Le imposte di Amazon: quello che Report non dice
L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Nella nostra originalissima allegoria, l’assassino – absit iniuria verbis – è Milena Gabanelli, che, nell’ultima puntata della stagione di Report, si è soffermata nuovamente su alcune delle storie che già avevano catturato l’attenzione del suo gruppo di lavoro. Tra queste, la vicenda del carico fiscale delle multinazionali del digitale attive in Italia e, particolarmente, di Amazon.
Report è una trasmissione che ha un merito e un demerito. Il merito è quello di proporre un approccio alla notizia senz’altro parziale ma, tutto sommato, trasparente; un giornalismo a tesi e decisamente opinionated, ma a cui lo spettatore può fare la tara – diversamente da quanto accade con operazioni ugualmente faziose ma non altrettanto scoperte che vanno per la maggiore in questo paese. Il demerito è quello di sacrificare spesso a tale impostazione l’accuratezza della ricostruzione, la verifica delle fonti, il confronto tra le posizioni in campo. Non fa eccezione il servizio dedicato ad Amazon, il cui orientamento traspare sin dal titolo: “Il pacco”.
Se ce ne occupiamo in questa sede, tuttavia, non è per improvvisare una lezioncina di deontologia giornalistica, bensì per indicare e rettificare le numerose inesattezze che inficiano la credibilità complessiva di un racconto – “Amazon produce in Italia, ma paga le imposte in Lussemburgo” – sorretto, più che dai fatti, da una struttura narrativa elementare quanto fuorviante: un eroe solitario (Francesco Boccia nel ruolo di se stesso); una schiera di potentissimi nemici che operano nell’ombra (la temibile Camera di commercio italo-americana!); i buoni, che lentamente si approssimano alla verità (rappresentati da un ordinato finanziere che nulla dice – “l’indagine è ancora in corso” – ma sorride bonario alle provocazioni della giornalista).
Così si alimenta una realtà alternativa, in cui l’obbligo di partita Iva italiana è stato abrogato per l’influenza irresistibile dei poteri forti e non per la sua palese illegittimità; in cui, parlando delle disposizioni superstiti della web tax, discutibili stime di gettito vengono presentate come un dato consuntivo assodato; in cui si discute di ricavi come di imponibile sottratto al fisco, tacendo che il presupposto dell’imposta sul reddito d’impresa sono gli utili; in cui si trascura il fatto che all’amministrazione finanziaria non siano bastati due anni d’indagine per dimostrare la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia della capofila lussemburghese; in cui, per venire alla più marchiana delle mistificazioni, si accredita la conclusione che, se i clienti sono italiani e gli ordini vengono evasi da lavoratori italiani, allora necessariamente la transazione dev’essere di competenza del fisco italiano.
La presenza di Amazon in Italia è significativa e strategica: gli uffici milanesi impiegano circa duecento dipendenti; il centro di distribuzione di Castel San Giovanni – recentemente ampliato – dà lavoro ad altri cinquecento addetti; e quasi duecento sono anche gli operatori del call center di Cagliari. L’azienda programma ulteriori investimenti e assunzioni per i prossimi anni. Le società che presiedono alle attività italiane sono controllate dalla holding lussemburghese e da questa remunerate per i servizi di supporto logistico che le prestano; i relativi profitti sono, come ovvio, soggetti a tassazione in Italia.
Ciò che Report non argomenta è come una simile organizzazione possa giustificare l’attrazione di tutte le vendite italiane all’operatività delle filiali qui stabilite. L’assunto alla base dell’intera inchiesta è un atto di fede, un truismo che né la solerte autrice del servizio, né la Gabanelli si degnano d’illustrarci. Le implicazioni di tale impostazione sono evidenti: non solo si tratta di negare alle imprese la libertà di strutturare le proprie operazioni nel modo più conveniente, laddove la valutazione di convenienza investe, ovviamente, anche i profili tributari; ma si finisce anche per fraintendere il fondamento della creazione di valore da parte di Amazon, che si rinviene nella pianificazione e nell’ottimizzazione dei processi logistici più che nella loro esecuzione periferica. Per questo non vi è alcuna contraddizione nel ritenere che le transazioni con la clientela avvengano in capo alla capofila Amazon EU, anche se i prodotti si trovano fisicamente nei singoli paesi.
Il tutto senza considerare che, paradossalmente, in questa fase dello sviluppo dell’azienda, sono proprio le sussidiarie locali le sole entità profittevoli: sicché non è chiaro quale sia il presunto danno per l’erario, né in che direzione debba andare l’auspicato recupero d’imponibile.
La presenza di Amazon nel nostro paese dà lavoro a centinaia di persone e garantisce una vetrina internazionale a migliaia d’imprese. Una classe dirigente che avesse a cuore la crescita s’interrogherebbe su come indurre altre aziende paragonabili ad Amazon a investire in Italia; al contrario, il partito delle tasse crede che le multinazionali depauperino i paesi in cui operano e che le autorità fiscali debbano ingegnarsi a sfruttare i loro investimenti come una tagliola. Come insegna il recente sgambetto spagnolo a Google News, anche le multinazionali rispondono agl’incentivi. Così come sono venute, le imprese possono salpare verso altri lidi. E quel giorno, probabilmente, i giornalisti di Report ci propineranno dei servizi pensosi sul declino italiano, senza rendersi conto di esserne parte integrante.