4
Feb
2015

Il bluff di Syriza è già caduto: rifletta su questi punti chi vuole riproporlo

La visita ieri in Italia del premier greco Alexis Tsipras e del neoministro dell’Economia Yanis Varoufakis ha già scoperto il bluff di Syriza. Forse è il caso che l’informazione italiana ed europea si diano una regolata. La vittoria di Syriza alle elezioni di due domeniche fa è stata salutata da un torrente di entusiastici commenti. S’inneggiava alla svolta salvifica. L’Europa non avrebbe potuto che acconsentire alla promessa più importante fatta da Syriza ai greci, l’abbattimento del 50-60% del debito pubblico che all’80% è detenuto dalla BCE, dall’Eurosistema delle banche centrali dell’euroarea, e dai paesi membri dell’euro tramite l’EFSF. Perché non si poteva chiedere ai greci, con il loro 26% di disoccupazione e un quarto del PIl 2008 finora evaporato, di addossarsi ancora il 175% di PIl di debito pubblico.

E invece no. Aveva ragione chi si è permesso di obiettare che quella promessa era impossibile. Aveva ragione – pradossalmente e diamogliene atto – l’attuale ministro Varoufakis, che due anni fa sul suo blog invitava chi sa far di conto a non credere alla lettera al programma di Syriza, “molte delle cui promesse sono irrealizzabili a cominciare dall’abbattimento del debito” (sue testuali parole).

Proprio così. Infatti, nelle parole di Renzi e di Padoan Schioppa ieri seguite agli incontri con la delegazione greca, troverete detto e scritto che con Tsipras e Varoufakuis il governo italiano non è entrato nel merito delle loro proposte, esattamente come Renzi aveva concordato domenica scorsa a telefono con la Merkel. E quanto alle proposte concrete di Syriza, Varoufakis e Tsipras nelle loro dichiarazioni hanno abbandonato anche solo l’idea di abbattere il debito. Chiedono per una parte di trasformarne le cedole, cioè i rendimenti, agganciandoli alla crescita del PIL (proposta non nuova: qui un paper – di econoministi tedeschi! – che la illustra, qui una valutazione tecnica del FMI, qui la stroncatura di operatori del mercato), e di allungarne ancora la durata (che già oggi, nella media del debito esistente, grazie alle due ristrutturazioni assistite dalla Ue e dalla BCE, è superiore ai 16 anni rispetto ai 6,5 del debito italiano attuale) attraverso la conversione da trentennale a perpetual dei titoli greci detenuti dalla BCE. L’idea di una conferenza europea sul debito, l’esca verso Italia Spagna Portogallo e Francia per verificare se tutti insieme avrebbero fatto fronte comune contro il resto dell’Unione europea, è sparita anch’essa.

Nella sostanza, Tsipras chiede invece tre cose. Lo scalpo da consegnare ai greci per mostrare che non si torna indietro è la rinuncia alla trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, per regolare la faccenda all’interno degli organi europei. E in questo sarà accontentato, anche Juncker è già a favore. Al FMI si dovette ricorrere quando gli strumenti d’emergenza europea, l’EFSF e l’EMS, o non esistevano o esistevano solo sulla carta. La seconda cosa è rinunciare al 4,5% di Pil che la Grecia è impegnata a ottenere ogni anno come avanzo primario di bilancio, per farlo scendere all’1,5%. E dunque poter contare su 3 punti di Pil di spesa pubblica in larga parte in deficit (così sarebbe, visto che a oggi il 4,5% nopn è raggiunto.., anche se Varoufakis dice ora che la Grecia non farà mai più deficit, come non fosse conseguente alla richiesta avanzata!), per pagare almeno alcune delle promesse fatte ai greci: il ritorno alle assunzioni pubbliche, il riabbassamento dell’età pensionabile, l’elettricità gratis a 300mila famiglie, l’abbattimento delle imposte immobiliari e via continuando. Cioè il ritorno della Grecia allo statalismo assistito che l’ha rovinata, e che oggi viene rigiustificato per sostenerne la domanda attraverso la spesa pubblica. La terza cosa è un ulteriore spostamento in avanti degli oneri da pagare sul debito, per effetto dello swap verso i due nuovi tipi di rendimento – GDP-linked e perpetual – proposti sui titoli esistenti.

Vedremo come vanno le cose al primo incontro diretto del governo Syriza con il governo tedesco. Ma di fatto il bluff di Syriza è già finito. Perché Tsipras e Varoufakis parlano di un negoziato lungo sei mesi, ma in realtà le banche greche hanno munizioni solo entro fine febbraio. E questo lo sanno i mercati come lo sanno gli altri governo europei. Già a metà gennaio due rilevanti banche greche hanno dovuto ricorrere all’ELA, la linea di liquidità straordinaria provvista dalla BCE agli istituti di credito in difficoltà. A dicembre i greci hanno ritirato 3 miliardi di depositi, a gennaio non sappiamo ancora ma si ritiene molto di più. Lo Stato drena dal sistema bancario per le sue esigenze in media 3 miliardi di euro al mese, dando in garanzia titoli pubblici a breve. Entro fine febbraio, se i greci avanzassero richieste non componibili con l’assenso europeo, la BCE dovrebbe negare l’assistenza di liquidità straordinaria. Prima di uscire o meno dall’euro o di qualunque altro negoziato, il governo di Syriza si troverebbe a non poter più pagare stipendi e pensioni. Perché nel frattempo a dicembre il gettito fiscale greco è stato del 17,7% inferiore alle attese e il 2014 si è chiuso con 3,2mld mancanti rispetto ai 55 programmatici, e a gennaio le prime stime parlano addirittura di un meno 40%, contando sugli effetti miracolosi della vuittoria di Syriza. Questa è l’amara realtà dei fatti.

Ed è un’amara realtà che avrebbe dovuto indurre a qualche senso misura, invece di promettere ai greci la luna.

La soluzione europea non può riguardare solo la Grecia. Non può includere alcun condono del debito, mentre sui tassi e sulla durata dei titoli si può discutere. Ma i tassi applicati ai debiti non possono essere inferiori ai costi sopportati dai paesi euromembri tramite Efsf ed EMS – Italia per prima – altrimenti il principio che vale per uno vale per tutti. Un meccanismo di iniziale federalizzazione del debito tramite l’abbattimento degli interessi, se la quota del debito in questione è solo quella a carico del bilancio della Bce e non degli Stati membri – può essere ipotizzata solo a patto che chi è finito sotto FMI non sia trattato meglio di chi, come l’Italia, non ne ha avuto alcun bisogno. Altrimenti li chiedessero a Putin, i soldi e gli aiuti. Né le riforme per accrescere produttività e apertura dei mercati possono essere buttate a mare, altrimenti la debolezza dell’economia greca continuerà ad eternarsi fino a un nuovo default sotto un nuovo governo dalla spesa facile (e dalla pressione fiscale di 10 punti inferiore alla nostra).

E’ bene che ci riflettano, quelli che in Italia vogliono imitare Syriza, e che l’hanno dipinta come la grande svolta contro il cieco rigore. Il governo greco in soli 10 giorni ha dimostrato una sola cosa: che promettere l’impossibile può far vincere le elezioni, ma poi ottenerlo impossibile resta. E il conto, se si continua a fare i velleitari, si rischia di presentarlo proprio a quei cittadini economicamente in ginocchio che hanno creduto per disperazione a miracoli impossibili.

 

2
Feb
2015

Regime IVA dei minimi: una simulazione della vessazione fiscale—di Uberto Cardellini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uberto Cardellini.

Lattuale governo, nonostante abbia comunicato il contrario, non ha affatto agevolato le piccole partite IVA. A fare due conti, anche queste hanno tuttora un carico fiscale che rende eroica anche solo lintenzione di intraprendere un lavoro autonomo.

Facciamo un esempio, prendendo una delle ben 9 categorie di regime IVA ai minimi.

Un individuo apre un microcommercio ( sotto i 40.000 euro di fatturato: non chiedetemi che commerciante al dettaglio o allingrosso sia uno con un fatturato del genere, non ho fantasia. Gli ambulanti sono qui esclusi). Read More

2
Feb
2015

Quattro ragioni per restare prudenti sulle roboanti previsioni di crescita 2015

 

Due domande secche sulla situazione economica italiana, in questo inizio 2015. Ci sono segnali concreti di un inizio di miglioramento? Che cosa ci aspetta nel 2015, chi ha ragione tra le diverse stime di crescita dell’Italia appena rilasciate, che si allargano da un più 0,7% a tre volte tanto?

La prima domanda ha una risposta più agevole. Sì, segnali concreti di un ritorno faticoso al segno positivo iniziano a registrarsi. Il tasso di disoccupazione è sceso al 12,9% a dicembre, di 0,4 punti rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione è salito di 0,2 punti sul mese e di 0,3 punti sull’anno, al 55,7%. La disoccupazione giovanile è scesa dal 43% al 42% in un mese, mentre saliva da anni. I 94mila nuovi occupati di dicembre sono un buon segnale, ma ricordate che non pareggiano neanche i 113 mila persi tra ottobre e novembre. Il calo della disoccupazione e l’aumento dell’occupazione (non è detto che i due dati vadano insieme, la disoccupazione può scendere anche solo se aumenta il numero degli scoraggiati che non cercano lavoro), è un dato anche a sorpresa (sia pur da verificare per tipogie di contratto, per vedere quanto a tempo magari solo per rafforzare gli esercizi commerciali in vista di feste e saldi), perché ci si aspettavano una ripresa del lavoro solo a cominciare da febbraio-marzo, quando le imprese metteranno a frutto i maxi incentivi alle assunzioni deliberati in legge di stabilità, e il Jobs Act. Ma è anche vero che, proprio in attesa di queste misure, da mesi le imprese stavano a braccia conserte e non assumevano. Se poi dai dati quantitativi ci spostiamo agli indicatori qualitativi che misurano attese e fiducia, anche quelli virano in positivo. La fiducia dei consumatori italiani, fatto base 100 il 2005, è salita a 104 a gennaio 2015, il picco dal 2011, e la stessa cosa vale per la fiducia delle imprese, salita a 91,6 mentre stava a 81,6 nel 2012.

Altro paio di maniche è giudicare la stima di crescita complessiva del PIL italiano nel 2015. Effettivamente, le stime divergono di parecchio. Il Centro Studi Confindustria è molto positivo, stima il 2015 come un anno di svolta vera e profonda, giudicando in un +2,1% nel 2015 e in un +2.5% nel 2016 la “spinta aggiuntiva” rispetto un Pil che a fine 2014 registrava quasi mezzo punto di calo (che dunque va sottratto alla stima, e così facendo la crescita del Pil secondo Confindustria è intorno a +1,6% nel 2015). In questi stessi giorni, Prometeia ha stimato invece la crescita del Pil 2015 a un più 0,7%. Ed è la stessa stima del REF.

Prima di cercare di spiegare valutazioni così divergenti, una premessa. Ogni centro di ricerca ha un suo modello econometrico di previsione, costruito secondo assunti che “scontano”, per così dire, le variabili esogene internazionali ed endogene – reddito, consumi, prodotto, investimenti – diversamente a seconda dei princìpi a cui il modello si ispira, e di come vengono “tarate” le serie storiche inglobate. Questo spiega perché formalizzazioni matematiche diverse, con uno stesso input numerico di partenza, possano produrre risultati diversi.

Diciamo allora che nel 2015 siamo in presenza di fenomeni domestici su cui tutti più o meno concordano, ma di variabili internazionali che vengono diversamente apprezzate. Se scomputate i diversi fattori che concorrono alla “spinta” alla crescita 2015 italiana stimata da Confindustria, troverete un +0,6% prodotto dal calo del prezzo del petrolio, un +0,8% che deriva dal deprezzamento dell’euro, un +0,5% effetto delle stime di crescita del commercio mondiale e dunque del nostro export, e infine uno 0,2% derivante dall’andamento decrescente dei tassi a lungo termine sul debito pubblico italiano. Come vedete, si tratta di quattro fattori che derivano tutti da andamenti determinati a livello internazionale. Mentre sugli effetti aggiuntivi di occupazione creati dagli sgravi alle assunzioni e dal Jobs Act tutti più o meno concordano (più sui primi che sul secondo), le “molle” internazionali non vedono tutti d’accordo: spingono alla crescita, ma non è detto che lo facciano davvero in maniera tanto netta.

Vediamo perché su almeno 4 fattori le opinioni divergano.

Dai 114 dollari al barile di giugno scorso, il petrolio è sceso verso quota 46-47. Altro conto è dare per scontato che resterà a quota 45 nel 2015-16, e inoltre non va dimenticato che l’effetto di un deprezzamento tanto rilevante è moto attenuato nelle tasche di imprese e famiglie italiane da un 60 e più per cento di oneri rappresentati da Iva e accisa sul prezzo finale al consumo.

Ipotizzare un commercio mondiale che cresce al 4,5% annuo per due anni, rispetto al 3% e poco più nel 2014, implica coraggio: siamo reduci da due anni in cui le stime più positive di ogni inizio anno hanno dovuto fare i conti con diminuzioni nel corso dell’anno. I BRICS sono in crisi, il Brasile ha chiuso il 2014 raddoppiando al 6,7% il suo deficit pubblico e con un analogo segno meno alla sua bilancia dei pagamenti, la Russia se la passa malissimo per gli effetti delle sanzioni.

E’ in atto una gara planetaria al deprezzamento delle valute che fa risalire il dollaro, ma espone molto i paesi emergenti esposti per trilioni di debiti che in dollari sono denominati. L’instabilità finanziaria è molto accentuata da questi fenomeni e dall’asimmetria delle politiche seguite dalle maggiori banche centrali mondiali (vedi i ribassi “disperati” danesi, il cambio di segno repentiono sui tassi della banca centrale russa, la mossa svizzera..). Nessuno oggi è davvero in grado di dire come finirà la vicenda della Grecia, e che impatto avrà sulle curve dei tassi dei paesi eurodeboli in caso di mancato accordo.

E se ci spostiamo a esaminare gli effetti -sicuramente positivi – del QE deciso la settimana scorda dalla Banca Centrale Europea, non dimentichiamo che esso sgraverà in due anni fino a 120 miliardi di bonds dalla pancia delle banche italiane, liberando capitale per impieghi a famiglie e imprese, ma le banche italiane sono gravate da 330 miliardi tra sofferenze (180) e incagli (150), dunque non è affatto detto che potranno davvero avvalersene per trasferire integralmente il capitale liberatosi a garanzia di prestiti aggiuntivi, né è chiaro se, come e quando davverò partirà una bad bank di sistema sulla quale sembra che a palazzo Chigi si rifletta (ci sono molteplici rischi: aiuti di Stato, azzardo morale, ruolo di Cdp.)

Ecco spiegate le differenze. L’invito che facciamo è di aderire alla linea della prudenza. Inizia per gli italiani il cammino per recuperare il troppo prodotto e reddito perduto. Ma la strada sarà lunga e costellata di molti nuovi rischi mondiali. Seguite una bussola che quasi nessuno cita, quella della competitività. Tra il 2000 e il 2014 il CLUP, costo del lavoro per unità di prodotto, è salito del 15% in Germania, del 24% in Portogallo, del 28% in Francia, del 30% in Spagna, del 37% in Grecia, ma del 44% in Italia. Ce n’è tanta di strada da fare. Anche se la notizia è che, finalmente, potrebbe essere non più tutta in salita.

 

26
Gen
2015

Che Tsipras ora faccia il duro e puro: si capirà che cosa davvero siano la Ue, e destra e sinistra che insieme applaudono Syriza

Syriza ha mancato di soli due seggi la maggioranza assoluita per governare da sola ma è un bene, nell’interesse comune europeo (e italiano), che abbia subito trovato un accordo di governo con la destra anti-euro di Anel e i suoi 13 seggi. Pur non condivididendo nulla del suo programma, mi auguro anche che Tsipras ora traduca alle lettera il suo programma elettorale in proposte pienamente coerenti, pure e dure. Cioè che chieda all’Unione europea di abbattere del 50% il debito pubblico greco detenuto dai Paesi e dalle istituzioni dell’euroarea (l’80% di quello attuale) come già è avvenuto nel 2011-2012 per gli obbligazionisti privati.

A questo punto, è meglio così per tutti: che si capisca in pochi mesi che cosa sia davvero l’Unione Europea. Perché a seconda della risposta che darà ad Atene, e a seconda di come Atene si comporterà, sarà più chiaro che cosa l’Unione europea può davvero diventare, e lo si capirà ben prima dei 2 anni necessari per giudicare l’effetto del QE deliberato alla BCE da Mario Draghi a maggioranza giovedì scorso.

La Grecia, grazie a politici che meritano di aver perso voti a carrettate a vantaggio di Tsipras, con l’euro ha finanziato crescita allegra più che raddoppiando il suo debito pubblico. L’abbattimento dei tassi d’interesse realizzato con la moneta comune – esattamente com’è capitato per l’Italia – ha generato per 8 anni l’illusione che si potesse assumere nel settore pubblico, pagare pensioni fuori da ogni equilibrio attuariale, non pagare le tasse, non alzare la produttività, perché tanto il debito poteva raddoppiare e si sarebbero pagati per sempre solo interessi bassissimi.

Nel 2011 l’illusione – basta su conti falsi per quasi un 10& di PIl  – si è spezzata. E il conto è stato presentato non ai politici greci – come in Italia non è mai stato presentato a chi ci ha portato al 135% di Pil di debito pubblico – ma ai greci. I tagli pubblici per garantire fino al 2022 un avanzo primario del 3-4% di Pil annuo hanno significato disoccupazione e povertà di massa. La forza per mettere alla sbarra l’oligarchia greca, che detiene più di 200 miliardi di euro all’estero, è mancata. I greci chiedono un nuovo ripudio del debito, e Tsipras vuole tornare a ciò che scrive Paul Krugman tutti i giorni sul New York Times: assunzioni pubbliche, spesa pubblica, sussidi pubblici. In Spagna Podemos, in Germania die Linke, in Italia SEL e un terzo del Pd, ma paradossalmente anche in Francia la signora Le Pen, e in Italia la Lega di Salvini e un bel pezzo degli eletti di Forza Italia, la pensano praticamente allo stesso modo. O quasi. “Basta austerità, serve un’altra Europa”, dicono tutti. Lo dice anche chi, in Italia, l’austerità non l’ha praticata MAI, visto che da noi la spesa è cresciuta – meno che in passato, ma cresce ancora – e abbiamo solo realizzato stangate fiscali, sul risparmio, sulla casa, sui consumi.

Oggi Draghi e Juncker si vedranno presto, per elaborare una prima linea comune rispetto a Tsipras e alle sue richieste. Il paradosso è che a farlo debbano essere due due tecnici, non eletti ma scelti. E’ per molti versi l’essenza della Ue attuale. Ma non lo dico con la beffarda critica che usano molti politici, contro l’”Europa dei tecnici”. Per preservare un’idea comune europea, Bce e Commissione Europea con tutti i loro difetti hanno fatto molto più, in questi anni, dei politici incapaci, nel Consiglio Europeo, di prendere decisioni altrettanto efficaci e, soprattutto, tempestive di fronte alla piega assunta dalla crisi nei paesi eurodeboli.

L’euro è nato senza aver unito mercati dei beni e dei servizi, per consentire a un unico tasso d’interesse di far convergere produttività e curve di costo come vasi comunicanti come funziona il dollaro negli USA, un’area continentale dove pure specializzazioni produttive e costi – dell’energia, della logistica, del lavoro, della PA – non sono affatto eguali dovunque. E l’euro è nato anche senza meccanismi di stabilizzazione cooperativa, per via della storia che abbiamo alle spalle, di Weimar e del nazi-fascismo che ne sortì, una storia molto diversa da quella americana.

Ora che sono passati troppi anni dall’inizio dell’eurocrisi, ora che in alcuni paesi si sono accumulate perdite di prodotto e reddito per famiglie e imprese troppo elevate per non portare massicci consensi a chi promette di cancellarli adottando cose che pur nella storia si sono viste – perché la cancellazione massiccia di debiti attraverso ripudio e iperinflazione è avvenuta innumerevoli volte nella storia, dopo grandi conflitti o grandi default, sia pur con costi sociali che i politici che li ripropongono tacciono oculatalemente (chiedere agli italiani in Argentina, se avete dubbi) – è un bene che l’Unione Europea (e il Fmi) si trovino di fronte a sé le richieste pure e dure di Tspiras.

Almeno sapremo la risposta, saremo in grado di capire che cosa davvero ci attende. Vedremo politicamente se la sinistra europea riesce a spiegare a Tsipras che quello che chiede non è inaccettabile ma sbagliato, perché signficherebbe esporre la Grecia a un nuovo default sia pur dopo l’effimera illusione di una maxi svalutazione. Vedremo chiarezza a cominciare dal Pd italiano, visto che ieri a esultare per Syriza erano gli stessi parlamentari che votano leggi di stabilità che realizzano rilevanti avanzi primari grazie a nuove tassazioni retroattive e con la minaccia di imponenti aumenti Iva tra 2016 e 2018. Vedremo come reagirà la Spd tedesca, e se le congratulazioni immediate dei socialisti francesi significheranno sostegno al ripudio del debito voluto da Tsipras.

Invece, nel caso in cui l’Unione Europea avrà la forza di una posizione razionale, vedremo se Tsipras, di fronte all’ipotesi di un’uscita dall’euro, saprà attrezzarsi a una molto più sobria trattiva, per ottenere dall’Ue e Fmi nuove condizioni per pagare gli interessi sul debito – già attualmente a tassi ridicoli, l’1%, e con un onere percentuale sul Pil che è un terzo di quello annuale italiano – e per strappare qualche possibilità di realizzare comunque programmi sociali, ma in cambio di forti riforme di produttività.

In caso contrario, meglio saperlo. Sarebbe ridicolo per i contribuenti italiani continuare a essere strangolati, a colpi di avanzo primario realizzati per via solo fiscale, per ottenere negli anni un difficile equilibrio della finanza pubblica e più produttività, se questa strada altri la ripudiano e vengono assecondati. La colpa non è di Draghi, che ha fatto e continua a fare miracoli. La colpa è della politica europea: troppo incline, finché i mercati non saranno uniti rompendo incrostazioni corporative autarchiche, a non riconoscere che senza di questo l’euro resterà sempre zoppo. La risposta a Syriza o è un passo avanti energico verso l’Europa convergente – che si fa sui mercati, non con l’armonizzazione fiscale – oppure l’uscita della Grecia dall’euro darà solo munizioni a chi anche in Italia, da destra e sinistra, promette la liretta come l’acqua di Lourdes che fa miracoli.

 

 

22
Gen
2015

Se a Roma su 767 vigili renitenti finisce con 6 deferiti per dubbia malattia, Renzi e Marino sono don Chisciotte e Sancho Panza

Sembrava una svolta drammatica, e finisce a opera buffa. Come spesso avviene in Italia e troppe volte nell’Italia “pubblica”, si parte tra pifferi e tamburi annunciando cambiamenti radicali ma il viaggio si rivela circolare, e dopo poco ci si ritrova mesti e sfiduciati allo stesso punto di prima. E’ quel che sta avvenendo nella vicenda dei 767 vigili urbani di Roma assenti dal servizio a Capodanno. Il presidente del Consiglio fece fuoco e fiamme annunciando sanzioni e punizioni. Il sindaco disse che la misura era piena. Ora, in capo a tre settimane, i numeri parlando da soli. E sono numeri che suscitano imbarazzo e incredulità, come capita quando ci si scopre vittima di una burla e ce la si prende con se stessi, per esserci cascati. Perché di 767 vigili renitenti, i deferiti alla commissione disciplinare per malattia dubbia sono in tutto e per tutto 6. Più un’altra ventina, forse non in regola per non aver risposto all’obbligo di reperibilità sostituiva.

Sei finti malati su 767 è una quantità che dice tutto. Se finisce davvero così, i sindacati dei vigili partiranno lancia in resta per chiedere le scuse ufficiali davanti a tutta Italia. E chissà che non le ottengano. Per il sindaco e per il premier, sarebbe una bella figura da don Chisciotte e Sancho Panza. E per i romani e per tutti gli italiani, una nuova doccia gelata di sfiducia e rassegnazione. Perché se non si schioda nulla nemmeno di fronte a un caso tanto eclatante, e come tale segnalato, vissuto e condannato dai massimi vertici politici nazionali e della Capitale, allora chiedere a tutti i cittadini di nutrire fiducia in svolte e cambiamenti pubblici diventa non un atto ragionevole, ma un atto di fede. Mettiamolo in chiaro: un esito tanto paradossale è un nuovo eclatante segnale che basta sapersi ben organizzare sul filo dei regolamenti e delle norme, e si può continuare nel mondo pubblico a fare i furbi senza pagare ammenda. Altro che svolta.

Non stiamo generalizzando. Per favore ci si risparmino contestazioni sul fatto che manchiamo di rispetto ai vigili di Roma, al corpo e a tantissimi dei quasi seimila di loro. E’ l’esatto contrario: noi parliamo a difesa dell’onore e della dedizione di tantissimi vigili urbani e dipendenti pubblici. Non li accomuniamo ai furbi, né ai volpini sindacalisti che nella notte di Capodanno a Roma hanno orchestrato l’astensionismo di massa come sciopero non dichiarato: per il contratto, contro la rotazione, per la richiesta che la disponibilità festiva si paghi come straordinario, e per tutte le altre ragioni discutibili ma legittime se avanzate nelle forme di un magari muscolare confronto sindacale con il Comune, ma che in nessun caso e mai possono legittimare la renitenza al lavoro dietro le giustificazioni consentite a chi è malato per davvero, non a chi lo decide a tavolino.

Purtroppo, questa fine da opera buffa non ci fa ridere per niente. Conferma che le regole e i princìpi possono essere anche affermati nelle norme vigenti – visto che i falsi attestati di malattia sono già da anni causa di licenziamento per giusto motivo nel pubblico impiego – ma restano nella realtà sterili e inefficaci grida manzoniane. Comprova che, a furia di dirigenti pubblici inadempienti all’obbligo loro spettante di giudicare produttività e regolarità delle prestazioni di lavoro dei loro sottoposti, alla fine la collusione verso chi ne approfitta regna sovrana. Attesta che è inutile punire sulla carta i falsi certificati, se poi non si dispone di un servizio medico ispettivo operante in tutte le fasce del giorno per smascherare dipendenti finti malati e medici compiacenti.

Tutto questo i furbi lo sanno benissimo. Ed è di questo che si fanno forti. Questa è la ragione per la quale i sindacati insorgono contro chi considera quanto avvenuto a Capodanno una vergogna, urlando che si tratta di calunnie irrispettose. E tutto questo anche i politici lo sanno benissimo: perché sono loro per primi che da decenni non hanno spinto e obbligato i dirigenti pubblici a monitorare i comportamenti dei sottoposti, sono loro ad aver sospeso dal 2011 la comunicazione annuale al parlamento del rapporto sull’assenteismo pubblico e privato comparato.

Ma, proprio per questo, politici che finalmente vogliano cambiare verso devono anche sapere che, una volta annunciata una svolta vera, che anche simbolicamente consegni al passato tanti decenni di collusione, allora tale svolta si deve vedere e toccare con mano, nei fatti e nei numeri. A Roma, sta succedendo l’esatto opposto.

E vedremo se allo stesso modo finirà anche la partita del salario di produttività, se terminerà davvero l’era che lo vede spalmato a tutti in parti uguali, perché nessuno davvero giudica gli obiettivi conseguiti dal lavoro pubblico secondo veri parametri e risultati noti ex ante e misurabili ex  post. Nelle norme disciplinari della PA riformate 2009 è previsto fino al licenziamento per basso rendimento, a seguito di un esame biennale della produttività offerta dal dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni. Se si viene bocciati, scatta la sanzione. Ma non è un caso che dei 200 licenziati pubblici nel 2013, cioè solo lo 0,0068% dei dipendenti statali, non uno solo sia per scarso rendimento. Per tre ragioni almeno.

Perché l’esame biennale di produttività sia efficace, occorre infatti non una nuova legge ma che nei contratti pubblici siano inseriti parametri di efficienza oggettivi e soggettivi, noti ex ante e calibrati per funzione e per dipendente, in maniera tale che il loro non rispetto nel minimo dell’obiettivo configuri inaccettabile mancanza al proprio dovere tale da essere sanzionata, mentre il loro ottenimento oltre una certa soglia faccia scattare invece il premio salariale alla produttività. Occorre poi prevedere che i dirigenti pubblici siano tempestivi e precisi nel compiere la valutazione del rendimento dei dipendenti a loro soggetti, senza indulgere nella prassi imperante di buone valutazioni uguali per tutti. E che, proprio per evitare tale andazzo tanto diffuso nel pubblico impiego, in primis la valutazione degli stessi dirigenti tenga conto del dovere compiuto nel giudizio della produttività e rendimento dei loro sottoposti. Perché in caso contrario la sanzione deve scattare in primis a carico del dirigente. Senza dirigenti pubblici davvero motivati alla verifica degli obiettivi, la pubblica amministrazione resta una macchina opaca, e l’invito ad approfittarne si fa implicito ed esplicito.

La serietà di un paese si giudica innanzitutto dalla serietà con cui chi lo serve viene considerato e rispettato. Sei deferiti e 761 salvati vuol dire non prendere sul serio non solo i cittadini romani che pagano le tasse, e quelli di tutta Italia che hanno contributo a due decreti salva-Roma in pochi anni. Significa innanzitutto non prendere sul serio e mancare di rispetto ai tantissimi dipendenti pubblici che non lo meritano, e sui quali cadrà ancora una volta il discredito popolare. Messa così non è un film che finisce in bonarie risate alla Totò e Peppino. A giudicare dalla vicenda capitolina, la riforma della PA italiana rischia di essere un film di Buñuel, che fa restare solo l’amaro in bocca.

21
Gen
2015

Quattordici libri che dovreste leggere nel 2015

Il 2015 è cominciato senza fare economia di colpi di scena, orrori, eventi che creano grande incertezza sulla scena economica come su quella politica. Un buon libro non salva il mondo, ma ci aiuta a capirlo. Per questo abbiamo chiesto ai nostri Fellow e ad alcuni collaboratori di questo blog alcuni suggerimenti di lettura per l’anno nuovo.

***

— Edwin A. Abbott, Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi 1993 (1884).

Abbott, teologo inglese di epoca vittoriana, racconta se stesso e la propria società con una metafora geometrica in cui egli è un quadrato in un mondo a due dimensioni, rigidamente organizzato e suddiviso in categorie in base al numero di lati di ciascuna figura. Quando incontra una sfera, l’autore scopre con entusiasmo l’esistenza della tridimensionalità e corre a illuminare i suoi concittadini, i quali, tuttavia, lo credono pazzo e lo imprigionano. La sfera, in ogni caso, si dimostrerà non meno ottusa: leggere per credere. Pur basandosi su un ben preciso contesto storico, Flatlandia è una distopia universale, una satira dissacrante contro la paura di ciò che è nuovo, diverso e che, soprattutto, potrebbe essere “migliore” di se stessi.

Giacomo Lev Mannheimer, Fellow IBL

 

— José Antonio De Aguirre, La lezione della crisi economica. Quello che è stato e quello che verrà, Rubbettino 2014 (2014).

Una lettura “alternativa” rispetto a quella keynesiana – ma anche dei monetaristi classici – del gigantesco problema di fondo irrisolto sui mercati dal 2008 a oggi. E’ un librino agile, ma condensato di pensiero radicale: inutile inseguire la crisi degli intermediari finanziari inventando politiche monetarie sempre meno ortodosse, è altrettanto irreale credere di affrontare la questione con il controllo dell’offerta di moneta, base monetaria e velocità di circolazione. Il punto di fondo è che paghiamo un’errata concezione della moneta, e lo sviluppo di questa idea da quando nel 1868 nasce nella banca d’Inghilterra l’idea del corso forzoso cartaceo. Il risultato sono state banche centrali sempre più lontane dalla capacità di registrare la “vera” domanda di moneta, che avviene a livello di ogni singola banca. Di qui l’affannarsi vano tra ricette contrapposte nello strumentario delle banche centrali. E’ possibile tornare a un’offerta di credito monetariamente misurata sulla vera domanda? Sì se cambiamo funzione e strumenti della banca alla base della piramide (o almeno delle maggiori tra esse), NON della banca centrale. Una sana provocazione intellettuale mengeriana, molto più densa di significato per chi fa riferimento alla scuola austriaca nel dibattito tra Krugman, Piketty, Tsipras e tutti quelli che volete voi.

Oscar Giannino, Senior Fellow IBL

 

— Vittorino Andreoli, Il Gesù di tutti, Edizioni Piemme 2013.

Lo psichiatra Andreoli racconta il “suo” Gesù, cosa ha significato nella sua vita, quando anche aveva abbandonato la religione assorbita da piccolo. Ma racconta anche il Gesù “di tutti”, nell’idea che la figura e la vita di Gesù possano rappresentare un archetipo per ogni persona, di qualsiasi religione. Nelle sue parole: “Ecco dunque la mia convinzione profonda: Gesù è un topos comportamentale, è una visione del mondo e uno stile di vita, l’esempio per vivere serenamente”. Perché lo consiglio? Io credo che l’instabilità che la nostra società sta sperimentando non si estinguerà a breve, ma il cambiamento diverrà sempre più veloce. A livello individuale, l’unica possibilità di trovare stabilità in un periodo storico che non è mai stato così instabile è dentro di noi e questa ricerca è un qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani. A questo proposito, vorrei sottolineare l’importanza del capitolo “Gesù interreligioso”, in cui si ricorda quante volte la sua figura ritorni nella letteratura religiosa arabo-islamica.

Emilio Rocca, Fellow IBL

 

— Dan Ariely, Prevedibilmente irrazionale, Rizzoli 2008 (2008).

Un libro di behavioral economics che sottolinea i limiti della nostra razionalità e volontà con una serie di esperimenti, il cui esito è spesso non scontato, suggerendo strategie e possibili trucchi.

Luciano Lavecchia, Fellow IBL

 

— Emanuele Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, il Mulino 2014.

Fa impressione leggere un filosofo dire cose sensate sul mercato. Lo fa Emanuele Coccia partendo dalla pubblicità, intesa come discorso pubblico della nostra epoca, che ci parla dai muri, la “cosa politica” per eccellenza. E la pubblicità conduce un discorso pubblico che ha per oggetto le merci, “l’ultimo nome che l’Occidente ha dato al bene”. Ne esce una trattazione originale di temi che di solito ricevono dalla filosofia uno sguardo sprezzante. Il capitalismo è addirittura visto come estensione “radicale ed estrema” della moralità. Coccia non è riconducibile a etichette di comodo, come può essere anche quella di liberale, però ha il coraggio di condurre la sua ricostruzione usando categorie politiche, etiche ed estetiche tipiche della filosofia contemporanea, non restandone prigioniero. Senza farsi paladino del “consumismo sfrenato”, l’autore di Il bene nelle cose si fa beffe di molti tic filosofici e di tante tendenze culturali tipiche dell’anticapitalismo di maniera.

Nicola Iannello, Fellow IBL

 

— Alex Epstein, The Moral Case for Fossil Fuels, Portfolio 2014.

Raccomando un libro che non ho ancora letto, ma che è di sicuro interesse e sta già suscitando un vivo dibattito. Segnalo l’articolata recensione di Bryan Caplan per EconLog: parte 1, 2, 3, 4, 5.

Francesco Ramella, Fellow IBL

 

— Harry G. Frankfurt, Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli 2005 (2005).

Tutti sanno che le “stronzate” sono dappertutto, e tutti contribuiscono (contribuiamo) a diffonderle e ingigantirle. Ma perché? E cosa sono, poi, le stronzate? Un saggetto imperdibile per chiunque voglia capire il dibattito pubblico italiano.

Carlo Stagnaro, Senior Fellow IBL

 

— Adam Grant, Più dai, più hai. Un approccio rivoluzionario al successo, Sperling & Kupfer 2013 (2013).

Agli amanti del mercato non potrà non piacere il modo in cui Grant ci ricorda quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri. Ancor più nel mondo di oggi, sempre più piccolo e interconnesso, il successo personale dipende dal successo di chi ci sta intorno. Aiutare gli altri ogni volta che si può, cioè agire al modo di quelli che il professore di Wharton chiama givers, nel lungo periodo si rivela la strategia vincente per tutti.

Paolo Belardinelli, Fellow IBL

 

— James Grant, The Forgotten Depression. 1921: The Crash That Cured Itself, Simon&Schuster 2014.

Chi critica il modo in cui le autorità pubbliche sono intervenute nelle crisi, dal ’29 al 2007, si scontra spesso con un’obiezione non insensata. E’ relativamente facile individuare errori ed esempi di cattiva gestione, ogni volta che lo Stato s’avventura a “salvare il mondo”. Si può, certo, spiegare come proprio intervento pubblico e regolamentazione sono spesso artefici di quelle catastrofi da cui si propongono di proteggerci. Ma questo di per sé non significa che, non fosse entrato in campo lo Stato, una crisi si sarebbe risolta più in fretta. Mancherebbe insomma un “esperimento naturale” di una crisi in cui si è provato (con successo) il laissez faire, anziché affidarsi all’intervento salvifico delle autorità. In questo libro James Grant racconta un crollo drammatico, quello del 1921, dal quale gli Stati Uniti, per una serie di circostanze storiche, si risollevarono, e velocemente, senza alcun “New Deal”.

Alberto Mingardi, Direttore Generale IBL

 

— Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel, Stephan Opitz, Kulturinfarkt. Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura, Marsilio 2012 (2012).

Pur facendo riferimento alla situazione tedesca, molte situazioni, riflessioni e proposte contenute nel libro sono ben adattabili anche al contesto italiano. Il sottotitolo dell’edizione originale dice “Troppo di tutto e ovunque le stesse cose”. L’intervento pubblico ha infatti gonfiato e appiattito l’offerta culturale. Inoltre, l’assunto che la cultura non possa sopravvivere in un sistema di mercato (e che invece vada lautamente sovvenzionata) ha prodotto clientele, scarsa capacità di innovazione e di autonomia, poca responsabilizzazione nella gestione delle istituzioni culturali e una inadeguata attenzione verso i gusti e le preferenze del pubblico. Kulturinfarkt fornisce un quadro concettuale nuovo per ripensare le politiche culturali.

Filippo Cavazzoni, Direttore Editoriale IBL

 

— Giuseppe Maranini, Il mito della Costituzione, Ideazione 1996 (1957).

Se dopo sessant’anni la Costituzione italiana è ancora ammantata da una melliflua deferenza che ne fa “la più bella del mondo”, figurarsi quanto acume occorreva a nemmeno due lustri dalla sua entrata in vigore per vederne i limiti e le reali, non ideali, condizioni storiche in cui era nata. A chi pensa che la nostra Costituzione sia stata il frutto di una momento illuminato di ispirazione da ideali astratti e immutevoli, Maranini ricorda che non da e per una sovranità teorica, ma da e per una sovranità partitica nacque la nostra Costituzione, nel bene e nel male. Con questa analisi pacata, rispettosa, lucida, non sempre preveggente ma assai lungimirante, la Costituzione assume il ritratto che merita: l’esito di un momento storico e politico delicato e cruciale, il miglior esito forse che in quel momento si poteva ottenere, ma anche un testo pieno di ambivalenze e ambiguità che avrebbe potuto aprire l’Italia verso una democrazia matura o immatura a seconda delle dinamiche politiche, prima che istituzionali.

Serena Sileoni, Vice Direttore Generale IBL

 

— Gerald O’Driscoll e Mario J. Rizzo, L’ economia del tempo e dell’ignoranza, Rubbettino 2002 (1985).

Il 2015 segna il trentennale di un classico moderno della scuola austriaca: L’economia del tempo e dell’ignoranza, che si può leggere nella traduzione italiana o nell’edizione riveduta e arricchita in uscita per Routledge, munita di un prezioso corredo telematico (http://timeandignorance.com). Lungi dal presentare una mera ricognizione della tradizione austriaca, O’Driscoll e Rizzo si proponevano di rielaborarne e aggiornarne il paradigma, a partire dai fondamenti metodologici (l’opzione soggettivista, la teoria della conoscenza, la concezione del tempo) fino a giungere a una ristrutturazione dell’edificio teorico (si pensi all’approccio ai temi dell’equilibrio generale e della concorrenza). Così facendo, gli autori intendevano aprire la strada a una nuova generazione di studiosi, legati alle premesse austriache ma aperti alla contaminazione di altre famiglie intellettuali: la ripubblicazione del volume è un’opportunità per riflettere sul successo di quell’operazione.

Massimiliano Trovato, Fellow IBL

 

— David Skarbek, The Social Order of the Underworld. How Prison Gangs Govern the American Penal System, Oxford University Press 2014.

Per credere nei sistemi di produzione di diritto e norme decentrati, nell’ordine spontaneo, è necessaria l’ipotesi che la natura umana sia buona? Skarbek prova con le gang delle prigioni quello che qualche anno prima Leeson aveva provato con i pirati: dimostrare che anche là dove le premesse antropologiche, per propensione alla violenza e al rischio, sono le peggiori emergono dal basso norme e organizzazioni in grado di creare ordine. Contrariamente a quel che si crede, infatti, le gang non servono ad aumentare la violenza ed il razzismo, ma servono a garantire ai detenuti la possibilità di cooperare con (maggiore) sicurezza. Insomma, un libro che sa cercare in un caso estremo, ben documentato e interessante, la risposta ad una delle più importanti domande delle scienze sociali.

Rosamaria Bitetti, Fellow IBL

 

— Jonathan Steinberg, Why Switzerland?, Cambridge University Press 1996 (1976).

Con ogni probabilità, questo dello storico inglese Steinberg è il miglior testo tra quelli che si propongono di illustrare le specificità di una realtà politica e sociale, quella elvetica, che soprattutto grazie alle sue istituzioni è riuscita a lasciarsi alle spalle secoli di povertà (per molto tempo, infatti, gli svizzeri sono stati spesso costretti a emigrare e anche ad accettare di fare i mercenari). Grande esperto della storia tedesca da Bismarck al nazismo, in questo volume (che fu pubblicato per la prima volta nel 1976 e di cui è annunciata una nuova versione) Steinberg esamina con notevole finezza una vicenda tanto marginale quanto ricca di insegnamenti. Le buone ragioni del federalismo, della neutralità, della democrazia diretta, delle proprietà condivise e della pace sociale vengono illustrate con un linguaggio piano e mai banale.

Carlo Lottieri, Direttore Dipartimento “Teoria Politica” IBL

 

Se ordini i tuoi libri da Amazon.com puoi utilizzare il programma Amazon Smile, donando così parte del ricavato all’associazione Friends of Istituto Bruno Leoni, un’associazione non-profit che supporta le attività di IBL negli Stati Uniti.

20
Gen
2015

A Pompei fa più danni lo Stato del Vesuvio—di Angelo Miglietta

Ha destato, come sempre, un po’ di polemiche la mancata apertura del sito di Pompei a capodanno, pare lasciando 2.000 turisti fuori dai cancelli. Scelta che peraltro il Ministro della Cultura Franceschini ha difeso. Tutto ciò è accaduto, fatto emblematico, proprio nel giorno in cui l’85% dei vigili urbani di Roma non è andato al lavoro per motivi di salute.

Si tratta di un nuovo, ulteriore esempio del perché la gestione dei beni culturali in mano pubblica è il modo meno efficiente ed efficace. Ogni volta si ritorna a polemizzare su specifici comportamenti, ma sembra che lo si faccia per “buttare un po’ di fumo negli occhi dell’opinione pubblica”, occultando il vero problema. Perché la gestione pubblica, a parità di capacità e buona volontà dei suoi manager e dipendenti, è meno efficiente ed efficace di quella privata? Ci sono diversi motivi, ma fondamentalmente perché essa si realizza attraverso procedure che sono dettate non dal mercato, ma dal rispetto delle regole di diritto amministrativo. Regole che sono completamente diverse da quelle di tipo non giuridico elaborate e sperimentate con successo dalle teorie manageriali, e quindi da quegli studiosi di management che si interessano alle applicazioni concrete della propria attività di ricerca. Tali regole, in opposizione a quelle del diritto amministrativo, prevedono in particolare: visione strategica aperta, autonomia e discrezionalità della gestione, procedure snelle per ridurre i rischi, creatività nei comportamenti e incentivazione economica rispetto ai risultati perseguiti.

In secondo luogo la presenza pubblica condiziona fortemente la selezione del personale e soprattutto dei manager, attraverso l’interferenza della (sotto)politica. In terzo luogo, ma collegato a quanto appena detto, esiste una diffusa (e sciagurata) opinione per la quale i dirigenti che sono chiamati a gestire il patrimonio culturale devono avere una solida preparazione culturale, magari essere degli ottimi storici dell’arte, ma non avere interferenze formative di tipo economico-gestionale, come se questi aspetti svilissero la conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio: insomma non devono operare secondo logiche manageriali. Non giova inoltre la confusione diffusa fra economisti della cultura e manager dei beni culturali, che porta a selezionare figure di economisti per incarichi che richiedono competenze manageriali. A tutti è ben nota la differenza fra i contenuti e i metodi dell’economia politica rispetto all’economia aziendale, fin dal primo semestre dei corsi di laurea di economia.

Va peraltro chiarito che il ruolo del pubblico, nel settore della cultura, resta estremamente importante. Il pubblico e lui solo deve fissare le regole per la gestione del patrimonio culturale, ivi incluse quelle relative alla sua tutela, conservazione e valorizzazione. Il pubblico e lui solo deve controllare che i gestori a cui è affidata la gestione del proprio patrimonio culturale rispettino le regole. E sempre al pubblico spetta l’attribuzione di incentivi a coloro che non sono in grado di pagare il prezzo di mercato per usufruire dei servizi del mondo della cultura, realizzando politiche culturali che favoriscano il senso di coesione sociale, che solo un popolo culturalmente preparato può sviluppare.

Uno Stato che fa bene queste tre cose – fissare le regole, controllare la loro corretta applicazione e incentivare il consumo di beni e servizi culturali nel quadro della politica di redistribuzione del reddito – non può certo essere anche il gestore di tali beni: si troverebbe, infatti, in palese conflitto di interessi. Certo, la politica perderebbe la possibilità di effettuare nomine clientelari e di orientare la scelta dei manager, ma tutto ciò potrebbe solo andare a beneficio del cittadino, sia inteso come utente, sia come contribuente.

Se mai un sito come Pompei verrà gestito da un privato qualificato, scelto con una gara internazionale e dotato di esperienza e standing adeguati, impegnato anche con la garanzia di una fideiussione bancaria a comportarsi correttamente, rischieremo di vedere che l’Erario può persino guadagnare da un simile straordinario patrimonio. E non accadrà più non solo il piccolo scandalo (l’unico di cui però si sono accorti i media) di vedere chiuso un sito come Pompei a capodanno, ma soprattutto di vedere che solo 2.000 turisti erano interessati a vederlo: sembra incredibile raccogliere un interesse di pubblico così risibile in un luogo così magnifico, solo la cattiva gestione può riuscirci!

Pubblicato su Management Notes.it il 19 gennaio 2015

16
Gen
2015

Dateci un Capo dello Stato che non firmi tasse retroattive, e costi come la regina Elisabetta

A ogni scelta di un nuovo capo dello Stato, i capi dei partiti politici di maggior rilievo in parlamento ripetono quel che oggi dice Matteo Renzi: serve un “arbitro”, il migliore possibile naturalmente, poiché dovrà incarnare l’unità nazionale e la più alta istituzione di garanzia. La personale interpretazione che ogni Capo dello Stato ha dato delle sue plurime funzioni mostra che invocare “l’arbitro” è solo un modo della politica per mettere le mani avanti. Farà poco piacere ai leader di partito, ma il nostro Capo dello Stato è un giocatore e non solo un arbitro, e in momenti e su temi tra i più delicati: sciogliere o non sciogliere le Camere; affidare incarichi di governo; comporre la lista dei ministri: come esercitare i poteri di promulgazione prima e dopo l’approvazione di leggi, disegni di legge e decreti legge governativi; sui problemi ordinamentali della giustizia come presidente del CSM; su difesa e sicurezza, come presidente del Consiglio Supremo.

Nella seconda Repubblica il conflitto tra il Quirinale “giocatore” e i leader di partito è diventato ancora più evidente, poiché il maggioritario porta a governi scelti da elettori senza che la Costituzione sia stata modificata quanto a forma di governo e prerogative del premier, e non è un caso che Berlusconi (ma anche Renzi, che dagli elettori non è stato scelto, si pensi alla nomina dell’attuale ministro dell’Economia voluta da Napolitano) abbiano più volte dovuto di malanimo “subire” scelte presidenziali, pur convinti di avere dalla propria un più forte e diretto mandato popolare. E non è un caso che i Capi dello Stato, vedi Napolitano da Monti in avanti, abbiano promosso governo non indicati dagli elettori preferendoli a scioglimenti anticipati.

Se dunque la politica mette le mani avanti, credendo ogni volta di scegliere un Capo dello Stato confinato a ruoli di pura rappresentanza e per il resto notaio delle decisioni prese dai capi-partito, non c’è niente di peggio che credere che allo scopo un ”tecnico” e un “tecnico-economico” si presti meglio di un politico. Due volte nei decenni la politica nei guai ha chiamato al Quirinale un super-tecnico economico, e cioè un governatore in carica di Bankitalia con Luigi Einaudi e un ex governatore come Carlo Azeglio Ciampi. Entrambe le volte la politica ha dovuto rassegnarsi: proprio il prestigio, la forte personalità e la competenza dei tecnici prescelti ha attribuito loro un ruolo incisivo e decisivo, d’intervento continuo su scelte fondamentali.

Einaudi da capo dello Stato continuò a scrivere sul Corriere della sera e a pubblicare volumi di polemica economica, e come riconobbe in una lunga nota consegnata al termine del suo mandato all’Accademia dei Lincei, “si prese” un bel po’ di poteri che De Nicola non immaginava neanche di poter esercitare: informative accurate e preventive da parte di ogni singolo ministro prima di ogni atto legislativo, consultazione diretta e regolare dei vertici della Polizia e delle forze armate, osservazione preventiva al governo su materie e norme dei disegni di legge, rinvio al parlamento di testi approvati, in materia soprattutto di compensi dei dipendenti pubblici, militari e diplomatici. Intervenne in maniera politica ed esplicita nel dibattitto sulla cosiddetta “legge truffa” elettorale tentata dalla Dc, ottenendo la modifica del premio di maggioranza previsto. Intervenne sull’allora delicatissima questione di Trieste. E fu decisivo nel far superare alla politica le incertezze per la prima grande apertura dell’Italia ai mercati internazionali, con la liberalizzazione degli scambi nel 1953, voluta dal minoritario Ugo La Malfa quando anche la maggioranza di Confindustria nutriva molti dubbi. Del resto anche alla Consulta Einaudi era stato attivissimo su temi iper-politici: il no alla legge elettorale proporzionale, il no al centralismo statuale, no alle Province, sì al referendum abrogativo anche in materia fiscale, sì alla piena autonomia della scuola e delle Università. Senza contare la sua pervasiva azione a difesa del mercato e della concorrenza, quando tutti nell’immediato dopoguerra si rivolgevano solo allo Stato. La scelta non è tra Stato e privato, ripeteva sempre Einaudi, ma tra libera concorrenza e monopolio. Tutte scelte su cui i partiti dell’epoca non gli diedero ragione: e che sono ancor oggi, tutti e ciascuno, pezzi dell’Italia sbagliata da cambiare.

Ciampi era stato presidente del Consiglio “tecnico”, ma meno politicamente caratterizzato del liberale Einaudi. Eppure, malgrado il tentativo di evitare il più possibile rotture esplicite con Berlusconi, Ciampi gli rifiutò l’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge (nel caso di Eurojust) e decreti legge (sulla diffamazione a mezzo stampa, sui brogli elettorali). Lo scontro con Berlusconi divenne palpabile sulle dimissioni di Ruggiero da ministro degli Esteri, considerato dal Quirinale un garante internazionale della credibilità del governo Berlusconi innanzi alle maggiori istituzioni finanziarie internazionali. Ruggiero si dimise alle critiche venutegli dallo stesso centrodestra all’ingresso dell’Italia nell’euro, e Ciampi ne fu amareggiato perché all’euro teneva sopra ogni altra cosa. Aveva avuto un ruolo decisivo da Bankitalia nell’avvicinamento all’obiettivo della moneta unica (e anche un ruolo nell’accettare il cambio troppo alto impostoci dai tedeschi), e in coerenza al disegno europeo Ciampi “obbligò” Berlusconi ad assumere il portafoglio degli Esteri, invece di premiare un euroscettico. Decisione che raffreddò molto l’iniziale europeismo di Berlusconi, cambiandone per reazione al Quirinale il segno della politica estera, a favore di intese più forti con Usa e Russia. Tonnellate di articoli furono scritti sui tentativi di Ciampi di spurgare dal peggio le leggi giudiziarie ad personam, e sistematica fu la sua insistenza su temi come il conflitto d’interessi e la regolazione del sistema televisivo, temi sui quali il centrodestra reagiva sbuffando.

Se queste sono le premesse, c’è da scommettere che il successore di Napolitano NON sarà dunque Pier Carlo Padoan ( e tanto meno, e per fortuna, Draghi che sta meglio dove sta). Eppure, servirebbe qualcuno con la competenza e prestigio economici. Con la grana della Grecia a rischio di neoesplosione, e due-tre anni di fronte in cui pur con le nuove regole attenuate sul fiscal compact (che proprio a Padoan si devono) l’Italia deve uscire dalla recessione con forti riforme attuate e non solo annunciate, un Quirinale “economista” ci aiuterebbe molto, in Europa e a Washington. Anche perché il rischio di sforare il 3% di deficit è molto forte, come si vede dal 3,6% di deficit a cui si è chiuso il terzo trimestre 2014. E se da una parte i nuovi criteri di interpretazione del Patto di Stabilità europeo decisi martedì consentono all’Italia di evitare a breve ulteriori manovre finanziarie, è vero però che il limite del 3% è restato e che in quel caso le richieste di correzione tornerebbero a esserci avanzate.

Ma un Capo dello Stato forte in economia e finanza servirebbe non solo come garanzia internazionale. E’ su molte materie economiche che non dipendono direttamente dai saldi pubblici e non sono parte essenziale del programma di riforme già presentato in Europa, come il Jobs Act, che un Quirinale interventista sarebbe di grande utilità. Bastano alcuni esempi per capirlo.

Destra e sinistra premono per riabbassare i limiti dell’età pensionabile. Ma l’INPS nell’ultimo bilancio ha raccolto contributi per 212 miliardi euro e pagato prestazioni per oltre 100 miliardi in più, che vengono dalla fiscalità generale. Un Capo dello Stato non incline ad assecondare tendenze elettoralistiche in materia previdenziale è necessario. Idem dicasi per riabbassare il piede sull’acceleratore di alcuni disegni annunciati dal governo e lasciati allo stato di pura intenzione: l’intervento sulle 10mila società controllate e partecipate a livello locale, per chiuderne una parte, dismetterne un’altra, e accorparne radicalmente una terza; il passaggio da 35mila stazioni pubbliche di acquisto e appalto a poche decine, accorpate nazionalmente e per macroregioni; la risistemazione organica del prelievo sugli immobili, superando la discrasia attuale di 8mila diverse aliquote nel gioco incrociato di IMU-TASI-TARI.

E ancora: c’è l’intero capitolo bancario, che in questi anni è stato lasciato in un angolo ripetendo che il nostro era un sistema del credito tra i più sani al mondo. Col bel risultato che abbiamo anatre zoppe che si trascinano nell’asfissia come MPS e Carige, banche popolari quotate con una governance incoerente alla propria efficienza, e nell’intero sistema un’enorme mole di sofferenze che restringerà i prestiti a famiglie e imprese quand’anche avesse successo il QE della BCE di cui siamo in attesa. Bankitalia è inascoltata da anni, su questi argomenti, e un Quirinale che le desse sponda aiuterebbe a sbloccare i veti politici.

Infine, lasciateci esprimere un sogno. Un Quirinale muscolare in economia servirebbe anche per esercitare finalmente decisi poteri di garanzia contro la continua vessazione dei contribuenti, negando la firma a provvedimenti che introducono tasse retroattive, introducono obblighi fiscali attraverso circolari invece che per legge, aprono regimi più convenienti discrezionalmente solo ad alcuni pochi “grandi” contribuenti negandoli alla gran massa. Ma forse anche e proprio per questo, la scelta della politica sarà diversa. Sia detto tra noi, ricordate infine che la monarchia britannica costa ai tax payers 37,6 milioni di pounds, cioè 46 milioni di euro, più di quattro volte meno che a noi il Quirinale: viva la regina Elisabetta!

 

15
Gen
2015

“Gli italiani si stanno arricchendo”. La realtà di Renzi, quella vera e quella che (forse) poteva essere.

Nel suo recente discorso al parlamento europeo, Matteo Renzi ha tuonato contro i disfattisti che dicono che le famiglie italiane si stanno impoverendo: “Beh, questo cozza, come talvolta accade, contro la realtà dei fatti e dei numeri. Pensate, in un tempo di crisi, le famiglie italiane, hanno visto crescere i propri risparmi: da 3.5 triliardi di euro a 3.9, dal 2012 al 2014. Perché è accaduto questo? È accaduto questo perché l’economia italiana (…) vive una fase di terrore. (…) Le famiglie si stanno paradossalmente arricchendo perché hanno preoccupazione e paura.”

C’è più di qualcosa che non va, in queste affermazioni. O il premier è confuso sui numeri, o lo è sulle definizioni (o forse su entrambi i fronti). Ma siccome potrebbe trattarsi anche di qualcos’altro, e cioè di malafede, allora è bene fare chiarezza.

Che cos’è che, negli anni 2012-2014, è aumentato da circa 3500 miliardi a circa 3900 miliardi di euro? Né i risparmi né la ricchezza delle famiglie italiane. Si tratta delle attività finanziarie. Purtroppo però, il fatto che il volume delle attività finanziarie sia aumentato, non basta a dire che le famiglie italiane si stiano arricchendo.

Le famiglie italiane, infatti, nello stesso arco di tempo citato dal premier, si sono impoverite. Le attività finanziarie sono solo una parte di ciò che viene definito ricchezza. Secondo uno studio della Banca d’Italia (disponibile qui), “alla fine del 2013 la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè la somma di attività reali (abitazioni, terreni, ecc.) e di attività finanziarie (depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività finanziarie (mutui, prestiti personali, ecc.), è risultata pari a 8.728 miliardi di euro”. Secondo le stime della stessa indagine, ripetuta annualmente, la ricchezza è diminuita, da fine 2011 a fine 2012, dello 0,6% a prezzi correnti, per perdere un ulteriore 1,4% tra fine 2012 a fine 2013. A ben vedere dunque, è corretto dire che le famiglie italiane si stanno impoverendo; e si sono impoverite anche tra il 2012 e il 2014.

Ciò significa che l’incremento del volume delle attività finanziarie, nello stesso periodo, non è stato sufficiente a coprire la perdita da attività reali.

Assodata la distorsione della realtà rappresentata da Renzi, c’è un’ulteriore osservazione da fare. Il premier, faccia tosta, cita il risparmio, dimenticando che egli rappresenta uno dei persecutori dello stesso. Il suo governo ha aumentato le tasse su questa preziosa risorsa. Lo ha fatto in modo sconsiderato per diversi motivi ed è stato solo l’ultimo di una serie di provvedimenti finalizzati al suo massacro (per un’attenta analisi si veda qui).

C’è da chiedersi cosa sarebbe successo se il premier non avesse contribuito all’aumento della pressione fiscale sul risparmio. Forse gli italiani avrebbero potuto sfruttare ulteriormente le migliori condizioni dei mercati finanziari degli ultimi 2 anni. E magari a Strasburgo il premier avrebbe potuto dichiarare, a ragion veduta e non a sproposito, che gli italiani si stavano veramente arricchendo.