Legge di stabilità: quel che ci piace, e quel che ci fa fremere
La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati, e in chiave interna soprattutto alle imprese italiane. E’ una sfida che in parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del DEF. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato ieri da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’è. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla. In più, la legge di stabilità ha una buona scelta di fondo – sull’IRAP – condita da una debolezza strutturale sulla spesa, e da alcuni seri aggravi d’imposta proprio sba-glia-ti.
Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale effetto della perdurante recessione italiana, che è diverso da quello europeo. (Chi volesse approfondire, trova qui la miglior spiegazione, alle pagg 12-20 e Allegato 1 dell’audizione parlamentare del neocostituito Ufficio Parlamentare di Bilancio sulla Nota di Aggiornamento del DEF). Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sarà superiore al 3% (come si desume dai dati ISTAT rilasciati ieri sul primo semestre, il deficit viaggia verso il 4% del Pil) , ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure, non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro, nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit incisive al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti a dire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra. In questo, la linea deficista in Italia non si può definire “di sinistra”: la condividono e invocano tutti.
La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente IRAP che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Va riconosciuto che l’abbattimento integrale della componente-lavoro dell’IRAP è una scelta pro-crescita senza precedenti, con l’eccezione della diminuzione di 7,5 mld di cuneo fiscale da parte di Prodi nel 2007 (allora per il 60% a imprese e per il 40% a lavoratori). La sinistra si è inventata l’IRAP, in Italia, e alla sinistra tocca pezzo a pezzo rimangiarsela. Ma se questa scelta è il cuore della scommessa della legge di stabilità, c’è anche un rischio, insieme alla grade occasione. L’abbattimento dell’IRAP aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti ( e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato per tre anni rischia invece il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini: è il prezzo da pagare al fatto che il governo debba tener buoni sinistra Pd e sindacato, convinti di decidere loro al posto delle imprese quali contratti siano preferibili. (Anche Prodi effettuò a sua volta una maxidecontribuzione pro tempo indterminato, e fu flop anche allora. Eppure ogni volta insistono, a voler “pilotare” dall’alto…).
Sul fronte delle entrate i 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale. Osservazioni in pillole: capisco voler stimolare i consumi, ma la stangata alla previdenza integrativa, con l’aumento dell’aliquota dall’11 al 20% per i fondi complementari e dal 20 al 26% per le casse professionali integrative, vista la voragine dei conti INPS è profondamente sbagliata, oltre che rozzamente travestita da “lotta alla rendita”, giusto per dare un tocco di Piketty alla manovra. Sui 450 milioni di prelievo aggiuntivo dalle fondazioni bancarie non piango, ma è un pizzo di Stato: in cambio del fatto che il governo neanche questa volta obbliga le fondazion a dismettere il controllo bancario, gli estorce mezzo miliardo con la pisto9la sul tavolo. Quanto ai proventi della lotta all’evasione assunti come copertura di spesa ex ante, è una patente violazione di due princìpi: il primo riguarda i criteri della sana e prudente gestione contabile, il secondo riguarda l’impegno – da sempre non rispettato – di restituire gli incassi da evasione ai contribuenti che di tasse ne pagano troppe, non di utilizzarli a copertura di nuuova spesa.
Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene. Tranne scoprire che, allo stato, l’intervento in favore delle partite Iva in regime “minimi” ha l’aspetto positivo di non avere più la ristretta durata tenmporale triennale e di età del titolare, ma per il resto si traduce in un AUMENTO dell’aliquota attuale dal 5 al 15%, e al posto del tetto di ricavi eguale per tutti a 30muila euro sostituisce la facoltà delo Stato di stabilire lui, attività per attività, quale tetto sia compatibile per il regime di vantaggio fiscale: il range che viene indicato va dai 15 ai 40 mila euro, cosicché di siocuro c’è chi ci perderà rispetto a oggi, sia per l’aliquota più alta, sia per uil tetto di ricavi più basso…
Veniamo alla nebbia su molte poste di spesa da tagliare. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Alle Regioni si chiede nel 2015 cioè in un solo anno un taglio di spesa che equivale al 62% degli aumenti del fondo sanitario nazionale che le Regioni stesse avevano convenuto col governo a luglio, spalmati tra 2014 e 2016. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. Idem dicasi anche per le famose 35 stazioni appaltanti e di acquisto al posto delle 35 mila in cui gli uomini dei partiti fanno malaffare con le imprese che preferiscono lo sgambetto delle relazioni alla concorrenza. Il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce. L’esperienza dei commissari alla spending review si chiude maluinconicamente: destra, tecnici e sinistra li hanno usati per perder tempo. Che errore. Cottarelli proponeva di intervenire sul perimetro dello Stato: meno Comuni (io direi anche meno reguioni), meno partecipate pubbliche, meno centri di spesa. Senza intervenire sul perimetro pubblico ( e sul patrimonio, che resta intatto perché la politica non dismette niente), semplicemente continueremo con sia pur utili interventi a margine di sgravio fiscale, mentre serve una riduzuione drastica. Per dire: l’IRAP che saggiamente si abbatte oggi NON entra nelle statistiche del cuneo fiscale perché è componente tributaria, ergo restiamo cion 30 mld di cuneo in più rispetto alla Germania sia pur abbassando il total tax rate sulle imprese…
I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la BCE a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.