13
Feb
2015

Tsipras ha amici negli USA, pesano sulla Merkel e c’è qualcosa da imparare

Sono i giorni della verità, per sciogliere il dilemma della Grecia e delle richiesta avanzate da neopremier Tsipras. Ma ieri sera il barometro segnava decisamente “speranza”. Il rischio di un’esplosione della crisi con esito frontale non è disinnescato. Ma al primo round di incontri con l’Eurogruppo prima e il Consiglio europeo poi, il ministro dell’economia Varoufakis e il premier Tsipras sono sopravvissuti bene, senza trovarsi davanti un secco “no”. Del resto, il governo di Syriza ha modificato non di poco le sue richieste, rispetto alle promesse fatte all’elettorato ellenico. Ma si sta rivelando anche molto abile nel giocare sul tavolo geostrategico, prima che a quello delle tecnicalità dell’alleggerimento del proprio debito pubblico, e della concessione di qualche soldino in più per finanziare i propri costosissimi programmi di spesa pubblica. Se la signora Merkel è l’Europa, come di fatto è, Atene approfitta che la cancelliera tedesca sia in questi giorni l’antemurale occidentale a Putin sulla crisi ucraina. Facendo leva su ciò, Atene si è messa in condizione di portare a casa più concessioni di quanto sarebbe stato possibile, se Ue e NATO non fossero col fiato sospeso per i combattimenti tra Kiev e filorussi. In questo modo il piccolo Davide greco potrebbe riuscire a sfilare dalla tasca del Golia tedesco molto più del previsto. Una lezioncina di spregiudicatezza non male, per gli altri eurodeboli a cominciare dall’Italia.

Tsipras sta coi russi? E’ quel che il governo Syriza ha avuto l’abilità di far credere. Sono bastate un paio di dichiarazioni ufficiali di membri di secondo piano del governo russo, sulla disponibilità di Mosca a dare aiuti alla Grecia. E un colloquio del ministro degli Esteri greco col parigrado russo Lavrov, proco prima del vertice di Minsk in cui la Merkel (con il presidente Hollande come comparsa al fianco) ha dovuto fare l’impossibile perché Putin e Poroshenko accettassero comunemente il cessate il fuoco. In più, Tsipras ha fatto uscire l’indiscrezione anche di un suo colloquio con il premier della Cina. Con gli Stati Uniti ufficialmente durissimi con Putin sulla crisi ucraina – sia pur distinguendo tra la durezza massima dei vertici militari e quella meno oltranzista di Obama, che punta a concentrare gli sforzi militari contro Isis – minacciare di fatto che un paese essenziale del fronte sudeuropeo della NATO affidi la sua sopravvivenza economica e finanziaria ai russi perché l’Unione europea nega aiuti, fa letteralmente imbestialire gli americani. In caso di un no europeo alla Grecia, oggi come oggi Varoufakis scommette molto di più su un aiuto americano diretto ad Atene che su uno russo.

Obama sta con Tsipras? A Washington, con la concessione a Obama dei poteri di guerra contro Isis, la caduta di fatto dello Yemen in mani jihadiste e l’Arabia Saudita con un nuovo sovrano forse più accomodante sul prezzo del petrolio, qualche decina di miliardi di euro di potenziamento degli aiuti per far costare ancor meno il debito greco sembrano letteralmente un’inezia. Non si capacitano di come Ue e BCE si siano messe da sole in questo cul de sac. Che potrebbe, con l’uscita della Grecia dall’euro e di fatto un suo forte raffreddamento nella NATO, segnare di fatto uno sfaldamento occidentale nel Mediterraneo orientale, visto che la Turchia di Erdogan fa capo a sé, contro ISIS non collabora e sta anzi trattando per un nuovo gasdotto con i russi di Gazprom. Non troverete una sola dichiarazione americana a favore dell’abbattimento del debito greco. Ma ne trovate cento a favore del fatto che la UE, cioè la Merkel, non devono fare scherzi e devono trovare un accordo con Tsipras. Mica poco, dal punto di vista di Atene.

Ma la crisi Ucraina non è risolta? No, inutile illudersi. Il cessate il fuoco e i 13 punti tecnici della commissione mista disegnano un quadro pieno di irti problemi irrisolti, di difficilissima attuazione. Nessuno può oggi scommettere che quel fragilissimo armistizio che dovrebbe iniziare domenica abbia in sé sufficiente fiducia reciproca per tradursi in un accordo stabile. Che veda nei mesi arretrare le forze militari, smilitarizzare confini che per Kiev rappresentano comunque una sconfitta, per dar vita a un’autonomia amplissima del Donbass e delle aree oggi occupate dai filorussi (e da unità russe, la cui presenza è comprovata dai caduti, malgrado Mosca neghi le testimonianze dei familiari russi ne sono la prova). Ciò significa: guai ancora seri per gli ucraini, ma possibilità in più per i greci.

Che compromesso può uscirne? E’ stato chiaro sin dall’inizio, che Tsipras avrebbe mandato in naftalina il dimezzamento dell’80% del debito detenuto da BCE ed euromembri, e la sbandierata conferenza europea per l’abbattimento generale del debito. L’accordo si può trovare su un ulteriore potenziamento europeo degli aiuti che sgravi per un’altra ventina di miliardi l’onere del debito greco nei prossimi anni, e che continui a reggere in piedi le azzoppate banche greche attraverso la linea di liquidità straordinaria ELA della BCE. Il ruolo del FMI nella Trojika può venir meno senza particolari problemi, sostituito dall’OCSE. E così Tsipras direbbe al suo elettorato di aver vinto, se anche aggiungesse un paio di punti di PIL di spesa pubblica consentita in più per fare assistenzialismo di Stato. Olandesi e finlandesi storceranno il muso, ma di fatto oggi la Merkel molto difficilmente può fare uno sgarro mortale alla NATO e a Washington.

La Merkel umiliata? Al contrario, già ieri il New York Times indicava la cancelliera tedesca come il vero statista occidentale capace di mettere Putin a un tavolo di accordi, e di non spezzare l’Europa. Usando la pazienza e la mediazione, e non solo la durezza. Vedremo se finirà così. L’imprevisto è sempre in agguato. La cosa certa è che, a oggi, Tsipras e Varoufakis hanno mostrato una affilata spregiudicatezza del tutto ignota ai governi italiani, spagnoli e portoghesi. Del resto, è la collocazione geostrategica a favorirli. Ogni tot secoli, funziona così sin dai tempi in cui fermarono l’orda persiana a Maratona e Salamina.

13
Feb
2015

I 5 paradossi dei vigili urbani che scioperano e bloccano il traffico

Alcune migliaia di vigili urbani, romani e da tutta Italia, hanno sfilato ieri in corteo nella Capitale accogliendo l’invito allo sciopero nazionale di settore lanciato dall’Ospol. L’Osol è il sindacato autonomo che all’indomani dell’assenza di massa dei vigili dalle strade romane la notte di Capodanno dichiarò che la cosa era perfettamente normale, visto il freddo e il periodo dell’anno. E ieri il corteo è stata una manifestazione di fierezza contro le polemiche scatenate dall’incredibile vicenda romana. I cartelli branditi recitavano ‘Colpire la Polizia locale per coprire Mafia Capitale’, ‘Corrotti voi indagati noi’, ‘Assenteista inventato – Mafia Capitale insabbiato’, ‘La nostra riforma va approvata e la divisa mai più oltraggiata”. Altre sigle sindacali non hanno aderito, e anzi ieri i capi della funzione pubblica Cisl e Cgil hanno separato nettamente le proprie responsabilità ,ripetendo che chiunque abbia sbagliato quella notte va identificato con chiarezza e sanzionato. Fin qui la cronaca, sulla quale è il caso di tornare con alcune considerazioni. Con la stessa premessa di sempre: noi non generalizziamo colpe e responsabilità dell’astensionismo e dello scarso attaccamento alla divisa né all’intero corpo né alla maggioranza dei suoi appartenenti, né a Roma né in Italia, e non manchiamo di rispetto e considerazione per chi assicura per le vie pubbliche ordine e sicurezza.

Però. Primo: la consapevolezza delle funzioni che si svolgono si esprime anche attraverso il modo in cui si manifesta. I vigili urbani che bloccano il traffico in corteo sono – diciamolo – un paradosso. Legittimo certo, perché in quel caso stanno manifestando rispettando le legge ed esercitando un proprio pieno diritto di cittadini. Ma sempre paradosso è. I vigili possono anche benissimo manifestare la propria opinione che sindaco e giunta e comandante del corpo siano deficitari e inadeguati. Ma quando si inizia a dare dei corrotti e mafiosi loro per primi dovrebbero sapere che la libertà sindacale non è esente dal rispetto dei limiti delle leggi penali. Una cosa però è chiara: un conto è manifestare e scioperare secondo ciò che consente la legge, altra è travestire una manifestazione organizzata di protesta sindacale da astensionismo di massa, com’è avvenuto la notte di Capodanno. Quest’ultima cosa non è né legittima né tollerabile. Su tale punto preciso, spiace dover osservare che ieri non si è sentito uno slogan che era invece opportuno: “non faremo più astensionismo di massa”.

Secondo: se si lavora per assicurare ordine e sicurezza, si rispetta la legge. Che cosa significa, rispetto all’assenza di massa romana d’inizio d’anno? Che i vigili per primi devono essere rispettosi degli accertamenti che sta svolgendo la Procura di Roma. Giustamente, i magistrati della Capitale hanno subito esteso i controlli a centinaia di medici che hanno sottoscritto i certificati di malattia. Anche qui, nessuna generalizzata condanne di massa. Ma le assenze per malattia di 2 anni prima erano di dieci volte inferiori, e di epidemie a Roma non c’è traccia. Invece di considerare l’azione della Procura come una persecuzione, i vigili per primi si uniscano al sentimento dei cittadini, che ne sono contenti e dicono “finalmente!”. E che vedono nella rotazione delle assegnazioni territoriali e degli incarichi una misura concreta e utile per evitare la corruzione.

Terzo: sui poteri disciplinari ordinari, ancora non ci siamo. Abbiamo detto e ripetuto che le norme ci sono, dal 2009 sono state potenziate e codificate, per sanzionare le assenze ingiustificate e la bassa produttività. Il punto è che vengono vanificate dai criteri di attuazione, visto che lo stesso comandante del corpo della Capitale ha dovuto riconoscere che il deferimento alla disciplinare non poteva andare oltre una trentina di casi. Inutile girarci intorno: è questo a dare alimento alla protesta di chi, ieri, considerava che il fango sulla divisa è stato gettato da chi al Campidoglio ha reagito duramente, e non da chi a Capodanno è rimasto deliberatamente a casa.

Quarto: il governo faccia quel che deve. Perché c’e’ da lavorare, sui criteri di controllo e di attuazione delle norme di cui stiamo parlando. E’ quindi confortante che il ministro Madia ieri abbia ribadito che, nella nuova tranche di norme in gestazione sulla riforma della PA, il governo renderà più penetranti i criteri di controlli sulle assenze di massa, e meno spuntate le armi che oggi si devono invece abbassare di fronte a un certificato medico, perché su quello può intervenire solo il magistrato, se la visita ispettiva non è avvenuta nelle stesse ore di assenza.

Quinto: i vigili hanno giuste ragioni. Certo che le hanno, se guardiamo oggettivamente ad alcuni dei nodi irrisolti che alimentano la loro protesta. A cominciare da ciò che li distingue, in termini di remunerazioni sussidiarie e prerogative, rispetto agli agenti delle forze dell’ordine. Continuando con il loro ruolo rispetto alla “finanza aggiuntiva” dei Comuni rappresentata dalle multe, e a quello contro le frodi commerciali al minuto. E tuttavia, perché questi nodi possano trovare giuste sedi di confronto e soluzioni adeguate, occorre stare nelle regole e avere senso della misura. A Milano, in questi giorni si leggono interviste di sindacalisti che negano la propria disponibilità a lavorare il primo maggio per l’inaugurazione dell’EXPO con il tono di chi vuol difendere l’Alcazar dai franchisti. Per favore, cari vigili urbani, allo stesso modo evitate di dire che vi manca di rispetto chi non accetta che a Capodanno stiate a casa. Diamoci tutti un senso della misura, perché l’Italia vada meglio.

12
Feb
2015

Politica e fame nel mondo: primo non nuocere

Nel videomessaggio inviato in occasione dell’evento “Le Idee di Expo 2015” Papa Francesco ha chiesto ai responsabili dei governi di attuare una diversa politica economica che abbia al centro “la dignità della persona ed il bene comune” e che possa portare a superare l’attuale realtà di un mondo nel quale si stima vi siano ancora 2 miliardi di persone malnutrite e più di 800 milioni che soffrono la fame cronica.
Per capire quale politica possa consentire di porre rimedio a tale drammatica situazione può forse essere utile guardare al passato, ai casi di successo di riduzione della fame e della povertà. Per quanto la condizione odierna sia ben lontana dall’essere soddisfacente, sarebbe infatti sbagliato dimenticare i notevoli progressi che sono stati fatti in particolare negli ultimi venti, trenta anni.
Partiamo dalla malnutrizione: in base ai dati forniti dalla FAO, nel periodo compreso tra il 1991 ed il 2013, la quota della popolazione mondiale che non dispone di cibo sufficiente è stata pressoché dimezzata, dal 19% si è infatti passati all’11%. Tra i numerosi Paesi che hanno visto la propria condizione migliorare rapidamente ne citiamo due, diversissimi per geografia, dimensioni e storia ma accomunati dal fatto che nel recente passato la politica ha deciso di fare qualche passo indietro aumentando gli spazi di libertà per le persone e per le imprese. Stiamo parlando del caso, abbastanza noto, della Cina dove il numero di persone malnutrite si è ridotto da poco meno di 300 milioni a circa 150 milioni (dal 25% all’11% della popolazione) e di quello, forse sconosciuto ai più, del Cile, Paese che forse più di ogni altro ha perseguito una politica di progressiva limitazione dell’interferenza della politica nella vita economica. Ebbene, in quel Paese la quota di persone che vive in condizioni di povertà è diminuita dal 39% al 14% (risultato molto migliore rispetto a quello della America Latina nel suo complesso dove si è passati dal 48% al 40%) e la povertà assoluta si è ridotta dal 13% a meno del 5%. La fame, ancora diffusa negli anni ’70, è stata sostanzialmente debellata e, paradossalmente, oggi vi è una diffusione dei casi di obesità.
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Rimane purtroppo ancora ai margini del processo di miglioramento delle condizioni di vita a livello mondiale l’Africa sub-sahariana sebbene non manchino anche per quel continente segnali incoraggianti. Se tra il 1970 ed il 1990 la situazione era stazionaria se non in peggioramento, il quadro sembra essere parzialmente mutato negli ultimi vent’anni: è diminuita di circa dieci punti percentuali la quota di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno mentre il reddito medio procapite è cresciuto da 1.600 a poco meno di 2.000 dollari.
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Anche in questo caso la crescita economica ha avuto ricadute assai positive in termini umani: dal 2001 al 2013 la speranza di vita nell’intero Continente è aumentata da 51 a 58 anni.
Non sembra che un contributo significativo al pur limitato progresso economico dell’Africa sia derivato dalla azione dei governi o dagli interventi delle numerose agenzie ed organizzazioni internazionali. Al contrario, come ha ben documentato nel suo ultimo volume (“La tirannia degli esperti”) William Easterly, economista con una lunga esperienza alla Banca Mondiale, spesso gli interventi “dall’alto” sono al contempo poco efficaci e non rispettosi dei diritti e della dignità dei poveri. Easterly suggerisce un approccio diverso, “dal basso”, da individuo (associazione) ad individuo, attraverso una serie di tentativi ed errori, e non da governo a governo.
Non mancano poi i casi nei quali la politica pone in essere interventi che non solo non aiutano ma addirittura ostacolano la crescita. Pensiamo, ad esempio, per restare nel campo della alimentazione e dell’agricoltura, ai generosi sussidi che i Paesi europei elargiscono ai produttori locali e che mettono fuori mercato i prodotti dei contadini dei paesi poveri privandoli così della possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita.
Oppure riflettiamo sulle politiche di incentivazione dei biocarburanti che hanno ridotto in misura non marginale la disponibilità di cereali per uso alimentare.
Sembra in questo caso riscontrarsi un altro limite della politica che il Papa ha evidenziato nel suo messaggio: la tendenza a farsi guidare dalle emergenze e l’incapacità di definire delle priorità.
L’incentivazione dei biocarburanti è stata infatti motivata con la volontà di ridurre le emissioni di gas serra per limitare il riscaldamento della Terra. Un problema, quello del cambiamento climatico, che viene abitualmente presentato come il più grave dal punto di vista ambientale e che richiederebbe urgenti e radicali misure di riduzione dei consumi di combustibili fossili. Ma le evidenze scientifiche di cui disponiamo ci dovrebbero portare a conclusioni diverse. Vi è infatti sostanziale accordo sul fatto che un moderato incremento della temperatura (al di sotto dei 2° C) sia sostanzialmente neutrale sotto il profilo della crescita economica a livello mondiale. E, al contrario di quanto dato per assodato, non solo fino ad oggi non vi è stato alcun incremento dei fenomeni estremi ma, grazie alla crescita economica e delle conoscenze scientifiche, negli ultimi cento anni i rischi correlati a tali fenomeni sono stati radicalmente ridimensionati. (Anche) grazie ai combustibili fossili siamo oggi in grado di difenderci molto meglio dalle bizzarrie del clima. E’ altrettanto vero che nel lungo periodo il riscaldamento globale potrebbe avere rilevanti impatti negativi: tali effetti si manifesterebbero però solo tra molti decenni e richiederebbero interventi ben ponderati e non azioni dettate da un’emergenza che non c’è e che rischiano di comportare effetti collaterali assai più rilevanti rispetto ai benefici che possono essere conseguiti. Abbiamo prima citato il caso dei biocarburanti. ma non è questo il solo ambito nel quale le politiche climatiche rischiano di essere controproducenti.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità ogni anno oltre quattro milioni di persone muoiono prematuramente nei Paesi più poveri a causa degli elevatissimi livelli di inquinamento che si registrano all’interno delle abitazioni come conseguenza dell’uso di legna, carbone, scarti di prodotti agricoli per il riscaldamento e per la preparazione dei cibi. Per ovviare a tale problema sarebbe necessario un maggior ricorso ai combustibili fossili. Eppure non mancano i casi di agenzie internazionali che vorrebbero vincolare gli aiuti a tali Paesi all’impegno ad utilizzare meno carbone, gas, petrolio.
Per quanto a molti possa sembrare paradossale, per il conseguimento del bene comune ed il rispetto della dignità delle persone dovremmo come prima cosa chiedere alla politica di non nuocere.

11
Feb
2015

Perché Apple, che ha 32 miliardi di dollari di liquidità, emette obbligazioni?—di Galeazzo Scarampi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Galeazzo Scarampi.

È una delle aberrazioni create dal regime di imposizione globale dei redditi che imperversa negli Stati Uniti sin dall’epoca di Kennedy e che ha dato luogo a elusioni e assurdità di ogni genere, come vedremo. Da principio, giova far riferimento alla recente proposta di Budget del Presidente Obama.

Il budget  per l’anno fiscale 2016 presentato dal Presidente Obama il 2 febbraio è infarcito di interventi dirigisti a pioggia: da ”Combating Antibiotic Resistant Bacteria” (pag 65) a “Home Visiting Programs” (pag 30) coi quali assistenti sociali ed infermieri pagati dallo Stato “aiutano le famiglie a monitorare i problemi sanitari e di sviluppo dei figli (..) coltivando good parenting practices”. Il tutto viene riassunto nello slogan “A Government of the Future”, che farebbe persino sorridere se non fosse per il retrogusto orwelliano.

Vi è tuttavia nella parte fiscale una proposta che ha destato grida di dolore, ma che nella sua semplicità ha senso; si tratta della tassazione al 19% per competenza degli utili prodotti all’estero dalle società americane, cui si sommerà  una “toll tax” una tantum del 14% sugli utili imponibili accumulati in elusione all’estero sinora.  Non è una nuova imposta: sin dagli anni ’60 (presidenza Kennedy) gli Stati Uniti hanno abbandonato il principio della territorialità dell’imposizione fiscale, estendendo la tassazione dei cittadini e delle società americani ai redditi ovunque prodotti. Sinora tuttavia tale norma era stata elusa dalle società che si erano basate su una “scappatoia” in quanto la tassazione era per le società “differita” sino al momento del rimpatrio degli utili. Questa scappatoia non è disponibile per le persone fisiche che sono tartassate da decenni (si veda il recente caso del sindaco di Londra Boris Johnson, che è stato costretto a pagare le imposte sui capital gains negli Stati Uniti per la vendita della sua prima casa nella capitale inglese).

Che le imposte debbano essere strettamente territoriali e non globali è ben noto e non è questa la sede per ripetere le chiarissime argomentazioni di Luigi Einaudi in merito. Tuttavia negli ultimi decenni la “esportazione dell imposte” attraverso la globalizzazione della base imponibile ha imperversato, dalla California che tassa il reddito globale di imprese che hanno una sede stabile nello Stato, all’Italia dall’allora ministro Tremonti.

La proposta del Budget di Obama ha il merito di rimuovere una ipocrisia di fondo del sistema che ha creato notevoli distorsioni.  L’opposizione che tale proposta ha suscitato  dovrebbe indurre a ripensare al principio di territorialità. Già nel 2013 Paul Ryan aveva introdotto questo concetto nella sua Budget Proposal (“transition the international tax regime from the current “deferral” approach to a full territorial system”). Vi è da sperare che la maggioranza Repubblicana al Congresso non sprechi questa opportunità.

Veniamo ora alle distorsioni che il regime di “deferral” ha creato.

Le principali multinazionali americane hanno accumulato enormi importi di liquidità all’estero che non rimpatriano per “differire” la imposizione. Per pagare dividendi e finanziare investimenti preferiscono emettere obbligazioni anche se a costi ben superiori del rendimento pressoché nullo della liquidità, per non dire delle commissioni  e spese di emissione che assommano a ben oltre l’1% del valore delle obbligazioni emesse. Qui non si tratta di line di credito a breve per far fronte a sfasamenti temporali, ma di obbligazioni da cinque a trent’anni!

Ecco un campione (dati al 31 Dicembre 2014):

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Si ringrazia Martino Rocca  di Quadrivio SGR per la ricerca.

A livello aggregato si stima che le società americane abbiano accumulato oltre 2 mila miliardi di dollari di imponibile “differito”, investito in liquidità bloccata all’estero.

Un possibile effetto inatteso della proposta del Budget potrebbe essere un (benvenuto) aumento della concorrenza fiscale, in quanto il livello effettivo di tassazione federale sul reddito delle società scenderebbe al 25% per i redditi domestici ed al 19% per quelli prodotti all’estero, livelli decisamente inferiori alla media UE.

La probabilità che questa amministrazione produca una riforma fiscale orientata al mercato è bassa, ma quasi ogni riforma e meglio del regime attuale, e si può sperare che i Repubblicani colgano la occasione per riaprire il tema della territorialità.

10
Feb
2015

Expo: poche idee, e confuse—di Roberto Brazzale

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Brazzale.
La messa cantata dell’alimentarmente-corretto è iniziata ieri a Milano tra gli squilli delle trombette e dei tromboni: 42 (diconsi qurantadue) tavoli tematici a cui hanno partecipato oltre 500 (diconsi cinquecento) esperti, una specie di Leopoldona del gargarozzo, tra un “diritto costituzionale al cibo”, una “lotta agli sprechi”, una “eredità morale”, un “no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità”, un pontificio appello a “rinunciare all’autonomia dei mercati”, un presidenziale “serve un nuovo modello di sviluppo” (ecco, dopo trent’anni ci mancavano proprio le ricette della sinistra-DC, fortuna che ora c’è Mattarella), tra un “delineare l’agenda per uno sviluppo equo e sostenibile”, e via “bla-bla” cantando.

Nello stesso momento in cui l’Accademia dei Lincei, sebbene terrorizzata per le conseguenze di scorrettezza politica, implora di non rinunciare a scienza ed OGM che il fotogenico ministro Martina ed il suo codazzo di agrocattocomunisti, la cui mamma è sempre incinta e dannatamente feconda, si bea di aver bandito per sempre dal verginello stivale, impestato da aflatossine e fitopatologie;

nello stesso momento in cui all’eroico agricoltore friulano Giorgio Fidenato viene proibito da ogni organo politico e giudiziario della repubblica sabauda di seminare sulla sua terra ciò che è costretto a comprare nei consorzi agrari della Coldiretti importato dall’estero;

nel momento in cui il mercato, la tecnologia, il libero scambio, l’imprenditorialità individuale, la libertà di movimento di capitali, persone, tecnologie, hanno permesso al mondo in 40 anni di sfamare con cibo abbondante e conveniente 3 miliardi e mezzo di persone in più rispetto al 1970 (se la Chiesa se ne ricordasse, ogni tanto…); e ciò certo non grazie alla FAO, alla mortifera PAC, e nemmeno grazie al biologico o agli OGM free, estetismi per satolli;

nello stesso momento in cui ogni possibile assessore, ex ministro, pasionaria bucolica, si stracciano le vesti, senza sapere di ciò di cui parlano, invocando misure protezioniste perché in Italia si smetta di importare i generi alimentari che il paese non è in grado di produrre da solo per motivi strutturali di scarsità di territorio (che vogliono? che ci rubiamo il pane dalle mani a peso d’oro per far contenta la Coldiretti? chiedete l’uscita dalla parità di cambio, macachi! sveglia, che la mamma ha fatto i gnocchi!);

nello stesso momento in cui ci apprestiamo a veder inaugurare una edizione dell’expo imbarazzante nel suo snobistico provincialismo, spocchioso ed incosciente, irresponsabile ed arrogante, ispirata da chi vive tra Parioli e via Montenapoleone, piegata ad essere vetrina della quotazione in borsa di Eataly insignita non si sa come e da chi del primato del saper fare italiano (a posto saremmo!…), un’expo nel quale insegneremo ai poveri del mondo come devono rimanere tali per non disturbare l’amenità del quadretto arcadico che ci piace così tanto da quando ce ne siamo affrancati, noi;

in quello stesso momento veniamo a sapere che da circa un paio d’anni un gruppo di decine di docenti e ricercatori, coordinati da Laboratorio Expo (pensate i nostri soldi dove finiscono), sta lavorando su una “Carta di Milano” che dovrebbe costituire l’eredità di “Expo 2015”, la cui ambizione sarebbe quella di chiedere un’“assunzione di responsabilità, da parte di tutti, nella battaglia per il diritto al cibo e contro le diseguaglianze e gli sprechi alimentari, indicando contestualmente le priorità, ponendosi come bussola per capire quale direzione e quali soluzioni adottare, coinvolgendo 130 centri di ricerca nel mondo, a partire dall’idea del cibo e dei diritti….bla, bla…”.

Abbiamo capito bene? Decine di docenti e ricercatori, 130 centri di ricerca, 500 esperti su 42 tavoli tematici, che hanno tanto tempo libero per disquisire del nulla, per sublimare il vuoto?
Fantastico: una zappa a testa, fuori sui campi, e nessuno avrà più paura della fame nel mondo. Semmai dell’obesità.

10
Feb
2015

Meno Stato e più mercato, anche nel settore culturale

All’articolo di Angelo Miglietta sui danni provocati dalla gestione pubblica del nostro patrimonio culturale (che abbiamo ripubblicato QUI), ha risposto in maniera critica Severino Salvemini (QUI). Sempre su Management notes.it è ora uscito un nuovo intervento sul tema, che vi proponiamo.

I recenti articoli scritti da Angelo Miglietta e Severino Salvemini stimolano a confrontarsi con le loro tesi e a svilupparne alcuni punti. Se Miglietta auspica un maggior ricorso a strumenti di mercato per la gestione del patrimonio e delle attività culturali, Salvemini afferma che non bisogna guardare al “mercato come modalità salvifica per fare del Bel Paese una nazione finalmente moderna nella valorizzazione del suo patrimonio artistico”.

Salvemini comincia la sua argomentazione rispolverando il concetto di “bene meritorio” applicato alla cultura. L’utilizzo di simili categorie (oggi è in auge quella di “beni comuni”, i quali comprenderebbero pure i beni e le attività culturali; non a caso gli occupanti del Teatro Valle avevano promosso la costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune) si propone di trovare una ragione fondante dell’intervento pubblico. Pur avendo grande fascino per la loro supposta base scientifica e per la semplicità con cui è possibile etichettare (con due parole) gran parte dello scibile umano, la loro indeterminatezza è produttrice di grandi equivoci. Read More

9
Feb
2015

Coltivare Mais OGM non si può. Secondo il Consiglio di Stato porta male.

Con una sentenza depositata il 6 febbraio (qui) il Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, ha confermato la legittimità del divieto di coltivare mais OGM sul territorio nazionale. I ricorsi amministrativi di primo e secondo grado sono stati presentati da Giorgio Fidenato che da diverso tempo oramai ha ingaggiato una battaglia per il riconoscimento della legittimità della coltivazione del mais transgenico (qui un’intervista a Fidenato di Antonluca Cuoco su Il Denaro).

La decisione fa riferimento alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore dell’ulteriore rinnovo del termine sino al quale è imposto il divieto di coltivazione del mais OGM  (18 mesi a partire da gennaio 2015) introdotto con decreto del Ministero della Salute del 23 gennaio ultimo scorso.

Le motivazioni del divieto confermato dal Consiglio di Stato, tuttavia, appaiono da un punto di vista giuridico non del tutto convincenti perché non si riscontra nell’argomentazione del Tribunale l’evidenza di una solida ragione in grado di giustificare la proibizione. A dire il vero è lo stesso Consiglio di Stato che arranca palesemente nel tentativo di confermare la legittimità del decreto del Ministero della salute (adottato di concerto con il Ministero delle politiche agricole e dell’ambiente) del 12 luglio 2013 (qui) con il quale è stata vietata la coltivazione del mais OGM MON 810 sino all’adozione delle misure comunitarie d’urgenza e comunque per un periodo non superiore a 18 mesi dalla data del medesimo provvedimento, termine, come abbiamo visto, di già prorogato ulteriormente.

Dalla lettura della sentenza emerge pacificamente che: 1) la commercializzazione del mais OGM MON 810 è stata autorizzata una prima volta nel 1998 dalla Commissione Europea che è l’organo competente in materia, 2) nel 2004 la Monsanto, società titolare dei brevetti sul mais MON 810, ha notificato alla Commissione l’esistenza del predetto mais cosicché in virtù del regolamento comunitario è stato possibile continuarne la commercializzazione, 3) nel 2007 è stato richiesto il rinnovo della autorizzazione alla Commissione, la quale, stando alla ricostruzione del Consiglio di Stato, non ha da allora provveduto a pronunciarsi né in senso favorevole, né in senso contrario alla commercializzazione, 4) in data 17  maggio 2013 la Commissione non ha ritenuto necessario adottare misure cautelari per il mais MON 810 come richiesto, invece dalle autorità italiane, 5) dal 1998 ad oggi non sono mai emerse evidenze scientifiche in grado di ricondurre con certezza o con ragionevole probabilità effetti nocivi sull’uomo, sull’ambiente e sugli animali alla coltivazione e commercializzazione del mais transgenico.

La Corte di Giustizia Europea (sezione IV, sentenza 8 settembre 2011 nelle cause C 58/10 e C 68/10) ha  nel frattempo sancito che la possibilità per gli Stati membri di procedere all’adozione di misure cautelari volte alla sospensione delle autorizzazioni è subordinata “ a un serio rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la salute umana, la salute degli animali o l’ambiente. Questo rischio deve essere constatato sulla base di nuovi elementi fondati su dati scientifici attendibili. Infatti, misure di tutela adottate in forza dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003 non possono essere validamente motivate con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente.” e che “ …uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in applicazione della direttiva 2002/53.70 . Al contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione.” (sentenza 6 settembre 2012, in C 36/11).

Dalla sentenza si evince, ancora, che i competenti organi scientifici non hanno mai ritenuto di rimettere in discussione i presupposti sulla base dei quali è stata rilasciata l’originaria autorizzazione alla coltivazione e commercializzazione del mais MON 810, ed infatti: “ Nel caso in esame, va fin d’ora riconosciuto che l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) non ha suggerito di intervenire sull’autorizzazione del mais MON 810, in relazione ai rischi connessi alla coltivazione. Nessuna presa di posizione esplicitamente negativa sulla perdurante efficacia dell’autorizzazione è rinvenibile in detti pareri, e le conclusioni formali cui è pervenuta EFSA, nonostante l’evidenziazione di nuovi parametri rilevanti e di nuovi criteri di valutazione del rischio, e dell’opportunità di porre in essere forme di cautela, appaiono in linea di sostanziale continuità con il parere favorevole del 2009.Tanto sembra emergere anche dalla “scientific opinion” pubblicata sul bollettino dell’EFSA del 2013- n. 3371 (a quanto sembra, sopravvenuta all’adozione del decreto impugnato).”.

Su cosa regge, allora, la legittimità del divieto di coltivare il mais transgenico? Secondo il Consiglio di Stato il divieto adottato con decreto del Ministero della salute rappresenterebbe una “ misura d’urgenza “ giustificata dalla necessità di prendere in considerazione ulteriori fattori di rischio non precedentemente valutati. Così almeno sembrerebbe evincersi, secondo i Giudici, dal regolamento ministeriale impugnato che ha imposto il divieto. Peccato, però, che gli ulteriori fattori di rischio non si evincono, come correttamente richiesto invece dalla Corte di Giustizia, da dati scientifici attendibili, ma si reggono solo su supposizioni e su un approccio puramente ipotetico del rischio stesso. D’altronde sarebbe davvero irresponsabile vietare solo per 18 mesi la coltivazione di un prodotto che avrebbe le potenzialità di nuocere alla salute umana, all’ambiente o agli animali o di aggravare seriamente il rischio di un tale nocumento. Trascorsi i 18 mesi il rischio svanirebbe da sé?

La lettura della sentenza conferma, dunque, come il Consiglio di Stato non sia riuscito ad evidenziare un solo dato scientifico in grado di ricondurre un qualche effetto nocivo o un rischio concreto all’esistenza del mais OGM. Ciò è tanto vero che il Collegio per dare validità alla propria decisione, piuttosto che al proprio iter argomentativo, conclude chiamando in causa il principio di precauzione, utile per vietare tutto ciò su cui, in realtà, si sa poco o nulla: “ Del resto, l’applicazione del principio di precauzione postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre; e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali”.

Così il divieto è divieto perché è superstizione non già perché è scienza! Di evidenze empiriche che documentino rischi concreti per la salute umana e l’ambiente, invece, manco a parlarne. Non si sa quali effetti nocivi possa provocare la coltivazione del mais transgenico, quindi è pericolosa per definizione, bisogna vietarla. Un pericolo però che dura appena 18 mesi o giù di lì. Il principio di precauzione  d’altronde impone di vietare attività anche quando i danni derivanti dall’esercizio delle stesse siano poco conosciuti, edulcorazione della più appropriata affermazione, anche quando nulla si sa di scientificamente rilevante sui loro effetti.

In conclusione, la sensazione finale che il lettore trae dalla sentenza è che coltivare il mais OGM non si può e basta, forse porta male. Così è deciso!

@roccotodero

9
Feb
2015

Il rischio, questo sconosciuto—di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gianfilippo Cuneo.

È apparsa su molti giornali la pubblicità di una banca per collocare delle obbligazioni in lire turche: un bel rendimento dell’8% scritto in grande, ed un avvertenza di un rischio di cambio scritto in piccolo. Gli investitori esperti possono coprire il rischio, ma la copertura costa appunto l’8%; quindi tecnicamente tali obbligazioni non rendono niente. Anzi, dato che comunque bisogna pagare le tasse del 26% sulla cedola il rendimento reale è negativo. Chi sottoscrive tali obbligazioni fa la scommessa che il prezzo del rischio (cioè il costo della copertura) sia eccessivo rispetto al rischio vero sottostante: di fatto non compra un bond ma specula sui cambi e comunque ci perde. Ma è un qualcosa che una banca deve proporre ai risparmiatori normali? Le banche ungheresi hanno emesso mutui in franchi svizzeri, e oggi 300.000 risparmiatori “scoprono” che hanno un 20% di debiti in più! Read More

8
Feb
2015

Debiti della sanità italiana: ulteriori spunti di riflessione per i riformatori lombardi

Il decreto legge n. 35 dell’8 aprile 2013, poi convertito dalla legge n. 64 del 6 giugno 2013, ha contribuito a migliorare (pochino) quella che era la situazione disastrosa dei debiti vantati dalla Pubblica Amministrazione italiana. Ciò nonostante non siamo ancora in una situazione desiderabile, anche e soprattutto per quel che riguarda l’ambito sanitario.

La CGIA di Mestre ha diffuso i dati sui debiti riferiti al 2013 e, stando a stime molto prudenti e parziali – mancano dal conteggio i mancati pagamenti delle Asl della Toscana e della Calabria –, il debito della sanità italiana ammonterebbe ad almeno 24,4 miliardi di euro (per i dettagli si veda la voce Wikispesa “Sanità – Debiti verso i fornitori”). Una cifra pari a più di 1,5 punti di PIL. Né ci si aspettano sostanziali miglioramenti per il 2014. Il segretario della CGIA Giuseppe Bertolussi ha infatti sottolineato che se da un lato è vero che continuerà il piano di ripianamento dei debiti cominciato nel 2013, dall’altro possiamo ragionevolmente aspettarci che nel corso del 2014 si sia accumulata una nuova quota di debito sanitario; se a questo aggiungiamo i mancati pagamenti di Toscana e Calabria, il debito complessivo del 2014 non dovrebbe scostarsi di molto da quello del 2013.

Al dato nazionale, come spesso accade in ambito sanitario, fanno seguito comparazioni e classifiche a livello regionale. Nel caso specifico, la classifica del debito verso i fornitori degli enti del Servizio Sanitario Nazionale viene guidata dal Molise, con 1416€ per abitante, seguito da Lazio (1017€) e Campania (660€). In fondo troviamo la Provincia Autonoma di Bolzano con 144€ per abitante. Tra le regioni a statuto ordinario, l’Umbria è quella con il minore debito per abitante (187€), seguita dalla Lombardia (228€).

Nello stesso rapporto la CGIA di Mestre ha pubblicato i dati sui tempi medi di pagamento della Sanità alle imprese. Tra quelle a statuto ordinario, le regioni più veloci su questo fronte sono Lombardia e Marche, rispettivamente con 88 e 91 giorni (dati 2014). All’altro capo della classifica si trovano Calabria e Molise (794 e 790 giorni).

Come molti sanno, in Lombardia è in corso da mesi una discussione sulla riforma del sistema sanitario regionale. Su questo blog si è già invitato alla prudenza (si legga qui); i dati diffusi dalla CGIA offrono l’opportunità per rinnovare questo invito.

In una nota congiunta, il vice presidente e assessore alla Salute di Regione Lombardia Mario Mantovani e l’assessore all’Economia, Crescita e Semplificazione Massimo Garavaglia hanno così commentato lo studio CGIA: “Regione Lombardia si conferma una delle migliori Regioni italiane sia in termini di debito verso i fornitori, sia in termini di tempi di pagamento”. L’auspicio è che gli assessori siano davvero convinti che si tratti solo di un’ulteriore conferma. In questo modo, infatti, non si correrebbe il rischio di una riforma che vada nel senso di una diluizione della concorrenza e dell’apporto del privato in sanità né, tantomeno, nel senso di un ritorno al puro monopolio pubblico. In altre parole, non si può dimenticare che da un lato, è proprio la competizione con il privato ad aver reso gli ospedali pubblici lombardi tra i più efficienti d’Italia, e dall’altro, che è grazie alla stessa competizione se il sistema sanitario lombardo, globalmente inteso, viene considerato uno dei migliori del nostro Paese.

 

@paolobelardinel