14
Nov
2014

Chiudere il Teatro Massimo di Palermo; adesso!

Il Teatro Massimo di Palermo è costato, sin’ora, al contribuente italiano circa 30 milioni di euro l’anno. Il Teatro è gestito dalla fondazione omonima i cui soci sono il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, la Regione Sicilia ed il Comune di Palermo.
Leggendo i comunicati stampa del consiglio d’amministrazione relativi all’approvazione dei bilanci consuntivi (qui) tutto parrebbe essere andato per il verso giusto, almeno sino al 2011; in quell’anno si è parlato addirittura del settimo anno consecutivo di bilancio in attivo e di un utile di circa 1.300.000 euro(qui).
In effetti a leggere i bilanci(qui) sembrerebbe tutto vero: il valore della produzione nel 2010 ha superato i costi della produzione per circa 2.3Mln di euro e nel 2011 per una cifra di poco superiore a 1,3Mln di euro.
Peccato però che su un valore della produzione del 2011 pari a 35,4Mln di euro i ricavi delle vendite sono rappresentati da miseri 2,7Mln di euro, mentre su un valore della produzione 2010 pari a 36Mln di euro le vendite di servizi sono state poco più di 3,3Mln di euro.
La domanda sorge dunque spontanea: il resto del valore della produzione da cosa è rappresentato? Semplice, tutti contributi pubblici dei soci, ovvero tasse dei cittadini: 32,6Mln nel 2010 e 32,4Mln nel 2011. In buona sostanza ogni anno sono stati necessari in media 32,5Mln di euro per portare spettatori che nelle casse del Teatro hanno riversato in media appena 3Mln a stagione. E questi sono stati i bilanci in utile: sette consecutivi per la precisione!
Nel 2012 il bilancio della Fondazione è transitato (bontà loro) al “rosso ufficiale”; tra costi e valore della produzione si è registrata una differenza in negativo di 3,2Mln di euro. Cos’è cambiato? I ricavi delle vendite sono diminuiti di 170.000 euro ma i contribuenti hanno partecipato con 27Mln di “erogazioni volontarie” anziché con i 32Mln dell’anno precedente.
Nel 2013, infine, il conto economico è tornato nuovamente in utile per circa 600.000 euro. Merito di una nuova gestione commissariale? Si, i costi della produzione sono scesi da 33,3Mln a 28,7Mln di euro, nel frattempo i ricavi della vendita dei biglietti non si sono schiodati dalla soglia di 2,5Mln, quelli derivanti dalle sponsorizzazioni sono rimaste pari a zero (perché 6.000 euro di sponsorizzazioni nel 2012 e 4.500 nel 2013 sono praticamente zero!) ed i contribuenti hanno partecipato con 25Mln di euro anziché come nell’anno precedente con 27Mln.
Conclusione: dall’inizio del 2010 alla fine del 2013 sono stati spesi 124Mln di contributi pubblici (tasse, tasse e ancora tasse!) per ottenere 11Mln di ricavi delle vendite dei biglietti.
Di qualche giorno fa è la notizia (qui) che il Consiglio d’Indirizzo del Teatro Massimo ha approvato il piano di risanamento triennale (2014 – 2016), previsto dalla legge n. 112 del 7 ottobre 2013 “Valore cultura” e dal decreto “Art Bonus” del 31 maggio 2014, che sarà sottoposto al vaglio del Commissario di Governo per le fondazioni lirico – sinfoniche. Il piano prevede: 1)la richiesta al contribuente italiano di altri 8Mln di euro per abbattere la quota capitale dei mutui in essere, 2) la riduzione dei costi (quelli del personale fra tutti), 3) l’incremento dei ricavi attraverso azioni volte ad aumentare gli spettatori, i turisti ed a potenziare l’utilizzo del teatro per eventi non solo programmati dalla fondazione.
Il Commissario di Governo ha già fatto sapere di desiderare delle modifiche al piano prima di potersi esprimere definitivamente per la sua approvazione e la fondazione rischia di essere messa in liquidazione coatta amministrativa qualora il piano non sia approvato o non siano raggiunte entro l’esercizio 2016 condizioni di equilibrio strutturale del bilancio, sia sotto il profilo patrimoniale che economico – finanziario, come previsto dal comma 14 dell’articolo 11 del decreto legge n.91/2013 convertito con modificazioni dalla legge n. 112/2013.
Tutto bene dunque? Il legislatore ha finalmente trovato e reso operativo uno strumento in grado di arginare l’emorragia di denaro pubblico che ha mantenuto in vita il Teatro Massimo e le altre fondazioni lirico – sinfoniche italiane? No, niente affatto.
Il bilancio strutturalmente riequilibrato non può che fare affidamento sempre e comunque sui contributi pubblici erogati dallo Stato e dalle altre amministrazioni che partecipano alla fondazione. La ragione è semplice:i ricavi delle vendite hanno rappresentato sin’ora meno del 10% dei costi della produzione. E sin tanto che i ricavi provenienti dalle vendite, sommati ai contributi privati, alle sponsorizzazioni e a tutte le altre forme di introiti volontari non pubblici non eguaglieranno i costi della produzione o ad essi non si approssimeranno saranno sempre necessari decine di milioni di contributi pubblici.
Non ha alcun senso confidare nel raggiungimento dell’equilibrio di bilancio se questo dipenderà sempre dall’entità dei contributi pubblici, cosicché i ricavi delle vendite potranno essere considerati sufficienti o irrisori a seconda se riusciranno a colmare la differenza fra costi della produzione e valore delle erogazioni delle pubbliche amministrazioni o se risulteranno inidonei a questo scopo.
Ed ancora, le cifre che le amministrazioni pubbliche decideranno di destinare al Teatro Massimo saranno costanti o varieranno (come sta accadendo negli ultimi anni) in ragione delle mutate condizioni delle finanze pubbliche? Se a questa variazione non seguirà un incremento delle entrate private il bilancio potrà comunque rimanere stabilmente riequilibrato in virtù dell’eventuale aumento delle erogazioni dei soci pubblici?
L’alternativa più ragionevole sembrerebbe un’altra: o si ha idea di come stimolare la domanda dei servizi erogati dalle fondazioni lirico sinfoniche al fine d’assicurare l’effettivo equilibrio di bilancio fra i proventi della gestione ed i costi della produzione o è meglio chiudere. Subito.
@roccotodero

14
Nov
2014

Immigrati, Tor Sapienza, Viminale e le competenze che mancano

Dopo giorni di scontri e tensioni crescenti a Tor Sapienza, il Viminale ieri ha convocato il Comune di Roma. Ma lo ha fatto dopo che il Campidoglio aveva concordato con la Questura il trasferimento dei minori dal centro immigrati di via Morandi, l’epicentro del fenomeno. Il solo fatto che il ministero dell’Interno si sia mosso dopo e non prima, e per di più davanti a fatti estremamente gravi che avvengono nella capitale, consegna la chiave del problema irrisolto dell’immigrazione nel nostro Paese. Abbiamo dedicato migliaia di ore di dibattiti pubblici e radiotelevisivi alle tragedie dei migranti in mare. Ma continuiamo a non avere uno straccio di schema politico-amministrativo efficace, per gestire il fenomeno entro il territorio nazionale e fuori dai Cie.

Ogni paese in ogni secolo ha un suo medioevo. Che si manifesta quando improvvisamente un futuro imprevisto diventa presente, e non si ha alle spalle un passato di esperienze per affrontarlo. In Italia capita con l’immigrazione. Perché a metà degli anni Novanta avevamo un numero di immigrati totali di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.

E’ vero, nel 2014 il fenomeno apicale sono stati gli sbarchi, 150 mila solo da gennaio a ottobre, rispetto a poco più di 40mila nell’intero 2013. E di qui le richieste insistenti perché l’Europa con Frontex sostituisse o per meglio dire integrasse la nostra missione Mare Nostrum. Ma, mare a parte, restiamo totalmente sprovvisti di politiche e risposte organizzate quando l’immigrazione, nelle grandi città e nei territori, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in piccolo centro.

A Roma a Tor Sapienza oggi, come a Corcolle a settembre – e in termini diversi a Milano, con le occupazioni clandestine ma di massa delle case popolari ALER – si sommano tre fattori diversi. Si tratta di periferie o aggregati urbani nei quali il reddito medio degli italiani residenti è anche del 40-50% inferiore alla media, cioè aree già per loro conto a fortissimo disagio sociale. Dove in pochi mesi o settimane si determina una concentrazione di immigrati per i quali i già scarsissimi servizi offerti ai residenti italiani diventano ancor più deficitari. E in ogni caso, se aggiuntivi per gli immigrati, avvertiti dagli italiani come uno schiaffo alla propria condizione, come allo stesso modo viene avvertita la loro disponibilità per lavori a bassissima remunerazione, in diretta concorrenza con gli oltre 3 milioni di disoccupati italiani. Ma l’ulteriore a novità è che su questo malcontento da qualche tempo hanno preso a risoffiare gli aliti di estreme minoranze politiche, però determinate a incitare allo scontro, a fini populistici e per proprio tornaconto.

E’ ovvio che il problema e l’emergenza di ordine pubblico siano rappresentati dal terzo fattore, e dal secondo quando tracima in violenze e cacce all’uomo spontanee e non “incitate” da mestatori. Non fosse che per questo, è ancor più singolare che ieri il Viminale si sia svegliato quando già Comune e Questura avevano attuato una prima decisione. Ma il problema è un altro. Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali.

In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. E’ quello il modello al quale guardare, visto che non siamo francesi né britannici, non abbiamo avuto secoli di imperi coloniali, e di conseguenti eredità postcoloniali di immigrazione da gestire. Per capirci, le Council Houses municipali, che nel Regno Unito sono riservate ai meno abbienti e agli immigrati, hanno una tradizione che affonda le radici nell’XII° secolo, e nelle Poor Laws che dal ’600 fino a Lord Beveridge hanno costituito un modello di soluzione, sia pur in presenza di uno Stato molto parco nella spesa pubblica.

Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere le competenze (e risorse) per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei come quello di via Morando a Tor Sapienza, calato dall’alto in realtà di degrado per decisione di qualche funzionario del ministero e del Comune individuato dall’alto come “recipiente”. Il governo prenda l’iniziativa di avviare questa svolta.

Che avrà tempi ovviamente lunghi, visto che è in corso un bel braccio di ferro con Comuni e Regioni per i tagli chiesti in legge di stabilità. E dunque nel periodo transitorio Stato centrale e Città dovranno percorrere un bel tratto di strada insieme. Perché è vero che il più degli immigrati oggi sbarcano per non restare in un’Italia disastrata ma nel tentativo di andare verso il Nord Europa. E che i permessi di soggiorno per lavoro sono scesi dai 350 mila del 2010 a poco più di 60mila nel 2012. Ma al contempo gli immigrati sono oggi milioni. E dalla casa al lavoro, alla scuola e all’università, occorre pensarci. Ficchiamocelo in testa: credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.

12
Nov
2014

Civiltà giuridica: il DDL semplificazioni—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Era il 19 giugno 2013 quando il Governo Letta nel consiglio dei ministri n. 10 annunciava di aver approvato il disegno di legge sulle semplificazioni.
Che fine avrà fatto quel disegno di legge? Dopo un percorso tortuoso è ancora presso le Camere. Eppure come si legge sulla pagina web del Governo quel disegno di legge conteneva almeno otto semplificazioni di carattere fiscale che, sebbene non determinanti, risultavano comunque importanti.
Una di queste riguardava il trattamento fiscale da riservare alle società tra professionisti. Read More

10
Nov
2014

Il premier, Salvati e i liberali—di Nicola Rossi

La politica italiana è di per sé piuttosto difficile da decifrare. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto quindi per renderla, al contrario, pienamente intellegibile ai cittadini ed agli elettori. Non va in questa direzione, purtroppo, il recente articolo di Michele Salvati (“Un leader liberale per la sinistra”, Corriere della Sera del 3 novembre scorso) che descrive il presidente del consiglio come un liberale e anzi, per essere più precisi, come un liberale e non come un socialdemocratico. Pensiamo che sia una descrizione non corrispondente alla realtà delle cose. Ma prima di chiarire il perché, una premessa è necessaria.

Le righe che seguono non sono un apprezzamento o una critica dell’operato del governo e/o della figura del presidente del consiglio. Non è questo, infatti, il punto in discussione. Avere come proprio punto di riferimento la cultura liberale non può essere inteso, infatti, come una medaglia da appuntare sul petto proprio o di altri. Molto più prosaicamente, implica avere una visione della società ed informare ad essa le proprie strategie e le proprie scelte. Essere liberali non è un merito o un demerito: è semplicemente un modo di leggere se stessi e la società che abbiamo intorno. Si può tranquillamente essere leader politici di prima grandezza senza essere liberali (anche se, evidentemente, una presunzione molto diffusa sembrerebbe negarlo).

Read More

9
Nov
2014

Riduzione dell’IVA sugli e-book: presentati due emendamenti alla Legge di Stabilità

Nei mesi passati ci siamo occupati a più riprese dell’annosa questione dell’IVA applicabile agli e-book, prima in un paper dell’Istituto Bruno Leoni e poi con alcuni interventi su questo stesso blog (qui e qui). Ebbene, a quanto si apprende dall’agenzia Public Policy, tra i circa 4.000 emendamenti presentati alla Commissione bilancio di Montecitorio per modificare il testo della Legge di Stabilità, ve ne sarebbero due volti a ottenere la diminuzione dell’IVA sugli e-book dal 22 al 4%, equiparandola così a quella, agevolata, applicabile ai libri cartacei. Un obiettivo, questo, che, di recente, è stato anche oggetto di una fortunata campagna online, emblematicamente denominata #unlibroeunlibro.

Read More

8
Nov
2014

Addio a Tullock, padre della public choice—di Francesco Forte

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Forte.

Gordon Tullock, nato il 13 febbraio 1922 a Rockford nell’Illinois e morto il 3 novembre 2014 a Des Moines nello Iowa, è stato fra i fondatori della scuola di public choice, che ha come suo maestro eminente James Buchanan, scomparso lo scorso anno. L’opera maggiore di James Buchanan, The Calculus of Consent: Logical Foundations of a Constitutional Democracy del 1962, ha come co-autore Gordon Tullock.

Nel suo anno accademico in Italia nel 1956-57, Buchanan aveva “scoperto”, in particolare nell’Istituto di Finanza dell’Università di Pavia, la scuola italiana di scienza delle finanze caratterizzata dagli studi sull’imposta come prezzo fiscale dei servizi pubblici e sui processi di decisione dell’economia pubblica negli aspetti economici, politici, giuridici e sociologici, scuola di economisti quali Francesco Ferrara, Ugo Mazzola, Antonio de Viti de Marco, Maffeo Pantaleoni, Amilcare Puviani, Luigi Einaudi, Benvenuto Griziotti.

Tornato all’Università di Virginia, in cui dal 1957-58 era divenuto Chairman del Department of Economics, Buchanan aveva letto un saggio di Gordon Tullock sulla teoria del voto a maggioranza. Gli aveva, perciò, offerto la prima Thomas Jefferson post doctoral fellowship per studiare l’economia politica dal punto di vista interdisciplinare economico e politico. L’anno dopo, la Thomas Jefferson post doctoral fellowship toccò a me, che avevo assistito Buchanan a Pavia nelle sue ricerche e avevo fatto i miei primi studi sul prezzo fiscale dei servizi pubblici e sulle analisi economiche del diritto per le regole fiscali costituzionali italiane. Read More

6
Nov
2014

I produttori di latte non pagano le multe dell’UE e lo Stato tenta di mettere le mani nelle tasche di tutti i contribuenti:una storia indegna.

Ci sono letture che ti suscitano indignazione, di quelle che più vai avanti più ti senti assalire da un montante e crescente sdegno, sino al punto di fermarti, di non leggere più, di non riuscire a completare, tanto è lo sbigottimento che ti assale.
Sono emozioni che può regalarti solo quella canaglia dello Stato italiano, quel coacervo di istituzioni, leggi, burocrazia e uomini scellerati che non provano vergogna per niente.
Sono emozioni che si provano leggendo la relazione della Corte dei Conti “sulla gestione degli interventi di recupero delle somme pagate dallo Stato in luogo degli allevatori per eccesso di produzione di quote latte” (qui) quando scopri che i produttori di latte che hanno violato le regole europee sull’eccesso di produzione avrebbero dovuto pagare di tasca propria 4,4 miliardi di multe all’Unione Europea che invece sono stati già pagati dallo Stato, dalla fiscalità generale, da tutti i cittadini insomma.
Turbamenti che ti assalgono quando leggi che per il periodo precedente la campagna lattiera 1995/96 poco meno di 2 miliardi di oneri sono stati interamente caricati sull’erario e non saranno più pagati dai produttori, mentre dei restanti 2,5 miliardi ancora da recuperare e già versati all’UE se ne possono in teoria riavere, per incapacità dello Stato, solo 2,2 con una perdita netta di più di 300 milioni.
Già incredulo, continui, e leggi il monito della Corte dei Conti che ti comunica che il recupero effettivo dei più di 2 miliardi di euro è stato sin’ora trascurabile e che le lungaggini burocratiche, le connivenze del legislatore e dell’amministrazione statale, le proroghe pensate ad arte concretizzano il serio rischio di non recuperare mai più questa montagna di soldi già anticipata dai contribuenti, da chi non produce latte, da chi lo produce ma non ha violato le regole. Una somma, peraltro, che, continuando questo andazzo rischia di essere definitivamente pagata anche da chi è appena nato e da chi deve ancora nascere: “ Ciò comporta un rilevante incremento della probabilità che, con il passare del tempo, le procedure esecutive diventino impossibili, con il rischio della traslazione dell’onere finanziario dagli allevatori inadempienti alla fiscalità generale….. “
L’atto d’accusa della Corte dei conti porta la rabbia vicino all’apice della sopportazione: 1) la riscossione coattiva del prelievo non è progredita a far data della legge n.33/2009, 2) l’onere della medesima riscossione è passato da Equitalia all’Ag.e.a., che versa però in uno stato di crisi, per carenze finanziarie e di organico, 3) l’operatività della procedura di riscossione prevista dalla legge n.228/2012 non è ancora oggi avviata, per la necessità di dare attuazione alla convenzione fra l’Ag.e.a. ed Equitalia, 4) in senso contrario all’assicurazione di una rapida ed incisiva azione espressa nell’adunanza del 6 dicembre 2012 da tutte le amministrazioni coinvolte, si constata – ancora una volta, un’inerzia ed una prassi amministrativa non conformi alla necessità di una decisa attività di recupero.
Basito ti rendi conto di quanto ragione abbia la Corte dei Conti nell’osservare che: ” L’accollo da parte dello Stato dell’onere del prelievo si configura come violazione non solo della regolamentazione dell’Unione europea ma, altresì,degli obiettivi della sua politica economica, indirizzati all’efficiente organizzazione del mercato lattiero – caseario, al suo assetto strutturale in linea con la necessità di contenere le produzioni ed alla tutela della libera concorrenza tra i produttori del settore
Non contento ancora dell’umiliazione che stai subendo come cittadino di questa penisola criminale, avanzi velocemente nella lettura e scopri che l’Unione europea ci ha messo in mora per il mancato recupero dei crediti nei confronti degli allevatori, che il tuo Paese se ne infischia, che tutto questo anche agli occhi della Corte sembra essere un obiettivo deliberato del legislatore e dell’intera classe dirigente nazionale che non se la sente proprio di far pagare chi non ha rispettato le regole preferendo allora concedere dilazioni, proroghe, sospensioni, ulteriori accertamenti, per non affrontare il malcontento ingiustificato ma rumoroso di pochi, scommettendo, invece, sul silenzio distratto di molti, “ al fine di alimentare le aspettative dei produttori, tese alla remissione del loro debito”.
Sei stato assalito dallo scoramento oramai quando leggi la pesante reprimenda dei Giudici che probabilmente non si capacitano nemmeno loro di come sia possibile continuare a non tenere conto delle regole che abbiamo scelto deliberatamente di rispettare in ambito internazionale: “ Permane diffusa nella Pubblica amministrazione l’idea che le disposizioni legislative italiane, anche se difformi dalla normativa dell’Unione, pretendano cogente applicazione, nonostante, sul punto,anche per la materia delle quote latte, si sia fatta chiarezza, da tempo, in senso contrario.
Ma ad un certo punto leggi che la Commissione Europea ha stigmatizzato l’ennesimo aiuto di Stato rappresentato dalla concessione di un’ulteriore proroga agli allevatori per il pagamento del loro debito e che “ ..per gli oneri finanziari di tale ulteriore beneficio a favore degli allevatori, quantificati in 5 milioni di euro, si attinge alla quota del fondo esigenze urgenti e indifferibili destinata: al finanziamento di interventi urgenti di riequilibrio socio – economico, sviluppo dei territori, attività di ricerca, assistenza ai malati oncologici e promozione attività sportive, culturali e sociali.”
Basta, non riesco ad andare avanti.
@roccotodero