6
Nov
2014

Agenda Digitale: la fattoria degli animali 2.0

Sono 10.320 gli enti pubblici inadempienti a quanto previsto dall’art. 24-quater, co. 2, del D.L. n. 90/2014, convertito in L. n. 114/2014, secondo cui tutte le amministrazioni dello Stato (comprese scuole, aziende e società partecipate, Regioni, Province, Comuni, consorzi, università, camere di commercio, ecc.) avrebbero dovuto comunicare all’Agenzia per l’Italia digitale l’elenco delle banche dati in loro gestione, entro il 18 settembre 2014. Read More

5
Nov
2014

Dietro lo schiaffo di Juncker c’è una novità politica: sui 30 miliardi di risanamento rinviato con la legge di stabilità

Che cosa è successo davvero ieri? Come si spiegano le parole del neo presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, espressioni molto dure verso il premier Matteo Renzi, durissime addirittura se si tiene conto che Juncker è un politico di lunga esperienza e pelo sullo stomaco, totalmente disavvezzo a perdere la calma e a usare espressioni forti, se non sulla base di un preventivo consenso acquisito e di forti appoggi? A queste domande due sono le risposte possibili. La prima è che la risposta a brutto muso a Renzi di Juncker – “non sono a capo di una banda di burocrati, tu forse sì” – dipenda dai numeri, dall’aggiornamento delle stime di crescita che Bruxelles ha diramato ieri per l’Italia e l’Unione europea. La seconda è che ci sia una novità politica sin qui imprevista, un mutato atteggiamento verso Renzi non tanto di Bruxelles, quanto di Berlino che di Juncker è punto di riferimento, visto che alla Merkel deve l’incarico. Con ogni probabilità, le due risposte si sommano.

 

Quanto sono diversi i numeri di Bruxelles? In effetti, ieri la Commissione europea ha corretto al ribasso le stime sull’Italia. Mentre Irlanda, Grecia e Spagna meritano il plauso – e c’è da riflettere che l’Irlanda veda il Pil crescere nel 2014 del 4,6% dopo aver rischiato il default bancario perché mantiene il totale delle entrate pubbliche inchiodato al 35% del Pil, mentre noi siamo al 49% – l’Italia secondo Bruxelles nel 2014 avrà un Pil a -0,4% e un deficit al 3%. Il prossimo anno il deficit resterà al 2,7%, contro il 2,6% previsto dal governo, e un debito pubblico che passerà dal 132,2% del Pil nel 2014 al 133,8% nel 2015. Sono tutte stime peggiori di un decimo o qualche decimo di punto di quelle ufficiali del governo italiano. Se dovessimo stare a questi discostamenti, la risposta diventerebbe: no, non può essere per questo che Juncker ieri improvvisamente, da neo presidente della Commissione Europea sul quale Renzi faceva affidamento rispetto al “cattivo” Barroso uscente, improvvisamente muta registro e riserva al premier italiano parole corrosive, che un presidente di Commissione Euuropea non rivolge al premier di un grande paese membro se non a nome di quella che ritiene la maggioranza delle euro-capitali. Ma c’è un però: ai discostamenti su stime di crescita e cosneguenti effetti su saldi pubblici e debito si somma una riserva, che deriva dall’impianto della legge di stabilità.

 

Si torna a minacciare una procedura d’infrazione? Formalmente, è più che possibile. Sostanzialmente, Renzi è persuaso di aver stipulato un patto politico co Merkel e Juncker, basato sulla comune valutazione che è meglio per tutti evitarlo. Ma questi patti orali valgono quel che valgono. La settimana scorsa, quando il governo italiano ha concordato con il vicepresidente della Commissione Katainen un’ ulteriore correzione del deficit per circa 6 miliardi rispetto alla versione originaria della legge di stabilità, la Commissione NON ha dato l’ok definitivo, ma con riserva rispetto alla stime di crescita aggiornate che la Commissione ha reso note ieri. Al netto delle considerazioni tecniche, significava e significa che la Commissione ha facoltà di rivolgere ulteriori richieste al governo italiano, visto che le stime di crescita e debito risultano leggermente peggiorate. Il patto europeo di stabilità e crescita prevede che i paesi inadempienti alle raccomandazioni della Commissione, in caso di violazione del limite del 3% di deficit pubblico, siano tenuti a un deposito infruttifero pari allo 0,5% del Pil (8 miliardi di euro), che diventa vera sanzione da pagare dopo 2 anni di violazione persistente. In realtà non è praticamente mai avvenuto, e in ogni caso bisognerebbe prima passare per il monito formale, poi per le raccomandazioni, poi per la violazione, poi per i 2 anni di persistente inadempienza: 4 anni di tempo. Il punto è un altro. Che il governo Renzi abbia sospeso la riduzione del deficit nel 2015 e rinviato a 2016 e 2017 il risanamento, per di più attraverso la stangata fiscale delle clausola di salvaguardia con l’IVA in crescita fino al 25%, porta l’Europa a non fidarsi che al 2017 l’Italia davvero , dopo 2 anni di ritardo, arrivi a un deficit zero corretto per il ciclo. Storicamente Bruxelles ha ragione: le clausole di salvaguardia fatte con aumenti pazzeschi di entrate sono impraticabili in un paese come il nostro strozzato dalle tasse. Significano solo rinviare il problema del risanamento a dopo evebntuali prossime elezioni, prima delle quali meglio non alzare le tasse. L’Europa non si fida dei nostri numeri. Scusate, con ragione. Quel che i media italiani si ostinano a non capire è che la legge di stabuilità rinvia a 206-2018 una correzione per via fiscale pari a ben 30 miliardi di euro, e al momento NON tocca in alcun modo gli stock di patrimonio pubblico per abbassare il debito. E’ molto rilevante la differenza tra quanto il governo Renzi dichiara in legge di stabilità per abbattere il debito – un risicatuissimo meno 0,1% – e quanto servirebbe – tra meno 0,7%  e meno 0,9%. Qui non si tratta di deificare i parametri e i numeretti europei: semplicemente la scelta della legge di stabilità non toccando in alcun modo gli stock è quella di scommettere sulla sostenibilità a occhi chiusi di un debito pubblico che NON verrà ridotto da aumenti del denominatore – il PIL – se non di frazioni di punto. Su questo, ha perfettamente ragione Luca Ricolfi a scrivere che l’errore della legge di stabilità è il suo essere non troppo coraggiosa, ma assolutamente rinunciataria. Sono le cifre delle tabelle governative, a dire che resteremo con 3 milioni di disoccupati per anni.

Il nodo politico. Fino a ieri, la lettura politica prevalente dei rapporti tra Renzi , Merkel e Juncker vedeva di fatto prevalere una specie di accordo non dichiarato. Berlino e Bruxelles concedevano di fatto all’Italia un trattamento morbidissimo, visti i molto più consistenti sforamenti francesi – loro dicono che non scenderanno sotto il 3% di deficit prima del 2017, e anche a loro non crede nessuno – che però i tedeschi non possono prendere di petto. Di fatto, il tono di Juncker di ieri introduce una modifica netta. Vedremo quanto sostanziale e duraturo. Di fatto, Berlino non ha gradito affatto che Renzi si sia schierato con Cameron nel no agli aumenti di contributo al bilancio Ue, dovuti al fatto che il nostro Istat ci è andato giù molto pesante, nel rivalutare il nostro PIl quasi del 4%. Per la Merkel e Juncker, Cameron è il nemico, col suo antieuropeismo tosto dovuto alla paura del populismo di Farage che ruba voti ai Tories, ma che finisce per scimmiottarlo. Renzi non si è reso conto, di aver esagerato su quel punto. Secondo, la Merkel in Germania sta in questi giorni affrontando la prima offensiva degli eurosettici antilatini di AfD, che non a caso aprono a esponenti della Cdu che esplicitamente pensano al dopo Merkel. Dunque, meglio esser tosti con Roma, per la cancelliera, più di quanto Renzi immagini. Terzo, Berlino ha occhi e orecchie a Roma: e anche i tedeschi vedono che Renzi è sottoposto a dure pressioni per riscrivere pezzi essenziali della sua legge di stabilità. Regioni, Comuni, Province, sindacati, Banca d’Italia, Ufficio Parlamentare del Bilancio, Corte di conti: in questi giorni tra audizioni parlamentari e piazze il governo incassa colpi seri all’impianto della finanziaria. E si sa come va in Italia: le finanziare assaltate vedono la spesa aumentare, e il deficit peggiorare. Indiscrezioni vogliono che Berlino pensi che NMapolitano non si deve assolutamente dimettere, se è il prodromo di nuova instabilità ed elezioni anticipate. Vedremo come risponderà Renzi: a Juncker, ieri, ha replicato con assai meno durezza di quanto lo avesse per primo attaccato. Ma,al di là del colore che piace ai media, è sulla sostanza, che non ci siamo affatto.

3
Nov
2014

Dopo la lettura di Deirdre McCloskey e Bruno Leoni— di Max Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Max Del Papa.

I libri di Federico Rampini li ho tutti e li ho sempre letti con interesse, non sono mai noiosi e lui è indiscutibilmente notevole quando fa il cronista del mondo. In alcuni ultimi, improntati all’economia, Rampini adotta senza esitare una linea keynesiana, interventista dello Stato, e sia, è una impostazione da rispettare che lui peraltro puntella con dati di fatto, cronache recenti; in particolare illustra come, con questa leva, l’America di Obama sia uscita dalle secche di una crisi globale rimettendosi a correre. Però anche Rampini, arrivato a un certo punto del suo ragionamento, non può non riscoprirsi non tanto liberal, o liberale di sinistra, quanto liberista. Ovvero finisce per convergere con la tesi di Deirdre McCloskey: c’è troppa invadenza delle istituzioni statali e sovrastatali e, oltre un certo limite, non ha più senso parlare di libertà, neppure in forma residua, quanto se mai di moderna soggezione, per non dire oppressione. Read More

30
Ott
2014

Avvocati: perché certificare la specializzazione è inutile—di Edoardo Garibaldi

Avvocati di tutta Italia attenzione: se avete pensato di aggiungere al vostro lunghissimo cursus honorum l’ultima stelletta, quella di avvocato specialista, smettetela di valutare quali cause patrocinare e quali no. Prendete tutto ciò che vi capita, ne avrete bisogno. Per diventare avvocato specializzato in una disciplina giuridica dovrete dimostrare, al cospetto del Consiglio nazionale forense (Cnf), di aver avuto affidamenti di cinquanta incarichi professionali per cinque anni consecutivi. Un obiettivo che non sembra di facile raggiungimento visto l’alto numero di avvocati abilitati alla professione (247.020 nel 2012) e che può risultare ancora più difficile per chi si occupi di diritto amministrativo rispetto a chi si occupa di sinistri stradali. Queste almeno sono le norme contenute nella bozza di regolamento “per il conseguimento o il mantenimento del titolo di avvocato specialista”, divulgata dal Ministero della Giustizia di concerto con il Cnf. Read More

29
Ott
2014

Legge di Stabilità: per il Ministro Padoan bisogna evitare il quarto anno di recessione; per il Premier Renzi la ripresa a primavera 2015

Ogni volta i soliti ritornelli che fanno sperare per il meglio e che invece restano solo proclami formali.
La Legge di Stabilità predisposta dal Governo Renzi contiene spunti positivi, ma continua a non cogliere nel segno; contiene certamente misure interessanti per le imprese (come la deduciblità dall’IRAP del costo per il lavoro dipendente, il congelamento dei contributi previdenziali per i primi tre anni dall’assunzione a tempo indeterminato, …) e per i cittadini (la stabilizzazione degli € 80 al mese per le fasce economicamente più deboli e l’aiuto di € 80,00 al mese per i nuovi nati, la proroga delle detrazioni per i lavori straordinari, …), ma Read More

28
Ott
2014

Diminuire il canone TV? No grazie. Privatizzate la RAI.

Dalla Leopolda5 è uscita, fra le altre cose, anche la proposta del Governo di ridurre il canone della Rai Tv e di farlo pagare a tutti, anche a coloro che sino ad ora sono sostanzialmente stati evasori totali. L’idea è quella di inserire il canone all’interno della bolletta elettrica cosicché nessuno possa farla franca e di ancorarne il valore al reddito di ciascun cittadino. Le cifre, stando a quanto è stato dichiarato da esponenti del Governo, dovrebbero oscillare fra i 40 e gli 80 euro annui a fronte degli attuali 113,50. Pagare tutti, insomma, ma pagare meno. Banalità stataliste.
Di privatizzare la Rai Tv e di trasformare il canone annuale in un abbonamento da far pagare solo ai fruitori del servizio che ne facciano richiesta, invece, non se ne parla nemmeno. Eppure le ragioni per mettere la RAI sul mercato e sgravare i cittadini di un’imposta odiosissima oggi sono molteplici.
Innanzitutto il servizio televisivo pubblico non ha più le caratteristiche (se mai le abbia avute) di servizio pubblico essenziale il cui finanziamento deve essere addossato anche su coloro che non vogliono usufruirne. La Corte costituzionale in tutte le sentenze relative al servizio radiotelevisivo ha sempre detto che la ragione dell’originario monopolio in capo alla RAI risiedeva nella necessità di evitare monopoli o oligopoli privati che rappresentassero un attentato al pluralismo dell’informazione. In sostanza, stante l’originaria limitatezza delle frequenze, era meglio un soggetto pubblico cui si potesse imporre forzatamente il pluralismo delle idee e dell’informazione piuttosto che un monopolio privato in grado di condizionare gravemente l’opinione pubblica (sentenze n. 59/1960, n.202/1976, n.148/1981 e n.826/1988). Quando la tecnologia ha consentito l’ampliamento degli strumenti di trasmissione del segnale tv e l’ingresso di altri operatori nel settore senza il rischio di monopoli privati, le ragioni del monopolio Rai sono cadute e la presenza di molteplici canali televisivi è stata giudicata, correttamente, più in linea con il dettato costituzionale tanto nell’ottica di assicurare il pluralismo dell’informazione e della diffusione delle idee quanto in quella di assicurare la libertà di impresa.
Oggi esistono, grazie alla tecnologia digitale e satellitare, migliaia di canali televisivi che assicurano senza alcun dubbio il pluralismo dell’informazione e la diffusione di tutte le culture e gli orientamenti di pensiero. E’ possibile seguire i canali televisivi di tutti i Paesi del mondo. A ciò si aggiunga che internet ha reso, per fortuna, impossibile il controllo accentrato delle notizie e dell’informazione, cosicché nessuno può ragionevolmente ritenere la RAI fonte privilegiata della genuinità e veridicità delle notizie e più in generale dell’informazione.
Né si può ritenere nel 2014 che la RAI svolga funzioni educative e didattiche da cui dipendono le sorti dello sviluppo civile della nazione. Anche la Corte costituzionale che in qualche sentenza ha continuato a ritenere sussistere la funzione sociale della RAI dovrebbe oggi farsene una ragione. Il servizio radiotelevisivo non è più un servizio pubblico necessario, dunque, i cui costi devono essere addossati anche a quanti non ne desiderano la fruizione e la tecnologia consente di trasformarlo in un servizio a domanda individuale con esclusione di quanti non ne facciano richiesta.
La Costituzione Repubblicana richiede la garanzia del pluralismo dell’informazione ma non fa menzione in nessun punto della necessità che lo Stato gestisca un’impresa pubblica con decine di canali televisivi sovvenzionati dalle tasche dei cittadini. Anzi, a volere essere attenti l’articolo 118, comma 4, della Costituzione obbliga lo Stato ad astenersi dalla gestione di quei servizi di interesse generale che sono già esercitati adeguatamente dai privati. I privati che oggi operano nel settore radiotelevisivo sono, come detto, numerosissimi.
In secondo luogo esiste una norma di legge vigente da 10 anni che impone la privatizzazione della RAI; si tratta dell’articolo 21 della legge n. 12 del 2004 a tenore del quale il procedimento per l’alienazione della partecipazione dello Stato nella Rai – Radiotelevisione Italiana Spa ( pari al 99,56% del capitale totale ) avrebbe dovuto avere inizio subito dopo la fusione della Rai Spa nella Rai Holding Spa.
La volontà di procedere alla dismissione è stata ribadita anche nel Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (art.49, comma13, del D.Lgs. n. 177/2005) senza tuttavia che siano state ancora definiti i tempi, le modalità di presentazione, le condizioni e gli elementi dell’offerta o delle offerte pubbliche di vendita che dovevano essere di competenza di una o più deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La privatizzazione resta, comunque, una finalità voluta espressamente dal legislatore e deve essere coerentemente perseguita non già esclusivamente per fare cassa – alienando solo una quota minoritaria della partecipazione di proprietà dello Stato – ma per arretrare il perimetro di azione dell’autorità pubblica nel settore dell’informazione e dei servizi televisivi più in generale.
Dalla privatizzazione della Rai, poi, lo Stato ricaverebbe, secondo alcune stime, dai 2 ai 4 miliardi di euro, con il che la ricerca delle ragioni per giustificare la dismissione della Rai potrebbe fermarsi qui!
Ma andiamo avanti.
Il canone rappresenta, come detto, un’imposizione odiosa. La Corte costituzionale ha stabilito che trattandosi di imposta essa deve essere corrisposta in ragione del mero possesso dell’apparecchio televisivo anche se non si vuole usufruire del servizio erogato dalla Rai (sentenza n. 284/2002). Il totale della raccolta del canone ammonta ad 1,7 miliardi di euro e sono tutti soldi dei cittadini in mano ai sollazzi della politica. Privatizzare la Rai significherebbe anche sottrarre questo “spasso” ai partiti politici. Il canone, poi, per legge deve coprire l’ammontare dei costi del servizio pubblico, cosicché più servizio pubblico lo Stato chiederà alla Rai di erogare più canone occorrerà drenare ai cittadini senza alcun limite predefinito.
In Italia, inoltre, vi è un livello di evasione del canone pari al 27%, superiore per quasi 19 punti percentuali alla media europea. E’ tutto frutto esclusivamente del malcostume italico o vi è una quota consistente di cittadini che avvertono come insopportabile un’imposizione tributaria per un servizio che non richiedono, non vogliono e non apprezzano? Quale sarebbe la percentuale di richiedenti il servizio fra gli attuali pagatori del canone se lo Stato ci lasciasse liberi di scegliere se usufruire del servizio Rai? Perché non garantire la libertà di scelta anche in questo ambito piuttosto che cercare soluzioni improbabili che comunque lasciano inalterato il rapporto di profonda subordinazione del cittadino allo Stato? Chi ha stabilito che il servizio pubblico che eroga la Rai è il servizio che vogliamo?
La Rai, infine, è un’azienda inefficiente. Le sue entrate sono rappresentate per il 60% dal canone imposto ai cittadini e per poco più del 30% dagli introiti pubblicitari. Ciò nonostante gli introiti rappresentati dal canone pubblico non riescono a coprire i costi per la realizzazione della produzione qualificata come servizio pubblico e la differenza deve essere drenata dagli introiti pubblicitari. Nel 2010 l’azienda ha perso 128,5 milioni di euro, nel 2012 l’esercizio ha chiuso con una perdita di 245,7 milioni di euro, sebbene il canone sia aumentato dalle 109 euro del 2010 alle 112 del 2012. Stante il principio secondo il quale il servizio pubblico deve essere finanziato esclusivamente dal canone pubblico la Rai ha chiesto al Ministero dell’economia di restituirgli per il periodo 2005 – 2009 la somma di 1,3 miliardi di euro, ma il Ministero si è ben guardato sin’ora dal pronunciarsi. Quali tasche dovranno fare fronte a tale esborso è molto facile da immaginare.
Dal 2007 al 2013 la Rai ha costantemente perso ascolti, ( le reti generaliste non superano il 35% di share) ha subito la concorrenza della miriade di canali tematici digitali gratuiti ed ha perso il 40% dei propri ricavi pubblicitari a fronte di perdite dei principali concorrenti di circa il 20%. La gestione dei costi di produzione rapportata ai ricavi è un disastro. Una chicca fra tutte: i costi per il festival di Sanremo hanno superato i ricavi nel 2010 per circa 8 milioni di euro, nel 2011 per 7,5 e nel 2012 per 4,8.
Non ci interessa pagare meno, ci interessa pagare per ciò che vogliamo vedere.
P.s. Tutti i dati contenuti nel presente post sono ricavati dalla Determinazione e relazione della Sezione di Controllo della Corte dei Conti sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria della Rai per gli esercizi 2011 e 2012 scaricabile sul sito della Corte dei Conti.
@roccotodero

28
Ott
2014

Abolire la CIG subito: cosa serve al suo posto

Riguarda il lavoro, lo scontro più acceso tra Cgil e minoranza del Pd da una parte, premier Renzi e maggioranza del Pd dall’altra. Eppure ancora una volta il più della polemica si incentra sull’articolo 18, invece che sui maggiori problemi della bassa occupabilità nel nostro paese: il vero guaio strutturale, che porta solo poco più di un italiano su tre a lavorare, mentre in Germania la proporzione è di due su tre.

La domanda è: perché invece di far tante chiacchiere sulla tipizzazione dei licenziamenti disciplinari – solo in questo si ridurrà la modifica dell’articolo 18 attuale a chi ne gode, per il resto verrà esteso a chi non ce l’ha – non si mette la testa e altrettanta passione per esempio sugli ammortizzatori sociali? La risposta è scomoda. Perché è molto più problematico tagliare la questione con l’accetta, come pure andrebbe fatto.

Guardiamo i numeri. L’ultimo bilancio annuale dell’Inps ci parla di 23,5 miliardi di euro di ammortizzatori sociali- tra Cig ordinaria, straordinaria, in deroga, e disoccupazione – dei quali 14,5 in erogazioni dirette, e 9 miliardi di contributi figurativi. Apparentemente, una montagna di soldi. Nella realtà, non è così.

I 7500 euro procapite di spesa sociale annui italiani sono infatti di poco superiori alla media Ue, ma solo noi dedichiamo il 52% del totale della spesa sociale alle pensioni, e solo il 2,9% al sostegno della disoccupazione. La media europea Ue28 è 40% alle pensioni e 5,6% alla disoccupazione, la Francia spende il 39% in pensioni e il 6,6% in disoccupazione, la Germania il 33% in pensioni e il 4,7% in disoccupazione. Solo Croazia e Romania spendono in percentuale meno di noi per la disoccupazione sul totale della spesa sociale, persino la Bulgaria ci batte. Come è evidente, una svolta di reindirizzo al sostegno di chi perde un lavoro rispetto alle pensioni implicherebbe uno sforzo titanico, del quale nessuno si sente capace. Eppure, sarebbe necessario. E’ un modello di società, che dovrebbe cambiare (implicherebbe innanziutto ulteriori agevolazioni al risparmio finalizzato alla previdenza integrativa, NON la stangata fiscale prevista nella legge di stabilità 2015). Perché senza molti più occupati – essendo il sistema previdenziale a ripartizione cioè finanziato da chi lavora – le pensioni saranno sempre più magre o sempre più a carico di un fisco ancora più rapinatore.

Passiamo al secondo problema, quello delle risorse. Nel 2011, la risposta all’esplosione della crisi fu – d’accordo imprese, sindacati e politica – di non procedere a una riforma organica del sostegno alla disoccupazione, ma la sua estensione affiancando alla Cig ordinaria e straordinaria, concepite decenni fa per industria, edilizia e crisi aziendali, la Cig in deroga gestita dalle Regioni, per estenderne le tutele a tutti coloro che ne erano esclusi.

Non è stata una gran pensata. Le Regioni hanno confermato la loro generosa tendenza a concedere migliaia di trattamenti in deroga secondo logiche discrezionali, a volte scandalosi. Nel solo 2014 sono stati necessari stanziamenti per 1,7 miliardi per la sola Cig in deroga che – ricordiamolo – è a carico della fiscalità generale, a differenza della Cig ordinaria e straordinaria finanziate con contributi pagati dalle imprese, e “integrati” dall’Inps se necessario. Tanto il sistema della Cig in deroga ha preso a imbarcare acqua, che ad agosto sono state emanate norme restrittive sia per l’anzianità lavorativa pregressa di chi ne può personalmente beneficiare, che per la definizione stessa di impresa a cui applicarla, che per la durata massima del beneficio.

Il punto è che la Cig in deroga resterà ancora nel 2015. Ed è questo il secondo errore, che andava rimediato con il Jobs Act e che ancora si può rimediare, nei decreti attuativi della delega. La scelta giusta è non solo quella di passare all’ASPI per tutti (nel 2013 Aspi e MiniAspi hanno pesato per un poco più di un quarto del totale degli ammortizzatori sociali, ma gli ultimi dati di agosto-settembre 2014 li vedono paradossalmente in calo rispetto al crescere della Cig sul 2013). Quel che serve soprattutto è incardinare al più presto un sostegno universale al reddito su una vera strategia di rioccupabilità, fondata su una capacità vera di intermediare domanda e offerta di lavoro rottamando gli attuali uffici provinciali del lavoro, con formazione obbligatoria e sostegno al reddito negato se il disoccupato in formazione dovesse rifiutare i nuovi lavori offerti. Oggi non abbiamo un vero sistema formativo volto alla rioccupabilità, e ce n’è un bisogno assoluto visto che oltre metà dei 3 milioni di disoccupati lo è da più di 12 mesi, cioè o non ha o ha perso le skills richieste dalle imprese.

Chiudiamo con altre cifre. La legge di stabilità stanzia un miliardo e mezzo per il passaggio all’Aspi per tutti prevista nel Jobs Act. E’ evidente che stiamo parlando di una cifra totalmente inadeguata, in aggiunta al monte contributi versati dalle imprese per Cigo e Cigs, per finanziare il vero passaggio o a un sistema di tutela universale volto alla rioccupabilità. A maggior ragione perché quel miliardo e mezzo deve anche finanziare ancora la Cig in deroga, che continua.

Ci piacerebbe molto, vedere proposte e controproposte su tutto questo. Invece no, si oppongono anatemi tra correnti di partito. Peccato, con tutto il rispetto dipende molto più da cose come queste che dai licenziamenti disciplinari, se in dieci anni riusciremo a creare 7 o 8 milioni di posti di lavoro non sostitutivi rispetto al turnover, ma nuovi nel senso di “aggiuntivi”: perché questa è la vera sfida e di di questo, come ordine di grandezza, c’è bisogno.

26
Ott
2014

La legalizzazione in Colorado, un anno dopo

Il dibattito sulla legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo ha sempre suscitato prese di posizione sanguigne tra favorevoli e contrari: ridurrebbe il crimine e farebbe “girare l’economia”? Oppure farebbe aumentare la criminalità e gli incidenti stradali? Aumenterebbe le entrate grazie alla tassazione, o sarebbe un pericolo per la salute pubblica?

Sono passati undici mesi da quando, lo scorso gennaio, lo Stato del Colorado ha ufficialmente dato il via alla legalizzazione. In un recente studio, Jeffrey Miron, Director of Economic Studies del Cato Institute, ha provato a rispondere ad alcune di queste domande, basandosi non su convinzioni ideologiche, ma su dati concreti relativi a una delle più recenti esperienze di legalizzazione nel mondo, a distanza di quasi un anno dal suo avvio.  Read More

25
Ott
2014

Tassazione dei fondi pensione. Ancora un intervento retroattivo—di Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Ormai da una decina di giorni il premier ripete orgoglioso di non aver alzato le tasse pur in presenza di una Legge di Stabilità che vale oltre 36 miliardi di euro. Dieci giorni nei quali siamo stati costretti a discutere sulla base di meno di 30 slide – fatte anche male – e di bozze circolate sottobanco e piene di puntini da riempire. Di un testo ufficiale neanche a parlarne, nonostante il Presidente del Consiglio abbia fatto propria la battaglia sulla trasparenza e sull’open data. Una battaglia che ha già fatto vittime eccellenti. Come la Commissione UE, che si è vista pubblicare dal MEF una lettera strettamente confidenziale nel bel mezzo di un confronto delicato sullo sforamento dei parametri di finanza pubblica.  Read More