9
Mar
2015

Le sanità italiane

Nei giorni scorsi, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) ha pubblicato un rapporto sull’andamento della spesa sanitaria nelle regioni tra il 2008 e il 2013.

Complessivamente, nel periodo 2008-2013 la spesa sanitaria è aumentata, ma è diminuita, seppur di poco, per le regioni commissariate in piano di rientro. Se si considerano solo gli ultimi anni, dal 2010 al 2013, la spesa complessiva è diminuita di circa 1 miliardo di euro, passando da 112,63 miliardi a 111,68.

Per quanto riguarda i risultati di gestione, a livello nazionale si registra un disavanzo per il 2013 di 1,1 miliardi di euro, che tuttavia dal 2008 è andato contraendosi. “Complessivamente si evidenza una contrazione del disavanzo nei vari anni, ma un consistente miglioramento dall’anno 2011 con una variazione media annua 2010-2013 a livello nazionale pari a -37% rispetto ad un -16% nel periodo 2008-2010”.

Dopo l’analisi su scala nazionale, il rapporto offre una riproduzione dei conti economici consolidati del bilancio di ogni regione, oltre a un focus sui costi regionali, consentendo di capire come ogni regione contribuisca ai diversi dati nazionali.

Innanzitutto, balza agli occhi una differenza eclatante tra nord e sud, per la verità non nuova, ovvero le voci del conto economico che riguardano la mobilità. Per quanto riguarda il saldo mobilità attiva, non si registrano cifre diverse da zero nei bilanci delle regioni del sud (fatta eccezione per il Molise). La regione con il saldo mobilità attiva più alto è la Lombardia, con 555 milioni di euro (in aumento rispetto al 2012: 457 milioni), seguita dall’Emilia-Romagna che registra un saldo di 337 milioni (ma in riduzione dal 2012: 368 milioni). Viceversa, come mostra il grafico che segue, il saldo mobilità passiva è più alto per le regioni del sud, da cui i pazienti evidentemente scappano (nel grafico non compaiono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Molise. Per queste infatti il saldo mobilità passiva è pari a zero negli anni esaminati).

Saldo mobilità passiva

 

Per quanto riguarda la composizione dei costi sanitari, non si notano differenze tali da giustificare inferenze. Il capitolo di spesa con le differenze più evidenti è quello relativo alla sanità privata. Tra le regioni a statuto ordinario, la Lombardia è prima anche in questa classifica, con circa il 30% del totale dei costi dedicato ai “servizi esterni” (appunto, la sanità privata) nel 2013, chiude la classifica l’Umbria con l’11,23%, a fronte di una media nazionale del 18%.

Questo dato potrebbe essere tuttavia fuorviante se non accompagnato dalla spesa totale in termini di risorse disponibili (quindi di Pil). La tabella che segue mostra un’istantanea per le regioni a statuto ordinario nel 2012 (anno più recente per cui sono disponibili i dati ISTAT sul PIL regionale).

Innanzitutto vediamo a quanto ammonta la spesa sanitaria totale delle regioni in termini di Pil (in ordine da quella che spende meno a quella che spende più). La terza colonna mostra il saldo mobilità attiva tratto dal rapporto Agenas. La quarta colonna mostra il dato Agenas sui costi dei servizi esterni in rapporto ai costi totali per la sanità. L’ultima colonna mostra la spesa sanitaria privata in rapporto al Pil.

tabella

Le ultime due colonne lasciano trasparire come la questione delle risorse destinate alla sanità privata sia piuttosto controversa. Certamente non ci si può limitare a sostenere che spendere di più in istituzioni pubbliche o private sia determinante a priori per la qualità del sistema. Sappiamo infatti che il tema della qualità del servizio pubblico appare legato più ad altri fattori, quali la storia istituzionale o la cultura civica, assai divergenti tra le regioni del nord e quelle del sud. E questo vale per la sanità (anche dalla tabella è chiara la grande divergenza tra nord e sud in merito alla quantità di risorse destinate alla sanità e a quanto queste siano fruttuose, ad esempio in termini di attrattività di assistenza sanitaria) come per molti altri servizi.

 

@paolobelardinel

7
Mar
2015

Addio a Guido Ghisolfi

Oggi si svolgeranno a Tortona i funerali di Guido Ghisolfi, che si è tolto la vita martedì scorso. Guido era un grande imprenditore, un uomo di intelligenza vivace, ma soprattutto un amico.

Ghisolfi era un uomo di successo. L’azienda di famiglia, la Mossi & Ghisolfi, è un gigante della chimica, di cui lui amava parlare non solo con l’affetto del figlio e l’ardore dell’imprenditore, ma anche e soprattutto con la passione di chi ne sente “suo” ogni pezzo, ogni processo, ogni lavoratore, ogni stabilimento, e più di tutto ogni ricercatore. La vera ragione per cui Gisolfi faceva, e bene, e amandolo, il suo mestiere era questa: era un’opportunità per indagare e scoprire cose nuove. Era un’occasione per circondarsi di giovani scienziati, lanciarli a fare scorribande nei campi dell’ignoto, con la curiosità dello studioso e la concretezza dell’uomo d’impresa. Read More

5
Mar
2015

#buonascuola: il mostro giuridico, il gioco delle 3 carte sui precari e la rivoluzione del merito

Gli incidenti nella predisposizione dei testi di legge stanno diventando troppo frequenti con l’attuale governo per non rappresentare un problema serio. Non abbiamo mai saputo a chi si doveva la soglia depenalizzante delle frodi fiscali, ed esploso il caso a Natale l’attuazione della delega fiscale si è fermata, dunque la delega  scadrà a fine mese e addio semplificazioni. Non abbiamo saputo a chi si doveva la bestiale idea della tassa sul contante e cioè sui depositi bancari oltre i 200 euro quotidiani. E non si è capito nulla di che cosa davvero abbia determinato la doppia decisione di rimettere nel cassetto i due decreti legge che il governo aveva annunciato martedì scorso. Se sia stato il Quirinale, silenziosamente, a far capire che la stagione dei decreti legge a raffica è finita. Se, sulla banda larga il governo abbia capito che rischiava un incidente serissimo visto che, stando al testo delle bozze che giravano tra i giornalisti, vi erano profili di violazione della libertà d’impresa tali da configurare impugnative alla Corte Europea. O ancora se, sulla scuola, il premier non fosse tardivamente soddisfatto del lavoro che pure per 10 mesi era stato fatto al ministero sul testo, con una consultazione pubblica che il governo asserisce aver mobilitato un milione e ottocentomila contatti. Se invece mancassero le coperture finanziarie, dopo tante promesse per 10 mesi. O che altro.

Fatto sta che l’opacità moltiplica l’incertezza e genera mostri giuridici. L’ultimo, oggi, è la nascita dell’inusitato “disegno di legge a tempo”. Il sottosegretario Faraone ha infatti annunciato a Repubblica che il parlamento avrà solo 40 giorni per varare la riforma della scuola (promessa a questo punto per martedì prossimo), altrimenti il testo diventerà decreto legge. Un’altra bestialata. Ma come, la riforma della Rai varata da Gubitosi abbisogna di ben 42 mesi per produrre i suoi risicati risparmi finanziari, e una cosetta come la riforma della scuola va varata in parlamento solo in 1 mese? Dopo 10 mesi dipensamenti e ripensamenti governativi? Viene solo da allargare le braccia, di fronte a tanta creativa disinvoltura istituzionale. E meno male che il premier aveva detto di inchinarsi sulla scuola alla libera dialettica parlamentare, perché “non è un dittatorello”…

Ma fermiamoci sulla scuola. Prima osservazione: è stato il governo, a ripetere per mesi e mesi che la marea di precari della scuola sarebbero stati stabilizzati per il prossimo anno scolastico, mettendoci in regola con i richiami europei (siamo l’unico paese avanzato ad aver concentrato centinaia di migliaia di precari a vario titolo nel sistema della formazione pubblica, per il vecchio vezzo della politica di accendere nuove posizioni a tempo promettendo la messa a ruolo in cambio di voti alle elezioni). Seconda osservazione: anche in questo caso, come per la banda larga, le bozze dei 39 articoli del provvedimento erano ormai pubbliche. Con tutti i particolari di come sarebbero state esaurite – ridefiniti gli organici funzionali per materia, e l’organico d’autonomia per le supplenze dal 2016 – le graduatorie a esaurimento, quelle d’istituto, la riserva per i vincitori del concorso 2012, come pescare dalle graduatorie per gli insegnanti di sostegno , per provincia e con quali limiti di scelta di ciascuno per il distretto. E poi la riforma degli stipendi, su tre fasce stipendiali e con una valutazione triennale. E poi le discusse norme d’incentivo fiscale, il 5 per mille a tutte le scuole, e il voucher di libera scelta per chi sceglie le paritarie. Quelle sui dirigenti scolastici che dovrebbero diventare leader educativi con strumenti e personale adeguati per il miglioramento dell’offerta formativa, quelle sui nuovi organi collegiali, quelle sull’alternanza scuola-lavoro nell’ultimo triennio delle superiori.

Qualche non piccolo indizio che siano le risorse a mancare, c’è eccome. Sarà un caso ma nelle ultime due settimane il numero dei precari da stabilizzare per il 2015-16, dispositivo europeo che giustamente ce li contesta alla mano, da 150mila scendeva secondo indiscrezioni governative di giorno in giorno, per fermarsi a quota 120-110-100mila e ancor meno, escludendo insomma quelli di seconda e terza fascia. Ammettiamolo: dopo decenni in cui la politica ha colpevolmente e cinicamente creato bizzeffe di precari della scuola, illuderli per mesi non è stata una bella trovata.

Continuo a pensare che la stabilizzazione di tutti i precari, com’era prevista nel testo, non distingua sufficientemente il merito reale accumulato perché “dimostrato”, invece che maturato per anzianità. Di conseguenza, il concorso promesso nel 2015 si potrà tenere pure, ma con la stabilizzazione di massa la messa a ruolo iniziale dei vincitori di concorso non comincerà prima del 2020: dunque esiste il forte rischio di creare altri idonei in attesa…

Detto ciò, sta al parlamento pronunciarsi in maniera chiara su alcuni punti che possono essere innovativi sul serio. A cominciare dal merito, dalla valutazione e dal peso che questi due fattori devono avere nelle retribuzioni. Le bozze prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi sarà determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non riuscissero a rientrare almeno nella terza fascia, rischierebbero un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, si potrebbe arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Chi qui scrive pensa che la valutazione, per essere efficace, deve unire chi dirige gli istituti a valutatori terzi. Ma in ogni caso anche ciò che proponeva il governo nelle bozze sarebbe una rivoluzione. Speriamo che il parlamento non ingrani la marcia indietro assecondando la contrarietà dei sindacati, visto che va data per scontata la sensibilità “interessata” di ogni forza politica, a questo punto, a non deludere i precari.

Ricordatevi che già oggi, nella scuola, ai dirigenti spetta valutare l’eventuale incapacità e inidoneità dei docenti. Gianni Maddalon, preside reggente dell’istituto superiore Einaudi-Scarpa di Montebelluna nel trevigiano, è finito sui giornali perché è esattamente ciò che ha fatto, nei confronti di un docente che è stato licenziato. Solo che di Maddalon ce ne sono pochissimi, nella scuola italiana attuale. E ieri, a Radio24, ha detto che nella sua esperienza un 3% dei docenti meriterebbe giudizi simili. Pensateci: su un milione e oltre di dipendenti del MIUR, sarebbero 30mila. Ecco perché serve una svolta vera, sul merito e retribuzioni. Per preparare meglio i giovani i voti non bisogna darli solo a loro, ma innanzitutto a chi insegna.

2
Mar
2015

La fibra ottica verso l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Si sa, l’Italia digitale non brilla per velocità di trasmissione dei dati. Chi scrive non ha elementi per valutare, ma vi sono studi che dicono che i nostri megabit viaggiano più lenti della media europea di 40 punti percentuali, con una situazione tuttavia fortemente differenziata a livello geografico e urbanistico, come capita invero per molte realtà.

Quale tipo di connessione, fino a dove e in che tempi portarla può essere non soltanto una questione di mercato. Una volta riconosciuto l’accesso universale, è verosimile che i governi mettano l’occhio sull’ammodernamento della rete infrastrutturale. Le mire del governo sulla posa della banda ultralarga non impressionano tanto per il se, ma per il come. Read More

1
Mar
2015

Banda larga, non banda Bassotti: il governo ci risparmi un piano Rovati bis espropriatore

Ve lo ricordate il piano Rovati, dell’autunno 2006? C’è da sperare che martedì, al Consiglio dei ministri in cui Renzi dovrà presentare un piano per la cosiddetta “banda larga”, eviti il bis di quel pasticcio prodiano. Intanto, ieri il governo ha già dovuto smentire precipitosamente il testo che le agenzie avevano battuto anticipandone i contenuti. E per fortuna, perché era un “piano Rovati al cubo”.

Cerchiamo di capire – in maniera non tecnica, perché il tema è vastissimo e le aziende interessate hanno debolezze e e punti di forza molto diversi – di che cosa si tratta.

Premessa: l’Italia è in fondo alle graduatorie europee per utilizzo di Internet. Troppi italiani che non lo usano, bassa percentuale di case e imprese collegate con reti capaci di elevato download e uplodad, basso utilizzo dell’e-commerce, PA incapace di digitalizzarsi sul serio perché significa rivelare il proprio overstaffing e troppi costi impropri. Da molti anni a questa parte, la questione si centra su una domanda. Poiché al fine di potenziare l’offerta digitale serve un’architettura di infrastrutture fisse e mobili di trasmissione che necessita di alti investimenti – da 2 a 3 punti di Pil a seconda dell’ampiezza di banda da garantire al più dell’Italia, e in che arco tempore – è possibile immaginare la condivisione dei “pezzi” di rete e torri di trasmissione mobile che finora appartengono a ciascun singolo operatore, di tlc e televisivo?

Ogni paese avanzato ha realizzato formule diverse, a seconda delle modalità di sviluppo dell’offerta tv prima e telefonica fissa e mobile poi. Noi non abbiamo la Tv via cavo e non l’avremo mai, a differenza di USA e altri paesi occidentali, perché la scelta andava fatta 40 anni fa ma la RAI di Stato non lo permise. Da noi, ogni azienda di tlc e tv ha mantenuto o realizzato, negli ultimi 20 anni di concorrenza, il “suo” pezzo di rete fissa e mobile. E dal 1997, dalla privatizzazione di Telecom Italia ex Stet-Sip, la mancata soluzione al problema di un’architettura di rete condivisa si sintetizza in due problemi, uno privato e uno pubblico: i debiti di Telecom, la difesa della RAI ( e, dietro di questa, la ripresa massiccia di tornare allo Stato-guida, non regolatore ma gestore).

Telecom Italia ha ereditato dal monopolista pubblico la rete su doppino di rame che arriva nel più delle case italiane. Sul rame, per quanto siano avanzate nei decenni le tecnologie che hanno consentito miracoli di compressione del segnale, non può passare la banca ultra-larga che ha bisogno della fibra ottica. Quella stesa in molte città italiane da Fastweb, che nacque dal cablaggio pubblico a Milano prima di divenire a propria volta privata e, da qualche anno, a controllo svizzero. La multinazionale Vodafone per anni erose il mercato italiano di Telecom Italia, in attesa di capire che cosa la politica e il regolatore Agcom decidessero sulla convergenza della rete. Per poi decidere di investire soprattutto altrove e non in Italia, visto che gli anni passavano e tutto estiva bloccato.

Telecom Italia, mal privatizzata all’inizio con il nocciolino di controllo regalato agli Agnelli e poi sommersa da debiti dalla scalata del 1999 da 100 miliardi di cui il 70% erano in carico a Telecom stessa, ha da sempre il suo margine (TIM, nel mobile, a parte) appeso alla rete in rame. Negli anni, avrebbe dovuto capire che la transizione alla fibra era necessaria. Ma il debito ingentissimo imponeva di “spremere” il rame. Nella gestione Tronchetti, seguita a quella Colaninno, l’azienda lo comprese. Ma quando sottoscrisse una grande alleanza con Murdoch sui contenuti integrati fisso-mobile, e con il messicano Slim per dare più forza mondiale al gruppo, ecco che venne il piano Rovati che puntava a bloccare il progetto e a espropriare la rete fissa.

L’Italia perse l’occasione di una grande alleanza intercontinentale sinergica su servizi e contenuti. Dopo Tronchetti è venuta la gestione Bernabè con le banche italiane in Telco e l’alleanza con gli spagnoli di Telefonica. Poi la reazione della politica all’ascesa spagnola visto che l’azienda andava male e Telco non investiva, fino all’attuale public company guidata da Patuano. Ma i debiti restano due volte e mezzo sul fatturato quelli della Stet-Sip pubblica, all’estero Telecom Italia è rimasta solo con la presenza in Brasile, mentre sul mercato domestico questi anni sono stati magri per tutti. Ergo Telecom Italia continua ad annuciare mega piani di investimento sulla rete – l’ultimo da oltre 12 miliardi – ma serve solo a spingere la palla avanti, per proseguire a spremere il rame. La fibra non serve, non c’è domanda, è il mantra.

Da 10 anni, la politica italiana è stata ricorrentemente presa dalla tentazione di rimettere l’intera rete nelle mani pubbliche, attraverso Cdp e con qualche miliardo a Telecom: la sua rete è valutata 15 miliadi nell’attico patrimoniale, ma 11 sono di avviamento già ammortato Senza quei 15 miliardi di patrimonio, però, Telecom crolla sotto i debiti rispetto al residuo patrimonio.

L’alternativa c’è sempre stata: costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi (compresa la Rai) incentivando fiscalmente i conferimenti in una società comune (a controllo “neutro” o no: è una soluzione regolatori a seconda di che cosa si vuole ottenere), e aggiungendo agli incentivi fiscali tariffe di terminazione reciproca sui servizi incrociati che “spingessero” la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati.

Troppo complicato, per la politica. E poi di mezzo c’è la Rai, Mediaset, Sky di Murdoch: figuriamoci. Nel frattempo, la FCC , l’autorità delle comunicazioni statunitense, ha assunto una discussa decione a maggioranza, per la quale d’ora in poi dovrà valere la net neutrality. Cioè nessun operatore che offre servizi di rete o contenuti deve operare, attraverso prezzi ai concorrenti per passare sulla propria rete e tariffe ai clienti finali, in modo da “avvantaggiarsi” nella fidelizzazione. Una scelta pesante, visto che imporrà vincoli alle strategie d’impresa di tutti i giganti privati, delle tlc e di Internet come Netflix e Google. Ma comunque un’altra galassia, rispetto al ritardo italiano.

In gioco c’è la possibilità per milioni di italiani di avere offerte convergenti a buon mercato di internet e tv, impossibili con qualche kilobites al secondo. Per decine di migliaia di imprese, avere una rete a disposizione per rivoluzionare la propria intera catena di clienti e fornitori elevando la produtttività. Per i produttori di contenuti, la possibilità di non restare “prigionieri” di intese esclusive con grandi operatori di rete.

Fino alla settimana scorsa, la politica ha sperato che la Telecom di Patuano accettasse di salire in Metroweb, la società erede di molta fibra il cui timone è nelle mani di Cdp e F2I. Ma Telecom, per difendere il proprio rame, senza il controllo di Metroweb dice no.

Ecco lo sfondo della decisione che il governo prenderà martedì. Le alternative sono due. Dalle bozze emerse ieri ( e smentite), siamo alla riproposizione dello Stato che decide lui che cosa devono fare i privati. A cominciare da Telecom, di cui si prescriverebbe lo spegnimento di metà della rete in rame fino alle case già a partire dal 2020, e completa al 2030. In più, un articolo prevederebbe che sia il governo a decidere quanto deve investire nei prossimi 15 anni ogni player privato. Uno schema sovietico in salsa IRI.

La seconda alternativa è quella di un paziente confronto tra governo, Agcom, tutte le telefoniche e tutte le società televisive e le maggiori multinazionali internet operanti in Italia, per fissare insieme una rete di incentivi fiscali e tariffari volti a realizzare entro alcuni anni un la convergenza delle reti a investimenti crescenti. Vedremo quale sarà, la scelta di Renzi: se un salto verso il futuro, o un ritorno al passato. Che comporterebbe sanguinose impugnative di tutte le aziende private, e il segnale a tutto il mondo che vogliamo assomigliare al Venezuela.

Può essere pure che Renzi abbia giocato al solito modo in cui ci ha abituati: vedi la norma sulla soglia depenalizzante le frodi fiscali, o la tassa sul contante, entrambe annunciate e poi sparite, elaborate non si sa da chi ma in ogni caso potenti “segnali” al mercato e ai suoi operatori. Beh, se si tratta di questo, è un pessimo modo di governare. Un governo rotea mazze nell’aria per far paura alle imprese e indurle a miti consigli solo se è autoritario. E poiché non credo che il governo Renzi lo sia, vuol dire allora che ha pessimi e scoordinati estensori dei suoi testi nella ristretta cerchia di palazzo Chigi. E peggio mi sento.

 

27
Feb
2015

Concorrenza: c’è ancora tanta strada da fare. Non solo per la legge annuale

La strada della legge annuale della concorrenza è appena iniziata: per quanto autorevole nella fonte, il percorso che la porterà a diventare un provvedimento vincolante è ancora lungo. E incerto.
L’attenzione e l’analisi che l’Istituto Bruno Leoni gli ha dedicato tengono conto, naturalmente, del fatto che il testo potrà perdersi per i rami parlamentari, uscirne diverso, magari stravolto. Read More

27
Feb
2015

No, il whistleblower liberale non è il delatore anonimo invocato dal fisco italiano

Poiché le cronache italiane non risparmiano episodi di corruzione anche nell’amministrazione tributaria, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha ieri scritto a tutti i suoi dipendenti, annunciando un’iniziativa che farà discutere. Verrà aperta una casella elettronica criptata, attraverso la quale i dipendenti potranno segnalare attività illegali all’interno del proprio ambiente lavorativo, venendo comunque tutelato con l’anonimato contro ritorsioni. Adottiamo anche noi l’istituto anglosassone del whistleblowing, ha detto la Orlandi, “con orgoglio e primi nella pubblica amministrazione italiana”.

E’ il caso di chiarire. Per evitare che si compia il bis del grave infortunio avvenuto nel 1996, quando l’allora ministro alle Finanze Vincenzo Visco adottò una prassi analoga – l’idea era stata di Franco Reviglio- istituendo il numero telefonico 117 aperto a tutti i contribuenti, invitandoli alla segnalazione di casi sospetti di evasione fiscale. In 3 giorni arrivarono 3500 telefonate, e il quarto giorno il ministro dovette diramare una circolare nella quale si chiariva che le segnalazioni anonime erano ammesse sì, ma su tale base non si potevano istruire accertamenti, solo valutare in presenza di precisi documenti alla mano se compierli o meno. Da allora il 117 è rimasto ma, come si desume dai rapporti annuali della Guardia di Finanza, dalle circa 50mila telefonate annuali in arrivo non partono certo chissà quali verifiche.

Qual è il punto essenziale da chiarire? Essenzialmente, uno. Il whistleblowing anglosassone – presente in ordinamenti come quello degli Usa, Regno Unito e Australia – incoraggia e tutela segnalazioni, all’interno della vita delle imprese, nelle banche e nella finanza prima che di natura fiscale, in modo da porre al riparo da ingiuste ritorsioni chi sente il dovere di esplicitarle. Ma assicura in una prima fase la confidenzialità della segnalazione, non l’anonimato. Pone tutele specifiche a ritorsioni di mobbing salariale, di mansione o promozione. E giunge poi a prevedere una premialità specifica all’individuo che ha segnalato gli illeciti risultati comprovati. Come si capisce al volo, premiare pubblicamente è l’esatto contrario dell’anonimato. Il whistleblower alla lettera suona un fischietto ben udibile, come quello dell’arbitro in campo, non fa una “soffiata” nascondendo la mano dietro la bocca. E’ una sentinella civica, non un delatore che cela la sua identità.

E’ una differenza essenziale. Se riprendiamo in mano i princìpi del nostro ordinamento – cito la sentenza 29/77 della Corte Costituzionale – <<è pacifico che nell’attuale sistema non incomba sul cittadino un generale dovere di denunciare qualsiasi reato del quale venga a conoscenza: tolti i casi in cui la denuncia è obbligatoria ed è punita la sua omissione (art. 364 cod. pen.), ogni persona che abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio, “può”, non “deve”, farne denuncia (art. 7 cod. proc. pen.). Se, avvalendosi di questa facoltà, presenti la denuncia per iscritto, deve firmarla (art. 8, comma terzo, cod. proc. pen.). L’inosservanza di tale prescrizione comporta l’applicazione dell’art. 141, ma non configura, di per sé, un reato a carico dell’autore della denuncia anonima, salvo che questi non sia responsabile, per la falsità della denuncia medesima, di simulazione di reato (art. 367 cod. pen.), di calunnia (art. 368 cod. pen.) o di autocalunnia (art. 369 cod. pen.). La facoltà di denuncia concreta, dunque, una funzione socialmente utile; e nel suo palese e responsabile esercizio il denunciante si rende portatore ed interprete dell’interesse della collettività acché i reati non restino impuniti. Ma non può, allo stato della legislazione, configurarsi per questo nei suoi confronti un inderogabile dovere di solidarietà sociale, del quale sia richiesto in ogni caso l’adempimento>>.

In sintesi, il nostro ordinamento è contrario alla delazione, e infatti l’articolo 333 del codice di procedura penale prescrive che la denuncia anonima non costituisca notizia di reato, può solo essere valutata dalla procura mediante verifiche non invasive. Per aver dimenticato questo basilare principio, nel 1996 l’invito alla delazione fiscale componendo il 117 si risolse in un grave incidente istituzionale.

E’ un bene dunque che l’amministrazione pubblica si dia procedure di tutela di chi, al suo interno, segnalasse illeciti – per altro sarebbe, come dipendente pubblico, tenuto a farlo in maniera più stringente di un privato cittadino, secondo l’articolo 54 del testo unico sul pubblico impiego – e che in quanto tale va posto al riparo da indebite ritorsioni esercitate da colleghi e dirigenti. Ma dev’essere ben chiara una cosa: la delazione anonima è ciò di cui si nutriva l’Inquisizione, in un ordinamento moderno è inammissibile. Dopo il rafforzamento del whistleblowing nella disciplina societaria e bancaria americana, con il Sarbanes-Oxley ACT del 2009 successivo ai grandi crac del 2008, anche alcune grandi imprese italiane hanno iniziato ad adottare procedure analoghe nei propri codici etici e statuti. Sicuramente incentivare e tutelare segnalazioni spontaneee di illeciti e prassi scorrette fa parte della necessaria costruzione di una cultura di massa più proclive alla legalità, e di “sanzioni reputazionali” a chi la viola, prima che penali e tributarie. Ma tutto ciò significa costruire una cittadinanza attiva che si esercita alla luce, non coltivare l’insinuazione mascherata che realizza vendette e invidie.

Purtroppo, proprio in materia fiscale lo Stato ha la pessima abitudine di mettere i contribuenti gli uni contro gli altri. Lavoratori dipendenti cotnro autonomi. Percettori di reddito da lavoro contro quelli da capitale. Lavoratori contro pensionati. E via proseguendo. Eviti ora di confondere la tutela di chi collabora con la giustizia con la delazione di massa. Perché quest’ultima è da sempre il sistema con cui autocrazie politiche e religiose hanno allevato sudditi tremebondi, non cittadini consapevoli.

27
Feb
2015

Partecipata canaglia—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Ci sono i cosiddetti stati canaglia, quegli Stati considerati una minaccia per la pace mondiale. E ci sono le partecipate canaglia, una minaccia alla legalità nel nostro paese.
Il tema dell’infiltrazione in gare ed appalti della criminalità organizzata è di grande attualità. Ma non è un argomento solo del presente. Credo però sia indispensabile cominciare a lavorare con la memoria e con i fatti.

Per non dimenticare. Per non dimenticare, ad esempio, che dalla seconda metà degli anni ’90 fino quasi alla prima decade del 2000 in molte città del nord, in Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, ecc., grandi società partecipate pubbliche hanno disinvoltamente affidato in appalto la gestione di servizi alla mafia.

Sì, alla mafia.

Per non dimenticare, un nome per tutti: Italia 90. Che dire, ricordando gli scandali di quei mondiali in quanto a mazzette, appalti truccati e la peggior politica coinvolta, già il nome fu profetico. Nasceva come Truddaio S.a.s con sede a Palermo, alla Via dello Spasimo.

L’occasione locale è un contratto di appalto per la gestione dei rifiuti solidi urbani/ingombranti umido/differenziata, ecc.ecc. con servizio di raccolta e trasporto, della durata di 5 anni per alcuni comuni del circondario della provincia per il valore di svariati milioni di euro e affidati con procedura ristretta. L’appalto, come previsto nel contratto stesso, viene interamente gestito coordinato e controllato anche nelle modalità di erogazione del servizio e di pagamento dalla Grande Partecipata del capoluogo.

Nessuna verifica, nessun controllo sulla società affidataria? Nessun dubbio o nessun sospetto?
In fondo, basta navigare un po’, e neppure tanto.

Italia 90 S.r.l. era una società nelle mani di Luigi Abbate detto Ginu u’ mitra, vista la sua abilità con le armi, uomo del mandamento di Palermo Porta Nuova, la figlia Maria, Susanna Ingargiola, Claudio Demma, tutti affiliati con pedigree completo, alcuni di loro finiti poi in carcere all’Ucciardone, con tutti i beni sequestrati.

La società, peraltro, collezionava vertenze di lavoro perché, ovviamente, ca va san dire, non pagava i dipendenti e tutti insieme appassionatamente, amministratori palermitani e sindacati locali a ranghi completi, venivano ricevuti dai prefetti per trovare accordi sulle spettanze non pagate: insomma, il meglio della concertazione.

I nostri comuni riempiono i loro siti di buone intenzioni antimafia, mille protocolli, adesioni a manifestazioni del variegato associazionismo contro le mafie.

Ma è possibile che nessuno si sia accorto dell’“anomalo” affidatario dell’appalto?
Già, le società partecipate, ricettacolo di clientele politiche bipartisan: conviene a tutti tacere.

Vale sempre l’adagio della casta partitica “oggi a me domani a te”. La capacità di spesa, totalmente fuori controllo di questi apparati gestiti secondo le logiche della spartizione politica, fa gola a tutti e, ovviamente, non può non far gola alla criminalità organizzata.

In quegli stessi anni, in una nota società privata multinazionale straniera nel ramo trasporti “saltava” l’intero board italiano per un mero sospetto di infiltrazione della criminalità organizzata in una delle tante società appaltatrici; venivano licenziati e sospesi dipendenti e manager con grande accortezza e prudenza sebbene il caso fu chiuso, archiviato, senza alcuna responsabilità individuata né in capo ai singoli né in capo alla società. Eccesso di zelo? No, serietà.

E dove sono oggi gli amministratori di quelle società partecipate? Hanno dovuto rendere conto di questo? Qualcuno ha indagato o semplicemente verificato quantomeno le ragioni di quelle scelte?

La domanda è retorica. E a volte è purtroppo solo retorica anche l’antimafia. Come la retorica dello Stato che ci protegge: sicuramente dall’infiltrazione nell’economia della criminalità non sempre.