27
Dic
2014

Riforma sanitaria lombarda: procedere con cautela

Fra le tante cose da riformare che ci sono in Italia, non ci sembrava che la sanità lombarda – basata su un modello che cerca di utilizzare una forma, ancorché regolata, di competizione fra pubblico e privato – fosse la prima della lista. L’alta qualità delle cure consente alla Lombardia di essere la prima in termini di valore assoluto di mobilità in entrata. L’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL è del 5,3% (a fronte di una media nazionale del 7,4%). Il disavanzo sanitario pro-capite secondo solo a quello del Friuli Venezia Giulia.

Diversamente sembra pensare il legislatore lombardo. Dopo il “Libro Bianco” della scorsa estate (si veda qui l’analisi di Silvio Boccalatte), è stata presentata una bozza di testo legislativo, approvata dalla giunta regionale il giorno della vigilia di Natale, dovuta al consigliere regionale leghista Rizzi.

Dal punto di vista strutturale, le ASSL (Agenzie Socio Sanitarie Locali) dovrebbero sostituire le vecchie ASL, occupandosi di gestione e programmazione. Di per sé poco cambierebbe, se non fosse che un piano di accorpamento, con l’istituzione delle AISA (Agenzie Integrate per la Salute e l’Assistenza), crea non poca confusione su uno dei punti di forza dell’attuale sistema lombardo: la netta e chiara separazione dalle funzioni di programmazione e controllo da quelle di erogazione dei servizi, che appunto in futuro dovrebbe spettare alle AISA. Non si capisce il vantaggio di un accorpamento così disegnato: l’obiettivo pare soltanto quello di centralizzare le decisioni. Perché da una centralizzazione siffatta debbano venire dei “risparmi”, non è chiaro. Ciò che è sicuro è che ogni agenzia avrà il suo consiglio di amministrazione, e aumenterà il numero di dirigenti per ogni nosocomio: così, saranno moltiplicate le poltrone (sempre care ai politici) e così, probabilmente, anche i costi.

La confusione creata dall’accorpamento è ancor più preoccupante se si pensa che la bozza in questione non si cura affatto della trasparenza. La parola trasparenza non compare né tra i principi generali, né altrove. Ma la riforma della sanità lombarda non è forse in ultima analisi una necessità che si è venuta a creare proprio in ragione di situazioni “opache” nel rapporto fra finanziatore pubblico ed erogatori privati non profit (Maugeri, Fondazione Monte Tabor/San Raffaele)?

Un’altra novità è data dall’istituzione dell’Agenzia Regionale di Controllo Socio Sanitario (ARCSS), e insieme ad essa di un altro consiglio di amministrazione. Bisognerà capire bene le funzioni che le verranno assegnate. Per il momento, non ci pare una cattiva notizia che, nelle ultime ore prima dell’approvazione in giunta, sia sparito il compito, precedentemente assegnatogli dalla bozza Rizzi, di elaborare “un sistema di vendor rating, aggiornato su base trimestrale, che orienti sia la programmazione sia il cittadino nell’esercizio del diritto di libera scelta”. Questo sistema avrebbe interessato sia le strutture pubbliche che quelle private accreditate. In pratica, si sarebbe trattato di una classifica, stilata in base a criteri sconosciuti, utile a orientare la programmazione e l’acquisto delle prestazioni da parte delle ASSL verso il pubblico e verso il privato. Non se ne voglia a male Rizzi se ci permettiamo di dubitare della reale indipendenza di un’agenzia di questo tipo. La pericolosità di indurre in tentazione il pubblico a favorire altro pubblico è già stata riscontrata su altri settori (vedi, per esempio, aliquote fiscali su rendite finanziarie da titoli di stato). Probabilmente è stato meglio eliminare questo sistema. Così come pure non pare particolarmente assennato che la Regione si proponga come assicuratore contro il rischio professionale socio-sanitario.

In Italia non capita spesso di doversi preoccupare di evitare di commettere l’errore su cui ammoniva Shakespeare nella tragedia di Re Lear: “nel voler migliorare, noi sciupiamo spesso quel ch’è buono”. A maggior ragione, in quei rari casi in cui “da sciupare” ci potrebbe essere molto, si dovrebbe prestare più attenzione.

24
Dic
2014

“Facciamo come gli USA”, dicono quelli che di flessibilità spesa e tasse americane non ne vogliono sapere

Gli Stati Uniti crescono nel terzo trimestre 2014 del 5% su quello dell’anno precedente, l’Europa stenta a raggiungere l’1%, l’Italia chiuderà il 2014 con un Pil tra -0,3% e -0,4% , e oggi nessuno si azzarda a credere che nel 2015 potrà andare oltre il mezzo punto. Facciamo come gli States, verrebbe da dire. Renzi lo ha twittato subito, dicendo che l’Europa in quanto tale deve cambiare verso, sposando la via della crescita e degli investimenti al posto di quella del rigore. Sembra facile. Fare come l’America significa infatti alcune cose che alla politica antirigorista piacciono ormai per definizione. Ma soprattutto tante altre che alla politica europea, e soprattutto italiana, piacciono per niente.

Cominciano da quelle “popolari”. Da destra a sinistra in Italia oggi molttissimi ripetono che la cosa che più ci manca per “fare come l’America” è una bella banca centrale che usi il torchio monetario e batta moneta a palate, e quando non basta compri carrettate di titoli privati, bancari e pubblici per sostenerne il prezzo e il reddito che ne ricavano i possessori. Ah, se la BCE di Mario Draghi lo capisse e decidesse di fare come la FED!

E’ facile? Non si tratta di volontà della BCE, visto che gli statuti e gli obiettivi delle due banche centrali sono diversi. La FED ha come obiettivo il miglior tasso di crescita non inflazionistico con la più elevata occupazione e utilizzo degli impianti ottenibile rispetto a quella potenziale ma tale da non arroventare i prezzi. La BCE ha invece come obiettivo la stabilità dell’euro e un’inflazione non oltre il 2%. Bisognerebbe dunque modificare l’obiettivo della BCE cambiando il Trattato europeo e lo statuto. E passare dall’inflazione annua al 2% – che la BCE come si vede non riesce a garantire – a un obiettivo costituto dal prodotto nominale, cioè dalla somma dell’andamento del Pil reale più l’inflazione anzi oggi meno, visto che il rischio deflazionistico è realtà. Solo in quel caso, potremmo avere una BCE iper interventista sui mercati come la FED, che è arrivata ad avere asset per 4 trilioni di dollari nel suo bilancio mentre la BCE stenta oggi a passare da 1 trilione di euro a 2.

Praticamente si ferma a questo, il ritornello anti-euro che indica il modello americano come quello da seguire. Ma la crescita “reale” americana si deve solo in minima parte all’euforia di Borsa grazie agli acquisti FED, con l’indice DOW che sfonda il tetto di quota 18mila e macina massimi storici ogni 3 mesi. Se osserviamo che cosa spinge verso l’alto gli Stati Uniti nel terzo trimestre, la componente più significativa sono i consumi. Quelli delle famiglie crescono più del 3% (e la componente più elevata si deve alla spesa per regolarizzarsi nello schema sanitario Obamacare). E quelli delle imprese crescono stellarmente in alcuni settori “sensibili” alla fiducia in una ripresa ormai solida, come attesta il +11% nei nuovi macchinari e il +8,8% in ricerca, sviluppo e software.

Il fatto che negli States i consumi “tirino” il Pil molto più che da noi dipende storicamente dal fatto che è quella la molla essenziale per ogni paese-impero, non l’export come nel nostro caso di piccola nazione trasformatrice. Ma quel che conta di più è l’assenza di alcuni potenti disincentivi che invece da noi frenano velocità e int6ensità con cui i consumi possono ripartire. Quei disincentivi sono essenzialmente il maggior peso dello Stato del nostro modello economico europeo, e massime poi di quello italiano.

La media delle entrate federali sul PIL USA è del 17,4% tra il 1974 e il 2014 (sommando quelle statali e locali si supera il 30%), e quella delle spese federali è del 20,5% con una punta fino al 25% nel 2009 per effetto della crisi (nel 2009-2010, sommando spese degli Stati e locali si è giunti al 37%). In Italia il totale delle entrate è tra il 48 e il 49% del Pil, e la spesa tra il 50 e il 51%.

Da noi per preservare il rientro del deficit pubblico scattano automaticamente aumenti di tasse, e anche il governo attuale tra 2016 e 2018 prevede 30 miliardi di IVA e accise aggiuntive. Negli Stati Uniti, il debito pubblico non può aumentare a piacere come da noi ma c’è un limite quantitativo votato dal Congresso: se si sfora, scatta automaticamente non l’aumento delle tasse ma il cosiddetto sequester della spesa pubblica, cioè voci intere per punti di Pil della spesa pubblica vengono in alcuni casi congelate, e in tanti altri si riducono automaticamente e drasticamente. Nel 2013 è accaduto: statalisti e keynesiani dissero che in quel modo l’America si sarebbe piantata. Invece grazie a secche riduzioni di spesa automatiche il deficit federale è sceso da oltre l’11% a meno del 5%, e oggi scenderà ancora, grazie alla ripresa travolgente del Pil che è seguita ai tagli di spesa senza aumenti di tasse.

Al contempo, se in questi ultimi mesi grazie alla creazione di oltre 250 mila nuovi posti ogni 4 settimane il tasso di disoccupazione USA è sceso sotto il 6% cioè meno della metà del nostro (un tasso che la FED aveva indicato come soglia oltre la quale tornare a rialzare i tassi, e la scommessa e quando lo farà nel 2015), è anche vero che il tasso di occupazione è sceso al 65% cioè ai minimi dai primi anni Settanta, quando superava il 72%. La nuova occupazione è soprattutto a tempo e a basso costo, e in questo modo le imprese hanno ricostruito i loro margini prima di riscattare in avanti: ma questo fenomeno riguarda tutto il mondo del lavoro USA tranne i settori hi-tech e le posizioni apicali, perché il mercato del lavoro non è ingessato come il nostro tra garantiti e non garantiti. Col risultato che nelle crisi in America si aggrava la differenza di reddito tra chi sta in alto e chi in basso, ma si riparte prima tutti perché le imprese hanno margini di manovra sul costo reale e sul miglioramento del CLUP che a noi sono sconosciuti, per il peso del cuneo fiscale e l’asimmetria delle tutele. Siamo per finta più egualitari degli americani – per finta visto che autonomi e giovani continueranno a non godere delle tutele di chi aveva il vecchio articolo 18 – ma siamo enormemente più lenti a creare nuovi posti di lavoro, perché le imprese sono appesantite da piombo che in America manca.

Infine: gli States hanno lo shale gas e shale oil che in 6 anni ha fatto crescere di 5 milioni di barile-giorno la loro produzione di petrolio equivalente e noi non ce l’abbiamo, e non hanno un fisco rapinoso come il nostro sui carburanti visto che all’altroieri il prezzo medio in USA di un gallone di benzina era di 2 dollari e 39 centesmui, cioè 50 centesimi di euro al litro.

E soprattutto: gli States hanno mercati del lavoro, dei beni e dei servizi con le stesse regole, che funzionano da vasi comunicanti consentendo ad attività e lavoratori di spostarsi a seconda del ciclo e dei prezzi laddove è più vantaggioso. Esattamente ciò che i politici anti-euro, nazionalisti e autarchici come sono, da noi non vogliono neanche se li spari.

24
Dic
2014

Un vincolo di portafoglio per Fondi Pensione e Casse di Previdenza—di Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Come ampiamente previsto, la Legge di Stabilità è stata infine approvata confermando l’aumento di tassazione sui rendimenti del risparmio previdenziale. L’aliquota applicata, che prima dell’avvento del nuovismo renziano era all’11%, fa un salto fino al 20% (26% per le Casse di Previdenza) sul risultato maturato, in controtendenza a quanto avviene in tutta Europa dove i rendimenti previdenziali sono sostanzialmente esenti da tassazione. E pazienza se questo si tradurrà in più tasse, minori rendimenti e prestazioni più basse per milioni di iscritti, milioni di lavoratori. L’intento è colpire e affondare il risparmio inseguendo la chimera dell’incremento dei consumi interni.

Bisognava però salvare la faccia ed allora il Governo tira fuori dal cilindro l’introduzione di un credito di imposta sui rendimenti relativi agli investimenti che Casse di Previdenza dei Liberi Professionisti e Fondi Pensione faranno in strumenti finanziari di medio e lungo termine. L’idea è di quelle geniali, destinate a fare scuola. Da una parte portiamo avanti un’operazione di cassa, grazie alla quale spremiamo dai soli Fondi Pensione circa quattrocento milioni di extra gettito, dall’altra stanziamo ottanta milioni per stimolarne gli investimenti in economia reale. Ora, è innegabile che i portafogli attuali degli investitori previdenziali debbano aprirsi maggiormente a strumenti alternativi, in grado di cogliere opportunità di rendimento migliori rispetto a quelle che da qui in poi riusciranno a trovare sui mercati obbligazionari. Il peso che però questi strumenti – illiquidi e non sempre facilmente conciliabili con la finalità previdenziale – avranno nelle future asset allocation sarà necessariamente limitato, presumibilmente intorno al 10% del patrimonio gestito e comunque al di sotto del tetto del 20% consentito dalla legge. È quindi di tutta evidenza che il credito di imposta del 9% per i Fondi Pensione e del 6% per le Casse di Previdenza avrà un effetto residuale visto che, tra l’altro, viene fissato un plafond di spesa massimo e complessivo di ottanta milioni di euro. Basta fare un conto rapido per dimostrare come il saldo per gli operatori previdenziali sia decisamente negativo. Eppure qualche stratega della comunicazione ha cercato di farla passare come una misura compensativa del raddoppio di aliquota operato qualche centinaio di commi più avanti, parlando al tempo stesso di una legge di stabilità che non aumenta le tasse ai cittadini. Come se gli iscritti ai Fondi Pensione ed alle Casse di Previdenza – lavoratori dipendenti e liberi professionisti – fossero invece degli accaniti speculatori finanziari la cui rendita va penalizzata perché nemica dell’economia reale. Tra l’altro, diciamo la verità, sarebbe riduttivo considerarla una semplice misura compensativa. Eh si perché, invece, l’operazione è molto più raffinata e mira a convogliare una parte delle risorse gestite dal primo e secondo pilastro verso progetti di finanziamento dell’economia reale individuati dallo stesso Governo. Read More

23
Dic
2014

Quando si tratta di tutelare gli interessi dei cittadini lo Stato abbaia ma non morde. Il caso delle società partecipate

A differenza di quanto di solito avviene quando lo Stato esige qualcosa dai cittadini, allorché fa seguire i suoi minacciosi propositi, comunicati via legge, dall’esecuzione puntuale di fatti che mettono in ginocchio ora i contribuenti, ora i consumatori, ora gli utenti, quando si tratta di costringere la pubblica amministrazione ad alleviare il suo giogo asfissiante sull’intera popolazione il “Leviatano”, invece, abbaia ma non morde.
Emette ululati, sempre tramite provvedimenti legislativi, per mezzo dei quali intima agli innumerevoli accoliti che si annidano dentro la pubblica amministrazione (politici e dirigenti) di portare a compimento percorsi che dovrebbero consentire all’Italia di diventare un Paese veramente civile, ma se i suoi adepti non rispettano termini e condizioni indulge, sornione, con nuove proroghe e rinvii, emettendo ulteriori latrati legislativi senza tuttavia mai mordere efficacemente.
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22
Dic
2014

Le imposte di Amazon: quello che Report non dice

L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Nella nostra originalissima allegoria, l’assassino – absit iniuria verbis – è Milena Gabanelli, che, nell’ultima puntata della stagione di Report, si è soffermata nuovamente su alcune delle storie che già avevano catturato l’attenzione del suo gruppo di lavoro. Tra queste, la vicenda del carico fiscale delle multinazionali del digitale attive in Italia e, particolarmente, di Amazon.

Report è una trasmissione che ha un merito e un demerito. Il merito è quello di proporre un approccio alla notizia senz’altro parziale ma, tutto sommato, trasparente; un giornalismo a tesi e decisamente opinionated, ma a cui lo spettatore può fare la tara – diversamente da quanto accade con operazioni ugualmente faziose ma non altrettanto scoperte che vanno per la maggiore in questo paese. Il demerito è quello di sacrificare spesso a tale impostazione l’accuratezza della ricostruzione, la verifica delle fonti, il confronto tra le posizioni in campo. Non fa eccezione il servizio dedicato ad Amazon, il cui orientamento traspare sin dal titolo: “Il pacco”.

Se ce ne occupiamo in questa sede, tuttavia, non è per improvvisare una lezioncina di deontologia giornalistica, bensì per indicare e rettificare le numerose inesattezze che inficiano la credibilità complessiva di un racconto – “Amazon produce in Italia, ma paga le imposte in Lussemburgo” – sorretto, più che dai fatti, da una struttura narrativa elementare quanto fuorviante: un eroe solitario (Francesco Boccia nel ruolo di se stesso); una schiera di potentissimi nemici che operano nell’ombra (la temibile Camera di commercio italo-americana!); i buoni, che lentamente si approssimano alla verità (rappresentati da un ordinato finanziere che nulla dice – “l’indagine è ancora in corso” – ma sorride bonario alle provocazioni della giornalista).

Così si alimenta una realtà alternativa, in cui l’obbligo di partita Iva italiana è stato abrogato per l’influenza irresistibile dei poteri forti e non per la sua palese illegittimità; in cui, parlando delle disposizioni superstiti della web tax, discutibili stime di gettito vengono presentate come un dato consuntivo assodato; in cui si discute di ricavi come di imponibile sottratto al fisco, tacendo che il presupposto dell’imposta sul reddito d’impresa sono gli utili; in cui si trascura il fatto che all’amministrazione finanziaria non siano bastati due anni d’indagine per dimostrare la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia della capofila lussemburghese; in cui, per venire alla più marchiana delle mistificazioni, si accredita la conclusione che, se i clienti sono italiani e gli ordini vengono evasi da lavoratori italiani, allora necessariamente la transazione dev’essere di competenza del fisco italiano.

La presenza di Amazon in Italia è significativa e strategica: gli uffici milanesi impiegano circa duecento dipendenti; il centro di distribuzione di Castel San Giovanni – recentemente ampliato – dà lavoro ad altri cinquecento addetti; e quasi duecento sono anche gli operatori del call center di Cagliari. L’azienda programma ulteriori investimenti e assunzioni per i prossimi anni. Le società che presiedono alle attività italiane sono controllate dalla holding lussemburghese e da questa remunerate per i servizi di supporto logistico che le prestano; i relativi profitti sono, come ovvio, soggetti a tassazione in Italia.

Ciò che Report non argomenta è come una simile organizzazione possa giustificare l’attrazione di tutte le vendite italiane all’operatività delle filiali qui stabilite. L’assunto alla base dell’intera inchiesta è un atto di fede, un truismo che né la solerte autrice del servizio, né la Gabanelli si degnano d’illustrarci. Le implicazioni di tale impostazione sono evidenti: non solo si tratta di negare alle imprese la libertà di strutturare le proprie operazioni nel modo più conveniente, laddove la valutazione di convenienza investe, ovviamente, anche i profili tributari; ma si finisce anche per fraintendere il fondamento della creazione di valore da parte di Amazon, che si rinviene nella pianificazione e nell’ottimizzazione dei processi logistici più che nella loro esecuzione periferica. Per questo non vi è alcuna contraddizione nel ritenere che le transazioni con la clientela avvengano in capo alla capofila Amazon EU, anche se i prodotti si trovano fisicamente nei singoli paesi.

Il tutto senza considerare che, paradossalmente, in questa fase dello sviluppo dell’azienda, sono proprio le sussidiarie locali le sole entità profittevoli: sicché non è chiaro quale sia il presunto danno per l’erario, né in che direzione debba andare l’auspicato recupero d’imponibile.

La presenza di Amazon nel nostro paese dà lavoro a centinaia di persone e garantisce una vetrina internazionale a migliaia d’imprese. Una classe dirigente che avesse a cuore la crescita s’interrogherebbe su come indurre altre aziende paragonabili ad Amazon a investire in Italia; al contrario, il partito delle tasse crede che le multinazionali depauperino i paesi in cui operano e che le autorità fiscali debbano ingegnarsi a sfruttare i loro investimenti come una tagliola. Come insegna il recente sgambetto spagnolo a Google News, anche le multinazionali rispondono agl’incentivi. Così come sono venute, le imprese possono salpare verso altri lidi. E quel giorno, probabilmente, i giornalisti di Report ci propineranno dei servizi pensosi sul declino italiano, senza rendersi conto di esserne parte integrante.

@masstrovato

21
Dic
2014

Se la rivoluzione è introdurre una tassa con circolare

Tra le righe del maxiemendamento notturno alla legge di stabilità, phastidio.net ha letto l’introduzione di una nuova forma di patrimoniale di impresa sui cd. beni imbullonati. La legge, infatti, prevede che i macchinari fissi collocati in immobili adibiti ad attività produttiva siano conteggiati ai fini della rendita catastale, e quindi ai fini del calcolo dell’IMU. La cosa è già di per sé allarmante, trattandosi di una tassazione patrimoniale dei beni d’impresa che, oltre a rappresentare in sé un aumento di imposte sull’attività di impresa, è evidentemente contraddittoria con gli annunci di sostegno alle imprese e all’occupazione, che si vogliono far sembrare la caratteristica principale di questa confusa Stabilità. Ma su questo, appunto, non occorre aggiungere altro all’articolo di phastidio.net e di Luca Orlando sul Sole24Ore di qualche giorno fa.

Una chiosa merita invece il fatto che l’introduzione di questa forma di tassazione passa attraverso il rinvio ad una circolare di un’Agenzia fiscale. Dice infatti la disposizione che, nelle more dell’attuazione delle disposizioni relativa alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto, la rendita catastale si applica «secondo le istruzioni di cui alla circolare dell’agenzia del territorio n. 6/2012». Read More

18
Dic
2014

Municipalizzate e ILVA: quando lo Stato resta e torna padrone

Il ministro Padoan ha confermato che nel 2015 il governo collocherà sul mercato il 40% di Poste e Ferrovie, e il 49% di Enav. Per evitare sussidi incrociati sarebbe meglio per Poste e Ferrovie prima separare le attività di servizio universale – la rete gestita da RFI in Fs, le consegne in Poste – da quelle gestite in concorrenza con privati – l’Alta Velocità di Trenitalia, l’attività banco-assicurativa in Poste. Ma in ogni caso è un bene quotarle pur senza cederne all’inizio il controllo. Non solo per i 10 miliardi d’incasso pubblico a cui il governo mira, ma perché la disciplina e il premio ai risultati che vengono dai mercati finanziari rappresenta comunque un passo avanti rispetto all’opacità gestionale della mano pubblica (basti vedere l’efficienza guadagnata da Eni ed Enel quotati, rispetto a quando non lo erano).

Due osservazioni sono però essenziali. La prima su una cosa che manca al suo elenco. La seconda su una cosa che invece si appresta a fare.

Alla lista di dismissioni di Padoan manca un pezzo che la settimana scorsa Renzi e Delrio hanno più volte reiterato: la decisione finalmente di metter mano alle quasi 10mila controllate e partecipate pubbliche di primo livello di Comuni e Regioni. Ad aprile scorso, tutto il lavoro di ricognizione e classificazione svolto da Cottarelli, nonché le sue proposte concrete già scritte per intervenire, sono rimaste nei cassetti.

Sappiamo tutto quel che c’è da sapere. Che solo un terzo di esse sono nei 5 settori tradizionali delle utilities locali – elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto – e che di loro oltre i due terzi sono sotto una soglia minima di fatturato che le possa rendere efficienti. Sappiamo quante complessivamente sono in perdita e di quanto, e si tratta di miliardi, quante hanno più amministratori che dipendenti, e via continuando. L’indagine in corso a Roma, dove con Atac e AMA si concentrano 2 delle municipalizzate storicamente più produttrici di debito e clientelismo, ha spinto palazzo Chigi a dire che ora è il momento giusto per rompere gli indugi. Il governo si muova, allora. Come speriamo che già nella legge di stabilità vengano approvate proposte come quella avanzata da Linda Lanzillotta, che vincola le risorse per il risanamento di Roma Capitale alla cessione, secondo alcuni criteri di garanzia, delle partecipate a cominciare da quelle in perdita. Cottarelli aveva avanzato la proposta che ogni Comune dovesse rideliberare la persistenza del controllo di ogni municipalizzata, argomentando le ragioni per le quali il servizio offerto non potesse essere più convenientemente essere gestito da privati, e che le delibere fossero sottoposte a conferma da parte dell’Antitrust. Resta un’ottima proposta.

Anche perché tra pochi giorni ci troveremo di fronte a un intervento del governo che non è di privatizzazione, ma di rinazionalizzazione: dell’ILVA a Taranto.

Il commissario Gnudi ha detto un’elementare verità: “nessun privato rileverebbe ora l’ILVA, sequestrata dai magistrati”. E’ semplicemente impossibile a chiunque non sia dietro l‘egida dello Stato avanzare oggi un piano industriale per quella che era la più grande acciaeria a ciclo continuo d’Europa. Un privato da solo non può proporre alcunché, visto che i pm hanno nel tempo esercitato la facoltà di espropriare il patrimonio sociale, la liquidità dell’azienda, gli input intermedi di produzione, i prodotti finiti da vendere ai clienti, poi anche il patrimonio dei soci privati fuori dal gruppo. E ora si tratta anche di espropriare il restante titolo di nuda proprietà, dei Riva e degli Amenduni.

Il modo in cui Renzi e Padoan interverranno sull’ILVA è essenziale: a seconda di come la misura di rinazionalizzazione verrà assunta, rischia di compromettere la fiducia verso l’Italia invece di consolidarla. Ci sono dunque alcune condizioni da rispettare.

Primo: deve trattarsi di un intervento a tempo, in vista del risanamento ambientale e della restituzione poi del controllo dell’ILVA a privati. Non basterà dirlo a voce, bisogna dirlo in un cronopogramma scritto nello stesso decreto. Ricordarsi bene che Beneduce, il grandissimo manager pubblico che pur da socialista riformista collaborò con Mussolini e s’inventò l’IRI nel 1933 (come aveva fatto con l’INA, CrediOp, Icipu, Opera Combattenti e altro ancora), disse in lungo e in largo che era solo a tempo, la nazionalizzazione delle industrie compromesse dalla crisi e finite ad affondare le stesse banche che le partecipavano. E che l’IRI, restituitele al mercato, sarebbe stato a quel punto a propria volta liquidato. Invece Beneduce morì ma l’IRI è durato 67 anni, fino al 2002 quando fu messo in liquidazione, giungendo a sfiorare nel frattempo il mezzo milione di dipendenti. Evitiamo di ripetere lo stresso errore.

Secondo: nel ventennio precedente ai primi anni Novanta, proprio nell’acciaio lo Stato si è mostrato un pessimo gestore. La FINSIDER, che realizzò l’attuale ILVA di Taranto, perse oltre 20mila miliardi di lire nei 15 anni pre-privatizzazione. L’IRI fu costretto alla liquidazione , con l’intesa tra Andreatta e il commissario europeo van Miert, proprio per i debiti contratti nell’acciaio. Evitiamo di credere che lo Stato abbia oggi manager capaci di intepretare il difficile mercato mondiale dell’acciaio, spostatosi tutto verso il Far East asiatico, meglio dei grandi gruppi privati che con l’acciaio si misurano ogni giorno. I Riva non hanno perso a Taranto ma fatto utili per miliardi reinvestiti, è da quando ci sono i commissari pubblici che l’ILVA perde, e abbiamo aumentato l’import di acciaio del 16%.

Terzo: la mano pubblica a tempo deve servire a fare della bonifica delle cokerie e del parco mineraio un banco di prova europeo, visto che in Germania e Polonia esistono impianti con caratteristiche analoghe (ma non espropriati…). Decidere di uscire dal ciclo continuo con altiforni, per produrre acciaio con syngas o preridotto, è una decisione che stride con l’interesse di un paese manifatturiero come il nostro, e che è incompatibile con gli 11 mila dipendenti di Taranto e con le migliaia nell’indotto. Saremmo l’unico paese al mondo in cui le modalità produttive vengono decise da un pm in sede di indagine preliminare. Ecco perché il governo deve usare molta attenzione. Lo Stato deve riaccompagnare l’ILVA alla produttività e agli utili che esprimeva tenendo la guardia alta, perché appena sarà in tutto e per tutto pubblica si riscateneranno gli appetiti di chi pensa che lo Stato deve tornare a fare anche i panettoni.

15
Dic
2014

Lo sciopero generale politico, una malattia che ha 110 anni

Dal punto di vista della Cgil lo sciopero generale di venerdì è stato un successo, perché stavolta nelle diverse piazze italiane i manifestanti erano incazzati, gli scontri ci sono stati, D’Alema è stato importunato. E subito c’è stato chi ha iniziato a scrivere “Renzi stia attento, se il Pd si mette contro questo pezzo del suo popolo non è più questione di Jobs Act”.

E’ vero. La concertazione resta morta. Ma lo sciopero generale di venerdì è stato politico. Rivolto a una scommessa che ormai non conosce mezze misure. Renzi e chi lo segue devono andare a casa. Devee ssere sconfitto il suo metodo di non codecidere prima con la Cgil (lasciamo perdere la Uil di Barbagallo accodatasi, e che ha ridicolmente invocato la Resistenza). E meglio ancora, se lo si dovesse fare sull’onda dell’instabilità greca, se magari il 29 dicembre il premier ad Atene non riuscisse a eleggere un nuovo capo dello Stato e alle elezioni anticipate il programma di Syriza di ripudio del debito pubblico facesse ballare l’euro e per prima l’Italia. Perché la Cgil è pronta a dire che la colpa è di Renzi, se a quel punto anche in Italia bisogna pensare a pezzi di sinistra che, come Syriza in Grecia o Podemos in Spagna, mangino il tradizionale elettorato socialista in nome del no a tutto. Gad Lerner, ieri all’assemblea Pd, ha avuto la sincerità di drlo, che anche nella minoranza Pd la si pensa così.

Il nodo dello sciopero generale di venerdì è tutto qui. Non conta nulla l’inevitabile querelle su quanti vi hanno partecipato, e certo non è stato il 60% stimato e dichiarato dalla Cgil. Il punto è integralmente politico, e con la concertazione morta non c’entra più nulla. Come innumerevoli volte è già capitalo nella travagliata storia della sinistra italiana dai tempi di Filippo Turati, l’ala massimalista sindacale rivendica un ruolo completamente diverso dal trattare sui contratti. Il proprio ruolo, per come lo concepisce e rivendica, è trattare su tutto na nella politica, senza la responsabilità di doversi misurare alle elezioni, ma con potere di veto preventivo e di sanzione popolare ex post.

E’ un problema antico italiano. Contro le pretese di veto politico del sindacato scrissero articoli da ripubblicare, intitolati esplicitamente ”Contro lo Stato sindacale”, figure come Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano, prima del fascismo e sotto Giolitti, che pure al sindacato aveva aperto. Nel 1946, a lavori della Costituente in corso, Ettore Conti scrisse “la decisione par essere quella di aggiungere alla pletorica burocrazia pubblica anche quella sindacale, per continuazione corporativa”. E fu la forza di piazza del primo sciopero generale degno di tale nome nell’Italia del 1904 -110 anni fa! – a convincere Artuto Labriola che l’arma dello sciopero generale politico doveva essere da quel momento brandita come il vero credo del socialismo rivoluzionario.

Visti tali precedenti, è difficile resistere alla tentazione di considerare lo sciopero generale di venerdì, il suo rito e il suo mito, il milletrecentocinquesimo sciopero nel 2014 secondo i dati dell’Autorità di garanzia, se non come una ricorrente pulsione a restare aggrappati a una storia che ad alcuni o magari a molti potrà sembrare luminosa, ma che sempre storia di trapassato remoto è e resta. L’Italia di oggi avrebbe bisogno di un sindacato che tratta nelle aziende localmente turni e orari e più produttività per più salario, che tratta nel pubblico impiego per la mobilità e l’efficienza invece di opporvisi sempre, che impari a trattare in nome di quegli autonomi senza tutele e i dei precari che nel sindacato non ci stanno, e che anzi ne sono vittime storiche: peché l’asimmetria del mercato del lavoro italiano, da vent’anni a questa parte, con chi ha tutte le tutele e chi nessuna, è figlia esattamente della pervicacia con cui il sindacato ha continuato a difendere una vecchia idea di impresa e di lavoro. Vecchia non perché lo diciamo noi: perché lo dice l’evoluzione del mercato e del mondo.

Ora, per Renzi la partita si fa ancora più difficile. Lo sciopero generale ha alzato la sfida puntando alla permanenza in vita stessa di questo governo. Se no, alla sua sconfitta elettorale, spaccando il Pd. Inutile sperare che l’instabilità per Italia ed Europa dietro l’angolo, se in Grecia le cose sfuggono di mano, possa suonare come un invito alla responsabilità sindacale. La colpa è del governo, è ormai la risposta rituale e ripetuta. Ora il governo di colpe ne ha, ma il suo battersi cotnro il potere di veto politico del sindacato è un merito.

Il premier, giovedì sera, facendo il passo indietro sulla prrecettazione nei trasporti – che era dovuta per legge a tutela degli utenti, e nient’affatto in violazione dei diritto sindacali – ha mostrato un primo segno di preoccupato realismo. Difficile dire come finirà. Nel Pd le minoranze vengono ridicolizzate da Renzi, ma la Cgil è altra cosa. Renzi avrà bisogno di pazienza. E speriamo non faccia marcia indietro. Perché è la sua testa, quella che venerdì è stata indicata nelle piazze italiane come la svolta da perseguire.

15
Dic
2014

La concorrenza promossa in Costituzione

Se la Costituzione è la raffigurazione, per quanto in modo fittizio, delle priorità di una determinata società che ad essa si sottopone, anche sue modifiche marginali possono svelare un passo importante nella cultura giuridica.

La settimana scorsa, durante l’esame della riforma costituzionale del titolo V, la Commissione affari costituzionali della Camera ha approvato l’inserimento della parola «promozione» nella materia statale della tutela della concorrenza. Se l’emendamento dovesse restare in piedi, quindi, la concorrenza sarà non solo oggetto di tutela, ma anche di promozione da parte dello Stato. Read More