24
Nov
2014

Civiltà giuridica: la mancata attuazione del principio di autotutela—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

L’autotutela è un principio di civiltà giuridica che – senza necessità di utilizzare concetti e definizioni giuridiche – semplicemente, esercitando il quale la Pubblica Amministrazione ha il potere/dovere di riesaminare i propri atti e di annullarli o revocarli. Non solo potere ma anche dovere!
Molti esempi ci dicono però che la mancata applicazione di questo principio è assai diffusa.
Eccone uno. Il Comune di Roma ha affidato ad una società in house Aequa Roma SpA – evoluzione di Roma Entrate S.p.A. – l’attività di supporto a Roma Capitale nell’accertamento e nella gestione delle entrate tributarie, extratributarie e patrimoniali, con l’obiettivo anche di migliorare continuamente la qualità dei servizi resi ai cittadini romani. Un intento nobile. Ma, purtroppo, solo a parole. Read More

23
Nov
2014

L’onore ed il prestigio del Capo dello Stato valgono più della libertà personale dei cittadini?

Nel suo libro “ Difendere l’indifendibile” (Liberilibri edizioni), il libertario americano Walter Block si schiera a favore, oltre che delle prostitute, del tassista abusivo, del bagarino, del presta – denaro, dello speculatore e dello sporco capitalista sfruttatore di manodopera, anche delle figure del calunniatore e del diffamatore, i quali ultimi, a suo giudizio, non dovrebbero mai essere perseguiti penalmente per la libera espressione delle loro opinioni. Block, da libertario qual è, fonda il suo ragionamento sul diritto di proprietà e ritiene che la tutela del buon nome di ciascuno sia impossibile per il semplice fatto che essa dipende dal giudizio che di quel nome hanno gli altri. Ed il giudizio degli altri è proprietà, appunto, di ciascuno di loro. “ Ma in cosa consiste il buon nome di una persona? Come descrivere questa <<cosa>> che non può essere <<presa con leggerezza>>? Chiaramente non è una proprietà che può dirsi appartenente ad una persona come invece si può dire dei suoi abiti. Infatti, la reputazione di una persona è ciò che gli altri pensano di lei; consiste quindi nel pensiero che appartiene ad altre persone. Un uomo non possiede la sua reputazione più di quanto non possegga il pensiero degli altri…poiché in fondo la sua reputazione consiste solo in questo”.
Il libertario americano aggiunge anche un altro argomento contro le leggi che puniscono i diffamatori ritenendo che un regime di ampia libertà metterebbe in guardia il pubblico, il quale non crederebbe più tanto facilmente alla eventuale valanga di menzogne calunnianti e sarebbe costretto a soppesarle attentamente, cosicché il diffamatore perderebbe il potere di rovinare il buon nome di chicchessia.
La conclusione per Block è che non si può mai chiedere nemmeno un risarcimento dei danni per una presunta lesione dell’onore, del decoro e della reputazione, in ragione del fatto che ciò comporterebbe un’inammissibile (dal suo punto di vista) limitazione della libertà di ciascuno di noi di influenzare gli altri per il tramite del giudizio che esprimiamo su chi ci circonda.
Insomma, se fosse stato per Block Francesco Storace sarebbe stato sicuramente assolto, (invece di beccarsi come gli è capitato una condanna a sei mesi di reclusione) dall’accusa di avere offeso l’onore ed il prestigio del Presidente della Repubblica (art. 278.c.p.), per la semplice ragione che un’incriminazione di tal fatta non potrebbe trovare ingresso all’interno di un ordinamento che si fondi su presupposti libertari.
Il ragionamento di Block è molto intrigante, senza dubbio (e per certi versi valido), ma forse da solo non è in grado di giustificare perché l’articolo 278 del codice penale dovrebbe essere abrogato senza ulteriore indugio.
Chi ha sfogliato un manuale qualsiasi di diritto penale sa perfettamente che dottrina e giurisprudenza (anche costituzionale) hanno sempre ritenuto l’incriminazione penale come ultima ratio, da utilizzare per la tutela di beni giuridici fondamentali solo allorché altre forme di tutela risultassero del tutto inadeguate a proteggere i predetti beni. La ragione è semplice ed intuitiva: la pena è privazione della libertà personale, colpisce un bene di rango costituzionale talmente elevato da potere essere considerato secondo solo alla vita stessa. La libertà, pertanto, può essere compromessa solo in presenza di comportamenti che aggrediscono beni di una certa importanza perché diversamente verrebbe violato l’intero equilibrio dei diritti fondamentali e l’importantissimo principio di proporzionalità.
E’ la logica, come molti sanno, del diritto penale minimo, il solo diritto penale che, Costituzione alla mano, potrebbe trovare ingresso in un ordinamento democratico, personalista e pluralista come quello nostro. E’ la logica di un diritto penale che non può incriminare condotte prive di una certa soglia di disvalore sociale proprio perché non sono percepite come particolarmente lesive dalla comunità.
Nel 1994 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 341, sulla base delle premesse appena sopra esposte, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 341 del codice penale nella parte in cui prevedeva per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale la pena minima di mesi sei. Sei mesi, secondo i giudici, rappresentavano una pena troppo elevata in rapporto al rango del bene offeso dall’oltraggio che è l’onore del pubblico ufficiale. L’importanza della libertà personale non poteva consentire una limitazione così grave per una lesione di un bene non altrettanto importante.
In quella occasione la Corte ha ribadito tre concetti fondamentali: da un lato ha detto che il principio di proporzionalità nel diritto penale “ equivale a negare legittimità alle incriminazioni che,…producono attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti ( o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni”, dall’altro, ha affermato che “ La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito produce una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27,terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” . In ultimo, i giudici costituzionali hanno detto che il rapporto fra cittadino ed amministrazione all’interno del nuovo contesto democratico – liberale inaugurato dalla Costituzione repubblicana non deve essere un rapporto d’imperio e che le sanzioni penali che ripugnano alla coscienza sociale meritano di essere cancellate.
Probabilmente anche sulla scorta di tali argomentazioni il Parlamento ha dapprima abrogato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale nel 1999, per poi reintrodurlo, tuttavia, nel 2009, sebbene prevedendo la diminuzione della pena nel minimo secondo le indicazioni della Corte Costituzionale.
Il precedente della Corte del 1994 aveva ragionevolmente fatto sperare che anche il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica potesse cadere sotto la scure del giudizio di illegittimità costituzionale, quanto meno limitatamente alla previsione del minimo della pena pari ad un anno di reclusione, considerato che i giudici costituzionali tradizionalmente si occupano solo di sindacare il quantum della pena e non sempre la scelta del legislatore di considerare reato un determinato comportamento.
Con ordinanza n. 163 del 1996 il Giudice delle leggi, invece, ha detto che le argomentazioni svolte in occasione del giudizio sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale non possono essere estese al vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica perché il vilipendio è una “figura criminosa di antica tradizione” e perché il bene protetto dalla norma assume un “peculiare risalto” all’interno della gerarchia dei beni giuridici.
Il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica è così rimasto in piedi e la Corte ha ritenuto giusto che debba essere punito (in teoria) con il minimo di anni uno di reclusione in considerazione dell’importanza del bene protetto che poi è, appunto, l’onore ed il prestigio della Capo dello Stato.
Ma il convincimento dei giudici costituzionali andrebbe oggi rivisto e la mancata abrogazione ancora adesso del reato di cui all’art. 278 codice penale da parte del Parlamento non pare trovare alcuna giustificazione plausibile.
In primo luogo, proprio perché “ figura criminosa di antica tradizione “ il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato non può che rappresentare il retaggio di un’epoca in cui i rapporti fra autorità e libertà, fra potere e cittadino erano improntati ad un vincolo di subordinazione, al riconoscimento di uno status privilegiato agli organi statali ed alla mancata affermazione generale del principio di uguaglianza formale. Prima del 1947, infatti, l’art. 278 tutelava l’onore ed il prestigio del Re, del Reggente, della Regina e del Principe ereditario.
Proprio il principio d’uguaglianza, poi, che è servito alla Corte Costituzionale da grimaldello per dichiarare l’illegittimità di disposizioni di legge ordinaria che istituivano privilegi a favore di alcune cariche dello Stato, fra i quali il Presidente della Repubblica, (il c.d. Lodo Alfano), non consente, ancora oggi, che l’offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato sia punita nel minimo con la reclusione di anni uno quando l’ingiuria e la diffamazione nei confronti dei comuni cittadini sono punti con la reclusione sino a sei mesi (pena massima) e con la reclusione sino ad un anno (pena massima).
Non si può negare, inoltre, che l’onore ed il prestigio del Capo dello Stato e di qualsiasi altro cittadino non sono per nulla equiparabili alla libertà personale. Esiste, ed è innegabile, una gerarchia dei beni costituzionali: punire l’offesa all’onore con la privazione della libertà rappresenta una violazione del principio di stretta necessità del diritto penale e contrasta col canone della proporzionalità. Onore, decoro e prestigio di ciascun cittadino possono ben essere tutelati sul piano civile con la richiesta di risarcimento danni.
A ciò si aggiunga che il reato che pretende di tutelare l’onore ed il decoro del Capo dello Stato è oggi percepito da quella che la giurisprudenza definisce “ coscienza sociale” come un inutile ed ingiusto anacronismo, emblema di un privilegio che allontana ancora di più le istituzioni dai cittadini, e che nessuno pensa di potere essere rieducato per avere espresso un giudizio, per quanto poco lusinghiero, nei confronti del Presidente della Repubblica.
Ma è tutta l’impostazione del diritto penale minimo, come strumento di tutela dei beni giuridici tipico delle società democratiche e liberali, che viene travolta dalla previsione dell’articolo 278 del codice penale. Luigi Ferrajoli, autore di una fra le più importanti opere di teoria generale in materia penale (Diritto e ragione – teoria del garantismo penale, Laterza), ha spiegato magistralmente che l’incriminazione penale serve a proteggere i deboli. Nel momento della consumazione del reato il soggetto debole è la vittima del reato stesso, per cui il divieto consacrato nel precetto penale vale a proteggerlo, cosi come la reazione dello Stato vale a garantire la tutela dei suoi beni. Successivamente, il soggetto debole diviene il reo che si trova davanti alla potenza degli strumenti di coercizione dello Stato ed il diritto penale in questo preciso momento vale a tutelare i diritti inviolabili dell’imputato/condannato/recluso.
Solo all’interno di questo schematismo il diritto penale ha ragione d’esistere.
Ora, vi pare che un Capo dello Stato, chiunque esso sia, possa mai rappresentare l’elemento debole di una relazione intersoggettiva in cui all’altro capo vi è un comune cittadino?
@roccotodero

20
Nov
2014

Lo sciopero dei polli di Renzi: Landini vince, confederali al traino

Lo sciopero ha fatto girare la testa ai sindacati confederali. La Cgil aveva deciso da sola lo sciopero generale per il 5 dicembre, un venerdì attaccato al ponte dell’Immacolata: non pensando all’ovvio scherno che ne sarebbe derivato, sommando tutti coloro che ne avrebbero approfittato per un ponte lungo. Ma ecco che a questo punto arriva la Uil del neosegretario Carmelo Barbagallo, e anche lei decide a congresso per lo sciopero generale. Ma non il 5 bensì il 12, così cade la critica di voler fare “i pontieri”. Senonché la Cisl della neosegretaria Annamaria Furlan sciopera anch’essa: ma non lo sciopero generale Cgil con Uil al traino, bensì generale sì ma nel solo settore pubblico, il primo dicembre. E se Cgil e Uil vogliono accodarsi nello sciopero Cisl bene, ma la Cisl allo sciopero Cgil-Uil non s’accoda.

Sembra un litigio manzoniano tra i polli di Renzo, che adattato a oggi diventa tra polli di Renzi. La libertà sindacale è sacra, ma le confederazioni accettino una critica fuori dai denti. Dopo il nulla di fatto della Camusso a piazza San Giovanni che aiutò Renzi invece di danneggiarlo, tutto l’ambaradan partito da due settimane sullo sciopero generale, da soli o in compagnia e a chi sarà più tosto a seconda di con chi sfila, vienedalla spinta esercitata da un sindacato che non è né la Cgil né la Uil né la Cisl, bensì la FIOM che in teoria nella Cgil è minoranza assoluta. E dal suo leader, l’unico che rimbalza di schermo in schermo televisivo e fa testo quando parla: non a nome dei suoi iscritti ormai – il più delle volte in minoranza nelle fabbriche – bensì dell’intero fronte di “chi non ci sta”: Maurizio Landini. Lo scontro con la polizia a piazza Indipendenza a Roma, alla testa degli operari dell’AST Terni, ha completamente modificato il quadro degli atteggiamenti sindacali. Da quel giorno Landini guida, e la Cgil e gli altri inseguono. La FIOM avrà perso il congresso Cgil, ma nei fatti sta imponendo a tutti lo scontro muro contro muro. Legittimo, per carità: basta che i riformisti della Uil e della Cisl se ne rendano conto, ora che le due nuove segreterie hanno il problema di mostrare al più presto agli iscritti quanto sono “toste”, rispetto ai vecchi leader usciti di scena.

“Gli scioperi hanno regolarmente prodotto l’invenzione e l’applicazione di nuove macchine”. Sapete chi l’ha scritto? No, né Milton Friedman né la baronessa Thatcher. L’ha scritto uno che agli scioperi era simpatetico: Karl Marx, in La miseria della filosofia. E se era vero ai tempi suoi, quelli della prima rivoluzione industriale, figuriamoci quanto siano opportuni e azzeccati gli scioperi generali nell’Italia di adesso, piegata in due da una recessione durissima e pluriennale. Un’Italia che ha bisogno di trovare ponti comuni tra dipendenti e autonomi, vecchi e nuovi lavori, pubblico e privato, partite IVA e contratti a tempo senza tutele.

Si è appena chiusa a Roma una vicenda che dovrebbe far riflettere il sindacato ”antagonista”: quella del Teatro dell’Opera. Aver detto no alla proposta di risanamento aziendale a luglio pur votata a maggioranza dai dipendenti, aver continuato a difendere indennità e costi da paura e bassa produttività, ha portato il sovrintendente Fuortes a convincere cda e ministro Franceschini che non c’era via d’uscita, bisognava licenziare l’orchestra. Solo a trauma avvenuto, i sindacati che prima dicevano no hanno dovuto ripiegare le bandiere, e hanno firmato tagli di costi per 4 milioni e l’innalzamento delle recite. E i licenziamenti sono rientrati. Pensate a che cosa sarebbe avvenuto, visto che da mesi spacchiamo il capello in quattro per i licenziamenti individuali nel privato da normare nel Jobs Act, se fosse stata un’azienda privata e non un teatro pubblico, a ricorrere a un licenziamento collettivo usato in realtà solo come arma per risedersi al tavolo contrattuale, e strappare un accordo necessario alla sopravvivenza. Sarebbero insorti tutti gridando contro l’avido padrone. Invece per una volta il segnale è venuto dal fronte pubblico, ma il risultato è comunque una piena sconfitta di un modello sindacale sbagliato perché ideologico, fondato solo sul “no perché no”.

Ora non sta a noi dire che ai sindacati deve piacere quel che propone e fa il governo Renzi. Ci mancherebbe altro. Ma credere di tornare tutti all’autunno caldo del 1969 e agli anni Settanta può essere un mito per chi nella FIOM e tra i COBAS è da sempre rimasto convinto e nostalgico di quel modello. Se lo ridiventa anche per chi per anni e anni ha detto di aver tratto il giusto bilancio di quell’esperienza, allora è un altro paio di maniche. Non farà affatto tornare indietro le lancette della storia: perché non è finito solo l’autunno caldo ma è finita la concertazione, e chiunque governerà dopo Renzi così resterà, perché la politica si è ripresa dopo decenni la sua autonomia. E tuttavia aprirà una fase nuova: quella dei resti di un sindacato riformista che torna al traino della difesa pervicace di una visione antagonista.

Sta a Cgil, Cisl e Uil rifletterci sopra. Scelgano quel che credono, ma poi non ne rimpiangano le conseguenze: perché Landini e la FIOM in questa impostazione saranno sempre davanti a loro, e loro al seguito. La storia del sindacato antagonista, per definizione, è fatta è più di sconfitte che di vittorie: è la sconfitta a dimostrare di essere irriducibilmente “altri e diversi” rispetto alla produzione e al mercato, agli imprenditori e all’innovazione organizzativa e tecnologica di cui si alimenta la maggior produttività. Il sindacato riformista da quelle sconfitte ricercate ha imparato nel Novecento in tutto l’Occidente che bisogna guardarsi, perché il lavoro e la sua dignità si estendono con buoni e pazienti accordi, non con cortei e scontri di piazza.

Fatevi dunque se volete i vostri scioperi: liberi di credere di farlo per abbattere Renzi, in realtà state abbattendo un pezzo di strada che faticosamente aveva percorso chi vi ha preceduto. Perché si impara più dalle sconfitte, che da ideologiche vittorie impossibili.

17
Nov
2014

Gli immigrati regolari delinquono meno?—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

L’immigrazione è un tema problematico, una questione sulla quale i pregiudizi sono determinanti per le politiche dei governi, anche perché tali pregiudizi sono generati dalle paure legittime di coloro che periodicamente vanno a votare e temono ciò che non conoscono. Ma la paura, purtroppo, non è buona consigliera: appartiene all’irrazionale e lasciare che determini le scelte dei politici non è auspicabile. Luigi Einaudi scriveva nel saggio “Conoscere per deliberare” che la ricerca del vero non può essere affidata al dottrinario, colui che non ragiona sul fondamento dei dati, ma si abbandona al punto di vista della “sua fede sociale e politica”.

I politici, stando a quello che dichiarano, sembrano comportarsi in questo modo, e a ruota vanno gli elettori. Casa Pound e la Lega di Matteo Salvini hanno riempito piazza Duomo a Milano al grido “Stop all’invasione” degli immigrati che rubano il lavoro agli italiani. Dall’altra parte c’è chi insorge, come Sel e parte del Pd, che fa del terzomondismo la sua bandiera e auspica l’apertura delle frontiere. È lecito domandarsi, però, se entrambi gli schieramenti abbiano mai cercato di andare oltre gli slogan. Read More

14
Nov
2014

Chiudere il Teatro Massimo di Palermo; adesso!

Il Teatro Massimo di Palermo è costato, sin’ora, al contribuente italiano circa 30 milioni di euro l’anno. Il Teatro è gestito dalla fondazione omonima i cui soci sono il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo, la Regione Sicilia ed il Comune di Palermo.
Leggendo i comunicati stampa del consiglio d’amministrazione relativi all’approvazione dei bilanci consuntivi (qui) tutto parrebbe essere andato per il verso giusto, almeno sino al 2011; in quell’anno si è parlato addirittura del settimo anno consecutivo di bilancio in attivo e di un utile di circa 1.300.000 euro(qui).
In effetti a leggere i bilanci(qui) sembrerebbe tutto vero: il valore della produzione nel 2010 ha superato i costi della produzione per circa 2.3Mln di euro e nel 2011 per una cifra di poco superiore a 1,3Mln di euro.
Peccato però che su un valore della produzione del 2011 pari a 35,4Mln di euro i ricavi delle vendite sono rappresentati da miseri 2,7Mln di euro, mentre su un valore della produzione 2010 pari a 36Mln di euro le vendite di servizi sono state poco più di 3,3Mln di euro.
La domanda sorge dunque spontanea: il resto del valore della produzione da cosa è rappresentato? Semplice, tutti contributi pubblici dei soci, ovvero tasse dei cittadini: 32,6Mln nel 2010 e 32,4Mln nel 2011. In buona sostanza ogni anno sono stati necessari in media 32,5Mln di euro per portare spettatori che nelle casse del Teatro hanno riversato in media appena 3Mln a stagione. E questi sono stati i bilanci in utile: sette consecutivi per la precisione!
Nel 2012 il bilancio della Fondazione è transitato (bontà loro) al “rosso ufficiale”; tra costi e valore della produzione si è registrata una differenza in negativo di 3,2Mln di euro. Cos’è cambiato? I ricavi delle vendite sono diminuiti di 170.000 euro ma i contribuenti hanno partecipato con 27Mln di “erogazioni volontarie” anziché con i 32Mln dell’anno precedente.
Nel 2013, infine, il conto economico è tornato nuovamente in utile per circa 600.000 euro. Merito di una nuova gestione commissariale? Si, i costi della produzione sono scesi da 33,3Mln a 28,7Mln di euro, nel frattempo i ricavi della vendita dei biglietti non si sono schiodati dalla soglia di 2,5Mln, quelli derivanti dalle sponsorizzazioni sono rimaste pari a zero (perché 6.000 euro di sponsorizzazioni nel 2012 e 4.500 nel 2013 sono praticamente zero!) ed i contribuenti hanno partecipato con 25Mln di euro anziché come nell’anno precedente con 27Mln.
Conclusione: dall’inizio del 2010 alla fine del 2013 sono stati spesi 124Mln di contributi pubblici (tasse, tasse e ancora tasse!) per ottenere 11Mln di ricavi delle vendite dei biglietti.
Di qualche giorno fa è la notizia (qui) che il Consiglio d’Indirizzo del Teatro Massimo ha approvato il piano di risanamento triennale (2014 – 2016), previsto dalla legge n. 112 del 7 ottobre 2013 “Valore cultura” e dal decreto “Art Bonus” del 31 maggio 2014, che sarà sottoposto al vaglio del Commissario di Governo per le fondazioni lirico – sinfoniche. Il piano prevede: 1)la richiesta al contribuente italiano di altri 8Mln di euro per abbattere la quota capitale dei mutui in essere, 2) la riduzione dei costi (quelli del personale fra tutti), 3) l’incremento dei ricavi attraverso azioni volte ad aumentare gli spettatori, i turisti ed a potenziare l’utilizzo del teatro per eventi non solo programmati dalla fondazione.
Il Commissario di Governo ha già fatto sapere di desiderare delle modifiche al piano prima di potersi esprimere definitivamente per la sua approvazione e la fondazione rischia di essere messa in liquidazione coatta amministrativa qualora il piano non sia approvato o non siano raggiunte entro l’esercizio 2016 condizioni di equilibrio strutturale del bilancio, sia sotto il profilo patrimoniale che economico – finanziario, come previsto dal comma 14 dell’articolo 11 del decreto legge n.91/2013 convertito con modificazioni dalla legge n. 112/2013.
Tutto bene dunque? Il legislatore ha finalmente trovato e reso operativo uno strumento in grado di arginare l’emorragia di denaro pubblico che ha mantenuto in vita il Teatro Massimo e le altre fondazioni lirico – sinfoniche italiane? No, niente affatto.
Il bilancio strutturalmente riequilibrato non può che fare affidamento sempre e comunque sui contributi pubblici erogati dallo Stato e dalle altre amministrazioni che partecipano alla fondazione. La ragione è semplice:i ricavi delle vendite hanno rappresentato sin’ora meno del 10% dei costi della produzione. E sin tanto che i ricavi provenienti dalle vendite, sommati ai contributi privati, alle sponsorizzazioni e a tutte le altre forme di introiti volontari non pubblici non eguaglieranno i costi della produzione o ad essi non si approssimeranno saranno sempre necessari decine di milioni di contributi pubblici.
Non ha alcun senso confidare nel raggiungimento dell’equilibrio di bilancio se questo dipenderà sempre dall’entità dei contributi pubblici, cosicché i ricavi delle vendite potranno essere considerati sufficienti o irrisori a seconda se riusciranno a colmare la differenza fra costi della produzione e valore delle erogazioni delle pubbliche amministrazioni o se risulteranno inidonei a questo scopo.
Ed ancora, le cifre che le amministrazioni pubbliche decideranno di destinare al Teatro Massimo saranno costanti o varieranno (come sta accadendo negli ultimi anni) in ragione delle mutate condizioni delle finanze pubbliche? Se a questa variazione non seguirà un incremento delle entrate private il bilancio potrà comunque rimanere stabilmente riequilibrato in virtù dell’eventuale aumento delle erogazioni dei soci pubblici?
L’alternativa più ragionevole sembrerebbe un’altra: o si ha idea di come stimolare la domanda dei servizi erogati dalle fondazioni lirico sinfoniche al fine d’assicurare l’effettivo equilibrio di bilancio fra i proventi della gestione ed i costi della produzione o è meglio chiudere. Subito.
@roccotodero

14
Nov
2014

Immigrati, Tor Sapienza, Viminale e le competenze che mancano

Dopo giorni di scontri e tensioni crescenti a Tor Sapienza, il Viminale ieri ha convocato il Comune di Roma. Ma lo ha fatto dopo che il Campidoglio aveva concordato con la Questura il trasferimento dei minori dal centro immigrati di via Morandi, l’epicentro del fenomeno. Il solo fatto che il ministero dell’Interno si sia mosso dopo e non prima, e per di più davanti a fatti estremamente gravi che avvengono nella capitale, consegna la chiave del problema irrisolto dell’immigrazione nel nostro Paese. Abbiamo dedicato migliaia di ore di dibattiti pubblici e radiotelevisivi alle tragedie dei migranti in mare. Ma continuiamo a non avere uno straccio di schema politico-amministrativo efficace, per gestire il fenomeno entro il territorio nazionale e fuori dai Cie.

Ogni paese in ogni secolo ha un suo medioevo. Che si manifesta quando improvvisamente un futuro imprevisto diventa presente, e non si ha alle spalle un passato di esperienze per affrontarlo. In Italia capita con l’immigrazione. Perché a metà degli anni Novanta avevamo un numero di immigrati totali di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.

E’ vero, nel 2014 il fenomeno apicale sono stati gli sbarchi, 150 mila solo da gennaio a ottobre, rispetto a poco più di 40mila nell’intero 2013. E di qui le richieste insistenti perché l’Europa con Frontex sostituisse o per meglio dire integrasse la nostra missione Mare Nostrum. Ma, mare a parte, restiamo totalmente sprovvisti di politiche e risposte organizzate quando l’immigrazione, nelle grandi città e nei territori, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in piccolo centro.

A Roma a Tor Sapienza oggi, come a Corcolle a settembre – e in termini diversi a Milano, con le occupazioni clandestine ma di massa delle case popolari ALER – si sommano tre fattori diversi. Si tratta di periferie o aggregati urbani nei quali il reddito medio degli italiani residenti è anche del 40-50% inferiore alla media, cioè aree già per loro conto a fortissimo disagio sociale. Dove in pochi mesi o settimane si determina una concentrazione di immigrati per i quali i già scarsissimi servizi offerti ai residenti italiani diventano ancor più deficitari. E in ogni caso, se aggiuntivi per gli immigrati, avvertiti dagli italiani come uno schiaffo alla propria condizione, come allo stesso modo viene avvertita la loro disponibilità per lavori a bassissima remunerazione, in diretta concorrenza con gli oltre 3 milioni di disoccupati italiani. Ma l’ulteriore a novità è che su questo malcontento da qualche tempo hanno preso a risoffiare gli aliti di estreme minoranze politiche, però determinate a incitare allo scontro, a fini populistici e per proprio tornaconto.

E’ ovvio che il problema e l’emergenza di ordine pubblico siano rappresentati dal terzo fattore, e dal secondo quando tracima in violenze e cacce all’uomo spontanee e non “incitate” da mestatori. Non fosse che per questo, è ancor più singolare che ieri il Viminale si sia svegliato quando già Comune e Questura avevano attuato una prima decisione. Ma il problema è un altro. Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali.

In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. E’ quello il modello al quale guardare, visto che non siamo francesi né britannici, non abbiamo avuto secoli di imperi coloniali, e di conseguenti eredità postcoloniali di immigrazione da gestire. Per capirci, le Council Houses municipali, che nel Regno Unito sono riservate ai meno abbienti e agli immigrati, hanno una tradizione che affonda le radici nell’XII° secolo, e nelle Poor Laws che dal ’600 fino a Lord Beveridge hanno costituito un modello di soluzione, sia pur in presenza di uno Stato molto parco nella spesa pubblica.

Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere le competenze (e risorse) per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei come quello di via Morando a Tor Sapienza, calato dall’alto in realtà di degrado per decisione di qualche funzionario del ministero e del Comune individuato dall’alto come “recipiente”. Il governo prenda l’iniziativa di avviare questa svolta.

Che avrà tempi ovviamente lunghi, visto che è in corso un bel braccio di ferro con Comuni e Regioni per i tagli chiesti in legge di stabilità. E dunque nel periodo transitorio Stato centrale e Città dovranno percorrere un bel tratto di strada insieme. Perché è vero che il più degli immigrati oggi sbarcano per non restare in un’Italia disastrata ma nel tentativo di andare verso il Nord Europa. E che i permessi di soggiorno per lavoro sono scesi dai 350 mila del 2010 a poco più di 60mila nel 2012. Ma al contempo gli immigrati sono oggi milioni. E dalla casa al lavoro, alla scuola e all’università, occorre pensarci. Ficchiamocelo in testa: credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.

12
Nov
2014

Civiltà giuridica: il DDL semplificazioni—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Era il 19 giugno 2013 quando il Governo Letta nel consiglio dei ministri n. 10 annunciava di aver approvato il disegno di legge sulle semplificazioni.
Che fine avrà fatto quel disegno di legge? Dopo un percorso tortuoso è ancora presso le Camere. Eppure come si legge sulla pagina web del Governo quel disegno di legge conteneva almeno otto semplificazioni di carattere fiscale che, sebbene non determinanti, risultavano comunque importanti.
Una di queste riguardava il trattamento fiscale da riservare alle società tra professionisti. Read More

10
Nov
2014

Il premier, Salvati e i liberali—di Nicola Rossi

La politica italiana è di per sé piuttosto difficile da decifrare. Ogni sforzo dovrebbe essere fatto quindi per renderla, al contrario, pienamente intellegibile ai cittadini ed agli elettori. Non va in questa direzione, purtroppo, il recente articolo di Michele Salvati (“Un leader liberale per la sinistra”, Corriere della Sera del 3 novembre scorso) che descrive il presidente del consiglio come un liberale e anzi, per essere più precisi, come un liberale e non come un socialdemocratico. Pensiamo che sia una descrizione non corrispondente alla realtà delle cose. Ma prima di chiarire il perché, una premessa è necessaria.

Le righe che seguono non sono un apprezzamento o una critica dell’operato del governo e/o della figura del presidente del consiglio. Non è questo, infatti, il punto in discussione. Avere come proprio punto di riferimento la cultura liberale non può essere inteso, infatti, come una medaglia da appuntare sul petto proprio o di altri. Molto più prosaicamente, implica avere una visione della società ed informare ad essa le proprie strategie e le proprie scelte. Essere liberali non è un merito o un demerito: è semplicemente un modo di leggere se stessi e la società che abbiamo intorno. Si può tranquillamente essere leader politici di prima grandezza senza essere liberali (anche se, evidentemente, una presunzione molto diffusa sembrerebbe negarlo).

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