altrui. Lui, filosofo britannico fra i primi a riconoscere che il diritto di proprietà è un diritto assoluto al pari del diritto alla vita ed alla libertà.
Mill imprecherebbe come un ossesso nel leggere che milioni di individui adulti e responsabili non sono liberi di scegliere autonomamente come utilizzare la propria retribuzione perché giudicati dallo Stato, dal governo dei sapienti, incapaci di badare a se stessi, bisognosi di un tutore che sappia quando e per quali ragioni “ concedergli” l’utilizzo dei propri denari. Lui, che del paternalismo di Stato fece un bersaglio su cui martellare ininterrottamente in difesa della libertà individuale.
Entrambi i Nostri filosofi si aggirerebbero oggi smarriti fra i numerosi “ liberali all’amatriciana de noatri” che non hanno ancora capito che l’efficienza economica non può essere perseguita a scapito della libertà e della responsabilità individuale. Poi, con un pizzico d’orgoglio misto a tanta costernazione ci ricorderebbero, l’uno che “ …il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso…Non ho infatti alcuna proprietà di ciò che un altro può a buon diritto togliermi quando vuole contro il mio consenso.” ( J.Locke, Trattato sul governo), l’altro che “ Ma nessuna persona, né alcun gruppo di persone, ha titolo per dire a un altro uomo di età matura che per il suo bene non dovrebbe fare della sua vita quello che decide di farne. E’ costui la persona più interessata al proprio benessere: l’interesse che chiunque altro può avere in ciò, se non in casi di forte attaccamento personale, è trascurabile in confronto a quello che egli stesso ha; l’interesse che la società ha nei suoi confronti in quanto individuo è minimo e del tutto indiretto: mentre, per ciò che riguarda i propri sentimenti e le proprie condizioni particolari, l’uomo e la donna più comuni hanno strumenti di conoscenza incommensurabilmente superiori a quelli di chiunque altro.” ( J.S.Mill. Sulla libertà).
@roccotodero

4
Ott
2014

Come valutare i docenti: un esempio su cui riflettere, che in ITA non piace

Uno dei pilastri di una “buona scuola” – l’obiettivo della riforma per la quale è in corso in queste settimane il confronto pubblico e la raccolta di pareri sullo schema presentato dal governo Renzi – è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, e per essere credibile va affidata a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. La riforma del governo promette per le scuole superiori di innestare nuovi criteri INVALSI, di cui siamo in attesa per l’anno prossimo come da recentissima circolare del ministro Giannini, sulla base di un’autovalutazione effettuata istituto per istituto. Collegata a un criterio nuovo, positivo e potenzialmente di svolta, che aumenti di molto la parte retributiva degli insegnanti derivante dalle valutazioni, rispetto a quella dovuta come oggi alla mera anzianità. Ma un punto ancora tutto da chiarire, visto che si è letto negli annunci della riforma che gli aumenti retributivi di merito spetterebbero comunque a tavolino ai due terzi degli insegnanti, il che non depone molto a favore della serietà della valutazione stessa. Oltretutto, una valutazione effettuata per parte prioritaria da parte dei singoli istituti su se stessi, per definizione non è attendibile.

Guardare ai benchmark internazionali significa studiare concretamente i migliori esempi di valutazione praticati altrove. Grazie alla segnalazione di un ascoltatore di radio24, Alessandro Martinello, un economista italiano che insegna in Danimarca e si applica professionalmente alle misure di efficienza dell’economia pubblica, mi sono imbattuto in un esempio che dà l’idea, di che cosa sia un efficace sistema di valutazione. Mi è sembrato tanto efficace che ho chiesto al prof martinelle di esporlo in una puntata su radio24. L’esempio E’ tratto da un recente studio (Incentives, Selection, and Teacher Performance: Evidence from IMPACT, CENTER FOR EDUCATION POLICY ANALYSIS, Stanford University,  Working Paper No. 19529) dedicato alla valutazione scolastica condotto da Thomas Dee, professore a Stanford, e James Wyckoff (University of Virginia). Lo studio tratta di una (molto controversa) riforma scolastica (IMPACT) attuata nel distretto di Washington DC a partire dal 2009, all’epoca uno dei distretti più disastrati d’America in termini di amministrazione e risultati scolastici. IMPACT valuta gli insegnanti combinando in una media ponderata  diversi criteri. Questo sistema risponde direttamente alle critiche che vengono avanzate da più parti, spesso sindacali, quando si parla di misurare il merito, combinando l’attenzione ai risultati con gli aspetti più disparati dell’insegnamento. Tra i più importanti di questi criteri figurano:

–       1)      Individual Value Added. Sostanzialmente, con metodi statistici e test standardizzati, si valuta il cambiamento del rendimento di una classe gestita da un determinato insegnante da un anno all’altro, e non il rendimento della classe in un determinato anno. Questo permette di tener conto, almeno parzialmente, del fatto che certe classi in quartieri disagiati abbiano un livello di partenza inferiore ad altre. Poiché peró anche il progresso di una classe da un anno all’altro può essere influenzato dalla qualitá media degli allievi, non è questo l’unico criterio di valutazione.

–       2)      Teaching and Learning Framework. Questo criterio si fonda su delle valutazioni oggettive (tipicamente 5) svolte da osservatori specializzati che devono attenersi, in uno schema che lascia poco spazio a valutazioni soggettive degli osservatori, alle linee guida stese dall’amministrazione distrettuale. Tra i comportamenti valutati all’interno di questo schema figurano per esempio il controllo costante dell’apprendimento di ogni alunno. Queste valutazioni sono condotte per la maggior parte a sorpresa, talvolta servendosi di registrazioni video.

–       3)      Commitment to School Community. Ovvero il supporto ad iniziative scolastiche, collaborazione con le famiglie, gli studenti o i colleghi etc.

–       4)      Core Professionalism. Questo criterio (dall’importanza limitata) è compilato direttamente dal preside/dirigente scolastico dell’istituto dove lavora l’insegnante. Facoltativamente, il preside può sottrarre fino a un massimo di 40 punti (su 400) a un determinato insegnante sulla base di presenza, puntualità e rispetto dell’istituzione.

COME FUNZIONA. Il sistema attribuisce ad un determinato insegnante un punteggio tra i 100 e i 400 punti. Poiché questo è un sistema oggettivo, non lascia spazio a quei sistemi di valutazione farsa della PA ITA, in cui i dirigenti ottengono sempre il massimo degli obiettivi e tutti sono bravi. La distribuzione dei punteggi è variegata e “ben” distribuita. A seconda del loro punteggio, gli insegnanti vengono assegnati ad una determinata fascia, con i seguenti effetti:

–        meno di 175 punti (circa il 3% degli insegnanti). Sanzione: licenziamento immediato.

 –       tra 175 e 249 punti (10%). Sanzione: in prova, viene concesso un anno di tempo per migliorare il punteggio. Se anche l’anno successivo l’insegnante non raggiunge tale punteggio, viene licenziato.

–       tra 250 e 350 punti (poco meno del 75% degli insegnanti). Nulla accade

 –       più di 350 punti (10-15%). Premio: bonus immediato di 25.000$. Se l’anno successivo l’insegnante si conferma in questa categoria, la sua anzianitá viene aumentata da 3 a 5 anni ed eventualmente promosso a contratto di tipo superiore (il valore attuale di questa promozione può ammontare a 100.000$).

A ciò si aggiunge che i “precari” nel sistema IMPACT sono i presidi e i dirigenti scolastici. I loro contratti sono di fatto annuali, e benché la maggior parte di questi venga rinnovato, il rischio di licenziamento è sempre presente.

Che cosa dimostra l’esperienza del modello IMPACT? Lo studio dimostra che gli insegnanti a rischio di licenziamento o in odore di promozione migliorano il loro punteggio relativamente ai colleghi l’anno successivo, e i risultati degli alunni migliorano. La cosa più interessante di questo studio effettuato dopo 5 anni dall’introduzione di IMPACT è che i risultati si sono visti dopo il secondo anno, quando gli insegnanti impararono a spese dei propri colleghi che la minaccia di licenziamento, inizialmente considerata poco più di una boutade fantascientifica, era effettivamente credibile. Inoltre, lo studio mostra anche come gli insegnanti (giovani) assunti al posto degli ex-colleghi licenziati erano di qualità molto superiore.

Ovviamente la possibilità di licenziare qualcuno nella scuola è fantascienza in Italia. Ma così era anche a Washington DC prima di questa riforma. E strutturando il sistema di valutazione in maniera oggettiva, non lascia spazio alle discrezionalitá tipiche della PA italiana. Un sistema del genere non è solo oggettivo, ma anche equo. La cosa importante da tenere in mente è che invece programmi di valutazione basati su incentivi-disincentivi ad intensità minore (bonus minori, durata del programma limitata del tempo) non hanno mai avuto alcun effetto nel migliorare la qualitá dell’insegnamento. Introdurre un incentivo debole vuol dire semplicemente buttare i soldi dalla finestra. O l’incentivo è forte e le sanzioni sono credibili, o qualsiasi riforma della scuola è peggio di un palliativo, e quindi tanto vale non farla. Questo è quanto insegna la ricerca, e non si capisce perché la si debba ignorare. O meglio: lo si capisce solo se si vorranno assecondare i sindacati, contrari al merito vero.

 

2
Ott
2014

Il valore della salute e il prezzo dei farmaci

In un articolo apparso domenica 7 settembre sulle pagine del Domenicale, il professor Luzzatto ha sostenuto che ciò che manca al settore farmaceutico è la concorrenza. Un libero mercato si reggerebbe sue due caposaldi, la libertà dei prezzi e la concorrenza, e quest’ultima calmiererebbe la prima. Commentando l’altissimo costo negli USA dell’unico farmaco ora in commercio per curare l’epatite C (per il quale il Senato americano sta chiedendo spiegazioni al produttore), Luzzatto conclude che il prezzo dei medicinali non debba più arbitrariamente essere stabilito dal mercato.

Anche ammettendo che il prezzo di mercato, quello che risulta dall’incontro di domanda e offerta, sia arbitrario, quello dei farmaci è tutto fuorché un libero mercato. Questo non perché l’offerta è concentrata, ma perché manca proprio il pilastro della autonoma determinazione del prezzo. Read More

30
Set
2014

Interchange fees: regolare per peggiorare

La Commissione Europea sta cercando di regolamentare i tassi delle commissioni interbancarie, attraverso i quali le banche che emettono carte di credito vengono compensate per i costi e rischi assunti al fine di dare al consumatore questa possibilità. Si tratta della classica pezza peggiore del buco.

Il processo di una transazione a mezzo carta di credito si sviluppa solitamente in un sistema a quattro parti: consumatore, commerciante e corrispondenti banche di riferimento. Quando il consumatore vuole pagare un bene a un commerciante con una carta di credito, il commerciante manda la richiesta (attraverso il POS) alla propria banca. Quest’ultima accerta la possibilità della transazione girando la richiesta alla banca che ha emesso la carta di credito che, verificate le condizioni del proprio cliente, approva la transazione. A questo punto la banca del commerciante comunica l’approvazione al suo cliente (il commerciante), il quale completa lo scambio con il consumatore. A scambio terminato, le banche regolano la transazione ed è proprio in questo momento che la banca emittente la carta di credito sottrae una commissione dal prezzo dovuto alla banca del commerciante.

In Italia, tali commissioni (d’ora in avanti IF: interchange fees) stanno mediamente intorno allo 0,73% per le carte di credito e allo 0,51% per le carte di debito. Sono tassi, questi, piuttosto moderati e in linea con la media europea, risultato di un buon grado di sviluppo del mercato rispetto alla media europea, come mostrano i grafici seguenti tratti da un recente studio di Europe Economics.

Figura 1: numero di carte

numero carte

Figura 2: valore totale delle transazioni a mezzo carte

valore carte

È bene specificare che queste fee sono solo una componente di un’altra commissione, la merchant service charge (d’ora in avanti MSC), che i commercianti pagano alla propria banca al fine di avere il servizio (accettare le carte) da offrire ai propri clienti. Le IF rappresentano comunque buona parte delle MSC. A titolo di esempio, in UK il peso delle IF sta tra il 70 e il 90 per cento delle MSC.

Stando al rapporto di Europe Economics, alla base della proposta della Commissione Europea di intervenire con un regolamento sulle IF, ci sarebbe l’argomento per cui gli operatori che forniscono i circuiti di carte (VISA, MASTERCARD ecc.), nel tentativo di attrarre un maggior numero di banche emittenti, hanno un incentivo ad alzare le IF. Ma se si alzano le IF, si alzano anche le MSC, che alla fine vengono trasferite al consumatore dai commercianti. Poiché in questo modo, secondo la Commissione, non è garantita una concorrenza effettiva nel mercato delle carte di pagamento, vi sarebbero i presupposti per un intervento di regolazione.

Nel report vengono elencati punto per punto le motivazioni della Commissione, seguite da apposita critica. Cercando di riassumere la critica generale dello studio, il problema principale che ne viene fuori è che l’idea della Commissione di regolamentare le IF sia frutto di quel tipo di economisti che Bastiat definirebbe “cattivi economisti”, che tengono conto cioè, solo degli effetti visibili dei provvedimenti e non anche di quelli, pur non meno reali, che sfuggono a un primo sguardo.

È evidente che c’è un incentivo, per gli operatori, ad alzare le IF al fine di accaparrarsi nuovi clienti. Questo equivale a dire che c’è un incentivo per ogni impresa ad aumentare i prezzi per incrementare i profitti. Nulla di nuovo (né di sbagliato). Tuttavia la Commissione non tiene conto delle altre forze in campo che invece producono incentivi opposti, volti ad abbassare prezzi e costi. Tali forze in campo, illustrate nel report, sono ad esempio la convenienza per il commerciante ad avere IF più basse. Non è folle credere che molti commercianti si rifiuteranno di accettare quelle carte che prevedono un livello troppo altro di IF (lo sa bene chi possiede una American Express). Ancora, per un dato livello di MSC, la banca di riferimento del commerciante spingerà per IF più basse, così da potersi tenere una fetta più grande della torta. Infine i consumatori, la cui forza viene spesso sottovalutata, sono gli utilizzatori delle carte a cui compete la scelta su quali tipi utilizzare, e questo è il principale degli incentivi competitivi: la libertà di scelta.

Fortuna vuole che anche l’esperienza possa darci qualche suggerimento in materia. Nel report infatti, vengono presentati i casi di Australia, Spagna e Stati Uniti, già palcoscenici di regolazione di questo tipo. L’evidenza di questi casi ci mostra alcuni effetti comuni a seguito dell’intervento. Le banche hanno visto ridursi i ricavi dalle IF e li hanno recuperati trasferendo parte di questi costi sui consumatori, in termini di commissioni dirette sul possesso di carte di credito. I vantaggi principali sono arrivati per alcune tipologie di commercianti, consentendo un abbassamento delle IF soprattutto per la grande distribuzione, dal momento che il metodo per calcolare le MSC differisce a seconda della dimensione del rivenditore. Non c’è evidenza che questo risparmio per i rivenditori sia diventato risparmio anche per i consumatori. Per questo, il consumatore alla fine risulta danneggiato dalla regolazione: il recupero dei mancati ricavi delle banche ricade su di esso ma ciò non accade, almeno non con la stessa forza e immediatezza, per i minori costi dei commercianti.

Un capitolo dedicato allo scenario più probabile che si manifesterebbe in Italia a seguito della regolamentazione, ci mostra, attraverso un’analisi molto dettagliata, che gli effetti sarebbero gli stessi dei tre casi analizzati sopra. Ecco le cifre:

  • Le banche avrebbero un calo dei ricavi pari a 494 milioni di euro;
  • I commercianti vedranno ridursi le MSC di circa 445 milioni di euro. In gran parte, se non tutti, questi risparmi saranno catturati dalla grande distribuzione;
  • I consumatori pagheranno 494 milioni di euro in più di commissioni bancarie, senza vedere alcuna riduzione dei prezzi dei beni al consumo.

Concludendo, a seguito dell’aumento dei costi per i consumatori e della riduzione dei ricavi per le banche emittenti, il mercato dei pagamenti elettronici ne uscirebbe indebolito. Da qui la probabile riduzione del loro utilizzo, dovuta alla minor convenienza, alla faccia della retorica politica sulla promozione dei pagamenti tracciabili come efficace strumento di contrasto all’evasione. In più, è ben possibile che il peggioramento delle condizioni competitive porti con sé minori incentivi a innovare per le banche emittenti. Con il solito risultato: consumatori che stanno peggio.

 

Twitter: @paolobelardinel

 

 

 

29
Set
2014

Le parole oltre i numeri: brevi riflessioni sulla relazione del Commissario alla spending review—di Gemma Mantovani

Del “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali” ovvero della relazione predisposta dal gruppo coordinato dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli del 7.8.2014 forse non hanno colpito tanto e solo i numeri: credo piuttosto abbiano fatto tanta paura le parole.
Il documento è sintetico. Molte tabelle, numeri, appunto. Uno lo riporto: le partecipate in Italia sono circa 10.000, nella “statalista” Francia circa 1000!
Mi soffermo su alcuni concetti espressi:
1) “circoscrivere il perimetro” delle partecipate: dare attuazione piena alla finanziaria 2008 ossia l’ente pubblico deve evitare di produrre beni e servizi che il settore privato può offrire;
2) trasparenza e opinione pubblica: trasparenza sulle partecipate vuol dire maggior pressione da parte dell’opinione pubblica e quindi maggiore efficienza. Si propone la messa a disposizione al pubblico di indicatori di efficienza e strumenti di business intelligence. I cittadini devono essere in grado di valutare la maggiore o minore economicità ed efficienza gestionale che deriverebbe dal togliere dalla mano pubblica la gestione/offerta di un bene o servizio. Read More

28
Set
2014

L’art.18 ed il silenzio cerchiobottista dei costituzionalisti

Nel dibattito delle ultime settimane sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori e sulla eventuale eliminazione dell’istituto della reintegra del dipendente licenziato mi è sembrato di notare una mancanza di riferimenti alle indicazioni che si potrebbero trarre dalla Carta costituzionale per sbrogliare un’intricata matassa dalla quale l’opinione pubblica e persino i principali attori della controversia (decisori politici, sindacati ed organizzazione dei datori di lavoro) fanno fatica a districare il bandolo.

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