9
Dic
2014

Non rispettiamo le regole né le cambiamo, né noi né l’Europa: eppure brindiamo felici come ebeti

Niente di nuovo sul fronte occidentale, si possono parafrasare così  le conclusioni dell’Eurogruppo dedicate ieri all’Italia. Anche se ai media e a tanta parte della politica italiana piace usare toni stentorei sulla politica europea, dipingendola come un consesso di unni profittatori ai danni di noi latini vittime incolpevoli, in realtà anche ieri tutto è andato come il ministro Pier Carlo Padoan da alcuni mesi spera e riesce a ottenere che vada.

In sintesi: l’Italia non rispetta le regole ma non viene sanzionata; nel frattempo resta piantata, perché anche questo governo ha commesso errori ma non li ammette; anche l’Europa non rispetta le regole che si è data ma ora chiude un occhio; il che significa che di regole non ne esistono più se non per finta; tutti sperano in Draghi e a seconda dei punti di vista lo accusano di troppo o troppo poco coraggio; ma la politica continua fare quel che quasi sempre ha fatto: traccheggia ognun per sé e ciascuno pensando ai casi suoi, alla prima crisi finanziaria internazionale pronta a dare la colpa al Nord o al Sud Europa a seconda delle rispettive convenienze. In Italia si brinda a tutto questo, perché la minchioneria è sport nazionale: di chi si spaccia per pro Europa affossandone le regole, e di chi ormai dà all’euro e alla Merkel anche la colpa della propria stipsi. Inizio a provare una netta preferenza  per chi le regole ammette esplicitamente di volerle cambiare dalla a alla z, rispetto a chi le inabissa brindando senza sostituirne di nuove, come al solito dimenticando che siamo espostissimi a ogni stormir di fronde di crisi finanziaria

In cosa Renzi-Padoan la spuntano? Dall’inizio dell’estate si è capito che, in vista della legge stabilità e del suo esame da parte dell’Europa, la linea era di non attenersi alla lettera degli impegni di miglioramento del deficit pubblico, inascoltati già dalla legge di stabilità del governo Letta, e accresciuti con l’ulteriore conferma di un 2014 anch’esso di recessione. Il governo ha puntato su due pilastri. Il primo: le riforme, il cui effetto sul Pil non è immediato ma va contemplato come leva per accrescere il Pil potenziale, caduto in Italia più che dovunque nell’euroarea. Il secondo: un calcolo diverso, su base statistica, proprio del modo in cui la Commissione europea calcola la differenza tra Pil reale e Pil potenziale: su questo il team di Padoan si è esibito al meglio nella nota di aggiornamento del Def di fine ottobre, proponendo parametri molto diversi da quelli della Ue. Ma di fatto l’Italia ha avanzato quest’obiezione per sé, non ha avuto il fegato di porla al centro del suo semestre di presidenza Ue come modifica dei criteri europei.

Dal primo pilastro discendono i magri tagli di spesa pubblica nel 2014, la liquidazione dell’inascoltato Cottarelli, l’assenza sino a questo momento di tagli energici anche nella legge di stabilità per il 2015. O meglio: quel po’ misure di contenimento della spesa a ministeri, Regioni e Comuni, lineari e senza scelta di riduzione del perimetro e delle funzjoni pubbliche sovrapposte, non servono a migliorare il deficit ma a finanziare una parte dei nuovi interventi, dal taglio dell’IRAP alla conferma del bonus 80 euro, mentre l’altra parte resta finanziata a deficit. Per chi qui scrive, un elenco di errori: i mancati tagli, il non aver concentrato risorse su meno IRAP sin dall’inizio, continuare a disperderle a pioggia come sui nuovi assunti sostitutivi, invece di concentrarle sui soli addizionali.

Dal secondo pilastro discende invece una scommessa politica: rendere tecnicamente impossibile alla Germania, e ai paesi nordeuropei che condividono la sua linea, l’apertura di un’infrazione all’Italia per mancata attuazione del two pack e six pack, cioè degli impegni a raggiungere a breve termine l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo e l’inizio di un rientro energico del debito pubblico.

Ebbene, la scommessa del governo è sostanzialmente vinta. L’Eurogruppo – i ministri dell’Economia dell’euroarea – formalmente condivide il giudizio della Commissione Europea, e cioè che l’Italia dovrebbe nel 2015 correggere il deficit di un altro mezzo punto di Pil e non solo dello 0,1%, come indicato dalla legge di stabilità per restare sotto il limite del 30%. Ma l’Eurogruppo non chiede prescrittivamente all’Italia una correzione alla legge di stabilità o una manovra di primavera. Esplicitamente fa propria la linea Renzi-Padoan, e cioè che tale risultato si può ottenere anche accelerando l’attuazione di riforme oggi varate solo per legge delega e in attesa dei decreti attuativi, come il Jobs Act. E accelerando ulteriormente su nuove riforme, il più possibile rapide nell’entrare in vigore.

Solo che la vittoria italiana riavvita l’Europa in una nuova contraddizione. Durissima ieri con Grecia, Portogallo e Spagna, l’Europa non lo è con noi e francesi. Di fatto, senza un nuovo accordo esplicito su un set di nuove regole condivise, quelle vecchie – il fiscal compact – non ci sono più e l’Europa naviga a vista. Auguri.

Si dirà che la Francia ci fa da scudo, visto che noi sia pur a fatica – ed è tutto da vedere quanto avverrà nel 2015 – restiamo sotto il 3% di deficit pubblico, mentre Parigi non pianifica di scendervi sotto prima del 2017. Si aggiungerà che a fare la differenza è l’abbattimento delle attese di crescita dell’intera euroarea nel 2015 – la BCE è scesa dall’1,6% all’1% la settimana scorsa – dovuta al rallentamento molto forte della Germania per prima, sotto l’effetto della crisi russo-ucraina. Quel che si voglia: ma la discrezionalità non è una regola.

Ora bisogna sperare in due cose. La prima è che la politica italiana – la maggioranza ma anche la destra, che da una parte urla contro l’Europa e dall’altra dimentica la sua pesante eredità ai governi successivi – non creda di aver risolto alcunché. Certo, se fosse venuta la procedura d’infrazione il governo per primo avrebbe rifiutato di sottostarvi, con un’inevitabile ulteriore peggioramento della fiducia residua italiana verso l’euro e l’Europa. Ma la crescita resta sotto zero, il debito continua a crescere, le tasse restano altissime. Ed è un mistero di Pulcinella, che nel 2015 il deficit arriverà ben oltre il 4% se non al 5% del PIL. Bisognerà insistere per anni, per svoltare davvero pagina.

La seconda è che dal sostanziale ok europeo all’impostazione del governo – inabissare allegramente le regole europee – e da vicende come il disastro pubblico emerso dalle indagini in corso a Roma, si produca comunque l’effetto positivo di una scossa elettrica di operatività. I decreti attuativi del Jobs Act servono in poche settimane. L’intervento energico promesso da Renzi questo fine settimana per tagliare le 10mila partecipate locali serve subito, e già lo si poteva fare con Cottarelli: ma oggi, rispetto ad aprile scorso, se la casta politica resistesse sarebbe travolta.

E in più: il prezzo del petrolio sceso del 42% da giugno è una formidabile spinta di crescita, per chi la sa utilizzare. Rispetto a un Pil mondiale superiore ai 70 trilioni i dollari, si calcola che liberi risorse per 1,5 trilioni a vantaggio di un minor prezzo per imprese e famiglie, e quasi l’equivalente in termini di minor costo per le lavorazioni energivore, nella metallurgia e industria di base. L’Italia, che ha un tasso di dipendenza energetica superiore al 75%, a oggi non è in condizione di “scaricare” questa molla potente sulle ruote della sua crescita. Perché il 60% di accise e IVA rispetto al prezzo alla pompa dei combustibili osta al trasferimento di buona parte del minor costo industriale nelle tasche di imprese e famiglie. Ci pensi, il governo: il momento buono di un drastico taglio al fisco energetico è oggi, approfittando del basso costo del barile. Ne potrebbe venire una crescita addizionale a breve maggiore che dal bonus 80 euro.

8
Dic
2014

Tasse patrimoniali: ecco come nel 2015 ne pagheremo 50mld, per 3/5 dal mattone

Il 16 dicembre i cittadini italiani sono chiamati a pagare il saldo dell’Imu e della Tasi. Per molti, abitanti negli oltre 5.220 comuni nei quali era saltato l’appuntamento di giugno per il ritardo dei rispettivi Comuni nell’approvazione di aliquote e detrazioni, la prima rata Tasi è stata pagata solo a ottobre. Nei poco meno di 3 mila Comuni che invece avevano deliberato per tempo, il 16 dicembre si pagherà esattamente quanto versato con l’acconto. I nuovi acquirenti di casa o coloro che pagano per la prima volta, ricordino che la Tasi si paga come l’Imu : base imponibile data dal valore catastale rivalutato del 5% e moltiplicato per 160, sia per le abitazioni che per le pertinenze, sia per quel che riguarda la “prima casa,” sulla quale però per la Tasi si applica un’aliquota più elevata rispetto a quella prevista per le abitazioni che pagano anche l’Imu. Il consiglio per tutti è di farvi aiutare consultando quanto previsto specificamente nella delibera del vostro Comune, visto che ognuno di loro ha avuto facoltà di prevedere detrazioni per la Tasi sulla prima casa che possono variare in base alla rendita catastale, al reddito Isee dei proprietari, al numero dei figli, o in riferimento a qualunque altro parametro che sia stato scelto, dato che la legge ha lasciato gli enti locali liberi di decidere  in materia. Una vera follia, avere 8mila aliquote differenti…compresa la quota dovuta dall’inquilino che può variare dal 10 al 30% del tributo dovuto dal proprietario.

Da anni, l’informazione ha tentato di spiegare a tutti i cittadini la complicata evoluzione politica che ci ha bizantinamente portati dall’Ici all’Imu allo Iuc, alla Tasi, alla Tari e alla Tares. Ora andiamo invece al nocciolo della questione delle imposte sul mattone. Riepiloghiamo come e perché sono cambiate negli ultimi anni concentrandoci su un solo punto, quello che interessa sopra ogni altra cosa noi tutti: cioè quanto abbiamo pagato e pagheremo.

 

Quanto abbiamo pagato: lo Stato ha incassato 44 miliardi in più dal 2011

I dati della tabella ealaborata da Confedilizia parlano da soli.

http://www.confedilizia.it/Tabella%20aumento%20tasse%20sulla%20casa.pdf

Siamo passati da un gettito ICI di 9 miliardi e rotti nel 2011, quando ancora era vigente la piena abrogazione del tributo sulla prima casa voluta dal governo Berlusconi dopo la vittoria elettorale del 2008, a un gettito dell’IMU nel 2012 di 23,7 miliardi. Allora, con il governo Monti, alla marcia indietro rispetto alla decisione del centrodestra sulla prima casa si sommarono i nuovi moltiplicatori sulla rendita catastale. In un solo anno, un aumento di gettito pari a pochissimo meno di un punto di PIL. Nel 2013, le ulteriori correzioni sulla prima casa, questa volta in senso meno sfavorevole rispetto a Monti con il governo Letta, hanno determinato un arretramento del gettito Imu rispetto al 2012, facendo fermare l’incasso dello Stato alla pur sempre rispettabile quota di 20 miliardi di euro, cioè più del doppio di quanto aveva incassato nel 2011.

Del 2014, terzo anno di vigenza del moltiplicatore delle rendite catastali introdotto da Monti, faremo i conti finali solo a 2015 inoltrato, perché la giostra delle 8mila aliquote e il ritardo delle delibere comunali rende a tutti gli effetti molto difficile sapere sin d’ora quanto lo Stato avrà incassato nell’anno che va a chiudersi. In tutti i casi però il gettito dello Stato torna a salire sia sul 2013, sia sul 2012, e stellarmente rispetto al 2011. La versione ufficiale di governo è ferma a un incasso complessivo dalla somma di Imu e Tasi – la nuova arrivata – pari a poco meno di 25 miliardi di euro. In realtà è estremamente verosimile pensare che il gettito finale di Stato e Comuni sarà intorno ai 28 miliardi: a pesare è la situazione di estrema difficoltà di moltissimi Comuni, alle prese con il nodo scorsoio del patto di stabilità interno e sottoposti spesso a piani di rientro che obbligano al massimo delle aliquote addizionali, come nei caso di Torino e Roma, o comunque alle prese con estreme difficoltà di bilancio come nel caso di Napoli, Reggio Calabria o Palermo.

In ogni caso, con 28 miliardi o poco meno all’incasso nel 2014, il conto è presto fatto: il gettito dello Stato sul mattone annuo rispetto al 2011 è triplicato. E qui ci riferiamo solo all’imposta principale, perché non bisogna dimenticare che sul mattone gravano un’altra raffica di balzelli: l’imposta di registro sull’acquisto e sulla locazione, l’imposta di bollo sui contratti e ricevute di affitto, l’imposta sui diritti catastali, la tassa sui passi carrai, quella per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, e via continuando.

 

Effetti: patrimonio degli italiani -1000mld, -50% compravendite, 57 mila imprese di costruzioni e 340 mila occupati in meno

L’aumento verticale dell’imposizione sul mattone italiano ha determinato una serie di effetti negativi a catena. Oggi, per molti la casa è un bene da vendere a prezzo di realizzo, per evitare di pagarci sopra tasse triplicate che non sono più sostenibili, a fronte di redditi calati in termini reali del 16% in media per le famiglie italiane in questi anni di crisi.

I numeri lo testimoniano con dovizia di particolari. Le vendite di unità abitative nell’edilizia residenziale mostrano in questo 2014 i primi timidi segni di ripresa rispetto al 2013 e dopo anni di caduta (lo stesso vale per i mutui concessi alle famiglie), ma siamo a poco più di 200 mila vendite annue in questo 2014, rispetto a oltre 300mila nel solo 2011 e dunque con una diminuzione del 33%. Se spostiamo lo sguardo a ritroso, la perdita è addirittura del 53% rispetto al 2006-2007, gli anni di picco quando le vendite ammontavano a oltre 400 mila unità l’anno.

Naturalmente i prezzi sono scesi, dopo decenni nei quali gli italiani avevano creduto che l’investimento nel mattone avesse rendimento sempre positivo, e che dunque valesse la pena impegnarvi anche quote molto elevate dei propri redditi annuali, per pagare a rate mutui anche trentennali. Siamo a un meno 20% medio di prezzo immobiliare residenziale rispetto al 2008, e meno 16% dalla sola fine del 2011 quando inizia la galoppata fiscale (naturalmente la caduta non riguarda in queste proporzioni l’ “alto residenziale” di lusso, i cali variano di città in città e di quartiere in quartiere, e a esser più colpiti sono gli italiani proprietari a basso reddito e le periferie, e via continuando).

Se tenete conto che il patrimonio immobiliare delle famiglie italiane tre anni fa era valutato da Bankitalia e dal Notariato intorno ai 5800-6000 miliardi di euro, per incassare 44 miliardi di euro in più in tre anni invece dei meno di 10 che ricavava nel 2011 dal mattone, lo Stato o meglio la politica tassatrice ha determinato un abbattimento del valore patrimoniale immobiliare delle famiglie italiane nell’ordine dei mille miliardi, a  tenersi bassi e con tuitte le approssimazioni dovute alle medie.

Ed è anche per questo che i consumi sono piantati e non riprendono: l’effetto-miseria, determinato dalla perdita di valore di ciò in cui le famiglie italiane avevano investito sopra ogni altro asset, le spinge a sentirsi assai meno sicure di spendere.

In più, si è concorso ad accentuatre la rovinosa crisi dell’edilizia. Le cifre ufficiali dell’ANCE parlano di circa 57 mila imprese di costruzioni scomparse nella crisi al netto tra cessazioni e aperture, con 340 mila occupati che non hanno più lavoro: in questo solo comparto, che tradizionalmente viene considerato anticiclico, cioè “il” settore per definizione su cui spingere per affrontare crisi pesanti. Siamo riusciti nel capolavoro di ottenere l’esatto opposto, per dissetare lo Stato beone.

 

Ci vuole una patrimoniale? Ma se ne paghiamo già 12, nel 2015 per oltre 50 miliardi di euro!

Non è solo la triplicazione degli incassi statali dal mattone in 3 anni, la sberla fiscale patrimoniale che lo Stato ci riserva. Uno dei luoghi comuni della politica italiana in questi anni di crisi è che non bisogna tagliare spesa e tasse, bisogna invece ricorrere a una bella tassa patrimoniale, che si paga “su quel che si ha” e non su quel che un cespite rende. I casi sono due: a dirlo è o chi ignora la realtà delle patrimoniali che già paghiamo e che sono salite alle stesse in questi ultimi anni, oppure chi finge di ignorarlo. In entrambi i casi, si tratta di un argomento pericoloso. Oltre a IMU-Tasi, le imposte patrimoniali oggi vigenti sono l’imposta di registro, le imposte di bollo, l’imposta ipotecaria, quella sui diritti catastali, il bollo auto, il canone RAI, l’imposta sulle transazioni finanziarie, quella su successioni e donazioni, quella sui cosiddetti beni di lusso. In pagina vi proponiamo l’andamento del loro gettito negli ultimi anni.

Siamo passati dall’1% di Pil annuo fino al 1991, al 2% con Amato e la sua stangata notturna sui conti correnti nel 1992, a quasi il 3% nel 2012, con incassi complessivi statali passati da quasi 30 a 44 miliardi nel decennio. Nel 2014 le 12 patrimoniali hanno fruttato 41,5 miliardi, dunque un lieve arretramento. Ma nel 2014, con l’ascesa di Imu-Tasi fino a quota 28 miliiardi si toccherà il record, con circa 47.48 miliardi.

E tenetevi forte. Perché Imu-Tasi appartengono già al passato, anche se dovete pagare il 16 dicembre. Nel frattempo la fervida fantasia tassatrice dei politici ha già pronta una nuova sorpresa. La local tax, promessa dal governo all’ANCI per il 2015 in sostituzione di Imu-Tasi. Il punto è che, per ammissione della stessa ANCI, la local tax dovrebbe determinare incassi non inferiori ai 31-32 miliardi annui rispetto ai 28 a cui forse arriveranno Imu-tasi in questo 2014. Ed ecco che dunque nel 2015 con la local tax le patrimoniali frutteranno allo Stato per la prima volta oltre 50 miliardi di euro.

Una mazzata di cui non ha colpa né l’euro né laMerkel, ma solo la politica di spesa a tasse dilapidatrici seguita in questi anni per non dar retta ai Cottarelli che di tagli buoni ne avevano pronti un bel po’, per abbassare le tasse a chi le paga.

Ps. Disclaimer finale: chi scrive non ha nulla in contrario in linea di principio a una certa quota di imposte patrimoniali, soprattutto laddove si tratti di smobilizzare ingenti patrimoni per incentivarli a produrre più flussi cioè più redditi, in un paese iper-patrimonializzato e a forte perdita pluriennale di Pil e reddito come l’Italia. Altra cosa è alzare insieme le imposte patrimoniali, le imposte dirette e le imposte indirette come ha fatto la poluitica italiana in questi anni. Così si uccide il cavallo e basta. E non sono gli 8o euro di bonus discrezionalmente dato a chi la politica decide a cambiare il quadro: il punto è una generale discesa per tutti delle aliquote medie, mediane e marginali sul reddito di impresa e lavoro, a fronte di aumenti MENO CHE PROPORZIONALI di imposta su altro, con un saldo che pareggia con energici TAGLI DI SPESA.

1
Dic
2014

Su D’Alema, Stato e mercato giudicati come mini o maxigonne

Non bisogna mancare di rispetto a un uomo politico di lungo corso, che resta tenacemente fedele al suo ruolo e alle sue idee. Ma si può e si deve criticarlo duramente, se le sue idee cambiano non in base ad argomenti seri, ma come le vesti nelle stagioni. E’ questo la reazione che suscita l’intervista di Massimo D’Alema di sabato 29 novembre al Corriere della Sera. Il problema non è che gli stia simpatico o antipatico Renzi. Il problema è il punto centrale toccato da D’Alema. Quello del rapporto tra socialismo e pensiero liberale, tra Stato e mercato.

Dice D’Alema che l’apertura ai liberali e al mercato si portava 15 anni fa, oggi è tutto diverso, quel che conta è riscoprire lo Stato. Come fosse la lunghezza della gonna nella moda, la tesa del cappello, o il fard sul fondotinta. Ieri andava la frangetta, oggi i colpi di sole. D’Alema non ce ne voglia, lui per primo sa che son cose un po’ più profonde del pendolo nei giudizi di Anna Wintour alle sfilate.

La storia del socialismo italiano è stata intossicata sin dall’inizio dallo scontro massimalista contro il riformismo. Filippo Turati, il padre del socialismo riformista italiano, venne coperto di atroci insulti da sindacalisti rivoluzionari prima e comunisti poi, venne scomunicato da Lenin per il suo “programma minimo” di riforme sociali, condiviso con l’odiato Giolitti. Il risultato fu: il fascismo.

Nel dopoguerra, dopo l’effimera parentesi del fronte popolare, dal centrosinistra fino all’epilogo di Craxi l’avversione massimalista al socialismo riformista restò lo spartito autolesionista dei rapporti a sinistra. Quando D’Alema, nel 1997, provò lui a riformare pensioni e nel 1999 a sfiorare l’articolo 18, venne fulminato dalla Cgil al congresso del partito di cui era segretario, e poi da premier. E qui le tesi sono due sole. O D’Alema era convinto davvero, che fosse una necessità storica profonda modificare l’avversione a imprese e mercato. Oppure, se oggi dice ciò che dice non per avversione a Renzi ma perché ci crede, significa che allora lo fece solo per tattica. Senza esser davvero convinto che era un passo storico da compiere, la Bad Godesberg riformista e socialdemocratica che agli ex Pci è sempre mancata. Tranne chi l’ha compiuta con atti manifesti e coerenti nel tempo: vedi Giorgio Napolitano da 25 anni, rispetto al leader a cui il Pci affidò in parlamento il compito di dire no al Sistema Monetario Europeo, il 16 dicembre 1978.

Dice D’Alema oggi che il liberismo ha creato danni epocali. Ma ammette che la deregulation finanziaria americana furono i democratici e vararla. Ma soprattutto, al di là dell’America: di che dannoso liberismo imperante si può mai davvero parlare in Italia e quando? In un paese prima gestito per decenni dallo statalismo Dc, poi dove la destra di Berlusconi ha fatto correre spesa e tasse come la sinistra con cui si è alternato? In un’Italia in cui lo Stato gestisce oltra la metà del Pil? In cui le tasse sono cresciute il doppio dell’andamento del reddito nominale dal 1995, e hanno continuano a crescere in questi ultimi 5 anni di crisi mentre il reddito reale medio delle famiglie arretrava di 16 punti?

Dice D’Alema che bisogna tornare al “ruolo propulsivo” dello Stato. In Italia? Non siamo un paese scandinavo e non siamo la Germania, che da malato d’Europa nel 2001 in 5 anni ha cambiato welfare e mercato del lavoro, e oggi ha una spesa pubblica di 6 punti di Pil inferiore alla nostra. Lo Stato da noi è quello che sta prendendo per i fondelli 300 mila ragazze e ragazzi che si sono iscritti fiduciosi ad aprile a Garanzia Giovani finanziata con un miliardo e mezzo dall’Europa, e da allora solo il 29% di loro ha avuto diritto a un primo colloquio, altro che avviamento al lavoro. Lo Stato è quello delle 10 mila partecipate pubbliche locali per tre quarti in perdita, che né destra né sinistra né Renzi toccano, perché sono imbottite di uomini dei partiti nei cda. Lo Stato è quello che in questi anni ha tagliato la spesa per investimenti persino più dei privati, pur di non toccare l’aumento della spesa corrente che fa voti e consensi. Lo Stato è quello che ha aumentato l’introito delle tasse sui rifiuti del 90% in 10 anni e del 49% sui trasporti pubblici locali, senza riuscire a fornire quasi dovunque servizi decenti. Lo Stato nostro al Sud, che ha perso due terzi dei posti di lavoro mancanti dal 2008, non sa riservare nessuna politica differenziata per ricreare sviluppo, impresa, lavoro, legalità. E’ questo, lo Stato con il quale dobbiamo fare i conti in Italia. Tutti noi, e la politica per cominciare.

Con tutto il rispetto, il librone di Piketty non c’entra un bel niente, a prescindere dal fatto che l’economista francese faccia spallucce sul fatto che in il mercato e non lo Stato abbia risolto negli ultimi vent’anni il problema della sopravvivenza a un miliardo di asiatici e africani non più condannati alla fame, o ancora che il reddito medio e mediano anche nei paesi avanzati sia aumentato di un fattore 10 in due secoli: perché non conta solo chi ha quanto del totale della ricchezza di un Paese, ma quanto nel tempo è migliorato il tenore di vita di tutti , anche e soprattutto di chi ha meno.  E non c’entra nulla neppure il libro della Mazzucato: sul quale Alberto Mingardi ha già scritto  una critica serrata, visto che non basta che un tecnologo tra gli ideatori del touch screen abbia goduto di una borsa di studio pubblica per dire che l’Ipad e l’Iphone li ha inventati lo Stato. E soprattutto da noi lo Stato “propulsivo” è quello che  privatizzò l’ILVA dopo aver perso 25mila miliardi di lire nella Finsider pubblica nei 17 ultimi anni di acciaio pubblico, e che oggi ne ha espropriato per via giudiziaria  i privati Riva che l’avevano resa redditizia, l’ha riportata in perdita con commissari pubblici ché né la gestiscono né risanano l’ambiente (pregiudicato da come lo Stato proprietario realizzò gli impianti, non i privati), e pensa di rinazionalizzarla forte di queste belle premesse…

D’Alema aggiunge che in Europa deve finire la concorrenza fiscale. E’ il sogno di tutti gli statalisti spremitasse, quello di decretare la fine di ogni altro paese che con imposte più basse attira imprese e lavoro. Ma è un sogno sbagliato, nelle nostre condizioni attuali. Perché il problema italiano resta quello di diminuirle, le tasse di cui crepa lavoro e impresa, non quello di alzarle al livello italiano anche altrove. O D’Alema crede che altri paesi avanzati siano così tordi dal voler raggiungere l’80% del prelievo sul reddito loro d’impresa che in Italia infliggiamo a più di un’impresa su tre? O siano desiderosi di far pagare e free lance e partite IVA più contributi dei lavoratori dipendenti ma senza diritti, come facciamo noi con gli iscritti alla gestione speciale INPS?

Si capisce benissimo, a D’Alema il “partito della nazione” di Renzi non piaccia. Ma il fatto che non ci sia un’autentica e coerente destra liberale in Italia dovrebbe comunque trattenere lui, e tutti i leader del Pd, dal credere che tornare statalisti e massimalisti serva ad altro che perdere. O alle elezioni, o perché piegati dalla Cgil, come capitò a lui.

26
Nov
2014

Jobs Act: spacca il Pd, ma il bicchiere resta mezzo vuoto

Matteo Renzi l’ha spuntata: il Jobs Act alla Camera ieri è passato senza ricorso al voto di fiducia, e ha retto all’uscita dall’aula di tutte le opposizioni e di 29 parlamentari Pd nel tentativo di far mancare il numero legale, e al voto contrario di un’altra patttuglia di dissidenti Pd. Certo, ha avuto solo 316 voti, uno solo in più del necessario per un voto di fiducia a Camera piena, ma per il governo è stata comunque una prova vinta, visto che il voto regionale appena tenutosi ha dato una bella scossa all’intero quadro politico.

Per Renzi, a contare è innanzitutto il fatto che la minoranza nel suo partito debba d’ora in avanti sempre più assumersi la responsabilità di manifestare concretamente la propria opposizione, in nome di un’idea altra e diversa di che cosa sia la sinistra sul lavoro, e di come la sinistra debba fare imprescindibilmente asse con i sindacati. E’ una sfida a viso aperto: al premier va riconosciuto che non si tira indietro. E’ una scelta che mette anche in conto, se l’opposizione interna volesse giungere alla crisi facendo mancare al governo i voti per procedere, che ce la si vedrebbe alle urne. E’ una novità assoluta, nella storia della sinistra di governo italiana.

Che cosa ne verrà di concreto con il Jobs Act alla prostrata economia italiana, è un altro paio di maniche. E’ la quinta riforma del lavoro in 5 anni: viene da dire che a furia di ritocchi al margine, per le imprese non si finisce di studiare gli oneri della riforma precedente che già le regole son cambiate. La sua approvazione – il testo deve ora tornare in Senato, per ratificarne le modifiche – fa parte del ristretto pacchetto di quelle riforme in nome delle quali la Commissione Europea ha ieri promosso con riserva la legge di stabilità italiana, dando appuntamento per una verifica al prossimo marzo. Quanto al merito dei princìpi approvati, in base ai quali bisognerà poi emanare una bella sfilza di decreti delegati attuativi, il giudizio va distinto in quattro parti. C’è ciò di cui più si è parlato, che rivestiva e riveste un significato soprattutto simbolico: e cioè il famigerato articolo 18. C’è una scelta di fondo per un nuovo canale prioritario di ingresso al lavoro, il contratto a tutele crescenti, la cui bontà dipenderà in concreto da come esso convivrà con quali e quanti contratti a tempo, e come verrà considerato rispetto al canale che meritava invece davvero di essere considerato prioritario: l’apprendistato. C’è una parte positiva in principio ma che oggi è strozzata da uno stanziamento di risorse risibile, cioè la riforma degli ammortizzatori sociali. E c’è infine una parte che avrebbe dovuto essere considerata la più importante di tutte e che resta di fatto tutta da scrivere, quella della nuova Agenzia del lavoro per intermediare domanda e offerta di occupazione. Come si vede, il giudizio complessivo non può essere improntato a un generico ottimismo.

Che l’articolo 18 fosse un simbolo – con tutta l’importanza metafisica che hanno i simboli –  lo si è capito dal fatto che ancora una volta è diventato il catalizzatore ideologico del pieno dissenso sindacale e della minoranza Pd. L’abolizione del reintegro giudiziale per i licenziamenti individuali economici – che era restato insieme all’indennizzo nella riforma Fornero – è un altro passo avanti verso la risoluzione arbitrale e non conflittuale dei rapporti. In concreto, però, quanto più nei decreti attuativi sarà pervasiva la lista delle fattispecie per le quali resta il reintegro giudiziale nei licenziamento discriminatori e soprattutto disciplinari, tanto più le cose potrebbero non cambiare poi di molto. In ogni caso, visto che poi la nuova disciplina si applicherà solo ai neo assunti, valeva la pena concentrare almeno altrettanta attenzione sul resto del Jobs Act, che avrà un impatto senz’altro maggiore sull’occupabilità. Peccato non sia andata così.

Sull’inserimento a tutele crescenti, in teoria ragionevolissimo, in pratica dipenderà dal governo in fase di attuazione decidere quanto “forzarlo” come unico canale verso l’occupazione a tempo indeterminato. Oggi, solo il 15-16% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato: e finché le imprese avranno carichi fiscali tanto elevati, margini così bassi e domanda tanto volatile e bassa, è impossibile credere di obbligarle a passare dal 15% al 100%. Significa solo avere meno occupati. Pensate a quel che è avvenuto l’altro ieri: i precari dipendenti dei call center sono scesi in sciopero manifestando a favore del contratto a progetto che la politica vuole abolire, perché sanno benissimo che realisticamente le aziende di call center un contratto a progetto possono concederlo, un più oneroso contratto a tempo indeterminato significherebbe chiudere, spostare il servizio in Albania o Croazia.

La fine della cassa integrazione sostituita integralmente dall’ASPI universale, cioè da un sostegno al reddito volto alla riqualificazione e non più al sogno di difendere il lavoro dov’era e com’era, dipenderà invece dalle risorse. Inizialmente era promesso un miliardo e mezzo, e già era del tutto inadeguato (l’ASPI “copre” meno della CIG, a meno di alzare i contributi alle imprese, visto che la Cassa in deroga era a carico della fiscalità generale). Per strada si è perso anche quello. Tenete conto che l’Italia spende nel 2014 quasi 30 miliardi in politiche “passive” per il lavoro – gli ammortizzatori – e meno di un quinto in politiche attive, di cui la metà solo per pagare chi le dovrebbe realizzare. L’Italia avrebbe fortissimamente bisogno di riequilibrare le due voci, perché è solo con la formazione verso nuovi lavori e figure professionali che alziamo l’occupabilità. E lo stesso discorso vale per l’Agenzia del lavoro, che non può e non deve essere la somma degli attuali dipendenti degli uffici provinciali del lavoro, che intermediano il 2% dei nuovi occupati e sono solo una sinecura sindacale.

Quattro osservazioni finali: sui giovani, gli autonomi, la PA, e il Sud.

Ai giovani disoccupati, l’Italia sta offrendo l’ennesima colossale disillusione: dei 300mila iscritti da maggio Garanzia Giovani – che pure vanta una dote milardaria europea – solo il 29% ha avuto il misero beneficio di un primo colloquio, il 71% neanche quello. Possono credere a uno Stato capace di politiche attive per il lavoro, quei giovani rassegnati e per l’ennesima volta presi per i fondelli?

Quanto ad autonomi, free lance e partite IVA, sono per l’ennesima volta i grandi assenti nel Jobs Act. Come nel bonus 80 euro. Eppure, se si ammalano non hanno alcuna tutela. Eppure, pagano di contributi nella gestione speciale INPS più dei dipendenti. Finché la politica non capirà che dipendenti e autonomi sono lavoratori egualmente degni, l’Italia resterà zoppa.

Quanto al lavoro pubblico: se voleva essere rivoluzionario, Renzi doveva parificarlo in tutto e per tutto al privato.  Invece, niente. Non capirò mai il perché. Del resto, non c’è neanche la svolta a favore dei contratti decentrati rispetto al contratto nazionale di categoria: e senza quella svolta, alzare la produttività è ben difficile.

Infine, il Mezzogiorno. Sui posti di lavoro persi in Italia con la crisi dal 2008 il 59 per cento sono mancati al Sud, quasi 600 mila occupati in meno. Nell’industria, in Italia gli occupati si sono ridotti del 9,6 per cento, ma al Sud del 14 per cento. Nelle costruzioni il Nord ha perso il 15,7 per cento di occupati, ma il Sud il 32 per cento, oltre 200 mila posti di lavoro evaporati in questo solo settore. E’ dura da mandar giù, ma nel Jobs Act non c’è nessuna terapia specifica o sperimentale, per questa voragine di reddito, giustizia e coesione sociale.

24
Nov
2014

Civiltà giuridica: la mancata attuazione del principio di autotutela—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

L’autotutela è un principio di civiltà giuridica che – senza necessità di utilizzare concetti e definizioni giuridiche – semplicemente, esercitando il quale la Pubblica Amministrazione ha il potere/dovere di riesaminare i propri atti e di annullarli o revocarli. Non solo potere ma anche dovere!
Molti esempi ci dicono però che la mancata applicazione di questo principio è assai diffusa.
Eccone uno. Il Comune di Roma ha affidato ad una società in house Aequa Roma SpA – evoluzione di Roma Entrate S.p.A. – l’attività di supporto a Roma Capitale nell’accertamento e nella gestione delle entrate tributarie, extratributarie e patrimoniali, con l’obiettivo anche di migliorare continuamente la qualità dei servizi resi ai cittadini romani. Un intento nobile. Ma, purtroppo, solo a parole. Read More

23
Nov
2014

L’onore ed il prestigio del Capo dello Stato valgono più della libertà personale dei cittadini?

Nel suo libro “ Difendere l’indifendibile” (Liberilibri edizioni), il libertario americano Walter Block si schiera a favore, oltre che delle prostitute, del tassista abusivo, del bagarino, del presta – denaro, dello speculatore e dello sporco capitalista sfruttatore di manodopera, anche delle figure del calunniatore e del diffamatore, i quali ultimi, a suo giudizio, non dovrebbero mai essere perseguiti penalmente per la libera espressione delle loro opinioni. Block, da libertario qual è, fonda il suo ragionamento sul diritto di proprietà e ritiene che la tutela del buon nome di ciascuno sia impossibile per il semplice fatto che essa dipende dal giudizio che di quel nome hanno gli altri. Ed il giudizio degli altri è proprietà, appunto, di ciascuno di loro. “ Ma in cosa consiste il buon nome di una persona? Come descrivere questa <<cosa>> che non può essere <<presa con leggerezza>>? Chiaramente non è una proprietà che può dirsi appartenente ad una persona come invece si può dire dei suoi abiti. Infatti, la reputazione di una persona è ciò che gli altri pensano di lei; consiste quindi nel pensiero che appartiene ad altre persone. Un uomo non possiede la sua reputazione più di quanto non possegga il pensiero degli altri…poiché in fondo la sua reputazione consiste solo in questo”.
Il libertario americano aggiunge anche un altro argomento contro le leggi che puniscono i diffamatori ritenendo che un regime di ampia libertà metterebbe in guardia il pubblico, il quale non crederebbe più tanto facilmente alla eventuale valanga di menzogne calunnianti e sarebbe costretto a soppesarle attentamente, cosicché il diffamatore perderebbe il potere di rovinare il buon nome di chicchessia.
La conclusione per Block è che non si può mai chiedere nemmeno un risarcimento dei danni per una presunta lesione dell’onore, del decoro e della reputazione, in ragione del fatto che ciò comporterebbe un’inammissibile (dal suo punto di vista) limitazione della libertà di ciascuno di noi di influenzare gli altri per il tramite del giudizio che esprimiamo su chi ci circonda.
Insomma, se fosse stato per Block Francesco Storace sarebbe stato sicuramente assolto, (invece di beccarsi come gli è capitato una condanna a sei mesi di reclusione) dall’accusa di avere offeso l’onore ed il prestigio del Presidente della Repubblica (art. 278.c.p.), per la semplice ragione che un’incriminazione di tal fatta non potrebbe trovare ingresso all’interno di un ordinamento che si fondi su presupposti libertari.
Il ragionamento di Block è molto intrigante, senza dubbio (e per certi versi valido), ma forse da solo non è in grado di giustificare perché l’articolo 278 del codice penale dovrebbe essere abrogato senza ulteriore indugio.
Chi ha sfogliato un manuale qualsiasi di diritto penale sa perfettamente che dottrina e giurisprudenza (anche costituzionale) hanno sempre ritenuto l’incriminazione penale come ultima ratio, da utilizzare per la tutela di beni giuridici fondamentali solo allorché altre forme di tutela risultassero del tutto inadeguate a proteggere i predetti beni. La ragione è semplice ed intuitiva: la pena è privazione della libertà personale, colpisce un bene di rango costituzionale talmente elevato da potere essere considerato secondo solo alla vita stessa. La libertà, pertanto, può essere compromessa solo in presenza di comportamenti che aggrediscono beni di una certa importanza perché diversamente verrebbe violato l’intero equilibrio dei diritti fondamentali e l’importantissimo principio di proporzionalità.
E’ la logica, come molti sanno, del diritto penale minimo, il solo diritto penale che, Costituzione alla mano, potrebbe trovare ingresso in un ordinamento democratico, personalista e pluralista come quello nostro. E’ la logica di un diritto penale che non può incriminare condotte prive di una certa soglia di disvalore sociale proprio perché non sono percepite come particolarmente lesive dalla comunità.
Nel 1994 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 341, sulla base delle premesse appena sopra esposte, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 341 del codice penale nella parte in cui prevedeva per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale la pena minima di mesi sei. Sei mesi, secondo i giudici, rappresentavano una pena troppo elevata in rapporto al rango del bene offeso dall’oltraggio che è l’onore del pubblico ufficiale. L’importanza della libertà personale non poteva consentire una limitazione così grave per una lesione di un bene non altrettanto importante.
In quella occasione la Corte ha ribadito tre concetti fondamentali: da un lato ha detto che il principio di proporzionalità nel diritto penale “ equivale a negare legittimità alle incriminazioni che,…producono attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti ( o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni”, dall’altro, ha affermato che “ La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito produce una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27,terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione” . In ultimo, i giudici costituzionali hanno detto che il rapporto fra cittadino ed amministrazione all’interno del nuovo contesto democratico – liberale inaugurato dalla Costituzione repubblicana non deve essere un rapporto d’imperio e che le sanzioni penali che ripugnano alla coscienza sociale meritano di essere cancellate.
Probabilmente anche sulla scorta di tali argomentazioni il Parlamento ha dapprima abrogato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale nel 1999, per poi reintrodurlo, tuttavia, nel 2009, sebbene prevedendo la diminuzione della pena nel minimo secondo le indicazioni della Corte Costituzionale.
Il precedente della Corte del 1994 aveva ragionevolmente fatto sperare che anche il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica potesse cadere sotto la scure del giudizio di illegittimità costituzionale, quanto meno limitatamente alla previsione del minimo della pena pari ad un anno di reclusione, considerato che i giudici costituzionali tradizionalmente si occupano solo di sindacare il quantum della pena e non sempre la scelta del legislatore di considerare reato un determinato comportamento.
Con ordinanza n. 163 del 1996 il Giudice delle leggi, invece, ha detto che le argomentazioni svolte in occasione del giudizio sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale non possono essere estese al vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica perché il vilipendio è una “figura criminosa di antica tradizione” e perché il bene protetto dalla norma assume un “peculiare risalto” all’interno della gerarchia dei beni giuridici.
Il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica è così rimasto in piedi e la Corte ha ritenuto giusto che debba essere punito (in teoria) con il minimo di anni uno di reclusione in considerazione dell’importanza del bene protetto che poi è, appunto, l’onore ed il prestigio della Capo dello Stato.
Ma il convincimento dei giudici costituzionali andrebbe oggi rivisto e la mancata abrogazione ancora adesso del reato di cui all’art. 278 codice penale da parte del Parlamento non pare trovare alcuna giustificazione plausibile.
In primo luogo, proprio perché “ figura criminosa di antica tradizione “ il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato non può che rappresentare il retaggio di un’epoca in cui i rapporti fra autorità e libertà, fra potere e cittadino erano improntati ad un vincolo di subordinazione, al riconoscimento di uno status privilegiato agli organi statali ed alla mancata affermazione generale del principio di uguaglianza formale. Prima del 1947, infatti, l’art. 278 tutelava l’onore ed il prestigio del Re, del Reggente, della Regina e del Principe ereditario.
Proprio il principio d’uguaglianza, poi, che è servito alla Corte Costituzionale da grimaldello per dichiarare l’illegittimità di disposizioni di legge ordinaria che istituivano privilegi a favore di alcune cariche dello Stato, fra i quali il Presidente della Repubblica, (il c.d. Lodo Alfano), non consente, ancora oggi, che l’offesa all’onore ed al prestigio del Capo dello Stato sia punita nel minimo con la reclusione di anni uno quando l’ingiuria e la diffamazione nei confronti dei comuni cittadini sono punti con la reclusione sino a sei mesi (pena massima) e con la reclusione sino ad un anno (pena massima).
Non si può negare, inoltre, che l’onore ed il prestigio del Capo dello Stato e di qualsiasi altro cittadino non sono per nulla equiparabili alla libertà personale. Esiste, ed è innegabile, una gerarchia dei beni costituzionali: punire l’offesa all’onore con la privazione della libertà rappresenta una violazione del principio di stretta necessità del diritto penale e contrasta col canone della proporzionalità. Onore, decoro e prestigio di ciascun cittadino possono ben essere tutelati sul piano civile con la richiesta di risarcimento danni.
A ciò si aggiunga che il reato che pretende di tutelare l’onore ed il decoro del Capo dello Stato è oggi percepito da quella che la giurisprudenza definisce “ coscienza sociale” come un inutile ed ingiusto anacronismo, emblema di un privilegio che allontana ancora di più le istituzioni dai cittadini, e che nessuno pensa di potere essere rieducato per avere espresso un giudizio, per quanto poco lusinghiero, nei confronti del Presidente della Repubblica.
Ma è tutta l’impostazione del diritto penale minimo, come strumento di tutela dei beni giuridici tipico delle società democratiche e liberali, che viene travolta dalla previsione dell’articolo 278 del codice penale. Luigi Ferrajoli, autore di una fra le più importanti opere di teoria generale in materia penale (Diritto e ragione – teoria del garantismo penale, Laterza), ha spiegato magistralmente che l’incriminazione penale serve a proteggere i deboli. Nel momento della consumazione del reato il soggetto debole è la vittima del reato stesso, per cui il divieto consacrato nel precetto penale vale a proteggerlo, cosi come la reazione dello Stato vale a garantire la tutela dei suoi beni. Successivamente, il soggetto debole diviene il reo che si trova davanti alla potenza degli strumenti di coercizione dello Stato ed il diritto penale in questo preciso momento vale a tutelare i diritti inviolabili dell’imputato/condannato/recluso.
Solo all’interno di questo schematismo il diritto penale ha ragione d’esistere.
Ora, vi pare che un Capo dello Stato, chiunque esso sia, possa mai rappresentare l’elemento debole di una relazione intersoggettiva in cui all’altro capo vi è un comune cittadino?
@roccotodero

20
Nov
2014

Lo sciopero dei polli di Renzi: Landini vince, confederali al traino

Lo sciopero ha fatto girare la testa ai sindacati confederali. La Cgil aveva deciso da sola lo sciopero generale per il 5 dicembre, un venerdì attaccato al ponte dell’Immacolata: non pensando all’ovvio scherno che ne sarebbe derivato, sommando tutti coloro che ne avrebbero approfittato per un ponte lungo. Ma ecco che a questo punto arriva la Uil del neosegretario Carmelo Barbagallo, e anche lei decide a congresso per lo sciopero generale. Ma non il 5 bensì il 12, così cade la critica di voler fare “i pontieri”. Senonché la Cisl della neosegretaria Annamaria Furlan sciopera anch’essa: ma non lo sciopero generale Cgil con Uil al traino, bensì generale sì ma nel solo settore pubblico, il primo dicembre. E se Cgil e Uil vogliono accodarsi nello sciopero Cisl bene, ma la Cisl allo sciopero Cgil-Uil non s’accoda.

Sembra un litigio manzoniano tra i polli di Renzo, che adattato a oggi diventa tra polli di Renzi. La libertà sindacale è sacra, ma le confederazioni accettino una critica fuori dai denti. Dopo il nulla di fatto della Camusso a piazza San Giovanni che aiutò Renzi invece di danneggiarlo, tutto l’ambaradan partito da due settimane sullo sciopero generale, da soli o in compagnia e a chi sarà più tosto a seconda di con chi sfila, vienedalla spinta esercitata da un sindacato che non è né la Cgil né la Uil né la Cisl, bensì la FIOM che in teoria nella Cgil è minoranza assoluta. E dal suo leader, l’unico che rimbalza di schermo in schermo televisivo e fa testo quando parla: non a nome dei suoi iscritti ormai – il più delle volte in minoranza nelle fabbriche – bensì dell’intero fronte di “chi non ci sta”: Maurizio Landini. Lo scontro con la polizia a piazza Indipendenza a Roma, alla testa degli operari dell’AST Terni, ha completamente modificato il quadro degli atteggiamenti sindacali. Da quel giorno Landini guida, e la Cgil e gli altri inseguono. La FIOM avrà perso il congresso Cgil, ma nei fatti sta imponendo a tutti lo scontro muro contro muro. Legittimo, per carità: basta che i riformisti della Uil e della Cisl se ne rendano conto, ora che le due nuove segreterie hanno il problema di mostrare al più presto agli iscritti quanto sono “toste”, rispetto ai vecchi leader usciti di scena.

“Gli scioperi hanno regolarmente prodotto l’invenzione e l’applicazione di nuove macchine”. Sapete chi l’ha scritto? No, né Milton Friedman né la baronessa Thatcher. L’ha scritto uno che agli scioperi era simpatetico: Karl Marx, in La miseria della filosofia. E se era vero ai tempi suoi, quelli della prima rivoluzione industriale, figuriamoci quanto siano opportuni e azzeccati gli scioperi generali nell’Italia di adesso, piegata in due da una recessione durissima e pluriennale. Un’Italia che ha bisogno di trovare ponti comuni tra dipendenti e autonomi, vecchi e nuovi lavori, pubblico e privato, partite IVA e contratti a tempo senza tutele.

Si è appena chiusa a Roma una vicenda che dovrebbe far riflettere il sindacato ”antagonista”: quella del Teatro dell’Opera. Aver detto no alla proposta di risanamento aziendale a luglio pur votata a maggioranza dai dipendenti, aver continuato a difendere indennità e costi da paura e bassa produttività, ha portato il sovrintendente Fuortes a convincere cda e ministro Franceschini che non c’era via d’uscita, bisognava licenziare l’orchestra. Solo a trauma avvenuto, i sindacati che prima dicevano no hanno dovuto ripiegare le bandiere, e hanno firmato tagli di costi per 4 milioni e l’innalzamento delle recite. E i licenziamenti sono rientrati. Pensate a che cosa sarebbe avvenuto, visto che da mesi spacchiamo il capello in quattro per i licenziamenti individuali nel privato da normare nel Jobs Act, se fosse stata un’azienda privata e non un teatro pubblico, a ricorrere a un licenziamento collettivo usato in realtà solo come arma per risedersi al tavolo contrattuale, e strappare un accordo necessario alla sopravvivenza. Sarebbero insorti tutti gridando contro l’avido padrone. Invece per una volta il segnale è venuto dal fronte pubblico, ma il risultato è comunque una piena sconfitta di un modello sindacale sbagliato perché ideologico, fondato solo sul “no perché no”.

Ora non sta a noi dire che ai sindacati deve piacere quel che propone e fa il governo Renzi. Ci mancherebbe altro. Ma credere di tornare tutti all’autunno caldo del 1969 e agli anni Settanta può essere un mito per chi nella FIOM e tra i COBAS è da sempre rimasto convinto e nostalgico di quel modello. Se lo ridiventa anche per chi per anni e anni ha detto di aver tratto il giusto bilancio di quell’esperienza, allora è un altro paio di maniche. Non farà affatto tornare indietro le lancette della storia: perché non è finito solo l’autunno caldo ma è finita la concertazione, e chiunque governerà dopo Renzi così resterà, perché la politica si è ripresa dopo decenni la sua autonomia. E tuttavia aprirà una fase nuova: quella dei resti di un sindacato riformista che torna al traino della difesa pervicace di una visione antagonista.

Sta a Cgil, Cisl e Uil rifletterci sopra. Scelgano quel che credono, ma poi non ne rimpiangano le conseguenze: perché Landini e la FIOM in questa impostazione saranno sempre davanti a loro, e loro al seguito. La storia del sindacato antagonista, per definizione, è fatta è più di sconfitte che di vittorie: è la sconfitta a dimostrare di essere irriducibilmente “altri e diversi” rispetto alla produzione e al mercato, agli imprenditori e all’innovazione organizzativa e tecnologica di cui si alimenta la maggior produttività. Il sindacato riformista da quelle sconfitte ricercate ha imparato nel Novecento in tutto l’Occidente che bisogna guardarsi, perché il lavoro e la sua dignità si estendono con buoni e pazienti accordi, non con cortei e scontri di piazza.

Fatevi dunque se volete i vostri scioperi: liberi di credere di farlo per abbattere Renzi, in realtà state abbattendo un pezzo di strada che faticosamente aveva percorso chi vi ha preceduto. Perché si impara più dalle sconfitte, che da ideologiche vittorie impossibili.

17
Nov
2014

Gli immigrati regolari delinquono meno?—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

L’immigrazione è un tema problematico, una questione sulla quale i pregiudizi sono determinanti per le politiche dei governi, anche perché tali pregiudizi sono generati dalle paure legittime di coloro che periodicamente vanno a votare e temono ciò che non conoscono. Ma la paura, purtroppo, non è buona consigliera: appartiene all’irrazionale e lasciare che determini le scelte dei politici non è auspicabile. Luigi Einaudi scriveva nel saggio “Conoscere per deliberare” che la ricerca del vero non può essere affidata al dottrinario, colui che non ragiona sul fondamento dei dati, ma si abbandona al punto di vista della “sua fede sociale e politica”.

I politici, stando a quello che dichiarano, sembrano comportarsi in questo modo, e a ruota vanno gli elettori. Casa Pound e la Lega di Matteo Salvini hanno riempito piazza Duomo a Milano al grido “Stop all’invasione” degli immigrati che rubano il lavoro agli italiani. Dall’altra parte c’è chi insorge, come Sel e parte del Pd, che fa del terzomondismo la sua bandiera e auspica l’apertura delle frontiere. È lecito domandarsi, però, se entrambi gli schieramenti abbiano mai cercato di andare oltre gli slogan. Read More