22
Dic
2014

Le imposte di Amazon: quello che Report non dice

L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Nella nostra originalissima allegoria, l’assassino – absit iniuria verbis – è Milena Gabanelli, che, nell’ultima puntata della stagione di Report, si è soffermata nuovamente su alcune delle storie che già avevano catturato l’attenzione del suo gruppo di lavoro. Tra queste, la vicenda del carico fiscale delle multinazionali del digitale attive in Italia e, particolarmente, di Amazon.

Report è una trasmissione che ha un merito e un demerito. Il merito è quello di proporre un approccio alla notizia senz’altro parziale ma, tutto sommato, trasparente; un giornalismo a tesi e decisamente opinionated, ma a cui lo spettatore può fare la tara – diversamente da quanto accade con operazioni ugualmente faziose ma non altrettanto scoperte che vanno per la maggiore in questo paese. Il demerito è quello di sacrificare spesso a tale impostazione l’accuratezza della ricostruzione, la verifica delle fonti, il confronto tra le posizioni in campo. Non fa eccezione il servizio dedicato ad Amazon, il cui orientamento traspare sin dal titolo: “Il pacco”.

Se ce ne occupiamo in questa sede, tuttavia, non è per improvvisare una lezioncina di deontologia giornalistica, bensì per indicare e rettificare le numerose inesattezze che inficiano la credibilità complessiva di un racconto – “Amazon produce in Italia, ma paga le imposte in Lussemburgo” – sorretto, più che dai fatti, da una struttura narrativa elementare quanto fuorviante: un eroe solitario (Francesco Boccia nel ruolo di se stesso); una schiera di potentissimi nemici che operano nell’ombra (la temibile Camera di commercio italo-americana!); i buoni, che lentamente si approssimano alla verità (rappresentati da un ordinato finanziere che nulla dice – “l’indagine è ancora in corso” – ma sorride bonario alle provocazioni della giornalista).

Così si alimenta una realtà alternativa, in cui l’obbligo di partita Iva italiana è stato abrogato per l’influenza irresistibile dei poteri forti e non per la sua palese illegittimità; in cui, parlando delle disposizioni superstiti della web tax, discutibili stime di gettito vengono presentate come un dato consuntivo assodato; in cui si discute di ricavi come di imponibile sottratto al fisco, tacendo che il presupposto dell’imposta sul reddito d’impresa sono gli utili; in cui si trascura il fatto che all’amministrazione finanziaria non siano bastati due anni d’indagine per dimostrare la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia della capofila lussemburghese; in cui, per venire alla più marchiana delle mistificazioni, si accredita la conclusione che, se i clienti sono italiani e gli ordini vengono evasi da lavoratori italiani, allora necessariamente la transazione dev’essere di competenza del fisco italiano.

La presenza di Amazon in Italia è significativa e strategica: gli uffici milanesi impiegano circa duecento dipendenti; il centro di distribuzione di Castel San Giovanni – recentemente ampliato – dà lavoro ad altri cinquecento addetti; e quasi duecento sono anche gli operatori del call center di Cagliari. L’azienda programma ulteriori investimenti e assunzioni per i prossimi anni. Le società che presiedono alle attività italiane sono controllate dalla holding lussemburghese e da questa remunerate per i servizi di supporto logistico che le prestano; i relativi profitti sono, come ovvio, soggetti a tassazione in Italia.

Ciò che Report non argomenta è come una simile organizzazione possa giustificare l’attrazione di tutte le vendite italiane all’operatività delle filiali qui stabilite. L’assunto alla base dell’intera inchiesta è un atto di fede, un truismo che né la solerte autrice del servizio, né la Gabanelli si degnano d’illustrarci. Le implicazioni di tale impostazione sono evidenti: non solo si tratta di negare alle imprese la libertà di strutturare le proprie operazioni nel modo più conveniente, laddove la valutazione di convenienza investe, ovviamente, anche i profili tributari; ma si finisce anche per fraintendere il fondamento della creazione di valore da parte di Amazon, che si rinviene nella pianificazione e nell’ottimizzazione dei processi logistici più che nella loro esecuzione periferica. Per questo non vi è alcuna contraddizione nel ritenere che le transazioni con la clientela avvengano in capo alla capofila Amazon EU, anche se i prodotti si trovano fisicamente nei singoli paesi.

Il tutto senza considerare che, paradossalmente, in questa fase dello sviluppo dell’azienda, sono proprio le sussidiarie locali le sole entità profittevoli: sicché non è chiaro quale sia il presunto danno per l’erario, né in che direzione debba andare l’auspicato recupero d’imponibile.

La presenza di Amazon nel nostro paese dà lavoro a centinaia di persone e garantisce una vetrina internazionale a migliaia d’imprese. Una classe dirigente che avesse a cuore la crescita s’interrogherebbe su come indurre altre aziende paragonabili ad Amazon a investire in Italia; al contrario, il partito delle tasse crede che le multinazionali depauperino i paesi in cui operano e che le autorità fiscali debbano ingegnarsi a sfruttare i loro investimenti come una tagliola. Come insegna il recente sgambetto spagnolo a Google News, anche le multinazionali rispondono agl’incentivi. Così come sono venute, le imprese possono salpare verso altri lidi. E quel giorno, probabilmente, i giornalisti di Report ci propineranno dei servizi pensosi sul declino italiano, senza rendersi conto di esserne parte integrante.

@masstrovato

21
Dic
2014

Se la rivoluzione è introdurre una tassa con circolare

Tra le righe del maxiemendamento notturno alla legge di stabilità, phastidio.net ha letto l’introduzione di una nuova forma di patrimoniale di impresa sui cd. beni imbullonati. La legge, infatti, prevede che i macchinari fissi collocati in immobili adibiti ad attività produttiva siano conteggiati ai fini della rendita catastale, e quindi ai fini del calcolo dell’IMU. La cosa è già di per sé allarmante, trattandosi di una tassazione patrimoniale dei beni d’impresa che, oltre a rappresentare in sé un aumento di imposte sull’attività di impresa, è evidentemente contraddittoria con gli annunci di sostegno alle imprese e all’occupazione, che si vogliono far sembrare la caratteristica principale di questa confusa Stabilità. Ma su questo, appunto, non occorre aggiungere altro all’articolo di phastidio.net e di Luca Orlando sul Sole24Ore di qualche giorno fa.

Una chiosa merita invece il fatto che l’introduzione di questa forma di tassazione passa attraverso il rinvio ad una circolare di un’Agenzia fiscale. Dice infatti la disposizione che, nelle more dell’attuazione delle disposizioni relativa alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto, la rendita catastale si applica «secondo le istruzioni di cui alla circolare dell’agenzia del territorio n. 6/2012». Read More

18
Dic
2014

Municipalizzate e ILVA: quando lo Stato resta e torna padrone

Il ministro Padoan ha confermato che nel 2015 il governo collocherà sul mercato il 40% di Poste e Ferrovie, e il 49% di Enav. Per evitare sussidi incrociati sarebbe meglio per Poste e Ferrovie prima separare le attività di servizio universale – la rete gestita da RFI in Fs, le consegne in Poste – da quelle gestite in concorrenza con privati – l’Alta Velocità di Trenitalia, l’attività banco-assicurativa in Poste. Ma in ogni caso è un bene quotarle pur senza cederne all’inizio il controllo. Non solo per i 10 miliardi d’incasso pubblico a cui il governo mira, ma perché la disciplina e il premio ai risultati che vengono dai mercati finanziari rappresenta comunque un passo avanti rispetto all’opacità gestionale della mano pubblica (basti vedere l’efficienza guadagnata da Eni ed Enel quotati, rispetto a quando non lo erano).

Due osservazioni sono però essenziali. La prima su una cosa che manca al suo elenco. La seconda su una cosa che invece si appresta a fare.

Alla lista di dismissioni di Padoan manca un pezzo che la settimana scorsa Renzi e Delrio hanno più volte reiterato: la decisione finalmente di metter mano alle quasi 10mila controllate e partecipate pubbliche di primo livello di Comuni e Regioni. Ad aprile scorso, tutto il lavoro di ricognizione e classificazione svolto da Cottarelli, nonché le sue proposte concrete già scritte per intervenire, sono rimaste nei cassetti.

Sappiamo tutto quel che c’è da sapere. Che solo un terzo di esse sono nei 5 settori tradizionali delle utilities locali – elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto – e che di loro oltre i due terzi sono sotto una soglia minima di fatturato che le possa rendere efficienti. Sappiamo quante complessivamente sono in perdita e di quanto, e si tratta di miliardi, quante hanno più amministratori che dipendenti, e via continuando. L’indagine in corso a Roma, dove con Atac e AMA si concentrano 2 delle municipalizzate storicamente più produttrici di debito e clientelismo, ha spinto palazzo Chigi a dire che ora è il momento giusto per rompere gli indugi. Il governo si muova, allora. Come speriamo che già nella legge di stabilità vengano approvate proposte come quella avanzata da Linda Lanzillotta, che vincola le risorse per il risanamento di Roma Capitale alla cessione, secondo alcuni criteri di garanzia, delle partecipate a cominciare da quelle in perdita. Cottarelli aveva avanzato la proposta che ogni Comune dovesse rideliberare la persistenza del controllo di ogni municipalizzata, argomentando le ragioni per le quali il servizio offerto non potesse essere più convenientemente essere gestito da privati, e che le delibere fossero sottoposte a conferma da parte dell’Antitrust. Resta un’ottima proposta.

Anche perché tra pochi giorni ci troveremo di fronte a un intervento del governo che non è di privatizzazione, ma di rinazionalizzazione: dell’ILVA a Taranto.

Il commissario Gnudi ha detto un’elementare verità: “nessun privato rileverebbe ora l’ILVA, sequestrata dai magistrati”. E’ semplicemente impossibile a chiunque non sia dietro l‘egida dello Stato avanzare oggi un piano industriale per quella che era la più grande acciaeria a ciclo continuo d’Europa. Un privato da solo non può proporre alcunché, visto che i pm hanno nel tempo esercitato la facoltà di espropriare il patrimonio sociale, la liquidità dell’azienda, gli input intermedi di produzione, i prodotti finiti da vendere ai clienti, poi anche il patrimonio dei soci privati fuori dal gruppo. E ora si tratta anche di espropriare il restante titolo di nuda proprietà, dei Riva e degli Amenduni.

Il modo in cui Renzi e Padoan interverranno sull’ILVA è essenziale: a seconda di come la misura di rinazionalizzazione verrà assunta, rischia di compromettere la fiducia verso l’Italia invece di consolidarla. Ci sono dunque alcune condizioni da rispettare.

Primo: deve trattarsi di un intervento a tempo, in vista del risanamento ambientale e della restituzione poi del controllo dell’ILVA a privati. Non basterà dirlo a voce, bisogna dirlo in un cronopogramma scritto nello stesso decreto. Ricordarsi bene che Beneduce, il grandissimo manager pubblico che pur da socialista riformista collaborò con Mussolini e s’inventò l’IRI nel 1933 (come aveva fatto con l’INA, CrediOp, Icipu, Opera Combattenti e altro ancora), disse in lungo e in largo che era solo a tempo, la nazionalizzazione delle industrie compromesse dalla crisi e finite ad affondare le stesse banche che le partecipavano. E che l’IRI, restituitele al mercato, sarebbe stato a quel punto a propria volta liquidato. Invece Beneduce morì ma l’IRI è durato 67 anni, fino al 2002 quando fu messo in liquidazione, giungendo a sfiorare nel frattempo il mezzo milione di dipendenti. Evitiamo di ripetere lo stresso errore.

Secondo: nel ventennio precedente ai primi anni Novanta, proprio nell’acciaio lo Stato si è mostrato un pessimo gestore. La FINSIDER, che realizzò l’attuale ILVA di Taranto, perse oltre 20mila miliardi di lire nei 15 anni pre-privatizzazione. L’IRI fu costretto alla liquidazione , con l’intesa tra Andreatta e il commissario europeo van Miert, proprio per i debiti contratti nell’acciaio. Evitiamo di credere che lo Stato abbia oggi manager capaci di intepretare il difficile mercato mondiale dell’acciaio, spostatosi tutto verso il Far East asiatico, meglio dei grandi gruppi privati che con l’acciaio si misurano ogni giorno. I Riva non hanno perso a Taranto ma fatto utili per miliardi reinvestiti, è da quando ci sono i commissari pubblici che l’ILVA perde, e abbiamo aumentato l’import di acciaio del 16%.

Terzo: la mano pubblica a tempo deve servire a fare della bonifica delle cokerie e del parco mineraio un banco di prova europeo, visto che in Germania e Polonia esistono impianti con caratteristiche analoghe (ma non espropriati…). Decidere di uscire dal ciclo continuo con altiforni, per produrre acciaio con syngas o preridotto, è una decisione che stride con l’interesse di un paese manifatturiero come il nostro, e che è incompatibile con gli 11 mila dipendenti di Taranto e con le migliaia nell’indotto. Saremmo l’unico paese al mondo in cui le modalità produttive vengono decise da un pm in sede di indagine preliminare. Ecco perché il governo deve usare molta attenzione. Lo Stato deve riaccompagnare l’ILVA alla produttività e agli utili che esprimeva tenendo la guardia alta, perché appena sarà in tutto e per tutto pubblica si riscateneranno gli appetiti di chi pensa che lo Stato deve tornare a fare anche i panettoni.

15
Dic
2014

Lo sciopero generale politico, una malattia che ha 110 anni

Dal punto di vista della Cgil lo sciopero generale di venerdì è stato un successo, perché stavolta nelle diverse piazze italiane i manifestanti erano incazzati, gli scontri ci sono stati, D’Alema è stato importunato. E subito c’è stato chi ha iniziato a scrivere “Renzi stia attento, se il Pd si mette contro questo pezzo del suo popolo non è più questione di Jobs Act”.

E’ vero. La concertazione resta morta. Ma lo sciopero generale di venerdì è stato politico. Rivolto a una scommessa che ormai non conosce mezze misure. Renzi e chi lo segue devono andare a casa. Devee ssere sconfitto il suo metodo di non codecidere prima con la Cgil (lasciamo perdere la Uil di Barbagallo accodatasi, e che ha ridicolmente invocato la Resistenza). E meglio ancora, se lo si dovesse fare sull’onda dell’instabilità greca, se magari il 29 dicembre il premier ad Atene non riuscisse a eleggere un nuovo capo dello Stato e alle elezioni anticipate il programma di Syriza di ripudio del debito pubblico facesse ballare l’euro e per prima l’Italia. Perché la Cgil è pronta a dire che la colpa è di Renzi, se a quel punto anche in Italia bisogna pensare a pezzi di sinistra che, come Syriza in Grecia o Podemos in Spagna, mangino il tradizionale elettorato socialista in nome del no a tutto. Gad Lerner, ieri all’assemblea Pd, ha avuto la sincerità di drlo, che anche nella minoranza Pd la si pensa così.

Il nodo dello sciopero generale di venerdì è tutto qui. Non conta nulla l’inevitabile querelle su quanti vi hanno partecipato, e certo non è stato il 60% stimato e dichiarato dalla Cgil. Il punto è integralmente politico, e con la concertazione morta non c’entra più nulla. Come innumerevoli volte è già capitalo nella travagliata storia della sinistra italiana dai tempi di Filippo Turati, l’ala massimalista sindacale rivendica un ruolo completamente diverso dal trattare sui contratti. Il proprio ruolo, per come lo concepisce e rivendica, è trattare su tutto na nella politica, senza la responsabilità di doversi misurare alle elezioni, ma con potere di veto preventivo e di sanzione popolare ex post.

E’ un problema antico italiano. Contro le pretese di veto politico del sindacato scrissero articoli da ripubblicare, intitolati esplicitamente ”Contro lo Stato sindacale”, figure come Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano, prima del fascismo e sotto Giolitti, che pure al sindacato aveva aperto. Nel 1946, a lavori della Costituente in corso, Ettore Conti scrisse “la decisione par essere quella di aggiungere alla pletorica burocrazia pubblica anche quella sindacale, per continuazione corporativa”. E fu la forza di piazza del primo sciopero generale degno di tale nome nell’Italia del 1904 -110 anni fa! – a convincere Artuto Labriola che l’arma dello sciopero generale politico doveva essere da quel momento brandita come il vero credo del socialismo rivoluzionario.

Visti tali precedenti, è difficile resistere alla tentazione di considerare lo sciopero generale di venerdì, il suo rito e il suo mito, il milletrecentocinquesimo sciopero nel 2014 secondo i dati dell’Autorità di garanzia, se non come una ricorrente pulsione a restare aggrappati a una storia che ad alcuni o magari a molti potrà sembrare luminosa, ma che sempre storia di trapassato remoto è e resta. L’Italia di oggi avrebbe bisogno di un sindacato che tratta nelle aziende localmente turni e orari e più produttività per più salario, che tratta nel pubblico impiego per la mobilità e l’efficienza invece di opporvisi sempre, che impari a trattare in nome di quegli autonomi senza tutele e i dei precari che nel sindacato non ci stanno, e che anzi ne sono vittime storiche: peché l’asimmetria del mercato del lavoro italiano, da vent’anni a questa parte, con chi ha tutte le tutele e chi nessuna, è figlia esattamente della pervicacia con cui il sindacato ha continuato a difendere una vecchia idea di impresa e di lavoro. Vecchia non perché lo diciamo noi: perché lo dice l’evoluzione del mercato e del mondo.

Ora, per Renzi la partita si fa ancora più difficile. Lo sciopero generale ha alzato la sfida puntando alla permanenza in vita stessa di questo governo. Se no, alla sua sconfitta elettorale, spaccando il Pd. Inutile sperare che l’instabilità per Italia ed Europa dietro l’angolo, se in Grecia le cose sfuggono di mano, possa suonare come un invito alla responsabilità sindacale. La colpa è del governo, è ormai la risposta rituale e ripetuta. Ora il governo di colpe ne ha, ma il suo battersi cotnro il potere di veto politico del sindacato è un merito.

Il premier, giovedì sera, facendo il passo indietro sulla prrecettazione nei trasporti – che era dovuta per legge a tutela degli utenti, e nient’affatto in violazione dei diritto sindacali – ha mostrato un primo segno di preoccupato realismo. Difficile dire come finirà. Nel Pd le minoranze vengono ridicolizzate da Renzi, ma la Cgil è altra cosa. Renzi avrà bisogno di pazienza. E speriamo non faccia marcia indietro. Perché è la sua testa, quella che venerdì è stata indicata nelle piazze italiane come la svolta da perseguire.

15
Dic
2014

La concorrenza promossa in Costituzione

Se la Costituzione è la raffigurazione, per quanto in modo fittizio, delle priorità di una determinata società che ad essa si sottopone, anche sue modifiche marginali possono svelare un passo importante nella cultura giuridica.

La settimana scorsa, durante l’esame della riforma costituzionale del titolo V, la Commissione affari costituzionali della Camera ha approvato l’inserimento della parola «promozione» nella materia statale della tutela della concorrenza. Se l’emendamento dovesse restare in piedi, quindi, la concorrenza sarà non solo oggetto di tutela, ma anche di promozione da parte dello Stato. Read More

12
Dic
2014

Cosa sia davvero lo sciopero politico generale ce lo spiega Bruno Leoni.

Nel volume intitolato “ La libertà del lavoro. Scritti su concorrenza, sciopero e serrata.” (Rubbetino/Leonardo Facco editore, a cura di Carlo Lottieri ) sono contenuti alcuni lavori del filosofo del diritto Bruno Leoni sui tema indicati nel titolo del medesimo libro. A pag.161, all’interno di un capitoletto titolato “ La scuola di guerra. A proposito del cosiddetto sciopero politico”, Bruno Leoni espone il suo pensiero sullo sciopero politico generale.
Ne riportiamo i passaggi più importanti senza necessità di ulteriori commenti.
Ma a parte i ghirigori dei giuristi, rimane il fatto che il problema è assai più vasto, e di natura squisitamente politica: se si ammette che nello Stato moderno il potere delle organizzazioni dei prestatori d’opera sia legittimamente esercitato anche quando tende, per mezzo dello sciopero, ad influire sulla linea politica del Governo, o su singoli atti politici di esso, al di fuori e al di sopra del normale meccanismo delle elezioni, e dell’opera dei rappresentanti del popolo in Parlamento, allora conviene abbandonare come un’inutile finzione del diritto pubblico il sistema parlamentare rappresentativo.
In tal caso non comanderanno più infatti né il Governo, né i “ rappresentanti del popolo”, né infine il “ popolo” inteso come insieme di cittadini dotati di diritto di voto; ma comanderanno, di volta in volta, ad esempio, una maestranza di operai metallurgici, una di tessitori, una di panettieri, alle quali per avventura non sia gradito un trattato di alleanza militare, o la politica scolastica, o un qualche provvedimento particolare del Ministero dell’Agricoltura o di quello della Giustizia.
Se quindi si accetta lo sciopero politico, si accetta per ciò stesso la rivoluzione politica e, praticamente, la distruzione dello Stato moderno inteso come Stato parlamentare rappresentativo, e la sostituzione di quest’ultimo con un Governo estemporaneo e irresponsabile di sindacati operai.
E questo che si vuole? Se cosi stanno le cose, e se il regime parlamentare rappresentativo, pur con tutti i suoi gravi difetti, ci appare oggi ancora (e non può non apparire)migliore di una caotica dominazione – poniamo – di manovali metalmeccanici o di braccianti agricoli, è evidente che lo sciopero politico è un non senso da respingere con ogni energia.
Dopotutto, il nostro è ancora uno Stato moderno: difendere questo Stato contro certi sovventori travestiti da sindacalisti significa, ormai per troppi segni, difendere la nostra libertà e la nostra vita dal ricorso della barbarie.
@roccotodero

11
Dic
2014

“Game over” per l’Ucraina?—di Richard W. Rahn

Questo articolo è stato originariamente pubblicato l’8 dicembre 2014 sul quotidiano Washington Times, che ringraziamo per la gentile concessione alla pubblicazione.

Offrire altri aiuti finanziari senza esigere riforme significherebbe buttare via i soldi

L’Ucraina probabilmente andrà in bancarotta nei prossimi mesi. Lo scorso venerdì, è stato annunciato che il Paese ha meno di 10 miliardi di dollari in riserve di valuta straniera. Le mie fonti (che, nel corso degli ultimi due anni, sono risultate estremamente affidabili in merito alla situazione in Russia e Ucraina) mi riferiscono che la situazione è ancora peggiore rispetto ai dati ufficiali, in quanto l’Ucraina starebbe perdendo 3 miliardi di dollari di riserve di valuta estera al mese e, per giunta, questa emorragia si sta aggravando. Ancora peggio, alcune di queste riserve potrebbero essere “illiquide”, ossia potrebbero essere già state spese, o addirittura sottratte all’erario. Read More

10
Dic
2014

Corruzione: tanto potere a pochi non è la soluzione. Commento a Cassese su Mafia capitale

L’inchiesta sulla “mafia capitale” mette in luce non tanto l’esistenza della corruzione, quanto la sua pervasività. Per questo è importante interrogarsi sulle sue cause, prima ancora di individuare strategie di risposta che siano efficaci. Sul Corriere della sera di oggi Sabino Cassese fornisce un importante contributo. Purtroppo, però, almeno una parte del suo ragionamento non ha fondamento empirico.

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10
Dic
2014

Le liberalizzazioni non sono (ancora) un optional. Il caso dei farmaci di fascia C e delle parafarmacie.

A margine della presentazione dell’indice delle liberalizzazioni redatto dall’Istituto Bruno Leoni, il Ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, ha espresso la volontà del Governo di procedere a raccogliere alcune delle sollecitazioni dell’Antitrust in materia di liberalizzazioni a cominciare dalla parafarmacie e dalle poste.
Le dichiarazioni del Ministro potrebbero indurre i più a ritenere che sia tipico di questo Governo un indirizzo politico favorevole alle liberalizzazioni e che dunque, se alle parole dovessero seguire i fatti, si potrà brindare, entro un breve lasso di tempo, ad un vero e proprio “ cambiaverso” molte volte annunciato dal Premier Renzi.
In realtà, ciò che non è emerso dalle parole del Ministro Guidi è che esiste dal 2009 un espresso obbligo di legge che impone al Governo di presentare ogni anno alla Camere, entro sessanta giorni dall’invio annuale della relazione da parte dell’antitrust allo stesso Esecutivo, un disegno di legge per l’adozione di un provvedimento per il mercato e la concorrenza, “al fine di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza di garantire la tutela dei consumatori.” (art. 47 legge 23 luglio 2009, n.99).
Non si tratta, dunque, di una volontà contingente che può essere attribuita ed ascritta a merito ora di questo, ora di quel Governo, ma di un vero e proprio obbligo che il Parlamento sovrano ha imposto, per il tramite di una legge, a tutti gli esecutivi.
E’ alla disposizione del 2009, cioè, che deve ricondursi un indirizzo politico e legislativo duraturo di favore nei confronti delle liberalizzazioni e, sin tanto che una nuova legge non sconfesserà tale prescrizione, al Governo (al Governo Renzi come a tutti gli altri) non resterà altro da fare, se vuole rimanere nell’alveo dello Stato di diritto all’interno del quale chi detta le regole è il primo a rispettarle, che dare esecuzione agli obblighi imposti dal Parlamento.
Peraltro, l’attuale Governo versa in un ritardo a priva vista senza giustificazione, atteso che i sessanta giorni dalla presentazione della relazione dell’antitrust sono belli e passati da un pezzo, avendo adempiuto l’autorità indipendente alla trasmissione della relazione già nel mese di luglio di questo stesso anno.
Ciò detto, è del tutto condivisibile il proposito del Ministro Guidi di prendere le mosse in materia di liberalizzazioni dalla disciplina che regola l’esercizio delle parafarmacie, magari per equipararle sotto molti aspetti alle farmacie e per evitare il ripetersi di vicende giudiziarie come quella che si è conclusa innanzi alla Corte costituzionale nel mese di luglio passato e che ha visto le parafarmacie battersi per la liberalizzazione della vendita della maggior parte dei farmaci di fascia C, riservata oggi dalla legge esclusivamente alle farmacie.
L’attuale disciplina non consente, infatti, alle parafarmacie di vendere i farmaci di fascia C prescritti dal medico con regolare “ ricetta”, sebbene il responsabile della parafarmacia debba essere un farmacista abilitato a tutti gli effetti e nonostante il fatto che i predetti farmaci siano a totale carico dell’acquirente senza alcun contributo dell’amministrazione sanitaria.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere sulla sussistenza della violazione del principio di ragionevolezza (che è una declinazione del principio d’uguaglianza) della disciplina legislativa che vieta alle parafarmacie la vendita dietro prescrizione medica dei farmaci di fascia C pagati integralmente dal richiedente e sulla violazione della libertà d’impresa di cui all’articolo 41 Cost.
Considerato che la responsabilità per la somministrazione del farmaco è assunta dal medico curante al momento della prescrizione e che tanto nella farmacia quanto nella parafarmacia ci si limita ad una transazione commerciale sotto la vigilanza, in entrambi i casi, di un farmacista abilitato, è apparsa incomprensibile la disparità di trattamento fra le due attività imprenditoriali, né si è ravvisato un particolare pericolo per la tutela della salute per l’acquirente che, è bene ribadirlo, si è preventivamente recato dal proprio medico di fiducia per farsi prescrivere il farmaco.
Il divieto, dunque, oltre che incidere sul regime del principio d’eguaglianza è sembrato giustamente rappresentare un’inutile ed illegittima compressione della libertà d’impresa proprio perché ai sensi dell’articolo 41 Cost. questa può essere limitata solo allorché il suo esercizio arrechi danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Né si potrebbe ritenere che venga in rilievo l’interesse pubblico al contenimento della spesa sanitaria atteso che il farmaco di fascia C di cui si è chiesta la liberalizzazione della vendita è solo quello pagato integralmente dal richiedente.
Ebbene, la Corte cost. con sentenza n.216/2014 ha sancito che non contrasta con la Costituzione la disciplina che riserva alle sole farmacie la vendita dei predetti farmaci ed ha fatto leva su due argomentazioni che appaiono per la verità tautologica l’una ed infondata l’altra.
Per ciò che concerne la disparità di trattamento i Giudici hanno, infatti, osservato che, pur in possesso del medesimo titolo di studio, farmacisti e parafarmaciti gestiscono due attività che il legislatore ha qualificato diversamente; ma non ha chiarito la Corte come i tratti caratteristici di tale differenza possano incidere sulla tutela della salute allorché si discuta di vendere farmaci di fascia C o quali altri beni di rilievo costituzionale abbiano a soffrire dalla reclamata equiparazione. In particolare il Giudice delle leggi sembra avere omesso di considerare tutta la sua precedente giurisprudenza secondo la quale l’irragionevolezza si annida nel disciplinare in maniera diseguale fattispecie che “in fatto” non presentano difformità che dovrebbero, invece, fare la differenza rispetto alla tutela del bene preso in esame, soprattutto quando a risultare limitata è una libertà fondamentale qual è quella di cui all’art. 41Cost..
Mentre proprio con riferimento alla violazione della libertà d’impresa la Corte ha osservato che” il regime delle farmacie è incluso – secondo costante giurisprudenza di questa Corte – nella materia della «tutela della salute», pur se questa collocazione non esclude che alcune delle relative attività possano essere sottoposte alla concorrenza,…”, ma, ancora una volta, nulla ha detto circa la concreta messa in pericolo del bene salute in occasione della vendita dei farmaci di fascia C nelle parafarmacie.
Il divieto dunque permane, ma le robuste obiezioni dei parafarmacisti in punto di libertà d’impresa sono ancora tutte lì e, come si è visto, non sono state adeguatamente superate dalla Corte costituzionale.
Le liberalizzazioni che il Ministro Guidi ha annunciato dovrebbero riguardare, innanzitutto, casi come quello che abbiamo illustrato, dovrebbero eliminare disparità di trattamento che nascondono in realtà odiosi privilegi (l’intero mercato dei farmaci di fascia C vale secondo alcune stime 3MLD di euro!), restituire libertà agli operatori economici, seguire l’esempio di alcuni Paesi europei, come Germania ed Inghilterra, dove non vi è alcun limite, ad esempio, all’aperture delle farmacie.
Sempre che queste liberalizzazioni vogliamo farle davvero e non solo annunciarle.
@roccotodero