23
Feb
2015

Ddl concorrenza: l’analisi dell’Istituto Bruno Leoni

Per la prima volta dal 2009, il Governo presenta al Parlamento un disegno di legge sulla concorrenza. Non una scelta, ma un preciso impegno che deriva da una legge finora inattuata. Nell’abitudine al calpestio della legge da parte dello Stato e dei suoi organi, stupisce positivamente che stavolta il governo abbia deciso di sottostare agli impegni presi.

L’Istituto Bruno Leoni coglie quindi l’occasione del primo disegno di legge annuale della concorrenza per analizzare, in una serie di articoli, il merito dell’articolato, già disponibile – altra buona novità rispetto alle ultime abitudini dei governi – all’indomani del Consiglio di ministri. Read More

23
Feb
2015

Lo scontro a sinistra sul Jobs Act, una questione marxiana

Il Jobs Act non è affatto perfetto. Ma le obiezioni ragionevoli – cioè quelle “non” ideologiche – riguardano per esempio l’opacità che ancora pesa sulle politiche attive del lavoro e sulla nuova Agenzia Nazionale per intermediare domanda e offerta di occupazione: perché finché non sarà chiaro come sarà e come funzionerà potrebbe rivelarsi un azzardo i 24 e poi 18 mesi del nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari (anch’esso esteso per la prima volta, sia pur in forma ridotta, anche ai precari). Senza politiche attive di “svolta” – quelle per cui spendiamo 5 volte meno rispetto alle politiche passive nel bilancio pubblico, quasi solo per stipendiare chi vi è addetto e con risultati pessimi che testimoniano l’incapacità della PA di “capire” il mercato — la maggior flessibilità sui licenziamenti e il nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari sono solo metà di quel che serve: NON affrontano infatti la rioccupabilità, che serve dannatamente per innalzare la partecipazione al mercato del lavoro in un paese a tre milioni e mezzo di disoccupati. Altre obiezioni fondamentali investono il limite delle nuove norme, che cambiano il lavoro privato ma non quello pubblico. E sarebbe stato decisamente meglio estendere la riforma a tutti i lavoratori privati di qualunque anzianità, invece di aprire un’asimmetria tra vecchie tutele e nuove che durerà decenni, e creerà inevitabilmente problemi rilevanti alle imprese. E ancora: troppo poco si fa ancora – per i diritti nel welfare– a favore del lavoro autonomo, dimenticato dal bonus 80 euro e graziato, dopo gravi errori  del governo, facendo retromarcia precipitosa sul massacro che era stato deliberato del regime dei minimi e con l’aumento di contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Ma non è su questo – tranne che da pochissimi come ADAPT di Michele Tiraboschi – che viene attaccato il Jobs Act. Una beffa per la sinistra e per i gruppi parlamentari Pd. Un’opera di macelleria sociale. Un favore a Confindustria.  Un colossale furto di diritti. Così vengono bollati i primi decreti attuativi del Jobs Act non solo dalle forze dell’opposizione a cominciare dai pentastellati, ma dalla minoranza Pd e dai sindacati (la Cgil, ma pure Uil e Cisl).  La somma di un atto autocratico, e di una completa abiura alle idee fondanti della sinistra. C’è chi pensa per reazione a una legge di iniziativa popolare, chi già parla di referendum. Landini vuole farne motivo di impegno politico diretto. Si è aggiunta al coro anche la presidente della Camera Boldrini, che ha parlato di “un giorno non storico”, perché il parlamento è stato umiliato e in ogni caso il lavoro bisogna crearlo, non si fa riformandone le regole.

Com’è evidente, non sono critiche che si possano facilmente respingere con argomenti fattuali. Perché è l’ideologia a ispirarle. E usiamo questo termine senza alcuna sottovalutazione: l’ideologia è fondamentale in politica. Un liberale aggiunge: purtroppo. Ma si sa, qui non stiamo parlando di un campo che faccia riferimento al liberalismo.

Mettiamola nel modo storicamente più corretto. A ispirare la repulsione non è il Jobs Act in quanto tale, ma l’aver modificato uno dei totem della sinistra e del sindacato nel dopoguerra: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le tutele al licenziamento. E’ questo il motivo, per cui nessuno mai era riuscito a sfiorare l’argomento senza incorrere in roventi anatemi (per prima la Fornero, che diede la prima energica spinta e dovette parecchio rivederla in parlamento).

Un classico delle citazioni marxiste sul lavoro è tratto dai Manoscritti economico-filosofici del 1844: “ Il lavoro produce sicuramente meraviglie per i ricchi, ma spoglia l’operaio. Produce palazzi, ma antri per l’operaio.. respinge una parte dei lavoratori a occupazioni barbariche, e riduce a macchine l’altra parte”. Centosettant’anni di ideologie antagoniste del lavoro hanno continuato – nell’evoluzione dei tempi, dei modi di produrre, del welfare affermatosi e divenuto poi Stato dilapidatore – a ispirarsi a tale tesi. Sindacato e sinistra lottavano perciò per regole “rigide” a tutela del lavoro e dei lavoratori: servivano a ingabbiare la propensione all’incanaglimento considerata istintivamente connaturata agli imprenditori, all’economia di mercato. Senza rendersi conto di sommare due errori. Il primo è quello “antropologico”, per così dire, sulla disumanità di mercato e imprenditori. Il secondo è reso più grave dalla globalizzazione: in un mondo di capitali liberi, un lavoro “rigidamente vincolato” perde. Diventa obbligato – nei paesi avanzati ad alti costi – a deflazionare. La risposta illusoria della sinistra è: teniamo vincolato il lavoro e vincoliamo anche i capitali. La risposta giusta è: come son o liberi i capitali, deve essere libero anche il lavoro.

Un anno fa, nel suo commento alla riedizione di Destra e Sinistra di Norberto Bobbio, Matteo Renzi scrisse con chiarezza come la pensava. A quell’impostazione ne preferiva un’altra. Va bene considerare ancora fondamentale per la sinistra l’eguaglianza – “ma non l’egualitarismo”, chiosava – ma le categorie per descrivere sinistra e destra per lui erano altre: “innovazione/conservazione, movimento/stagnazione”.

Discutibile quanto volete ma, venendo al lavoro, che cosa deve rappresentare una priorità – in generale, ma innanzitutto per la sinistra – in un paese nelle condizioni dell’Italia? Con tre milioni e mezzo di disoccupati e uno sterminio di inoccupati giovani, difendere le tutele-rigidità di chi un lavoro a tempo indeterminato ce l’ha, o aprire alla flessibilità che consentirà più facilmente un lavoro a chi non ce l’ha, e di miglioralo a chi – i giovani – finora dal dualismo delle tutele sono stati costretti al precariato di massa? E’ questa, la questione fondamentale a sinistra. I dissidenti di sinistra di Renzi e il sindacato ripetono quel che hanno sempre pensato: bisogna estendere a tutti la rigidità delle tutele del tempo indeterminato anche a chi non ce l’ha. Al costo di rendere sempre più onerosi e – alla lunga – illegali ogni altro tipo di contratto. Alla fine le imprese avrebbero dovuto capire: o tutele rigide e tempo indeterminato per tutti, o niente.

Come tutte le impostazioni rigide, non è una posizione che ammetta alternative. E’ fondata sul disconoscimento che, in un Paese ad alto cuneo fiscale e altissime tasse, e in un mondo in cui le imprese devono essere in condizione di riorganizzarsi continuativamente per rispondere ad andamenti della domanda interna e internazionale sempre più erratici, i contratti a tempo servano davvero e non siano figli della malvagità dell’imprenditore.

Per questo disconosce che i licenziamenti economici – quelli che servono alle ristrutturazioni – siano soggetti solo a indennizzi. Per questo ha tentato in parlamento di stoppare che la nuova disciplina valesse anche per il più dei licenziamenti economici, non quelli individuali ma quelli che passano per le contrattazioni e procedure collettive. Per questo s’inalbera al fatto che dei contratti a tempo cesseranno essenzialmente solo i co.co.pro, mentre tutti gli altri resteranno col vincolo dei 36 mesi entro il massimo dei rinnovi legittimi.  Né l’obiezione può placarsi di fronte ai nuovi diritti estesi su materie come il congedo di maternità quello parentale, la sua estensione anche a lavoratori autonomi e precari,  il part time aperto finalmente a chi ha patologie gravi.

Ripeto: il Jobs Act non è perfetto, e manca sinora della svolta per la rioccupabilità. Ma Renzi sapeva benissimo che, toccando in profondità l’articolo 18, accendeva le polveri di uno scontro all’ultimo sangue. Per i suoi oppositori di sinistra fuori e dentro il Pd e per il sindacato, perdere questa battaglia comporta un obbligo a cambiare dalle fondamenta impostazione. O a diventare ancor più nostalgici di un passato che ai loro occhi non passa. Sarà, questo, un pezzo fondamentale della sfida elettorale di Renzi, quando mai andremo alle urne: convincere l’elettorato tradizionale della sinistra a riconoscersi nella sua nuova impostazione, nel mentre adottandola prova a convincere fasce smarrite di elettorato moderato. I liberali, purtroppo, possono solo commentare sugli spalti.

 

 

23
Feb
2015

Precari e merito: i due criteri su cui preoccuparsi della sbandierata “buona scuola”

Tra pochi giorni sapremo in concreto qual è il punto di caduta della “buona scuola”, la riforma alla quale giustamente Matteo Renzi, il ministro Giannini e l’intero governo annettono grande importanza. E’ persino inutile dire che hanno ragione, visto che la formazione del capitale umano è una componente essenziale del recupero del gap nazionale che abbiamo accumulato in termini di produttività e competitività. Le graduatorie PISA sull’arretratezza della preparazione data agli studenti italiani in materie essenziali, a cominciare da quelle matematico-scientifiche fino alla comprensione elemntare ed elaborazione di testi, è lì da anni a dimostrarlo.

MA degli annunci ormai è meglio on fidarsi. Un giudizio sarà possibile, dopo tanti mesi di preparazione, solo a testi presentati e letti. Il governo sottolinea i fondi mobilitati, un miliardo quest’anno e tre a cominciare dal 2016, il nuovo ruolo dei dirigenti scolastici per dare più vigore all’autonomia di ogni istituto, l’introduzione del tutor e del mentor: vedere per credere. Ma due criteri di fondo, dice il governo,  dovrebbero rappresentare la svolta: il merito e la valutazione. Fermiamoci allora a questo, ferrati dalla lezione – anche sotto questo governo – che il diavolo si nasconde nei dettagli.

Perché merito e valutazione sono essenziali? Semplice, purtroppo. Perché al di là delle novità nei programmi e materie, del 5 per mille promesso anche per le scuole, del diritto allo studio potenziato (che però è di competenza delle Regioni…) e di tanti altre novità che giudicheremo, proprio il merito e la valutazione sono due crinali attraverso i quali giudicare l’intera riforma. Per capire una cosa: se per la prima volta da decenni si guarda alla scuola e al sistema formativo adottando il punto di vista prioritario delle necessità di chi la frequenta e delle loro famiglie, o se invece si continua a privilegiare l’ottica a cui la cattiva Italia pubblica ci ha abituato da decenni, e cioè che si interviene sulla scuola innanzitutto pensando a chi ci lavora dentro, insegnanti e personale tecnico ATA.

Il governo innalza fieramente la bandiera “mai più precari nella scuola”. In effetti, siamo tanto per cambiare inadempienti con l’Europa, che da anni minaccia sanzioni visto che abbiamo accumulato nella scuola, per ragioni clientelari, 180mila precari a tempo in diverse forme. Uno dei pilastri della riforma è la piena assunzione nei ruoli dei 146 mila precari delle cosiddette graduatorie a esaurimento. Il governo dice che 120 mila di loro verranno messi a ruolo dal prossimo settembre. Vedremo come davvero sarà disciplinato questo delicato tema. Innumerevoli studi – per ultimo quello pubblicato la scorsa settimana dalla Fondazione Agnelli – comprovano che quei 146mila o 120 mila che siano rappresentano un problema. Sono geograficamente squilibrati: troppi al Sud, che per le proiezioni sulla popolazione scolastica dovrebbe scendere dal 40% dell’organico attuale al 37% nel 2025; e pochi al Nord, che invece dovrebbe salire dal 40 al 42%. Sono troppi in materie per cui i posti in organico non sono previsti tanto numerosi, e pochi nelle materie in cui gli organici sono carenti, come matematica e scienze. E sono inoltre anche composti da chi per anni non ha insegnato, o non ha mai insegnato per niente. Mentre chi ha seguito intanto il percorso abilitante per prove spendendo di tasca propria – i 10 mila del cosiddetto Tfa – non sarebbero premiati. E’ evidente che una sanatoria generale risponde solo al problema (grave) di ordine sociale di questa vasta fascia di lavoratori pubblici. Ma la qualità della scuola è un altro paio di maniche, chiede criteri selettivi.

Quanto alla valutazione, la proposta originaria del governo messa in consultazione ipotizzava un salario di merito valutato a livello d’istituto. Su questo i sindacati hanno innalzato le barricate. Il governo continua a dire che il merito avrà un ruolo essenziale sia nella valutazione sia nella retribuzione. Ma quanto è emerso sino ad oggi fa pensare che purtroppo si potrebbe scendere di parecchio sul totale del compenso, estendendo ultyeriormente la sua fascia di attribuzione. I sindacati chiedono voce in capitolo: perché di mezzo naturalmente c’è il blocco pluriennale dei contratti pubblici, e l’egualitarismo che il mero criterio delll’anzianità ha sempre premiato. Già si era partiti da un salario di merito aggiuntivo che doveva toccare comunque almeno a due terzi dei docenti di ogni istituto – un criterio pessimo, una valutazione seria si fa per punti e non per quote. Il rischio è di approdare a metodi ancora più indigeribili.

Uno dei pilastri di una “buona scuola” è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, come abbiamo più volte ricordato, e per essere credibile andrebbe affidata per la maggior parte a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. Le anticipazioni del decreto in arrivo nulla dicono sinora in concreto del metodo con cui si procederà alla valutazione, tranne ribadire che dovrebbe spettare ai singoli istituti ( e già non ci siamo).

Vedremo quanto la vincerà l’anzianità, e quanto l’assunzione di massa indistinta ancora una volta si spiegherà soprattutto con criteri di premio elettorale futuro. Sarebbe una grande occasione persa. Perché prima del promesso prossimo concorso nazionale, con una popolazione studentesca che dal 2014 al 2024 per demografia scende da 9,8 a 9,7 milioni, passeranno vent’anni. Ma, naturalmente, il governo già sin d’ora nelle sue anticipazioni lo promette per il 2016 o 2017. Tanto, c’è chi paga…

18
Feb
2015

Il prezzo della lettura

Hanno ragione i sostenitori della legge Levi che il prezzo medio dei libri in Italia è calato. Non sappiamo se per effetto di questa legge che limita gli sconti sul prezzo di copertina o se per altre cause. Non potremo mai saperlo, ma solo ipotizzarlo insieme ad altre, plausibili ragioni. Quel che però sappiamo, è che si legge meno. Dall’anno di entrata in vigore della legge che, limitando le possibilità di sconto dei libri, doveva rendere un servizio alla lettura, i lettori in Italia sono diminuiti dal 49 al 43%, e gli acquirenti dal 44 al 37% (AIE, Rapporto sullo stato dell’editoria 2014).

Si legge meno, quindi, anche qualora i prezzi fossero davvero diminuiti, e anche qualora questo effetto fosse dovuto alla limitazione agli sconti. L’obiettivo della legge, ossia «contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura» (art. 1), non è stato quindi, come era prevedibile, raggiunto.

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17
Feb
2015

Grandi stazioni e carrelli vuoti—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

“Eh! Chi siete. Cosa fate. Cosa portate. Sì, ma quanti siete. Un fiorino”.  Questo è il trascritto della celebre scena del film “Non ci resta che piangere” con Roberto Benigni e Massimo Troisi che si trovano a dover varcare una frontiera nell’Italia rinascimentale. Ma è la drammatica immagine che a più riprese, cinquecento anni dopo, sembra riproporre l’amministrazione comunale di Genova ogni qualvolta un operatore della Grande distribuzione organizzata cerchi di fare l’ingresso nel mercato della Superba. Read More

16
Feb
2015

I servizi pubblici locali nella bozza di legge sulla concorrenza—di Andrea Varsori

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Varsori.

La legge annuale sulla concorrenza e il mercato è un classico esempio di come lo Stato italiano riesce a obbligarsi a delle scadenze che, regolarmente, non rispetta. L’avverbio “regolarmente” non è casuale: è dal 2009, infatti, che il Parlamento e il Governo sarebbero tenuti a recepire, ogni anno, le indicazioni dell’Autorità per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) in materia di liberalizzazioni. L’appello, però, è stato finora disatteso. Read More

15
Feb
2015

Expo: nessun bicchier d’acqua è gratis

È di pochi giorni fa la notizia che nei padiglioni dell’Expo di Milano, che aprirà i battenti fra pochi mesi, sarà fornita acqua “gratuita” per tutta la durata dell’evento grazie alle case dell’acqua, cioè impianti che distribuiscono acqua proveniente dall’acquedotto tramite appositi erogatori, con in aggiunta la possibilità di refrigerarla o renderla frizzante. In pratica, fontanelle 2.0 che distribuiscono acqua gratuita con consumi di plastica ed emissioni di Co2 ridotte a zero. Read More

13
Feb
2015

Tsipras ha amici negli USA, pesano sulla Merkel e c’è qualcosa da imparare

Sono i giorni della verità, per sciogliere il dilemma della Grecia e delle richiesta avanzate da neopremier Tsipras. Ma ieri sera il barometro segnava decisamente “speranza”. Il rischio di un’esplosione della crisi con esito frontale non è disinnescato. Ma al primo round di incontri con l’Eurogruppo prima e il Consiglio europeo poi, il ministro dell’economia Varoufakis e il premier Tsipras sono sopravvissuti bene, senza trovarsi davanti un secco “no”. Del resto, il governo di Syriza ha modificato non di poco le sue richieste, rispetto alle promesse fatte all’elettorato ellenico. Ma si sta rivelando anche molto abile nel giocare sul tavolo geostrategico, prima che a quello delle tecnicalità dell’alleggerimento del proprio debito pubblico, e della concessione di qualche soldino in più per finanziare i propri costosissimi programmi di spesa pubblica. Se la signora Merkel è l’Europa, come di fatto è, Atene approfitta che la cancelliera tedesca sia in questi giorni l’antemurale occidentale a Putin sulla crisi ucraina. Facendo leva su ciò, Atene si è messa in condizione di portare a casa più concessioni di quanto sarebbe stato possibile, se Ue e NATO non fossero col fiato sospeso per i combattimenti tra Kiev e filorussi. In questo modo il piccolo Davide greco potrebbe riuscire a sfilare dalla tasca del Golia tedesco molto più del previsto. Una lezioncina di spregiudicatezza non male, per gli altri eurodeboli a cominciare dall’Italia.

Tsipras sta coi russi? E’ quel che il governo Syriza ha avuto l’abilità di far credere. Sono bastate un paio di dichiarazioni ufficiali di membri di secondo piano del governo russo, sulla disponibilità di Mosca a dare aiuti alla Grecia. E un colloquio del ministro degli Esteri greco col parigrado russo Lavrov, proco prima del vertice di Minsk in cui la Merkel (con il presidente Hollande come comparsa al fianco) ha dovuto fare l’impossibile perché Putin e Poroshenko accettassero comunemente il cessate il fuoco. In più, Tsipras ha fatto uscire l’indiscrezione anche di un suo colloquio con il premier della Cina. Con gli Stati Uniti ufficialmente durissimi con Putin sulla crisi ucraina – sia pur distinguendo tra la durezza massima dei vertici militari e quella meno oltranzista di Obama, che punta a concentrare gli sforzi militari contro Isis – minacciare di fatto che un paese essenziale del fronte sudeuropeo della NATO affidi la sua sopravvivenza economica e finanziaria ai russi perché l’Unione europea nega aiuti, fa letteralmente imbestialire gli americani. In caso di un no europeo alla Grecia, oggi come oggi Varoufakis scommette molto di più su un aiuto americano diretto ad Atene che su uno russo.

Obama sta con Tsipras? A Washington, con la concessione a Obama dei poteri di guerra contro Isis, la caduta di fatto dello Yemen in mani jihadiste e l’Arabia Saudita con un nuovo sovrano forse più accomodante sul prezzo del petrolio, qualche decina di miliardi di euro di potenziamento degli aiuti per far costare ancor meno il debito greco sembrano letteralmente un’inezia. Non si capacitano di come Ue e BCE si siano messe da sole in questo cul de sac. Che potrebbe, con l’uscita della Grecia dall’euro e di fatto un suo forte raffreddamento nella NATO, segnare di fatto uno sfaldamento occidentale nel Mediterraneo orientale, visto che la Turchia di Erdogan fa capo a sé, contro ISIS non collabora e sta anzi trattando per un nuovo gasdotto con i russi di Gazprom. Non troverete una sola dichiarazione americana a favore dell’abbattimento del debito greco. Ma ne trovate cento a favore del fatto che la UE, cioè la Merkel, non devono fare scherzi e devono trovare un accordo con Tsipras. Mica poco, dal punto di vista di Atene.

Ma la crisi Ucraina non è risolta? No, inutile illudersi. Il cessate il fuoco e i 13 punti tecnici della commissione mista disegnano un quadro pieno di irti problemi irrisolti, di difficilissima attuazione. Nessuno può oggi scommettere che quel fragilissimo armistizio che dovrebbe iniziare domenica abbia in sé sufficiente fiducia reciproca per tradursi in un accordo stabile. Che veda nei mesi arretrare le forze militari, smilitarizzare confini che per Kiev rappresentano comunque una sconfitta, per dar vita a un’autonomia amplissima del Donbass e delle aree oggi occupate dai filorussi (e da unità russe, la cui presenza è comprovata dai caduti, malgrado Mosca neghi le testimonianze dei familiari russi ne sono la prova). Ciò significa: guai ancora seri per gli ucraini, ma possibilità in più per i greci.

Che compromesso può uscirne? E’ stato chiaro sin dall’inizio, che Tsipras avrebbe mandato in naftalina il dimezzamento dell’80% del debito detenuto da BCE ed euromembri, e la sbandierata conferenza europea per l’abbattimento generale del debito. L’accordo si può trovare su un ulteriore potenziamento europeo degli aiuti che sgravi per un’altra ventina di miliardi l’onere del debito greco nei prossimi anni, e che continui a reggere in piedi le azzoppate banche greche attraverso la linea di liquidità straordinaria ELA della BCE. Il ruolo del FMI nella Trojika può venir meno senza particolari problemi, sostituito dall’OCSE. E così Tsipras direbbe al suo elettorato di aver vinto, se anche aggiungesse un paio di punti di PIL di spesa pubblica consentita in più per fare assistenzialismo di Stato. Olandesi e finlandesi storceranno il muso, ma di fatto oggi la Merkel molto difficilmente può fare uno sgarro mortale alla NATO e a Washington.

La Merkel umiliata? Al contrario, già ieri il New York Times indicava la cancelliera tedesca come il vero statista occidentale capace di mettere Putin a un tavolo di accordi, e di non spezzare l’Europa. Usando la pazienza e la mediazione, e non solo la durezza. Vedremo se finirà così. L’imprevisto è sempre in agguato. La cosa certa è che, a oggi, Tsipras e Varoufakis hanno mostrato una affilata spregiudicatezza del tutto ignota ai governi italiani, spagnoli e portoghesi. Del resto, è la collocazione geostrategica a favorirli. Ogni tot secoli, funziona così sin dai tempi in cui fermarono l’orda persiana a Maratona e Salamina.

13
Feb
2015

I 5 paradossi dei vigili urbani che scioperano e bloccano il traffico

Alcune migliaia di vigili urbani, romani e da tutta Italia, hanno sfilato ieri in corteo nella Capitale accogliendo l’invito allo sciopero nazionale di settore lanciato dall’Ospol. L’Osol è il sindacato autonomo che all’indomani dell’assenza di massa dei vigili dalle strade romane la notte di Capodanno dichiarò che la cosa era perfettamente normale, visto il freddo e il periodo dell’anno. E ieri il corteo è stata una manifestazione di fierezza contro le polemiche scatenate dall’incredibile vicenda romana. I cartelli branditi recitavano ‘Colpire la Polizia locale per coprire Mafia Capitale’, ‘Corrotti voi indagati noi’, ‘Assenteista inventato – Mafia Capitale insabbiato’, ‘La nostra riforma va approvata e la divisa mai più oltraggiata”. Altre sigle sindacali non hanno aderito, e anzi ieri i capi della funzione pubblica Cisl e Cgil hanno separato nettamente le proprie responsabilità ,ripetendo che chiunque abbia sbagliato quella notte va identificato con chiarezza e sanzionato. Fin qui la cronaca, sulla quale è il caso di tornare con alcune considerazioni. Con la stessa premessa di sempre: noi non generalizziamo colpe e responsabilità dell’astensionismo e dello scarso attaccamento alla divisa né all’intero corpo né alla maggioranza dei suoi appartenenti, né a Roma né in Italia, e non manchiamo di rispetto e considerazione per chi assicura per le vie pubbliche ordine e sicurezza.

Però. Primo: la consapevolezza delle funzioni che si svolgono si esprime anche attraverso il modo in cui si manifesta. I vigili urbani che bloccano il traffico in corteo sono – diciamolo – un paradosso. Legittimo certo, perché in quel caso stanno manifestando rispettando le legge ed esercitando un proprio pieno diritto di cittadini. Ma sempre paradosso è. I vigili possono anche benissimo manifestare la propria opinione che sindaco e giunta e comandante del corpo siano deficitari e inadeguati. Ma quando si inizia a dare dei corrotti e mafiosi loro per primi dovrebbero sapere che la libertà sindacale non è esente dal rispetto dei limiti delle leggi penali. Una cosa però è chiara: un conto è manifestare e scioperare secondo ciò che consente la legge, altra è travestire una manifestazione organizzata di protesta sindacale da astensionismo di massa, com’è avvenuto la notte di Capodanno. Quest’ultima cosa non è né legittima né tollerabile. Su tale punto preciso, spiace dover osservare che ieri non si è sentito uno slogan che era invece opportuno: “non faremo più astensionismo di massa”.

Secondo: se si lavora per assicurare ordine e sicurezza, si rispetta la legge. Che cosa significa, rispetto all’assenza di massa romana d’inizio d’anno? Che i vigili per primi devono essere rispettosi degli accertamenti che sta svolgendo la Procura di Roma. Giustamente, i magistrati della Capitale hanno subito esteso i controlli a centinaia di medici che hanno sottoscritto i certificati di malattia. Anche qui, nessuna generalizzata condanne di massa. Ma le assenze per malattia di 2 anni prima erano di dieci volte inferiori, e di epidemie a Roma non c’è traccia. Invece di considerare l’azione della Procura come una persecuzione, i vigili per primi si uniscano al sentimento dei cittadini, che ne sono contenti e dicono “finalmente!”. E che vedono nella rotazione delle assegnazioni territoriali e degli incarichi una misura concreta e utile per evitare la corruzione.

Terzo: sui poteri disciplinari ordinari, ancora non ci siamo. Abbiamo detto e ripetuto che le norme ci sono, dal 2009 sono state potenziate e codificate, per sanzionare le assenze ingiustificate e la bassa produttività. Il punto è che vengono vanificate dai criteri di attuazione, visto che lo stesso comandante del corpo della Capitale ha dovuto riconoscere che il deferimento alla disciplinare non poteva andare oltre una trentina di casi. Inutile girarci intorno: è questo a dare alimento alla protesta di chi, ieri, considerava che il fango sulla divisa è stato gettato da chi al Campidoglio ha reagito duramente, e non da chi a Capodanno è rimasto deliberatamente a casa.

Quarto: il governo faccia quel che deve. Perché c’e’ da lavorare, sui criteri di controllo e di attuazione delle norme di cui stiamo parlando. E’ quindi confortante che il ministro Madia ieri abbia ribadito che, nella nuova tranche di norme in gestazione sulla riforma della PA, il governo renderà più penetranti i criteri di controlli sulle assenze di massa, e meno spuntate le armi che oggi si devono invece abbassare di fronte a un certificato medico, perché su quello può intervenire solo il magistrato, se la visita ispettiva non è avvenuta nelle stesse ore di assenza.

Quinto: i vigili hanno giuste ragioni. Certo che le hanno, se guardiamo oggettivamente ad alcuni dei nodi irrisolti che alimentano la loro protesta. A cominciare da ciò che li distingue, in termini di remunerazioni sussidiarie e prerogative, rispetto agli agenti delle forze dell’ordine. Continuando con il loro ruolo rispetto alla “finanza aggiuntiva” dei Comuni rappresentata dalle multe, e a quello contro le frodi commerciali al minuto. E tuttavia, perché questi nodi possano trovare giuste sedi di confronto e soluzioni adeguate, occorre stare nelle regole e avere senso della misura. A Milano, in questi giorni si leggono interviste di sindacalisti che negano la propria disponibilità a lavorare il primo maggio per l’inaugurazione dell’EXPO con il tono di chi vuol difendere l’Alcazar dai franchisti. Per favore, cari vigili urbani, allo stesso modo evitate di dire che vi manca di rispetto chi non accetta che a Capodanno stiate a casa. Diamoci tutti un senso della misura, perché l’Italia vada meglio.