24
Ott
2014

Bloccate la finta riforma dei vitalizi nelle 9 Regioni prossime al voto, si regalano 300 milioni

L’inchiesta che il Mattino e Marco Esposito hanno condotto negli ultimi tre giorni porta a una conclusione semplice e obbligata. Va fermata la risibile autoriforma dei vitalizi che i nove Consigli delle Regioni in cui si vota tra novembre e primavera vogliono varare, approfittando del fatto che gli eletti ancora in carica possono autopreservarsi, e decidere a che età e quanto incassare. I consiglieri regionali della Campania, Calabria, Marche, Emilia Romagna, Puglia, Liguria, Toscana, Umbria e Veneto, dovrebbero avvertirlo come un preciso dovere imposto dall’equità: nessun consigliere regionale dovrebbe aver più diritto a un trattamento previdenziale diverso da quello di tutti i normali cittadini. In un Paese che nel 2013 ha speso in vitalizi a ex parlamentari e consiglieri regionali una cifra pari a 12 volte quella spesa dal programma spaziale dall’india per andare su Marte, ripetiamole allora, le ragioni per le quali è sacrosanto che i cittadini sui piazzino con cartelli e megafoni sotto i palazzi di quei 9 Consigli Regionali.

Primo: non è accettabile che i consiglieri uscenti possano riscuotere i loro assegni a 60 anni, come ancora questa sedicente autoriforma consentirebbe con soli 10 anni di versamenti, mentre invece ai cittadini comuni la pensione in questo 2014 è negata prima dei 66 anni, e ogni anno a venire scatterà per noi tutti un innalzamento automatico del requisito collegato all’aumento della vita media. Lo stesso deve valere per i signori politici.

Secondo: è scandaloso che i signori politici versino aliquote contributive che vanno dal 17% della Toscana al 22% della Campania al 30% del Veneto, ma non sul lordo ricevuto bensì sul netto, sottratta la tassazione Irpef. Noi normali cittadini paghiamo in contributi previdenziali il 33% , ma sull’intero reddito lordo. Lo stesso deve valere per i signori politici.

Terzo: la somma dei due precedenti privilegi innalza a multipli intollerabili la sproporzione tra i contributi realmente e personalmente versati durante gli anni di consiliatura da ognuno dei 460 consiglieri uscenti in questione, e ciò che realmente incasseranno mese per mese, e ci auguriamo per i molti annui a venire, terminata la loro esperienza elettiva. I conti li ha fatti il Mattino nei giorni scorsi, adottando come moltiplicatore pluriennale l’aspettativa di vita attuale. Il trattamento a cui darebbe diritto l’autoriforma concordata dai 9 presidenti dei Consigli regionali vedrebbe gli ex consiglieri umbri incassare una somma pari a 7 volte e mezza i contributi versati, 6 volte e mezza in Puglia, 5 volte in Calabria, 3 volte e mezza in Campania, 3 volte in Liguria, Toscana, Emilia Romagna e Marche. Il sovraccosto dei vitalizi dei 460 consiglieri uscenti sarebbe superiore ai 300 milioni. Senza contare la reversibilità, e aggiungendosi ai trattamenti degli oltre 3 milia vitalizi già in pagamento agli ex consiglieri regionali attuali.

Non può reggere, la giustificazione addotta dal presidente della conferenza dei presidenti delle assemblee regionali, che cioè comunque questa autoriforma dà un taglio ai regimi precedenti. La riduzione è inferiore al 20%: ma passare da privilegi di un sardanapalo a quelli di un satrapo resta comunque inaccettabile.

I signori politici dovrebbero capire una cosa elementare. Il criterio dell’equità che deve valere per tutti è quello contributivo. Tutti i cittadini normali, con meno di 18 anni di contributi dopo la riforma Dini del 1995, si vedono corrispondere una pensione data dal montante dei loro versamenti, moltiplicata per un coefficiente che tiene conto della crescita intercorsa del Pil, corrette per l’innalzamento della vita media attesa. Pensare che esistano ragioni per cui ai politici si applicano regole diverse significa continuare a credere che siccome sono loro a decidere per sé, ergo sono sottratti alle regole generali. Come un tempo lo era il monarca assoluto.

Sarebbe stato due volte apprezzabile se, all’incontro avvenuto ieri tra governo e regioni in vista dei tagli previsti nella legge di stabilità, il tema dei tagli ai vitalizzi fosse convenuto da entrambe le parti come una dimostrazione di responsabilità e consapevolezza, da dare ai cittadini spremuti. Non è accaduto, e finora dai 9 Consigli regionali non sono venute se non precisazioni di dettaglio. Nessuno se la sente, di rinunciare ai privilegi. E tutti confidano nella disattenzione generale. Ma i media esistono per dare alla gente elementi per capire. E anche per urlare, quando la giustizia e l’equità restano così palesemente violate e calpestate. Quei trecento milioni di regali saranno gli italiani a pagarli, in aggiunta a tutto il resto che già pagano, e che li rende stremati.

 

24
Ott
2014

Una legge di stabilità da manuale. Se non fossimo in Italia—di Nicola Rossi

Notoriamente l’Italia è un’economia in buona misura autosufficiente (il peso dei rapporti con l’estero non è nullo ma certo non è particolarmente rilevante) che soffre però da qualche tempo di un temporaneo significativo sottoutilizzo della capacità produttiva, evidente nei livelli di disoccupazione. Per fortuna, le condizioni della finanza pubblica non destano preoccupazione. E non solo nei flussi. Il livello di capitale pubblico – la dotazione infrastrutturale – è adeguato in tutto il paese ed il livello e le tendenze del debito pubblico non pongono problemi di sostenibilità. Read More

23
Ott
2014

Civiltà Giuridica: l’intervento sull’IRAP e l’inarrestabile retroattività delle norme tributarie—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Da più parti a torto o a ragione – si dice che uno dei problemi italiani è la carenza o se volete la perdita – di civiltà giuridica.

Ma come? verrebbe da domandarsi; siamo il paese in cui è nato il diritto! ed in effetti pur non esistendo un luogo sacrodel quale possa dirsi che lì e solo lì sia nato il diritto, una sorta di collina della Pnice, la recriminazione ha fondamento.

Ci sono tanti esempi che dimostrano la trasformazione del legislatore domestico e la sua incessante capacità di allontanarsi, talvolta con bramosia e spasmodica caparbietà, dai principi fondamentali della civiltà giuridica. Come quello relativo al fatto che la legge dispone per il futuro. Read More

21
Ott
2014

Trasporto locale: si può (e si deve) spendere meno

Non l’hanno presa bene: per molti governatori i tagli ai trasferimenti alle Regioni previsti dalla manovra sarebbero “inaccettabili”. Ma è davvero così? Oppure, come sostiene il presidente del Consiglio, esistono ampi margini per la riduzione delle spese. Analizziamo il caso del trasporto pubblico locale che rappresenta la seconda voce di costo dopo la sanità.
È possibile spendere meno oppure ciò significherebbe tagliare in misura inaccettabile i servizi?

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20
Ott
2014

Risposta all’ultimo Paul Krugman: coi miei soldi, no grazie!

Ci penserà la signora Le Pen a seppellire le illusioni europee? E’ la tesi sostenuta dall’ultima provocazione di Paul Krugman. Come spesso gli capita, l’amore per la battuta giornalistica effetto fa premio sul rigore di quel che Krugman è nella vita. O forse era. Un fior di economista, che ha vinto il Nobel dell’Economia nel 2008, e raramente la scelta è stata più singolare: inconsapevolmente, era come se l’attribuzione del premio indicasse la via preferita dall’accademia per uscire dalla crisi Lehman, e tutto quel che ne è seguito fino ad oggi.

Chi votò per lui non poteva sapere, con quanta casuale lungimiranza la scelta fosse azzeccata: perché Krugman è attualmente l’economista al mondo che ha forse più di tutti tre caratteristiche insieme. E’ colui che da molti anni ha più sviluppato un sesto acuminato per accrescere il proprio impatto sul dibattito pubblico, non solo negli Usa ma nel mondo intero, con i suoi due editoriali alla settimana sul New York Times da 14 anni, e nel quindicennio precedente collaborando a un’infinità di riviste ad alta tiratura. E’ un economista che “piace” e ama piacere, perché è politicamente impegnatissimo, a sinistra del partito democratico americano, e se mi sui passa la battuta quanto a politiche economiche a sinistra di quasi tutto nel mondo occidentale attuale. Infine, come molti di coloro divenuti col successo amati “a prescindere”, è molto abile nel far dimenticare sotto gli applausi le sue contraddizioni. Mica secondarie: negli anni di Bush padre era ferocemente ostile ai deficit di bilancio, ora da anni inneggia a loro favore. Ha scritto molte volte a favore del protezionismo doganale, tranne poi predicare che è meglio la svalutazione monetaria. E via continuando. Ama la provocazione, meno le critiche.

La sua ultima zampata è l’ennesima che riguarda l’euro. Di cui era tenace nemico dall’inizio, e va riconosciuto: con buoni argomenti, diffidava della volontà europea di fare davvero le riforme necessarie per aprire i mercati e renderli vasi comunicanti per equilibrare spontaneamente differenziali tanto alti di costi e produttività. Su questo, l’ho sempre pensata allo stesso modo: ci sono le testimonianze a partire dal 1996 quando ero a Liberal.  Tuttavia poi Krugman è diventato difensore storico della Grecia mentitrice per 17 punti di Pil sul suo deficit pubblico, acerrimo critico della Germania e di tutti coloro che osano sostenere che l’eurocrisi è figlia anche e soprattutto dell’eccesso di debito pubblico e di presenza statale nell’economia manifestata innanzitutto attraverso una vera e propria spoliazione fiscale. E ora Krugman spara contro Draghi. E contro coloro che si illudono di poter evitare una nuova esplosione del rischio del debito sovrano dei paesi eurodeboli, attraverso le aste TLTRO e l’acquisto da parte della BCE di ABS e covered bonds. Anche su questo, si può essere d’accordo. Ma non, per quello che mi riguarda, col suo appello: ribellatevi ai tedeschi cari governi europei, e imponete alla BCE di svalutare a picco l’euro, altrimenti ci penserà madame Le Pen e seppellire le vostre speranze malriposte. Questo dice Krugman.

Con tale analisi, Krugman incarna il fenotipo di successo dell’economista di sinistra contrario al rigore. Quelli che sostengono che il debito pubblico è un non problema, le tasse alte una soluzione, insieme a stampare moneta col torchio della banca centrale, svalutando il più possibile il cambio e puntando al massimo di inflazione possibile. In Italia sono la maggioranza, ormai,  a pensarla così. Non a caso Krugman qui da noi è il nume di coloro che vogliono il referendum antieuro, il pontefice massimo di coloro che con l’eponimo Piketty invocanola patrimoniale dimenticando che in Italia c’è già, sul mattone, sul risparmio e ora anche sugli accantonamenti previdenziali. Quelli che dimenticano che le crescite tumultose di grandi blocchi economici – dall’Impero britannico agli Usa – nella storia sono sempre avvenute con monete stabili e forti, e hanno iniziato a declinare quando la moneta ha preso a svalutare, e quando l’inflazione ha preso a salire. Perché la moneta debole indebolisce chi ha meno reddito, e la svalutazione alta è una tassa occulta sui poveri. Esattamente quei poveri che a chiacchiere i deficisti, gli svalutazionisti e gli inflazionisti sostengono di avere a cuore.

Con le loro proposte, sono i più poveri e i più deboli a prenderla in saccoccia. Mentre a guadagnare, con la svalutazione e l’inflazione, sono solo i più indebitati: cioè gli Stati, le banche e le grande imprese. Esattamente i tre soggetti dei quali gli economisti iper keynesiani da sempre ambiscono essere consulenti e irpiratori (non dimenticate che anche il Nobel Krugman lavorava per Enron, fu il New York Times a costringerlo ad andarsene..). Come avrete capito, chi qui scrive non è d’accordo con Krugman, e nel dirlo si espone al più classico degli inviti: zitto tu, come puoi pensare di criticare un Nobel. Ma qui non parliamo di mopdelli econometrici, bensì di opinioni e scelte generali su moneta e politica.

La dico tutta: in Francia oggi e domani può benissimo vincere madame Le Pen, visti gli errori epocali del socialista Hollande, e prima di lui del moderato Sarkozy. Come in Germania sta crescendo a doppia cifra il fronte antilatino di AfD, e da noi il fronte antieuro avanza, va dalla Lega alla maggioranza di Forza Italia a pezzi del Pd fino a SEL. Che cosa succederà, in caso di vittoria di Le Pen e di altri anti euro? Semplice. L’euro si restringerà rispetto agli attuali 18 membri, non senza passare per una crisi devastante sui mercati se non si riuscirà prima a contrattare clausole di exit in grado di contenere le inevitabili ondate speculative, e il rischio di default argentini a ripetizione. Ma a quel punto chi resterà nell’euro sarà più forte.  E chi ne uscirà avrà Stato forte espropriatore e poveri più poveri. Un’Italia con più Stato e ancor meno produttività, drogata da svalutazione e inflazione NON mi interessa proprio,.

Piacerà a Krugman e a tutti i numi tutelari della sinistra e della destra populista e statalista, questa prospettiva di cui sarebbero artefici e consulenti. A me, come povero contribuente italiano, non piace proprio. Cambiare le regole europee sì, giocare al tanto peggio tanto meglio coi paradossi no grazie. Fatelo a piacere coi vostri studenti e lettori. Ma non con i miei soldi.

20
Ott
2014

L’alluvione di Genova ed i cambiamenti climatici: proteggere il clima o proteggersi dal clima?

Come sempre accade in presenza di un “evento estremo”, anche nel caso dell’alluvione di Genova molti politici e commentatori non hanno resistito alla tentazione di tirare in causa l’effetto serra.
A sproposito: vediamo perché.
Prima domanda: una precipitazione intensa come quella che si è verificata nel capoluogo ligure la scorsa settimana sarebbe potuta accadere cinquanta o cento anni fa, prima che l’uomo iniziasse ad emettere anidride carbonica in atmosfera? Sì.
Come racconta Jacopo Giliberto, l’eventualità che potesse verificarsi una precipitazione d’intensità paragonabile a quella degli scorsi giorni era stata prevista nel lontano 1907 dall’ingegner Cannovale del Comune di Genova: se per costruire la copertura del Bisagno fossero stati seguiti i calcoli di Cannovale, il torrente sarebbe in sicurezza da un secolo e la città non ripetutamente sommersa da acqua e fango.
Seconda domanda: se una precipitazone intensa sarebbe potuta accadere già cento anni fa o nei secoli passati, non è però aumentata a causa del riscaldamento globale la frequenza dei fenomeni estremi?
In questo caso la risposta è, forse sorpendentemente per molti, negativa. Con riferimento alla situazione italiana, ad esempio, si legge in un recente documento a cura della Provincia di Torino e della Società Metereologica Subalpina (“Cambiamenti climatici e governo del territorio“) che: “le precipitazioni intense per ora non sono in aumento. Sebbene molti modelli climatici prevedano un futuro aumento dei casi di precipitazione intensa, potenzialmente responsabili di dissesti idrogeologici sul territorio, al momento in Provincia di Torino questa tendenza non sembra essere ancora evidente”.

precipitazioni_intense_TO

Il caso piemontese non costituisce peraltro un’eccezione ma, semmai, la regola a livello mondiale. Di seguito riportiamo alcuni estratti dall’ultimo rapporto IPCC sullo stato del clima:

“Current datasets indicate no significant observed trends in global tropical cyclone frequency over the past century … No robust trends in annual numbers of tropical storms, hurricanes and major hurricanes counts have been identified over the past 100 years in the North Atlantic basin”
“In summary, there continues to be a lack of evidence and thus low confidence regarding the sign of trend in the magnitude and/or frequency of floods on a global scale”
“In summary, there is low confidence in observed trends in small-scale severe weather phenomena such as hail and thunderstorms because of historical data inhomogeneities and inadequacies in monitoring systems”
“In summary, confidence in large scale changes in the intensity of extreme extratropical cyclones since 1900 is low”.

Peraltro, se fino ad oggi non vi sono elementi sufficienti per affermare l’aumento della frequenza dei fenomeni estremi, vi è chiara evidenza di come, grazie al miglioramento della capacità di prevedere l’evoluzione delle condizioni meteorologiche nel breve termine, alla disponibilità di strutture maggiormente in grado di resistere a fenomeni particolarmente violenti ed alla possibilità di evacuare in tempi rapidi – abitualmente grazie alla propria auto – dalle zone che si prevede saranno colpite da calamità naturali, il numero complessivo di persone vittime di tali fenomeni si è ridotto radicalmente negli ultimi decenni e, considerata l’aumento della popolazione, ancor più è diminuito il rischio individuale: negli ultimi anni hanno perso la vita a causa di un evento climatico estremo all’incirca tre persone su un milione a fronte di più di cento nella prima metà del secolo.

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Sono in aumento in valore assoluto i danni economici; tale evoluzione è però esclusivamente da addebitarsi al maggior valore delle proprietà di cui disponiamo oltre che ad una maggiore concentrazione della popolazione nelle aree costiere. Tra il 1990 ed il 2012 l’ammontare complessivo dei danni rapportato alla ricchezza prodotta ha mostrato comunque un trend in riduzione, assestandosi nell’ultimo anno analizzato a circa lo 0,2% del PIL mondiale.

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Da non dimenticare poi il fatto che negli ultimi trent’anni, in presenza di una forte crescita delle emissioni e di un riscaldamento del pianeta di poco superiore a 0,5 °C, si è verificato un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità: la percentuale di persone che vivono in condizione di povertà assoluta dal 52% (1980) al 21% (2010).

Dovremmo quindi ignorare del tutto il problema del riscaldamento del pianeta? No, affatto. Sebbene fino ad oggi e verosimilmente ancora per molti decenni i benefici del riscaldamento saranno superiori ai costi, nel lungo periodo il bilancio verosimilmente cambierà di segno e gli impatti negativi saranno più rilevanti di quelli positivi.
Non dovremmo però porre in atto politiche con ricadute quasi irrilevanti in termini di riduzione delle emissioni ma che comportano costi significativi.
Ad esempio, nel caso italiano, ogni anno i sussidi alle rinnovabili ammontano a circa 12 miliardi di euro, all’incirca lo 0,8% del PIL. I benefici in termini di mitigazione delle emissioni di tali misure sono del tutto irrilevanti. Se, per ipotesi, la stessa cifra fosse destinata ad interventi di sistemazione del territorio, le ricadute in termini di riduzione dei danni di eventi estremi sarebbe senza dubbio maggiore.
Per tornare al caso di Genova: è molto più efficace realizzare opere che consentano alle acque di defluire regolarmente che non influire in misura del tutto marginale sulla frequenza delle precipitazioni più intense.

@ramella_f

20
Ott
2014

Gli autografi di Marino, le reprimende di Alfano e l’ira della CEI.

Non sappiamo se dietro la registrazione presso l’Ufficio dello stato civile di Roma di ben 16 unioni fra persone dello stesso sesso contratte in Paesi stranieri vi sia da parte del Sindaco di Roma, Ignazio Marino, la sincera adesione alle esigenze di chi da anni oramai reclama il “riconoscimento” delle unioni civili o, più cinicamente, il desiderio di rilanciare un’immagine politica che, stando ai commenti più numerosi ed alle impressioni che si possono trarre dai colloqui con i cittadini dell’Urbe, sembrerebbe al minimo storico del gradimento. Trattandosi di politici non si può mai sapere; a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, soleva ripetere la buonanima di Andreotti.
Né possiamo immaginare cosa spinga in realtà il Ministro dell’Interno Angelino Alfano ad ironizzare ferocemente sull’iniziativa di Marino e di altri sindaci italiani che si sarebbero limitati, secondo lui, ad apporre dei semplici autografi privi di valore giuridico sui riconoscimenti delle unioni civili. Autografi pronti ad essere annullati d’imperio dal Prefetto su ordine del Ministro o, perché no, dal Ministro medesimo in prima persona. Ad essere maliziosi si potrebbe pensare al desiderio di Alfano di assumere le vesti di difensore del conservatorismo nazional-popolare o della dottrina della Chiesa, ad essere ironici si potrebbe ipotizzare il desiderio di “ damnatio memoriae” dell’esperienza del Ministro nella Casa e nel Popolo delle “ libertà”, non fosse mai che qualcuno in occasione dei “ ludi democratici” prossimi venturi ne riesumasse le gesta di pericoloso liberale e liberista.
Sappiamo di certo, invece, che la Chiesa cattolica in Italia fa da sempre il Suo mestiere, quello di reclamare l’aiuto della forza connaturata alle leggi statali per agevolare un’evangelizzazione nazionale che le Sue risorse interne da sole non riescono a garantire. Conseguentemente sembrerebbe che la dottrina sociale della Chiesa, amorevolmente spiegata in questa occasione dall’ “ira della Cei” ( Conferenza Episcopale Italiana, titolo del corriere.it del 17 ottobre), preferisca leggi che vietano, impongono e prescrivono a tutti cosa fare e cosa non fare, piuttosto che uomini e donne che liberalmente scelgono ed aderiscono a questo invece che a quello stile di vita.
Brutto mestiere deve essere allora, in questo contesto, quello dei Giudici della Corte Costituzionale le cui sentenze non se le “fila” nessuno quando riguardano le tutele e le garanzie di ogni singolo uomo e cittadino e quando ammoniscono il legislatore che è Suo il compito di assicurare che i diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione valgono per tutti, coppie omosessuali comprese.
Per ben due volte, infatti, negli ultimi quattro anni la Corte Costituzionale ha spiegato (sentenze n. 138/2010 e 170/2014) che quello ad essere riconosciuti come coppie civili omosessuali è un diritto fondamentale che rientra senza alcun dubbio all’interno dell’alveo dell’articolo 2 della Costituzione che, è bene ricordarlo, impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo.
La Corte ha precisato che “ Nella nozione di formazione sociale – nel quadro della quale l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Tuttavia la Corte costituzionale ha ritenuto che l’equiparazione fra unioni civili e matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia una soluzione imposta dalla Carta costituzionale e ciononostante non è nemmeno vietata, cosicché spetta al legislatore stabilire le modalità attraverso le quali disciplinare il riconoscimento delle prime. Di certo vi è che il Parlamento ben potrebbe equipararle del tutto ai matrimoni tradizionali ma non potrebbe negarne mai il riconoscimento.
Come potrebbe del resto un Parlamento che legifera all’interno di un ordinamento liberale, personalista e pluralista negare ad una coppia omosessuale il semplice “ riconoscimento”? L’essere considerati, cioè, quello che si vuole essere, una coppia stabilmente unita in un legame affettivo e giuridico?
Perché mai questo “riconoscimento” dovrebbe essere negato? Chissà cosa penserebbe Alfano se non fosse riconosciuto per quello che è! Niente strette di mano da amici e conoscenti, niente saluto militare da poliziotti e carabinieri, niente “ Sua Eccelleza, sig. Ministro” da burocrati e questuanti. Sarebbe “ uno, nessuno e centomila” alla stesso tempo.
Cosa accadrebbe ad un Vescovo se qualcuno gli dicesse: ciao Paolino Rossi invece che “ Buon giorno Eccellenza” lo possiamo intuire senza soverchi sforzi d’immaginazione.
Paragoni impropri si potrebbe obiettare. Niente affatto sarebbe la replica immediata. L’identità personale è composta oltre che dal nome, dall’immagine che ciascuno da di sé e quindi anche dalle relazioni umane più intime che ognuno identifica con la propria famiglia.
Quale sarebbe poi l’interesse personale di ciascuno di noi, singolarmente considerato e quale membro di una eventuale maggioranza deliberante, a disconoscere la volontà di due persone che vogliono essere considerate unite moralmente e giuridicamente? Quale conseguenza negativa ricadrebbe su ciascuno di noi se due persone dello stesso sesso libere, mature e responsabili depositassero presso l’ufficio dello stato civile un contratto dal quale risulterebbero i diritti e gli obblighi “familiari” cui reciprocamente si sono vincolati?
Il filosofo del diritto Bruno Leoni, al cui insegnamento questo blog si ispira, interpretando splendidamente il senso più profondo del costituzionalismo moderno quale limite al potere delle maggioranze deliberanti, riteneva che in alcuni casi “ Non ci potrebbe essere una volontà comune …a meno che non si identifichi, semplicemente, la volontà comune con la volontà delle maggioranze a prescindere dalla libertà di chi appartiene alle minoranze.
Occorerrebbe, dunque, prendere semplicemente atto della disciplina per mezzo della quale i soggetti che costituiscono coppie omosessuali hanno deciso di regolare i loro rapporti privati. Punto.
Sta di fatto, invece, che oggi il Parlamento non legifera, la Corte Costituzionale non sanziona (sin’ora) l’inerzia del legislatore e tutto questo consente ai giudici di merito di negare la trascrizione delle unioni civili, come ha fatto di recente il Tribunale di Milano con un decreto del 2 luglio 2014. Il diritto alla trascrizione dell’unione civile non c’è perché il ventaglio delle scelte possibili per mezzo delle quali tutelarle e riconoscerle è molto ampio ed il legislatore non ha ancora scelto: quindi mettetevi il cuore in pace! Questo in sostanza il ragionamento del Tribunale meneghino.
Ora, delle due l’una: o il Parlamento legifera, e sarebbe meglio che lo facesse attribuendo il massimo di libertà alle coppie omosessuali riconoscendogli il diritto di costruire un legame giuridico all’interno del quel diritti ed obblighi sono definiti dalle “ parti”, o i giudici si decidono al più presto a prendere sul serio le riflessioni della Corte Costituzionale garantendo alle coppie omosessuali quel riconoscimento e quella tutela dei loro diritti che discende direttamente dalla Costituzione e che la mancata “ mediazione” del legislatore non può in alcun modo sminuire.
Forse se i giudici cominciassero a dire che in assenza di apposita legge la trascrizione negli atti dello Stato civile rappresenta l’unico strumento di tutela che l’ordinamento può apprestare nei confronti delle coppie omosessuali, pena la negazione radicale del loro riconoscimento giuridico, potrebbe anche darsi che il Parlamento decida di svegliarsi dall’eterno stato di coma vegetativo in cui versa.
Le alternative, diversamente, saranno ancora gli autografi di Marino, le reprimende di Alfano e l’ira della Cei. Non proprio il massimo.
@roccotodero

17
Ott
2014

Modesta proposta liberale: ecco i 6 miliardi chiesti a Enti Locali, senza tagli di servizi né aumenti di tasse

Chi ha ragione e chi ha torto nella prima grande battaglia accesasi sulla legge di stabilità, quella tra le regioni e il premier Renzi? Come sempre, dipende da qual è il punto di vista dal quale si guarda la questione. C’è un piano formale, quello delle regole, in Italia ispirate al più puro stile bizantino. C’è poi un piano sostanziale, quello dei numeri. Poiché la legge di stabilità è appena ai suoi inizi, chiarire alcuni punti può servire a trovare una soluzione migliore, fatti alla mano.

Sul piano formale, la protesta delle Regioni ha delle frecce al suo arco. Fermiamoci a due esempi. Sulla sanità, è vero per esempio che tre anni fa dopo lunghe trattative fu alla fine formulato un accordo di compromesso su come considerare i cosiddetti costi standard, con il decreto legislativo 68 del 2011. Mentre tutti continuano a fare l’esempio classico della siringa che costa tre e fino a quattro volte di più in questa regione piuttosto che in un’altra, l’accordo avvenne in modo da evitare due criteri, che le regioni avversarono. Primo, i costi standard non dovevano essere individuati con criteri microeconomici, in cu ricade l’esempio della siringa, ma macroeconomici, cioè per valutazione di spesa in grandi aggregati rispetto ai livelli di assistenza e servizi da garantire. Secondo, bisognava individuare un campione di riferimento che non fosse squilibrato a favore delle regioni “troppo” efficienti – Lombardia, veneto, Emilia-Romagna, Toscana – ma equilibrato con diverse Regioni “medie”. Poiché nel frattempo scoppiava il caos del rientro coatto per la sanità in 8 regioni di cui 5 commissariate, prevalse la prudenza. Il paradosso è che fu la Lega al governo, ad accontentarsi di questo “finto” costo standard, che fa sopravvivere in buona parte la vecchia logica dei costi storici, cioè del premio a chi spendeva più e peggio. Ma la regola formale è quella, ed è in base a quel criterio che avviene il riparto tra Regioni della parte variabile del fondo sanitario nazionale.

Secondo esempio, questa volta proprio sul fondo sanitario nazionale. Dai governi Monti e Letta gli interventi finanziari sulla sanità avvennero con l’impegno a rinviare il riequilibrio al successivo patto per la salute, contrattato con le Regioni. Il governo Renzi si è trovato ad officiarne la parte conclusiva, e a luglio l’accordo è stato concluso: riprendendo a far crescere la spesa sanitaria, dai 109 miliardi pattuiti per il fondo nel 2014 fino a oltre 115 miliardi nel 2016. Con in più un impegno esplicito, in caso di risparmi virtuosi in questi tre anni, a tenerli rigorosamente reinvestiti entro il perimetro della sanità e senza cederli alla diminuzione del deficit pubblico. Secondo me è stato un errore, firmare quell’accordo, ma tant’è.

Certo, il governo Renzi non ha contrattato lui le regole del “finto” costo standard, e ha ereditato l’impegno a rialzare la spesa sanitaria, che pure però ha firmato, con la ministra Lorenzin. Ecco perché formalmente le Regioni non hanno torto, nel protestare che il governo non può di punto in bianco chiedere 4 miliardi a loro e altri 2 a Comuni e province. Perché le Regioni – e in primis quelle sottoposte a rientro coatto – a questo punto lo schema di rientro graduale del deficit per l’anno prossimo l’hanno già impostato. E a questo punto non toccherebbero certo organici e spese fisse, ma taglierebbero i servizi sanitari e quelli di trasporto pubblico locale (la regioni finanziano a catena province e comuni nel TPL). E, soprattutto, alzerebbero le tasse locali, visto che oltretutto già devono affrontare il venir meno della quota parte dovuta all’abbattimento dell’IRAP previsto nella legge di stabilità per la componente occupati nelle imprese.

Sin qui la forma. Ma la sostanza, cioè i numeri, che cosa ci dicono? Cose molto diverse da quelle scritte negli accordi formali. Ci dicono ad esempio che, di 581 partecipate locali di primo livello detenute dalle Regioni nel 2012, ne risultavano in perdita 217, per 234,7 milioni di euro. Ci dicono che delle 4944 partecipate locali di primo livello dai Comuni, ben 1325 erano in perdita per complessivi 1,55 miliardi di euro. Che delle 1965 partecipate locali di primo livello nelle mani delle province, 636 erano in perdita per 349 milioni. Sono tutte cifre ricavate dai diversi rapporti elaborati dall’ormai ex commissario alla spending review Cottarelli: e in quei rapporti sono indicate fin da aprile decine di misure concretissime per passare da circa 10 mila partecipate locali di primo livello a 1000 in 3 anni – parole pronunciate da Renzi il 18 aprile scorso – con incentivi e sanzioni a Regioni e Comuni per ottenere a seconda dei casi chiusure, liquidazioni, dismissioni e accorpamenti. Tre miliardi di euro l’anno per tre anni, era la stima dei risparmi di spesa. Metà della cifra chiesta agli Enti Locali per il 2015, come si vede, si può benissimo ricavare da norme già pronte. Se lo si vuole; senza toccare i servizi offerti, e senza aggravi di tasse locali.

E l’altra metà? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Sempre evitando i tagli lineari. Guardiamo all’universo dei 132 miliardi di euro di spesa pubblica in acquisti e forniture da parte della pubblica amministrazione. Questa volta, i dati 2012 sono quelli elaborati dalla Consip, sempre per l’inascoltato Cottarelli. Dei 132 miliardi complessivi, ben 39 sono operati dagli Enti Locali, e altrettanti ricadono nel recinto della sanità. Come si vede, quasi i due terzi della spesa in forniture è “locale”. Ma dei 39 miliardi in capo alla sanità, e cioè di pertinenza regionale come controllo e coordinamento delle singole aziende sanitarie e ospedaliere, solo 15 miliardi sono operati con procedure digitali trasparenti e centralizzate. E dei 39 miliardi di acquisti in capo a regioni, comuni e province, solo 13 miliardi sono presidiati da procedure digitali trasparenti. In totale, dunque, ci sono la bellezza di 50 miliardi di euro annui di acquisti pubblici da recuperare a una gestione trasparente.

L’esperienza storica accumulata dal modello Consip ha portato a risparmi sull’unghia pari al 12% della spesa praticata fuori da procedure standard e ottimizzate. Il 12% di 50 miliardi sono 6 miliardi. Diciamo per realismo che recuperiamo a procedure unificate di acquisto i 50 miliardi in due anni e non in uno solo? Benissimo, ecco nel 2015 un risparmio di 3 miliardi. Sommati ai 3 miliardi ricavabili dalle partecipate locali, siamo esattamente ai 6 miliardi che chiede il governo. Con la differenza che la Regioni non potrebbero parlare di regole violate, né di servizi da tagliare, né di tasse da alzare. E noi così speriamo che finisca, visto che governo e regioni si devono incontrare. Attacchino in profondità e d’accordo tra loro il perimetro delle inefficienze, perché una cosa è sicura. Quando Renzi dice che di miliardi buttati ce ne sono tanti e troppi, ha ragione. E sono i soldi nostri, di noi che imprechiamo sapendo benissimo che costitutivamente un burocrate non può essere un innovatore: per definizione.

16
Ott
2014

Il Nobel a Tirole: la modernità del rigore teorico—di Simona Benedettini e Carlo Stagnaro

Jean Tirole ha ricevuto il Premio Nobel per l’Economia 2014. La motivazione della Reale Accademia di Svezia fa riferimento alle “sue analisi su potere di mercato e regolazione dei mercati”. Si tratta di una scelta che in quale modo si estende allo storico co-autore di Tirole, Jean-Jacque Laffont, scomparso nel 2004, e che riconosce la rivoluzione avvenuta negli ultimi 30 anni nella microeconomia in generale, e nell’economia industriale e della regolazione in particolare. Ed è un premio che dovrebbe essere letto con particolare attenzione in Italia.

Tirole ha sviluppato un framework teorico, organico e innovativo, nell’ambito della regolazione dei monopoli naturali e ha affrontato in modo pionieristico la questione dell’interazione strategica tra imprese operanti in un contesto oligopolistico. Tuttavia l’originalità delle sue ricerche sta anche negli strumenti di analisi impiegati, come la teoria dei giochi e il mechanism design, che, sfrondando l’analisi dagli elementi inessenziali, come ha scritto Fausto Panunzi, hanno fatto di Tirole quasi uno scultore che “riesce a dare forma alle idee lavorando per sottrazione”. Read More