28
Ott
2014

Diminuire il canone TV? No grazie. Privatizzate la RAI.

Dalla Leopolda5 è uscita, fra le altre cose, anche la proposta del Governo di ridurre il canone della Rai Tv e di farlo pagare a tutti, anche a coloro che sino ad ora sono sostanzialmente stati evasori totali. L’idea è quella di inserire il canone all’interno della bolletta elettrica cosicché nessuno possa farla franca e di ancorarne il valore al reddito di ciascun cittadino. Le cifre, stando a quanto è stato dichiarato da esponenti del Governo, dovrebbero oscillare fra i 40 e gli 80 euro annui a fronte degli attuali 113,50. Pagare tutti, insomma, ma pagare meno. Banalità stataliste.
Di privatizzare la Rai Tv e di trasformare il canone annuale in un abbonamento da far pagare solo ai fruitori del servizio che ne facciano richiesta, invece, non se ne parla nemmeno. Eppure le ragioni per mettere la RAI sul mercato e sgravare i cittadini di un’imposta odiosissima oggi sono molteplici.
Innanzitutto il servizio televisivo pubblico non ha più le caratteristiche (se mai le abbia avute) di servizio pubblico essenziale il cui finanziamento deve essere addossato anche su coloro che non vogliono usufruirne. La Corte costituzionale in tutte le sentenze relative al servizio radiotelevisivo ha sempre detto che la ragione dell’originario monopolio in capo alla RAI risiedeva nella necessità di evitare monopoli o oligopoli privati che rappresentassero un attentato al pluralismo dell’informazione. In sostanza, stante l’originaria limitatezza delle frequenze, era meglio un soggetto pubblico cui si potesse imporre forzatamente il pluralismo delle idee e dell’informazione piuttosto che un monopolio privato in grado di condizionare gravemente l’opinione pubblica (sentenze n. 59/1960, n.202/1976, n.148/1981 e n.826/1988). Quando la tecnologia ha consentito l’ampliamento degli strumenti di trasmissione del segnale tv e l’ingresso di altri operatori nel settore senza il rischio di monopoli privati, le ragioni del monopolio Rai sono cadute e la presenza di molteplici canali televisivi è stata giudicata, correttamente, più in linea con il dettato costituzionale tanto nell’ottica di assicurare il pluralismo dell’informazione e della diffusione delle idee quanto in quella di assicurare la libertà di impresa.
Oggi esistono, grazie alla tecnologia digitale e satellitare, migliaia di canali televisivi che assicurano senza alcun dubbio il pluralismo dell’informazione e la diffusione di tutte le culture e gli orientamenti di pensiero. E’ possibile seguire i canali televisivi di tutti i Paesi del mondo. A ciò si aggiunga che internet ha reso, per fortuna, impossibile il controllo accentrato delle notizie e dell’informazione, cosicché nessuno può ragionevolmente ritenere la RAI fonte privilegiata della genuinità e veridicità delle notizie e più in generale dell’informazione.
Né si può ritenere nel 2014 che la RAI svolga funzioni educative e didattiche da cui dipendono le sorti dello sviluppo civile della nazione. Anche la Corte costituzionale che in qualche sentenza ha continuato a ritenere sussistere la funzione sociale della RAI dovrebbe oggi farsene una ragione. Il servizio radiotelevisivo non è più un servizio pubblico necessario, dunque, i cui costi devono essere addossati anche a quanti non ne desiderano la fruizione e la tecnologia consente di trasformarlo in un servizio a domanda individuale con esclusione di quanti non ne facciano richiesta.
La Costituzione Repubblicana richiede la garanzia del pluralismo dell’informazione ma non fa menzione in nessun punto della necessità che lo Stato gestisca un’impresa pubblica con decine di canali televisivi sovvenzionati dalle tasche dei cittadini. Anzi, a volere essere attenti l’articolo 118, comma 4, della Costituzione obbliga lo Stato ad astenersi dalla gestione di quei servizi di interesse generale che sono già esercitati adeguatamente dai privati. I privati che oggi operano nel settore radiotelevisivo sono, come detto, numerosissimi.
In secondo luogo esiste una norma di legge vigente da 10 anni che impone la privatizzazione della RAI; si tratta dell’articolo 21 della legge n. 12 del 2004 a tenore del quale il procedimento per l’alienazione della partecipazione dello Stato nella Rai – Radiotelevisione Italiana Spa ( pari al 99,56% del capitale totale ) avrebbe dovuto avere inizio subito dopo la fusione della Rai Spa nella Rai Holding Spa.
La volontà di procedere alla dismissione è stata ribadita anche nel Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (art.49, comma13, del D.Lgs. n. 177/2005) senza tuttavia che siano state ancora definiti i tempi, le modalità di presentazione, le condizioni e gli elementi dell’offerta o delle offerte pubbliche di vendita che dovevano essere di competenza di una o più deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La privatizzazione resta, comunque, una finalità voluta espressamente dal legislatore e deve essere coerentemente perseguita non già esclusivamente per fare cassa – alienando solo una quota minoritaria della partecipazione di proprietà dello Stato – ma per arretrare il perimetro di azione dell’autorità pubblica nel settore dell’informazione e dei servizi televisivi più in generale.
Dalla privatizzazione della Rai, poi, lo Stato ricaverebbe, secondo alcune stime, dai 2 ai 4 miliardi di euro, con il che la ricerca delle ragioni per giustificare la dismissione della Rai potrebbe fermarsi qui!
Ma andiamo avanti.
Il canone rappresenta, come detto, un’imposizione odiosa. La Corte costituzionale ha stabilito che trattandosi di imposta essa deve essere corrisposta in ragione del mero possesso dell’apparecchio televisivo anche se non si vuole usufruire del servizio erogato dalla Rai (sentenza n. 284/2002). Il totale della raccolta del canone ammonta ad 1,7 miliardi di euro e sono tutti soldi dei cittadini in mano ai sollazzi della politica. Privatizzare la Rai significherebbe anche sottrarre questo “spasso” ai partiti politici. Il canone, poi, per legge deve coprire l’ammontare dei costi del servizio pubblico, cosicché più servizio pubblico lo Stato chiederà alla Rai di erogare più canone occorrerà drenare ai cittadini senza alcun limite predefinito.
In Italia, inoltre, vi è un livello di evasione del canone pari al 27%, superiore per quasi 19 punti percentuali alla media europea. E’ tutto frutto esclusivamente del malcostume italico o vi è una quota consistente di cittadini che avvertono come insopportabile un’imposizione tributaria per un servizio che non richiedono, non vogliono e non apprezzano? Quale sarebbe la percentuale di richiedenti il servizio fra gli attuali pagatori del canone se lo Stato ci lasciasse liberi di scegliere se usufruire del servizio Rai? Perché non garantire la libertà di scelta anche in questo ambito piuttosto che cercare soluzioni improbabili che comunque lasciano inalterato il rapporto di profonda subordinazione del cittadino allo Stato? Chi ha stabilito che il servizio pubblico che eroga la Rai è il servizio che vogliamo?
La Rai, infine, è un’azienda inefficiente. Le sue entrate sono rappresentate per il 60% dal canone imposto ai cittadini e per poco più del 30% dagli introiti pubblicitari. Ciò nonostante gli introiti rappresentati dal canone pubblico non riescono a coprire i costi per la realizzazione della produzione qualificata come servizio pubblico e la differenza deve essere drenata dagli introiti pubblicitari. Nel 2010 l’azienda ha perso 128,5 milioni di euro, nel 2012 l’esercizio ha chiuso con una perdita di 245,7 milioni di euro, sebbene il canone sia aumentato dalle 109 euro del 2010 alle 112 del 2012. Stante il principio secondo il quale il servizio pubblico deve essere finanziato esclusivamente dal canone pubblico la Rai ha chiesto al Ministero dell’economia di restituirgli per il periodo 2005 – 2009 la somma di 1,3 miliardi di euro, ma il Ministero si è ben guardato sin’ora dal pronunciarsi. Quali tasche dovranno fare fronte a tale esborso è molto facile da immaginare.
Dal 2007 al 2013 la Rai ha costantemente perso ascolti, ( le reti generaliste non superano il 35% di share) ha subito la concorrenza della miriade di canali tematici digitali gratuiti ed ha perso il 40% dei propri ricavi pubblicitari a fronte di perdite dei principali concorrenti di circa il 20%. La gestione dei costi di produzione rapportata ai ricavi è un disastro. Una chicca fra tutte: i costi per il festival di Sanremo hanno superato i ricavi nel 2010 per circa 8 milioni di euro, nel 2011 per 7,5 e nel 2012 per 4,8.
Non ci interessa pagare meno, ci interessa pagare per ciò che vogliamo vedere.
P.s. Tutti i dati contenuti nel presente post sono ricavati dalla Determinazione e relazione della Sezione di Controllo della Corte dei Conti sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria della Rai per gli esercizi 2011 e 2012 scaricabile sul sito della Corte dei Conti.
@roccotodero

28
Ott
2014

Abolire la CIG subito: cosa serve al suo posto

Riguarda il lavoro, lo scontro più acceso tra Cgil e minoranza del Pd da una parte, premier Renzi e maggioranza del Pd dall’altra. Eppure ancora una volta il più della polemica si incentra sull’articolo 18, invece che sui maggiori problemi della bassa occupabilità nel nostro paese: il vero guaio strutturale, che porta solo poco più di un italiano su tre a lavorare, mentre in Germania la proporzione è di due su tre.

La domanda è: perché invece di far tante chiacchiere sulla tipizzazione dei licenziamenti disciplinari – solo in questo si ridurrà la modifica dell’articolo 18 attuale a chi ne gode, per il resto verrà esteso a chi non ce l’ha – non si mette la testa e altrettanta passione per esempio sugli ammortizzatori sociali? La risposta è scomoda. Perché è molto più problematico tagliare la questione con l’accetta, come pure andrebbe fatto.

Guardiamo i numeri. L’ultimo bilancio annuale dell’Inps ci parla di 23,5 miliardi di euro di ammortizzatori sociali- tra Cig ordinaria, straordinaria, in deroga, e disoccupazione – dei quali 14,5 in erogazioni dirette, e 9 miliardi di contributi figurativi. Apparentemente, una montagna di soldi. Nella realtà, non è così.

I 7500 euro procapite di spesa sociale annui italiani sono infatti di poco superiori alla media Ue, ma solo noi dedichiamo il 52% del totale della spesa sociale alle pensioni, e solo il 2,9% al sostegno della disoccupazione. La media europea Ue28 è 40% alle pensioni e 5,6% alla disoccupazione, la Francia spende il 39% in pensioni e il 6,6% in disoccupazione, la Germania il 33% in pensioni e il 4,7% in disoccupazione. Solo Croazia e Romania spendono in percentuale meno di noi per la disoccupazione sul totale della spesa sociale, persino la Bulgaria ci batte. Come è evidente, una svolta di reindirizzo al sostegno di chi perde un lavoro rispetto alle pensioni implicherebbe uno sforzo titanico, del quale nessuno si sente capace. Eppure, sarebbe necessario. E’ un modello di società, che dovrebbe cambiare (implicherebbe innanziutto ulteriori agevolazioni al risparmio finalizzato alla previdenza integrativa, NON la stangata fiscale prevista nella legge di stabilità 2015). Perché senza molti più occupati – essendo il sistema previdenziale a ripartizione cioè finanziato da chi lavora – le pensioni saranno sempre più magre o sempre più a carico di un fisco ancora più rapinatore.

Passiamo al secondo problema, quello delle risorse. Nel 2011, la risposta all’esplosione della crisi fu – d’accordo imprese, sindacati e politica – di non procedere a una riforma organica del sostegno alla disoccupazione, ma la sua estensione affiancando alla Cig ordinaria e straordinaria, concepite decenni fa per industria, edilizia e crisi aziendali, la Cig in deroga gestita dalle Regioni, per estenderne le tutele a tutti coloro che ne erano esclusi.

Non è stata una gran pensata. Le Regioni hanno confermato la loro generosa tendenza a concedere migliaia di trattamenti in deroga secondo logiche discrezionali, a volte scandalosi. Nel solo 2014 sono stati necessari stanziamenti per 1,7 miliardi per la sola Cig in deroga che – ricordiamolo – è a carico della fiscalità generale, a differenza della Cig ordinaria e straordinaria finanziate con contributi pagati dalle imprese, e “integrati” dall’Inps se necessario. Tanto il sistema della Cig in deroga ha preso a imbarcare acqua, che ad agosto sono state emanate norme restrittive sia per l’anzianità lavorativa pregressa di chi ne può personalmente beneficiare, che per la definizione stessa di impresa a cui applicarla, che per la durata massima del beneficio.

Il punto è che la Cig in deroga resterà ancora nel 2015. Ed è questo il secondo errore, che andava rimediato con il Jobs Act e che ancora si può rimediare, nei decreti attuativi della delega. La scelta giusta è non solo quella di passare all’ASPI per tutti (nel 2013 Aspi e MiniAspi hanno pesato per un poco più di un quarto del totale degli ammortizzatori sociali, ma gli ultimi dati di agosto-settembre 2014 li vedono paradossalmente in calo rispetto al crescere della Cig sul 2013). Quel che serve soprattutto è incardinare al più presto un sostegno universale al reddito su una vera strategia di rioccupabilità, fondata su una capacità vera di intermediare domanda e offerta di lavoro rottamando gli attuali uffici provinciali del lavoro, con formazione obbligatoria e sostegno al reddito negato se il disoccupato in formazione dovesse rifiutare i nuovi lavori offerti. Oggi non abbiamo un vero sistema formativo volto alla rioccupabilità, e ce n’è un bisogno assoluto visto che oltre metà dei 3 milioni di disoccupati lo è da più di 12 mesi, cioè o non ha o ha perso le skills richieste dalle imprese.

Chiudiamo con altre cifre. La legge di stabilità stanzia un miliardo e mezzo per il passaggio all’Aspi per tutti prevista nel Jobs Act. E’ evidente che stiamo parlando di una cifra totalmente inadeguata, in aggiunta al monte contributi versati dalle imprese per Cigo e Cigs, per finanziare il vero passaggio o a un sistema di tutela universale volto alla rioccupabilità. A maggior ragione perché quel miliardo e mezzo deve anche finanziare ancora la Cig in deroga, che continua.

Ci piacerebbe molto, vedere proposte e controproposte su tutto questo. Invece no, si oppongono anatemi tra correnti di partito. Peccato, con tutto il rispetto dipende molto più da cose come queste che dai licenziamenti disciplinari, se in dieci anni riusciremo a creare 7 o 8 milioni di posti di lavoro non sostitutivi rispetto al turnover, ma nuovi nel senso di “aggiuntivi”: perché questa è la vera sfida e di di questo, come ordine di grandezza, c’è bisogno.

26
Ott
2014

La legalizzazione in Colorado, un anno dopo

Il dibattito sulla legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo ha sempre suscitato prese di posizione sanguigne tra favorevoli e contrari: ridurrebbe il crimine e farebbe “girare l’economia”? Oppure farebbe aumentare la criminalità e gli incidenti stradali? Aumenterebbe le entrate grazie alla tassazione, o sarebbe un pericolo per la salute pubblica?

Sono passati undici mesi da quando, lo scorso gennaio, lo Stato del Colorado ha ufficialmente dato il via alla legalizzazione. In un recente studio, Jeffrey Miron, Director of Economic Studies del Cato Institute, ha provato a rispondere ad alcune di queste domande, basandosi non su convinzioni ideologiche, ma su dati concreti relativi a una delle più recenti esperienze di legalizzazione nel mondo, a distanza di quasi un anno dal suo avvio.  Read More

25
Ott
2014

Tassazione dei fondi pensione. Ancora un intervento retroattivo—di Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Ormai da una decina di giorni il premier ripete orgoglioso di non aver alzato le tasse pur in presenza di una Legge di Stabilità che vale oltre 36 miliardi di euro. Dieci giorni nei quali siamo stati costretti a discutere sulla base di meno di 30 slide – fatte anche male – e di bozze circolate sottobanco e piene di puntini da riempire. Di un testo ufficiale neanche a parlarne, nonostante il Presidente del Consiglio abbia fatto propria la battaglia sulla trasparenza e sull’open data. Una battaglia che ha già fatto vittime eccellenti. Come la Commissione UE, che si è vista pubblicare dal MEF una lettera strettamente confidenziale nel bel mezzo di un confronto delicato sullo sforamento dei parametri di finanza pubblica.  Read More

24
Ott
2014

Bloccate la finta riforma dei vitalizi nelle 9 Regioni prossime al voto, si regalano 300 milioni

L’inchiesta che il Mattino e Marco Esposito hanno condotto negli ultimi tre giorni porta a una conclusione semplice e obbligata. Va fermata la risibile autoriforma dei vitalizi che i nove Consigli delle Regioni in cui si vota tra novembre e primavera vogliono varare, approfittando del fatto che gli eletti ancora in carica possono autopreservarsi, e decidere a che età e quanto incassare. I consiglieri regionali della Campania, Calabria, Marche, Emilia Romagna, Puglia, Liguria, Toscana, Umbria e Veneto, dovrebbero avvertirlo come un preciso dovere imposto dall’equità: nessun consigliere regionale dovrebbe aver più diritto a un trattamento previdenziale diverso da quello di tutti i normali cittadini. In un Paese che nel 2013 ha speso in vitalizi a ex parlamentari e consiglieri regionali una cifra pari a 12 volte quella spesa dal programma spaziale dall’india per andare su Marte, ripetiamole allora, le ragioni per le quali è sacrosanto che i cittadini sui piazzino con cartelli e megafoni sotto i palazzi di quei 9 Consigli Regionali.

Primo: non è accettabile che i consiglieri uscenti possano riscuotere i loro assegni a 60 anni, come ancora questa sedicente autoriforma consentirebbe con soli 10 anni di versamenti, mentre invece ai cittadini comuni la pensione in questo 2014 è negata prima dei 66 anni, e ogni anno a venire scatterà per noi tutti un innalzamento automatico del requisito collegato all’aumento della vita media. Lo stesso deve valere per i signori politici.

Secondo: è scandaloso che i signori politici versino aliquote contributive che vanno dal 17% della Toscana al 22% della Campania al 30% del Veneto, ma non sul lordo ricevuto bensì sul netto, sottratta la tassazione Irpef. Noi normali cittadini paghiamo in contributi previdenziali il 33% , ma sull’intero reddito lordo. Lo stesso deve valere per i signori politici.

Terzo: la somma dei due precedenti privilegi innalza a multipli intollerabili la sproporzione tra i contributi realmente e personalmente versati durante gli anni di consiliatura da ognuno dei 460 consiglieri uscenti in questione, e ciò che realmente incasseranno mese per mese, e ci auguriamo per i molti annui a venire, terminata la loro esperienza elettiva. I conti li ha fatti il Mattino nei giorni scorsi, adottando come moltiplicatore pluriennale l’aspettativa di vita attuale. Il trattamento a cui darebbe diritto l’autoriforma concordata dai 9 presidenti dei Consigli regionali vedrebbe gli ex consiglieri umbri incassare una somma pari a 7 volte e mezza i contributi versati, 6 volte e mezza in Puglia, 5 volte in Calabria, 3 volte e mezza in Campania, 3 volte in Liguria, Toscana, Emilia Romagna e Marche. Il sovraccosto dei vitalizi dei 460 consiglieri uscenti sarebbe superiore ai 300 milioni. Senza contare la reversibilità, e aggiungendosi ai trattamenti degli oltre 3 milia vitalizi già in pagamento agli ex consiglieri regionali attuali.

Non può reggere, la giustificazione addotta dal presidente della conferenza dei presidenti delle assemblee regionali, che cioè comunque questa autoriforma dà un taglio ai regimi precedenti. La riduzione è inferiore al 20%: ma passare da privilegi di un sardanapalo a quelli di un satrapo resta comunque inaccettabile.

I signori politici dovrebbero capire una cosa elementare. Il criterio dell’equità che deve valere per tutti è quello contributivo. Tutti i cittadini normali, con meno di 18 anni di contributi dopo la riforma Dini del 1995, si vedono corrispondere una pensione data dal montante dei loro versamenti, moltiplicata per un coefficiente che tiene conto della crescita intercorsa del Pil, corrette per l’innalzamento della vita media attesa. Pensare che esistano ragioni per cui ai politici si applicano regole diverse significa continuare a credere che siccome sono loro a decidere per sé, ergo sono sottratti alle regole generali. Come un tempo lo era il monarca assoluto.

Sarebbe stato due volte apprezzabile se, all’incontro avvenuto ieri tra governo e regioni in vista dei tagli previsti nella legge di stabilità, il tema dei tagli ai vitalizzi fosse convenuto da entrambe le parti come una dimostrazione di responsabilità e consapevolezza, da dare ai cittadini spremuti. Non è accaduto, e finora dai 9 Consigli regionali non sono venute se non precisazioni di dettaglio. Nessuno se la sente, di rinunciare ai privilegi. E tutti confidano nella disattenzione generale. Ma i media esistono per dare alla gente elementi per capire. E anche per urlare, quando la giustizia e l’equità restano così palesemente violate e calpestate. Quei trecento milioni di regali saranno gli italiani a pagarli, in aggiunta a tutto il resto che già pagano, e che li rende stremati.

 

24
Ott
2014

Una legge di stabilità da manuale. Se non fossimo in Italia—di Nicola Rossi

Notoriamente l’Italia è un’economia in buona misura autosufficiente (il peso dei rapporti con l’estero non è nullo ma certo non è particolarmente rilevante) che soffre però da qualche tempo di un temporaneo significativo sottoutilizzo della capacità produttiva, evidente nei livelli di disoccupazione. Per fortuna, le condizioni della finanza pubblica non destano preoccupazione. E non solo nei flussi. Il livello di capitale pubblico – la dotazione infrastrutturale – è adeguato in tutto il paese ed il livello e le tendenze del debito pubblico non pongono problemi di sostenibilità. Read More

23
Ott
2014

Civiltà Giuridica: l’intervento sull’IRAP e l’inarrestabile retroattività delle norme tributarie—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Da più parti a torto o a ragione – si dice che uno dei problemi italiani è la carenza o se volete la perdita – di civiltà giuridica.

Ma come? verrebbe da domandarsi; siamo il paese in cui è nato il diritto! ed in effetti pur non esistendo un luogo sacrodel quale possa dirsi che lì e solo lì sia nato il diritto, una sorta di collina della Pnice, la recriminazione ha fondamento.

Ci sono tanti esempi che dimostrano la trasformazione del legislatore domestico e la sua incessante capacità di allontanarsi, talvolta con bramosia e spasmodica caparbietà, dai principi fondamentali della civiltà giuridica. Come quello relativo al fatto che la legge dispone per il futuro. Read More

21
Ott
2014

Trasporto locale: si può (e si deve) spendere meno

Non l’hanno presa bene: per molti governatori i tagli ai trasferimenti alle Regioni previsti dalla manovra sarebbero “inaccettabili”. Ma è davvero così? Oppure, come sostiene il presidente del Consiglio, esistono ampi margini per la riduzione delle spese. Analizziamo il caso del trasporto pubblico locale che rappresenta la seconda voce di costo dopo la sanità.
È possibile spendere meno oppure ciò significherebbe tagliare in misura inaccettabile i servizi?

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20
Ott
2014

Risposta all’ultimo Paul Krugman: coi miei soldi, no grazie!

Ci penserà la signora Le Pen a seppellire le illusioni europee? E’ la tesi sostenuta dall’ultima provocazione di Paul Krugman. Come spesso gli capita, l’amore per la battuta giornalistica effetto fa premio sul rigore di quel che Krugman è nella vita. O forse era. Un fior di economista, che ha vinto il Nobel dell’Economia nel 2008, e raramente la scelta è stata più singolare: inconsapevolmente, era come se l’attribuzione del premio indicasse la via preferita dall’accademia per uscire dalla crisi Lehman, e tutto quel che ne è seguito fino ad oggi.

Chi votò per lui non poteva sapere, con quanta casuale lungimiranza la scelta fosse azzeccata: perché Krugman è attualmente l’economista al mondo che ha forse più di tutti tre caratteristiche insieme. E’ colui che da molti anni ha più sviluppato un sesto acuminato per accrescere il proprio impatto sul dibattito pubblico, non solo negli Usa ma nel mondo intero, con i suoi due editoriali alla settimana sul New York Times da 14 anni, e nel quindicennio precedente collaborando a un’infinità di riviste ad alta tiratura. E’ un economista che “piace” e ama piacere, perché è politicamente impegnatissimo, a sinistra del partito democratico americano, e se mi sui passa la battuta quanto a politiche economiche a sinistra di quasi tutto nel mondo occidentale attuale. Infine, come molti di coloro divenuti col successo amati “a prescindere”, è molto abile nel far dimenticare sotto gli applausi le sue contraddizioni. Mica secondarie: negli anni di Bush padre era ferocemente ostile ai deficit di bilancio, ora da anni inneggia a loro favore. Ha scritto molte volte a favore del protezionismo doganale, tranne poi predicare che è meglio la svalutazione monetaria. E via continuando. Ama la provocazione, meno le critiche.

La sua ultima zampata è l’ennesima che riguarda l’euro. Di cui era tenace nemico dall’inizio, e va riconosciuto: con buoni argomenti, diffidava della volontà europea di fare davvero le riforme necessarie per aprire i mercati e renderli vasi comunicanti per equilibrare spontaneamente differenziali tanto alti di costi e produttività. Su questo, l’ho sempre pensata allo stesso modo: ci sono le testimonianze a partire dal 1996 quando ero a Liberal.  Tuttavia poi Krugman è diventato difensore storico della Grecia mentitrice per 17 punti di Pil sul suo deficit pubblico, acerrimo critico della Germania e di tutti coloro che osano sostenere che l’eurocrisi è figlia anche e soprattutto dell’eccesso di debito pubblico e di presenza statale nell’economia manifestata innanzitutto attraverso una vera e propria spoliazione fiscale. E ora Krugman spara contro Draghi. E contro coloro che si illudono di poter evitare una nuova esplosione del rischio del debito sovrano dei paesi eurodeboli, attraverso le aste TLTRO e l’acquisto da parte della BCE di ABS e covered bonds. Anche su questo, si può essere d’accordo. Ma non, per quello che mi riguarda, col suo appello: ribellatevi ai tedeschi cari governi europei, e imponete alla BCE di svalutare a picco l’euro, altrimenti ci penserà madame Le Pen e seppellire le vostre speranze malriposte. Questo dice Krugman.

Con tale analisi, Krugman incarna il fenotipo di successo dell’economista di sinistra contrario al rigore. Quelli che sostengono che il debito pubblico è un non problema, le tasse alte una soluzione, insieme a stampare moneta col torchio della banca centrale, svalutando il più possibile il cambio e puntando al massimo di inflazione possibile. In Italia sono la maggioranza, ormai,  a pensarla così. Non a caso Krugman qui da noi è il nume di coloro che vogliono il referendum antieuro, il pontefice massimo di coloro che con l’eponimo Piketty invocanola patrimoniale dimenticando che in Italia c’è già, sul mattone, sul risparmio e ora anche sugli accantonamenti previdenziali. Quelli che dimenticano che le crescite tumultose di grandi blocchi economici – dall’Impero britannico agli Usa – nella storia sono sempre avvenute con monete stabili e forti, e hanno iniziato a declinare quando la moneta ha preso a svalutare, e quando l’inflazione ha preso a salire. Perché la moneta debole indebolisce chi ha meno reddito, e la svalutazione alta è una tassa occulta sui poveri. Esattamente quei poveri che a chiacchiere i deficisti, gli svalutazionisti e gli inflazionisti sostengono di avere a cuore.

Con le loro proposte, sono i più poveri e i più deboli a prenderla in saccoccia. Mentre a guadagnare, con la svalutazione e l’inflazione, sono solo i più indebitati: cioè gli Stati, le banche e le grande imprese. Esattamente i tre soggetti dei quali gli economisti iper keynesiani da sempre ambiscono essere consulenti e irpiratori (non dimenticate che anche il Nobel Krugman lavorava per Enron, fu il New York Times a costringerlo ad andarsene..). Come avrete capito, chi qui scrive non è d’accordo con Krugman, e nel dirlo si espone al più classico degli inviti: zitto tu, come puoi pensare di criticare un Nobel. Ma qui non parliamo di mopdelli econometrici, bensì di opinioni e scelte generali su moneta e politica.

La dico tutta: in Francia oggi e domani può benissimo vincere madame Le Pen, visti gli errori epocali del socialista Hollande, e prima di lui del moderato Sarkozy. Come in Germania sta crescendo a doppia cifra il fronte antilatino di AfD, e da noi il fronte antieuro avanza, va dalla Lega alla maggioranza di Forza Italia a pezzi del Pd fino a SEL. Che cosa succederà, in caso di vittoria di Le Pen e di altri anti euro? Semplice. L’euro si restringerà rispetto agli attuali 18 membri, non senza passare per una crisi devastante sui mercati se non si riuscirà prima a contrattare clausole di exit in grado di contenere le inevitabili ondate speculative, e il rischio di default argentini a ripetizione. Ma a quel punto chi resterà nell’euro sarà più forte.  E chi ne uscirà avrà Stato forte espropriatore e poveri più poveri. Un’Italia con più Stato e ancor meno produttività, drogata da svalutazione e inflazione NON mi interessa proprio,.

Piacerà a Krugman e a tutti i numi tutelari della sinistra e della destra populista e statalista, questa prospettiva di cui sarebbero artefici e consulenti. A me, come povero contribuente italiano, non piace proprio. Cambiare le regole europee sì, giocare al tanto peggio tanto meglio coi paradossi no grazie. Fatelo a piacere coi vostri studenti e lettori. Ma non con i miei soldi.