10
Feb
2015

Expo: poche idee, e confuse—di Roberto Brazzale

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Brazzale.
La messa cantata dell’alimentarmente-corretto è iniziata ieri a Milano tra gli squilli delle trombette e dei tromboni: 42 (diconsi qurantadue) tavoli tematici a cui hanno partecipato oltre 500 (diconsi cinquecento) esperti, una specie di Leopoldona del gargarozzo, tra un “diritto costituzionale al cibo”, una “lotta agli sprechi”, una “eredità morale”, un “no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità”, un pontificio appello a “rinunciare all’autonomia dei mercati”, un presidenziale “serve un nuovo modello di sviluppo” (ecco, dopo trent’anni ci mancavano proprio le ricette della sinistra-DC, fortuna che ora c’è Mattarella), tra un “delineare l’agenda per uno sviluppo equo e sostenibile”, e via “bla-bla” cantando.

Nello stesso momento in cui l’Accademia dei Lincei, sebbene terrorizzata per le conseguenze di scorrettezza politica, implora di non rinunciare a scienza ed OGM che il fotogenico ministro Martina ed il suo codazzo di agrocattocomunisti, la cui mamma è sempre incinta e dannatamente feconda, si bea di aver bandito per sempre dal verginello stivale, impestato da aflatossine e fitopatologie;

nello stesso momento in cui all’eroico agricoltore friulano Giorgio Fidenato viene proibito da ogni organo politico e giudiziario della repubblica sabauda di seminare sulla sua terra ciò che è costretto a comprare nei consorzi agrari della Coldiretti importato dall’estero;

nel momento in cui il mercato, la tecnologia, il libero scambio, l’imprenditorialità individuale, la libertà di movimento di capitali, persone, tecnologie, hanno permesso al mondo in 40 anni di sfamare con cibo abbondante e conveniente 3 miliardi e mezzo di persone in più rispetto al 1970 (se la Chiesa se ne ricordasse, ogni tanto…); e ciò certo non grazie alla FAO, alla mortifera PAC, e nemmeno grazie al biologico o agli OGM free, estetismi per satolli;

nello stesso momento in cui ogni possibile assessore, ex ministro, pasionaria bucolica, si stracciano le vesti, senza sapere di ciò di cui parlano, invocando misure protezioniste perché in Italia si smetta di importare i generi alimentari che il paese non è in grado di produrre da solo per motivi strutturali di scarsità di territorio (che vogliono? che ci rubiamo il pane dalle mani a peso d’oro per far contenta la Coldiretti? chiedete l’uscita dalla parità di cambio, macachi! sveglia, che la mamma ha fatto i gnocchi!);

nello stesso momento in cui ci apprestiamo a veder inaugurare una edizione dell’expo imbarazzante nel suo snobistico provincialismo, spocchioso ed incosciente, irresponsabile ed arrogante, ispirata da chi vive tra Parioli e via Montenapoleone, piegata ad essere vetrina della quotazione in borsa di Eataly insignita non si sa come e da chi del primato del saper fare italiano (a posto saremmo!…), un’expo nel quale insegneremo ai poveri del mondo come devono rimanere tali per non disturbare l’amenità del quadretto arcadico che ci piace così tanto da quando ce ne siamo affrancati, noi;

in quello stesso momento veniamo a sapere che da circa un paio d’anni un gruppo di decine di docenti e ricercatori, coordinati da Laboratorio Expo (pensate i nostri soldi dove finiscono), sta lavorando su una “Carta di Milano” che dovrebbe costituire l’eredità di “Expo 2015”, la cui ambizione sarebbe quella di chiedere un’“assunzione di responsabilità, da parte di tutti, nella battaglia per il diritto al cibo e contro le diseguaglianze e gli sprechi alimentari, indicando contestualmente le priorità, ponendosi come bussola per capire quale direzione e quali soluzioni adottare, coinvolgendo 130 centri di ricerca nel mondo, a partire dall’idea del cibo e dei diritti….bla, bla…”.

Abbiamo capito bene? Decine di docenti e ricercatori, 130 centri di ricerca, 500 esperti su 42 tavoli tematici, che hanno tanto tempo libero per disquisire del nulla, per sublimare il vuoto?
Fantastico: una zappa a testa, fuori sui campi, e nessuno avrà più paura della fame nel mondo. Semmai dell’obesità.

10
Feb
2015

Meno Stato e più mercato, anche nel settore culturale

All’articolo di Angelo Miglietta sui danni provocati dalla gestione pubblica del nostro patrimonio culturale (che abbiamo ripubblicato QUI), ha risposto in maniera critica Severino Salvemini (QUI). Sempre su Management notes.it è ora uscito un nuovo intervento sul tema, che vi proponiamo.

I recenti articoli scritti da Angelo Miglietta e Severino Salvemini stimolano a confrontarsi con le loro tesi e a svilupparne alcuni punti. Se Miglietta auspica un maggior ricorso a strumenti di mercato per la gestione del patrimonio e delle attività culturali, Salvemini afferma che non bisogna guardare al “mercato come modalità salvifica per fare del Bel Paese una nazione finalmente moderna nella valorizzazione del suo patrimonio artistico”.

Salvemini comincia la sua argomentazione rispolverando il concetto di “bene meritorio” applicato alla cultura. L’utilizzo di simili categorie (oggi è in auge quella di “beni comuni”, i quali comprenderebbero pure i beni e le attività culturali; non a caso gli occupanti del Teatro Valle avevano promosso la costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune) si propone di trovare una ragione fondante dell’intervento pubblico. Pur avendo grande fascino per la loro supposta base scientifica e per la semplicità con cui è possibile etichettare (con due parole) gran parte dello scibile umano, la loro indeterminatezza è produttrice di grandi equivoci. Read More

9
Feb
2015

Coltivare Mais OGM non si può. Secondo il Consiglio di Stato porta male.

Con una sentenza depositata il 6 febbraio (qui) il Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, ha confermato la legittimità del divieto di coltivare mais OGM sul territorio nazionale. I ricorsi amministrativi di primo e secondo grado sono stati presentati da Giorgio Fidenato che da diverso tempo oramai ha ingaggiato una battaglia per il riconoscimento della legittimità della coltivazione del mais transgenico (qui un’intervista a Fidenato di Antonluca Cuoco su Il Denaro).

La decisione fa riferimento alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore dell’ulteriore rinnovo del termine sino al quale è imposto il divieto di coltivazione del mais OGM  (18 mesi a partire da gennaio 2015) introdotto con decreto del Ministero della Salute del 23 gennaio ultimo scorso.

Le motivazioni del divieto confermato dal Consiglio di Stato, tuttavia, appaiono da un punto di vista giuridico non del tutto convincenti perché non si riscontra nell’argomentazione del Tribunale l’evidenza di una solida ragione in grado di giustificare la proibizione. A dire il vero è lo stesso Consiglio di Stato che arranca palesemente nel tentativo di confermare la legittimità del decreto del Ministero della salute (adottato di concerto con il Ministero delle politiche agricole e dell’ambiente) del 12 luglio 2013 (qui) con il quale è stata vietata la coltivazione del mais OGM MON 810 sino all’adozione delle misure comunitarie d’urgenza e comunque per un periodo non superiore a 18 mesi dalla data del medesimo provvedimento, termine, come abbiamo visto, di già prorogato ulteriormente.

Dalla lettura della sentenza emerge pacificamente che: 1) la commercializzazione del mais OGM MON 810 è stata autorizzata una prima volta nel 1998 dalla Commissione Europea che è l’organo competente in materia, 2) nel 2004 la Monsanto, società titolare dei brevetti sul mais MON 810, ha notificato alla Commissione l’esistenza del predetto mais cosicché in virtù del regolamento comunitario è stato possibile continuarne la commercializzazione, 3) nel 2007 è stato richiesto il rinnovo della autorizzazione alla Commissione, la quale, stando alla ricostruzione del Consiglio di Stato, non ha da allora provveduto a pronunciarsi né in senso favorevole, né in senso contrario alla commercializzazione, 4) in data 17  maggio 2013 la Commissione non ha ritenuto necessario adottare misure cautelari per il mais MON 810 come richiesto, invece dalle autorità italiane, 5) dal 1998 ad oggi non sono mai emerse evidenze scientifiche in grado di ricondurre con certezza o con ragionevole probabilità effetti nocivi sull’uomo, sull’ambiente e sugli animali alla coltivazione e commercializzazione del mais transgenico.

La Corte di Giustizia Europea (sezione IV, sentenza 8 settembre 2011 nelle cause C 58/10 e C 68/10) ha  nel frattempo sancito che la possibilità per gli Stati membri di procedere all’adozione di misure cautelari volte alla sospensione delle autorizzazioni è subordinata “ a un serio rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la salute umana, la salute degli animali o l’ambiente. Questo rischio deve essere constatato sulla base di nuovi elementi fondati su dati scientifici attendibili. Infatti, misure di tutela adottate in forza dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003 non possono essere validamente motivate con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente.” e che “ …uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in applicazione della direttiva 2002/53.70 . Al contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione.” (sentenza 6 settembre 2012, in C 36/11).

Dalla sentenza si evince, ancora, che i competenti organi scientifici non hanno mai ritenuto di rimettere in discussione i presupposti sulla base dei quali è stata rilasciata l’originaria autorizzazione alla coltivazione e commercializzazione del mais MON 810, ed infatti: “ Nel caso in esame, va fin d’ora riconosciuto che l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) non ha suggerito di intervenire sull’autorizzazione del mais MON 810, in relazione ai rischi connessi alla coltivazione. Nessuna presa di posizione esplicitamente negativa sulla perdurante efficacia dell’autorizzazione è rinvenibile in detti pareri, e le conclusioni formali cui è pervenuta EFSA, nonostante l’evidenziazione di nuovi parametri rilevanti e di nuovi criteri di valutazione del rischio, e dell’opportunità di porre in essere forme di cautela, appaiono in linea di sostanziale continuità con il parere favorevole del 2009.Tanto sembra emergere anche dalla “scientific opinion” pubblicata sul bollettino dell’EFSA del 2013- n. 3371 (a quanto sembra, sopravvenuta all’adozione del decreto impugnato).”.

Su cosa regge, allora, la legittimità del divieto di coltivare il mais transgenico? Secondo il Consiglio di Stato il divieto adottato con decreto del Ministero della salute rappresenterebbe una “ misura d’urgenza “ giustificata dalla necessità di prendere in considerazione ulteriori fattori di rischio non precedentemente valutati. Così almeno sembrerebbe evincersi, secondo i Giudici, dal regolamento ministeriale impugnato che ha imposto il divieto. Peccato, però, che gli ulteriori fattori di rischio non si evincono, come correttamente richiesto invece dalla Corte di Giustizia, da dati scientifici attendibili, ma si reggono solo su supposizioni e su un approccio puramente ipotetico del rischio stesso. D’altronde sarebbe davvero irresponsabile vietare solo per 18 mesi la coltivazione di un prodotto che avrebbe le potenzialità di nuocere alla salute umana, all’ambiente o agli animali o di aggravare seriamente il rischio di un tale nocumento. Trascorsi i 18 mesi il rischio svanirebbe da sé?

La lettura della sentenza conferma, dunque, come il Consiglio di Stato non sia riuscito ad evidenziare un solo dato scientifico in grado di ricondurre un qualche effetto nocivo o un rischio concreto all’esistenza del mais OGM. Ciò è tanto vero che il Collegio per dare validità alla propria decisione, piuttosto che al proprio iter argomentativo, conclude chiamando in causa il principio di precauzione, utile per vietare tutto ciò su cui, in realtà, si sa poco o nulla: “ Del resto, l’applicazione del principio di precauzione postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre; e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali”.

Così il divieto è divieto perché è superstizione non già perché è scienza! Di evidenze empiriche che documentino rischi concreti per la salute umana e l’ambiente, invece, manco a parlarne. Non si sa quali effetti nocivi possa provocare la coltivazione del mais transgenico, quindi è pericolosa per definizione, bisogna vietarla. Un pericolo però che dura appena 18 mesi o giù di lì. Il principio di precauzione  d’altronde impone di vietare attività anche quando i danni derivanti dall’esercizio delle stesse siano poco conosciuti, edulcorazione della più appropriata affermazione, anche quando nulla si sa di scientificamente rilevante sui loro effetti.

In conclusione, la sensazione finale che il lettore trae dalla sentenza è che coltivare il mais OGM non si può e basta, forse porta male. Così è deciso!

@roccotodero

9
Feb
2015

Il rischio, questo sconosciuto—di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gianfilippo Cuneo.

È apparsa su molti giornali la pubblicità di una banca per collocare delle obbligazioni in lire turche: un bel rendimento dell’8% scritto in grande, ed un avvertenza di un rischio di cambio scritto in piccolo. Gli investitori esperti possono coprire il rischio, ma la copertura costa appunto l’8%; quindi tecnicamente tali obbligazioni non rendono niente. Anzi, dato che comunque bisogna pagare le tasse del 26% sulla cedola il rendimento reale è negativo. Chi sottoscrive tali obbligazioni fa la scommessa che il prezzo del rischio (cioè il costo della copertura) sia eccessivo rispetto al rischio vero sottostante: di fatto non compra un bond ma specula sui cambi e comunque ci perde. Ma è un qualcosa che una banca deve proporre ai risparmiatori normali? Le banche ungheresi hanno emesso mutui in franchi svizzeri, e oggi 300.000 risparmiatori “scoprono” che hanno un 20% di debiti in più! Read More

8
Feb
2015

Debiti della sanità italiana: ulteriori spunti di riflessione per i riformatori lombardi

Il decreto legge n. 35 dell’8 aprile 2013, poi convertito dalla legge n. 64 del 6 giugno 2013, ha contribuito a migliorare (pochino) quella che era la situazione disastrosa dei debiti vantati dalla Pubblica Amministrazione italiana. Ciò nonostante non siamo ancora in una situazione desiderabile, anche e soprattutto per quel che riguarda l’ambito sanitario.

La CGIA di Mestre ha diffuso i dati sui debiti riferiti al 2013 e, stando a stime molto prudenti e parziali – mancano dal conteggio i mancati pagamenti delle Asl della Toscana e della Calabria –, il debito della sanità italiana ammonterebbe ad almeno 24,4 miliardi di euro (per i dettagli si veda la voce Wikispesa “Sanità – Debiti verso i fornitori”). Una cifra pari a più di 1,5 punti di PIL. Né ci si aspettano sostanziali miglioramenti per il 2014. Il segretario della CGIA Giuseppe Bertolussi ha infatti sottolineato che se da un lato è vero che continuerà il piano di ripianamento dei debiti cominciato nel 2013, dall’altro possiamo ragionevolmente aspettarci che nel corso del 2014 si sia accumulata una nuova quota di debito sanitario; se a questo aggiungiamo i mancati pagamenti di Toscana e Calabria, il debito complessivo del 2014 non dovrebbe scostarsi di molto da quello del 2013.

Al dato nazionale, come spesso accade in ambito sanitario, fanno seguito comparazioni e classifiche a livello regionale. Nel caso specifico, la classifica del debito verso i fornitori degli enti del Servizio Sanitario Nazionale viene guidata dal Molise, con 1416€ per abitante, seguito da Lazio (1017€) e Campania (660€). In fondo troviamo la Provincia Autonoma di Bolzano con 144€ per abitante. Tra le regioni a statuto ordinario, l’Umbria è quella con il minore debito per abitante (187€), seguita dalla Lombardia (228€).

Nello stesso rapporto la CGIA di Mestre ha pubblicato i dati sui tempi medi di pagamento della Sanità alle imprese. Tra quelle a statuto ordinario, le regioni più veloci su questo fronte sono Lombardia e Marche, rispettivamente con 88 e 91 giorni (dati 2014). All’altro capo della classifica si trovano Calabria e Molise (794 e 790 giorni).

Come molti sanno, in Lombardia è in corso da mesi una discussione sulla riforma del sistema sanitario regionale. Su questo blog si è già invitato alla prudenza (si legga qui); i dati diffusi dalla CGIA offrono l’opportunità per rinnovare questo invito.

In una nota congiunta, il vice presidente e assessore alla Salute di Regione Lombardia Mario Mantovani e l’assessore all’Economia, Crescita e Semplificazione Massimo Garavaglia hanno così commentato lo studio CGIA: “Regione Lombardia si conferma una delle migliori Regioni italiane sia in termini di debito verso i fornitori, sia in termini di tempi di pagamento”. L’auspicio è che gli assessori siano davvero convinti che si tratti solo di un’ulteriore conferma. In questo modo, infatti, non si correrebbe il rischio di una riforma che vada nel senso di una diluizione della concorrenza e dell’apporto del privato in sanità né, tantomeno, nel senso di un ritorno al puro monopolio pubblico. In altre parole, non si può dimenticare che da un lato, è proprio la competizione con il privato ad aver reso gli ospedali pubblici lombardi tra i più efficienti d’Italia, e dall’altro, che è grazie alla stessa competizione se il sistema sanitario lombardo, globalmente inteso, viene considerato uno dei migliori del nostro Paese.

 

@paolobelardinel

4
Feb
2015

Il bluff di Syriza è già caduto: rifletta su questi punti chi vuole riproporlo

La visita ieri in Italia del premier greco Alexis Tsipras e del neoministro dell’Economia Yanis Varoufakis ha già scoperto il bluff di Syriza. Forse è il caso che l’informazione italiana ed europea si diano una regolata. La vittoria di Syriza alle elezioni di due domeniche fa è stata salutata da un torrente di entusiastici commenti. S’inneggiava alla svolta salvifica. L’Europa non avrebbe potuto che acconsentire alla promessa più importante fatta da Syriza ai greci, l’abbattimento del 50-60% del debito pubblico che all’80% è detenuto dalla BCE, dall’Eurosistema delle banche centrali dell’euroarea, e dai paesi membri dell’euro tramite l’EFSF. Perché non si poteva chiedere ai greci, con il loro 26% di disoccupazione e un quarto del PIl 2008 finora evaporato, di addossarsi ancora il 175% di PIl di debito pubblico.

E invece no. Aveva ragione chi si è permesso di obiettare che quella promessa era impossibile. Aveva ragione – pradossalmente e diamogliene atto – l’attuale ministro Varoufakis, che due anni fa sul suo blog invitava chi sa far di conto a non credere alla lettera al programma di Syriza, “molte delle cui promesse sono irrealizzabili a cominciare dall’abbattimento del debito” (sue testuali parole).

Proprio così. Infatti, nelle parole di Renzi e di Padoan Schioppa ieri seguite agli incontri con la delegazione greca, troverete detto e scritto che con Tsipras e Varoufakuis il governo italiano non è entrato nel merito delle loro proposte, esattamente come Renzi aveva concordato domenica scorsa a telefono con la Merkel. E quanto alle proposte concrete di Syriza, Varoufakis e Tsipras nelle loro dichiarazioni hanno abbandonato anche solo l’idea di abbattere il debito. Chiedono per una parte di trasformarne le cedole, cioè i rendimenti, agganciandoli alla crescita del PIL (proposta non nuova: qui un paper – di econoministi tedeschi! – che la illustra, qui una valutazione tecnica del FMI, qui la stroncatura di operatori del mercato), e di allungarne ancora la durata (che già oggi, nella media del debito esistente, grazie alle due ristrutturazioni assistite dalla Ue e dalla BCE, è superiore ai 16 anni rispetto ai 6,5 del debito italiano attuale) attraverso la conversione da trentennale a perpetual dei titoli greci detenuti dalla BCE. L’idea di una conferenza europea sul debito, l’esca verso Italia Spagna Portogallo e Francia per verificare se tutti insieme avrebbero fatto fronte comune contro il resto dell’Unione europea, è sparita anch’essa.

Nella sostanza, Tsipras chiede invece tre cose. Lo scalpo da consegnare ai greci per mostrare che non si torna indietro è la rinuncia alla trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, per regolare la faccenda all’interno degli organi europei. E in questo sarà accontentato, anche Juncker è già a favore. Al FMI si dovette ricorrere quando gli strumenti d’emergenza europea, l’EFSF e l’EMS, o non esistevano o esistevano solo sulla carta. La seconda cosa è rinunciare al 4,5% di Pil che la Grecia è impegnata a ottenere ogni anno come avanzo primario di bilancio, per farlo scendere all’1,5%. E dunque poter contare su 3 punti di Pil di spesa pubblica in larga parte in deficit (così sarebbe, visto che a oggi il 4,5% nopn è raggiunto.., anche se Varoufakis dice ora che la Grecia non farà mai più deficit, come non fosse conseguente alla richiesta avanzata!), per pagare almeno alcune delle promesse fatte ai greci: il ritorno alle assunzioni pubbliche, il riabbassamento dell’età pensionabile, l’elettricità gratis a 300mila famiglie, l’abbattimento delle imposte immobiliari e via continuando. Cioè il ritorno della Grecia allo statalismo assistito che l’ha rovinata, e che oggi viene rigiustificato per sostenerne la domanda attraverso la spesa pubblica. La terza cosa è un ulteriore spostamento in avanti degli oneri da pagare sul debito, per effetto dello swap verso i due nuovi tipi di rendimento – GDP-linked e perpetual – proposti sui titoli esistenti.

Vedremo come vanno le cose al primo incontro diretto del governo Syriza con il governo tedesco. Ma di fatto il bluff di Syriza è già finito. Perché Tsipras e Varoufakis parlano di un negoziato lungo sei mesi, ma in realtà le banche greche hanno munizioni solo entro fine febbraio. E questo lo sanno i mercati come lo sanno gli altri governo europei. Già a metà gennaio due rilevanti banche greche hanno dovuto ricorrere all’ELA, la linea di liquidità straordinaria provvista dalla BCE agli istituti di credito in difficoltà. A dicembre i greci hanno ritirato 3 miliardi di depositi, a gennaio non sappiamo ancora ma si ritiene molto di più. Lo Stato drena dal sistema bancario per le sue esigenze in media 3 miliardi di euro al mese, dando in garanzia titoli pubblici a breve. Entro fine febbraio, se i greci avanzassero richieste non componibili con l’assenso europeo, la BCE dovrebbe negare l’assistenza di liquidità straordinaria. Prima di uscire o meno dall’euro o di qualunque altro negoziato, il governo di Syriza si troverebbe a non poter più pagare stipendi e pensioni. Perché nel frattempo a dicembre il gettito fiscale greco è stato del 17,7% inferiore alle attese e il 2014 si è chiuso con 3,2mld mancanti rispetto ai 55 programmatici, e a gennaio le prime stime parlano addirittura di un meno 40%, contando sugli effetti miracolosi della vuittoria di Syriza. Questa è l’amara realtà dei fatti.

Ed è un’amara realtà che avrebbe dovuto indurre a qualche senso misura, invece di promettere ai greci la luna.

La soluzione europea non può riguardare solo la Grecia. Non può includere alcun condono del debito, mentre sui tassi e sulla durata dei titoli si può discutere. Ma i tassi applicati ai debiti non possono essere inferiori ai costi sopportati dai paesi euromembri tramite Efsf ed EMS – Italia per prima – altrimenti il principio che vale per uno vale per tutti. Un meccanismo di iniziale federalizzazione del debito tramite l’abbattimento degli interessi, se la quota del debito in questione è solo quella a carico del bilancio della Bce e non degli Stati membri – può essere ipotizzata solo a patto che chi è finito sotto FMI non sia trattato meglio di chi, come l’Italia, non ne ha avuto alcun bisogno. Altrimenti li chiedessero a Putin, i soldi e gli aiuti. Né le riforme per accrescere produttività e apertura dei mercati possono essere buttate a mare, altrimenti la debolezza dell’economia greca continuerà ad eternarsi fino a un nuovo default sotto un nuovo governo dalla spesa facile (e dalla pressione fiscale di 10 punti inferiore alla nostra).

E’ bene che ci riflettano, quelli che in Italia vogliono imitare Syriza, e che l’hanno dipinta come la grande svolta contro il cieco rigore. Il governo greco in soli 10 giorni ha dimostrato una sola cosa: che promettere l’impossibile può far vincere le elezioni, ma poi ottenerlo impossibile resta. E il conto, se si continua a fare i velleitari, si rischia di presentarlo proprio a quei cittadini economicamente in ginocchio che hanno creduto per disperazione a miracoli impossibili.

 

2
Feb
2015

Regime IVA dei minimi: una simulazione della vessazione fiscale—di Uberto Cardellini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uberto Cardellini.

Lattuale governo, nonostante abbia comunicato il contrario, non ha affatto agevolato le piccole partite IVA. A fare due conti, anche queste hanno tuttora un carico fiscale che rende eroica anche solo lintenzione di intraprendere un lavoro autonomo.

Facciamo un esempio, prendendo una delle ben 9 categorie di regime IVA ai minimi.

Un individuo apre un microcommercio ( sotto i 40.000 euro di fatturato: non chiedetemi che commerciante al dettaglio o allingrosso sia uno con un fatturato del genere, non ho fantasia. Gli ambulanti sono qui esclusi). Read More

2
Feb
2015

Quattro ragioni per restare prudenti sulle roboanti previsioni di crescita 2015

 

Due domande secche sulla situazione economica italiana, in questo inizio 2015. Ci sono segnali concreti di un inizio di miglioramento? Che cosa ci aspetta nel 2015, chi ha ragione tra le diverse stime di crescita dell’Italia appena rilasciate, che si allargano da un più 0,7% a tre volte tanto?

La prima domanda ha una risposta più agevole. Sì, segnali concreti di un ritorno faticoso al segno positivo iniziano a registrarsi. Il tasso di disoccupazione è sceso al 12,9% a dicembre, di 0,4 punti rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione è salito di 0,2 punti sul mese e di 0,3 punti sull’anno, al 55,7%. La disoccupazione giovanile è scesa dal 43% al 42% in un mese, mentre saliva da anni. I 94mila nuovi occupati di dicembre sono un buon segnale, ma ricordate che non pareggiano neanche i 113 mila persi tra ottobre e novembre. Il calo della disoccupazione e l’aumento dell’occupazione (non è detto che i due dati vadano insieme, la disoccupazione può scendere anche solo se aumenta il numero degli scoraggiati che non cercano lavoro), è un dato anche a sorpresa (sia pur da verificare per tipogie di contratto, per vedere quanto a tempo magari solo per rafforzare gli esercizi commerciali in vista di feste e saldi), perché ci si aspettavano una ripresa del lavoro solo a cominciare da febbraio-marzo, quando le imprese metteranno a frutto i maxi incentivi alle assunzioni deliberati in legge di stabilità, e il Jobs Act. Ma è anche vero che, proprio in attesa di queste misure, da mesi le imprese stavano a braccia conserte e non assumevano. Se poi dai dati quantitativi ci spostiamo agli indicatori qualitativi che misurano attese e fiducia, anche quelli virano in positivo. La fiducia dei consumatori italiani, fatto base 100 il 2005, è salita a 104 a gennaio 2015, il picco dal 2011, e la stessa cosa vale per la fiducia delle imprese, salita a 91,6 mentre stava a 81,6 nel 2012.

Altro paio di maniche è giudicare la stima di crescita complessiva del PIL italiano nel 2015. Effettivamente, le stime divergono di parecchio. Il Centro Studi Confindustria è molto positivo, stima il 2015 come un anno di svolta vera e profonda, giudicando in un +2,1% nel 2015 e in un +2.5% nel 2016 la “spinta aggiuntiva” rispetto un Pil che a fine 2014 registrava quasi mezzo punto di calo (che dunque va sottratto alla stima, e così facendo la crescita del Pil secondo Confindustria è intorno a +1,6% nel 2015). In questi stessi giorni, Prometeia ha stimato invece la crescita del Pil 2015 a un più 0,7%. Ed è la stessa stima del REF.

Prima di cercare di spiegare valutazioni così divergenti, una premessa. Ogni centro di ricerca ha un suo modello econometrico di previsione, costruito secondo assunti che “scontano”, per così dire, le variabili esogene internazionali ed endogene – reddito, consumi, prodotto, investimenti – diversamente a seconda dei princìpi a cui il modello si ispira, e di come vengono “tarate” le serie storiche inglobate. Questo spiega perché formalizzazioni matematiche diverse, con uno stesso input numerico di partenza, possano produrre risultati diversi.

Diciamo allora che nel 2015 siamo in presenza di fenomeni domestici su cui tutti più o meno concordano, ma di variabili internazionali che vengono diversamente apprezzate. Se scomputate i diversi fattori che concorrono alla “spinta” alla crescita 2015 italiana stimata da Confindustria, troverete un +0,6% prodotto dal calo del prezzo del petrolio, un +0,8% che deriva dal deprezzamento dell’euro, un +0,5% effetto delle stime di crescita del commercio mondiale e dunque del nostro export, e infine uno 0,2% derivante dall’andamento decrescente dei tassi a lungo termine sul debito pubblico italiano. Come vedete, si tratta di quattro fattori che derivano tutti da andamenti determinati a livello internazionale. Mentre sugli effetti aggiuntivi di occupazione creati dagli sgravi alle assunzioni e dal Jobs Act tutti più o meno concordano (più sui primi che sul secondo), le “molle” internazionali non vedono tutti d’accordo: spingono alla crescita, ma non è detto che lo facciano davvero in maniera tanto netta.

Vediamo perché su almeno 4 fattori le opinioni divergano.

Dai 114 dollari al barile di giugno scorso, il petrolio è sceso verso quota 46-47. Altro conto è dare per scontato che resterà a quota 45 nel 2015-16, e inoltre non va dimenticato che l’effetto di un deprezzamento tanto rilevante è moto attenuato nelle tasche di imprese e famiglie italiane da un 60 e più per cento di oneri rappresentati da Iva e accisa sul prezzo finale al consumo.

Ipotizzare un commercio mondiale che cresce al 4,5% annuo per due anni, rispetto al 3% e poco più nel 2014, implica coraggio: siamo reduci da due anni in cui le stime più positive di ogni inizio anno hanno dovuto fare i conti con diminuzioni nel corso dell’anno. I BRICS sono in crisi, il Brasile ha chiuso il 2014 raddoppiando al 6,7% il suo deficit pubblico e con un analogo segno meno alla sua bilancia dei pagamenti, la Russia se la passa malissimo per gli effetti delle sanzioni.

E’ in atto una gara planetaria al deprezzamento delle valute che fa risalire il dollaro, ma espone molto i paesi emergenti esposti per trilioni di debiti che in dollari sono denominati. L’instabilità finanziaria è molto accentuata da questi fenomeni e dall’asimmetria delle politiche seguite dalle maggiori banche centrali mondiali (vedi i ribassi “disperati” danesi, il cambio di segno repentiono sui tassi della banca centrale russa, la mossa svizzera..). Nessuno oggi è davvero in grado di dire come finirà la vicenda della Grecia, e che impatto avrà sulle curve dei tassi dei paesi eurodeboli in caso di mancato accordo.

E se ci spostiamo a esaminare gli effetti -sicuramente positivi – del QE deciso la settimana scorda dalla Banca Centrale Europea, non dimentichiamo che esso sgraverà in due anni fino a 120 miliardi di bonds dalla pancia delle banche italiane, liberando capitale per impieghi a famiglie e imprese, ma le banche italiane sono gravate da 330 miliardi tra sofferenze (180) e incagli (150), dunque non è affatto detto che potranno davvero avvalersene per trasferire integralmente il capitale liberatosi a garanzia di prestiti aggiuntivi, né è chiaro se, come e quando davverò partirà una bad bank di sistema sulla quale sembra che a palazzo Chigi si rifletta (ci sono molteplici rischi: aiuti di Stato, azzardo morale, ruolo di Cdp.)

Ecco spiegate le differenze. L’invito che facciamo è di aderire alla linea della prudenza. Inizia per gli italiani il cammino per recuperare il troppo prodotto e reddito perduto. Ma la strada sarà lunga e costellata di molti nuovi rischi mondiali. Seguite una bussola che quasi nessuno cita, quella della competitività. Tra il 2000 e il 2014 il CLUP, costo del lavoro per unità di prodotto, è salito del 15% in Germania, del 24% in Portogallo, del 28% in Francia, del 30% in Spagna, del 37% in Grecia, ma del 44% in Italia. Ce n’è tanta di strada da fare. Anche se la notizia è che, finalmente, potrebbe essere non più tutta in salita.

 

26
Gen
2015

Che Tsipras ora faccia il duro e puro: si capirà che cosa davvero siano la Ue, e destra e sinistra che insieme applaudono Syriza

Syriza ha mancato di soli due seggi la maggioranza assoluita per governare da sola ma è un bene, nell’interesse comune europeo (e italiano), che abbia subito trovato un accordo di governo con la destra anti-euro di Anel e i suoi 13 seggi. Pur non condivididendo nulla del suo programma, mi auguro anche che Tsipras ora traduca alle lettera il suo programma elettorale in proposte pienamente coerenti, pure e dure. Cioè che chieda all’Unione europea di abbattere del 50% il debito pubblico greco detenuto dai Paesi e dalle istituzioni dell’euroarea (l’80% di quello attuale) come già è avvenuto nel 2011-2012 per gli obbligazionisti privati.

A questo punto, è meglio così per tutti: che si capisca in pochi mesi che cosa sia davvero l’Unione Europea. Perché a seconda della risposta che darà ad Atene, e a seconda di come Atene si comporterà, sarà più chiaro che cosa l’Unione europea può davvero diventare, e lo si capirà ben prima dei 2 anni necessari per giudicare l’effetto del QE deliberato alla BCE da Mario Draghi a maggioranza giovedì scorso.

La Grecia, grazie a politici che meritano di aver perso voti a carrettate a vantaggio di Tsipras, con l’euro ha finanziato crescita allegra più che raddoppiando il suo debito pubblico. L’abbattimento dei tassi d’interesse realizzato con la moneta comune – esattamente com’è capitato per l’Italia – ha generato per 8 anni l’illusione che si potesse assumere nel settore pubblico, pagare pensioni fuori da ogni equilibrio attuariale, non pagare le tasse, non alzare la produttività, perché tanto il debito poteva raddoppiare e si sarebbero pagati per sempre solo interessi bassissimi.

Nel 2011 l’illusione – basta su conti falsi per quasi un 10& di PIl  – si è spezzata. E il conto è stato presentato non ai politici greci – come in Italia non è mai stato presentato a chi ci ha portato al 135% di Pil di debito pubblico – ma ai greci. I tagli pubblici per garantire fino al 2022 un avanzo primario del 3-4% di Pil annuo hanno significato disoccupazione e povertà di massa. La forza per mettere alla sbarra l’oligarchia greca, che detiene più di 200 miliardi di euro all’estero, è mancata. I greci chiedono un nuovo ripudio del debito, e Tsipras vuole tornare a ciò che scrive Paul Krugman tutti i giorni sul New York Times: assunzioni pubbliche, spesa pubblica, sussidi pubblici. In Spagna Podemos, in Germania die Linke, in Italia SEL e un terzo del Pd, ma paradossalmente anche in Francia la signora Le Pen, e in Italia la Lega di Salvini e un bel pezzo degli eletti di Forza Italia, la pensano praticamente allo stesso modo. O quasi. “Basta austerità, serve un’altra Europa”, dicono tutti. Lo dice anche chi, in Italia, l’austerità non l’ha praticata MAI, visto che da noi la spesa è cresciuta – meno che in passato, ma cresce ancora – e abbiamo solo realizzato stangate fiscali, sul risparmio, sulla casa, sui consumi.

Oggi Draghi e Juncker si vedranno presto, per elaborare una prima linea comune rispetto a Tsipras e alle sue richieste. Il paradosso è che a farlo debbano essere due due tecnici, non eletti ma scelti. E’ per molti versi l’essenza della Ue attuale. Ma non lo dico con la beffarda critica che usano molti politici, contro l’”Europa dei tecnici”. Per preservare un’idea comune europea, Bce e Commissione Europea con tutti i loro difetti hanno fatto molto più, in questi anni, dei politici incapaci, nel Consiglio Europeo, di prendere decisioni altrettanto efficaci e, soprattutto, tempestive di fronte alla piega assunta dalla crisi nei paesi eurodeboli.

L’euro è nato senza aver unito mercati dei beni e dei servizi, per consentire a un unico tasso d’interesse di far convergere produttività e curve di costo come vasi comunicanti come funziona il dollaro negli USA, un’area continentale dove pure specializzazioni produttive e costi – dell’energia, della logistica, del lavoro, della PA – non sono affatto eguali dovunque. E l’euro è nato anche senza meccanismi di stabilizzazione cooperativa, per via della storia che abbiamo alle spalle, di Weimar e del nazi-fascismo che ne sortì, una storia molto diversa da quella americana.

Ora che sono passati troppi anni dall’inizio dell’eurocrisi, ora che in alcuni paesi si sono accumulate perdite di prodotto e reddito per famiglie e imprese troppo elevate per non portare massicci consensi a chi promette di cancellarli adottando cose che pur nella storia si sono viste – perché la cancellazione massiccia di debiti attraverso ripudio e iperinflazione è avvenuta innumerevoli volte nella storia, dopo grandi conflitti o grandi default, sia pur con costi sociali che i politici che li ripropongono tacciono oculatalemente (chiedere agli italiani in Argentina, se avete dubbi) – è un bene che l’Unione Europea (e il Fmi) si trovino di fronte a sé le richieste pure e dure di Tspiras.

Almeno sapremo la risposta, saremo in grado di capire che cosa davvero ci attende. Vedremo politicamente se la sinistra europea riesce a spiegare a Tsipras che quello che chiede non è inaccettabile ma sbagliato, perché signficherebbe esporre la Grecia a un nuovo default sia pur dopo l’effimera illusione di una maxi svalutazione. Vedremo chiarezza a cominciare dal Pd italiano, visto che ieri a esultare per Syriza erano gli stessi parlamentari che votano leggi di stabilità che realizzano rilevanti avanzi primari grazie a nuove tassazioni retroattive e con la minaccia di imponenti aumenti Iva tra 2016 e 2018. Vedremo come reagirà la Spd tedesca, e se le congratulazioni immediate dei socialisti francesi significheranno sostegno al ripudio del debito voluto da Tsipras.

Invece, nel caso in cui l’Unione Europea avrà la forza di una posizione razionale, vedremo se Tsipras, di fronte all’ipotesi di un’uscita dall’euro, saprà attrezzarsi a una molto più sobria trattiva, per ottenere dall’Ue e Fmi nuove condizioni per pagare gli interessi sul debito – già attualmente a tassi ridicoli, l’1%, e con un onere percentuale sul Pil che è un terzo di quello annuale italiano – e per strappare qualche possibilità di realizzare comunque programmi sociali, ma in cambio di forti riforme di produttività.

In caso contrario, meglio saperlo. Sarebbe ridicolo per i contribuenti italiani continuare a essere strangolati, a colpi di avanzo primario realizzati per via solo fiscale, per ottenere negli anni un difficile equilibrio della finanza pubblica e più produttività, se questa strada altri la ripudiano e vengono assecondati. La colpa non è di Draghi, che ha fatto e continua a fare miracoli. La colpa è della politica europea: troppo incline, finché i mercati non saranno uniti rompendo incrostazioni corporative autarchiche, a non riconoscere che senza di questo l’euro resterà sempre zoppo. La risposta a Syriza o è un passo avanti energico verso l’Europa convergente – che si fa sui mercati, non con l’armonizzazione fiscale – oppure l’uscita della Grecia dall’euro darà solo munizioni a chi anche in Italia, da destra e sinistra, promette la liretta come l’acqua di Lourdes che fa miracoli.