23
Feb
2015

Precari e merito: i due criteri su cui preoccuparsi della sbandierata “buona scuola”

Tra pochi giorni sapremo in concreto qual è il punto di caduta della “buona scuola”, la riforma alla quale giustamente Matteo Renzi, il ministro Giannini e l’intero governo annettono grande importanza. E’ persino inutile dire che hanno ragione, visto che la formazione del capitale umano è una componente essenziale del recupero del gap nazionale che abbiamo accumulato in termini di produttività e competitività. Le graduatorie PISA sull’arretratezza della preparazione data agli studenti italiani in materie essenziali, a cominciare da quelle matematico-scientifiche fino alla comprensione elemntare ed elaborazione di testi, è lì da anni a dimostrarlo.

MA degli annunci ormai è meglio on fidarsi. Un giudizio sarà possibile, dopo tanti mesi di preparazione, solo a testi presentati e letti. Il governo sottolinea i fondi mobilitati, un miliardo quest’anno e tre a cominciare dal 2016, il nuovo ruolo dei dirigenti scolastici per dare più vigore all’autonomia di ogni istituto, l’introduzione del tutor e del mentor: vedere per credere. Ma due criteri di fondo, dice il governo,  dovrebbero rappresentare la svolta: il merito e la valutazione. Fermiamoci allora a questo, ferrati dalla lezione – anche sotto questo governo – che il diavolo si nasconde nei dettagli.

Perché merito e valutazione sono essenziali? Semplice, purtroppo. Perché al di là delle novità nei programmi e materie, del 5 per mille promesso anche per le scuole, del diritto allo studio potenziato (che però è di competenza delle Regioni…) e di tanti altre novità che giudicheremo, proprio il merito e la valutazione sono due crinali attraverso i quali giudicare l’intera riforma. Per capire una cosa: se per la prima volta da decenni si guarda alla scuola e al sistema formativo adottando il punto di vista prioritario delle necessità di chi la frequenta e delle loro famiglie, o se invece si continua a privilegiare l’ottica a cui la cattiva Italia pubblica ci ha abituato da decenni, e cioè che si interviene sulla scuola innanzitutto pensando a chi ci lavora dentro, insegnanti e personale tecnico ATA.

Il governo innalza fieramente la bandiera “mai più precari nella scuola”. In effetti, siamo tanto per cambiare inadempienti con l’Europa, che da anni minaccia sanzioni visto che abbiamo accumulato nella scuola, per ragioni clientelari, 180mila precari a tempo in diverse forme. Uno dei pilastri della riforma è la piena assunzione nei ruoli dei 146 mila precari delle cosiddette graduatorie a esaurimento. Il governo dice che 120 mila di loro verranno messi a ruolo dal prossimo settembre. Vedremo come davvero sarà disciplinato questo delicato tema. Innumerevoli studi – per ultimo quello pubblicato la scorsa settimana dalla Fondazione Agnelli – comprovano che quei 146mila o 120 mila che siano rappresentano un problema. Sono geograficamente squilibrati: troppi al Sud, che per le proiezioni sulla popolazione scolastica dovrebbe scendere dal 40% dell’organico attuale al 37% nel 2025; e pochi al Nord, che invece dovrebbe salire dal 40 al 42%. Sono troppi in materie per cui i posti in organico non sono previsti tanto numerosi, e pochi nelle materie in cui gli organici sono carenti, come matematica e scienze. E sono inoltre anche composti da chi per anni non ha insegnato, o non ha mai insegnato per niente. Mentre chi ha seguito intanto il percorso abilitante per prove spendendo di tasca propria – i 10 mila del cosiddetto Tfa – non sarebbero premiati. E’ evidente che una sanatoria generale risponde solo al problema (grave) di ordine sociale di questa vasta fascia di lavoratori pubblici. Ma la qualità della scuola è un altro paio di maniche, chiede criteri selettivi.

Quanto alla valutazione, la proposta originaria del governo messa in consultazione ipotizzava un salario di merito valutato a livello d’istituto. Su questo i sindacati hanno innalzato le barricate. Il governo continua a dire che il merito avrà un ruolo essenziale sia nella valutazione sia nella retribuzione. Ma quanto è emerso sino ad oggi fa pensare che purtroppo si potrebbe scendere di parecchio sul totale del compenso, estendendo ultyeriormente la sua fascia di attribuzione. I sindacati chiedono voce in capitolo: perché di mezzo naturalmente c’è il blocco pluriennale dei contratti pubblici, e l’egualitarismo che il mero criterio delll’anzianità ha sempre premiato. Già si era partiti da un salario di merito aggiuntivo che doveva toccare comunque almeno a due terzi dei docenti di ogni istituto – un criterio pessimo, una valutazione seria si fa per punti e non per quote. Il rischio è di approdare a metodi ancora più indigeribili.

Uno dei pilastri di una “buona scuola” è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, come abbiamo più volte ricordato, e per essere credibile andrebbe affidata per la maggior parte a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. Le anticipazioni del decreto in arrivo nulla dicono sinora in concreto del metodo con cui si procederà alla valutazione, tranne ribadire che dovrebbe spettare ai singoli istituti ( e già non ci siamo).

Vedremo quanto la vincerà l’anzianità, e quanto l’assunzione di massa indistinta ancora una volta si spiegherà soprattutto con criteri di premio elettorale futuro. Sarebbe una grande occasione persa. Perché prima del promesso prossimo concorso nazionale, con una popolazione studentesca che dal 2014 al 2024 per demografia scende da 9,8 a 9,7 milioni, passeranno vent’anni. Ma, naturalmente, il governo già sin d’ora nelle sue anticipazioni lo promette per il 2016 o 2017. Tanto, c’è chi paga…

18
Feb
2015

Il prezzo della lettura

Hanno ragione i sostenitori della legge Levi che il prezzo medio dei libri in Italia è calato. Non sappiamo se per effetto di questa legge che limita gli sconti sul prezzo di copertina o se per altre cause. Non potremo mai saperlo, ma solo ipotizzarlo insieme ad altre, plausibili ragioni. Quel che però sappiamo, è che si legge meno. Dall’anno di entrata in vigore della legge che, limitando le possibilità di sconto dei libri, doveva rendere un servizio alla lettura, i lettori in Italia sono diminuiti dal 49 al 43%, e gli acquirenti dal 44 al 37% (AIE, Rapporto sullo stato dell’editoria 2014).

Si legge meno, quindi, anche qualora i prezzi fossero davvero diminuiti, e anche qualora questo effetto fosse dovuto alla limitazione agli sconti. L’obiettivo della legge, ossia «contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura» (art. 1), non è stato quindi, come era prevedibile, raggiunto.

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17
Feb
2015

Grandi stazioni e carrelli vuoti—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

“Eh! Chi siete. Cosa fate. Cosa portate. Sì, ma quanti siete. Un fiorino”.  Questo è il trascritto della celebre scena del film “Non ci resta che piangere” con Roberto Benigni e Massimo Troisi che si trovano a dover varcare una frontiera nell’Italia rinascimentale. Ma è la drammatica immagine che a più riprese, cinquecento anni dopo, sembra riproporre l’amministrazione comunale di Genova ogni qualvolta un operatore della Grande distribuzione organizzata cerchi di fare l’ingresso nel mercato della Superba. Read More

16
Feb
2015

I servizi pubblici locali nella bozza di legge sulla concorrenza—di Andrea Varsori

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Varsori.

La legge annuale sulla concorrenza e il mercato è un classico esempio di come lo Stato italiano riesce a obbligarsi a delle scadenze che, regolarmente, non rispetta. L’avverbio “regolarmente” non è casuale: è dal 2009, infatti, che il Parlamento e il Governo sarebbero tenuti a recepire, ogni anno, le indicazioni dell’Autorità per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) in materia di liberalizzazioni. L’appello, però, è stato finora disatteso. Read More

15
Feb
2015

Expo: nessun bicchier d’acqua è gratis

È di pochi giorni fa la notizia che nei padiglioni dell’Expo di Milano, che aprirà i battenti fra pochi mesi, sarà fornita acqua “gratuita” per tutta la durata dell’evento grazie alle case dell’acqua, cioè impianti che distribuiscono acqua proveniente dall’acquedotto tramite appositi erogatori, con in aggiunta la possibilità di refrigerarla o renderla frizzante. In pratica, fontanelle 2.0 che distribuiscono acqua gratuita con consumi di plastica ed emissioni di Co2 ridotte a zero. Read More

13
Feb
2015

Tsipras ha amici negli USA, pesano sulla Merkel e c’è qualcosa da imparare

Sono i giorni della verità, per sciogliere il dilemma della Grecia e delle richiesta avanzate da neopremier Tsipras. Ma ieri sera il barometro segnava decisamente “speranza”. Il rischio di un’esplosione della crisi con esito frontale non è disinnescato. Ma al primo round di incontri con l’Eurogruppo prima e il Consiglio europeo poi, il ministro dell’economia Varoufakis e il premier Tsipras sono sopravvissuti bene, senza trovarsi davanti un secco “no”. Del resto, il governo di Syriza ha modificato non di poco le sue richieste, rispetto alle promesse fatte all’elettorato ellenico. Ma si sta rivelando anche molto abile nel giocare sul tavolo geostrategico, prima che a quello delle tecnicalità dell’alleggerimento del proprio debito pubblico, e della concessione di qualche soldino in più per finanziare i propri costosissimi programmi di spesa pubblica. Se la signora Merkel è l’Europa, come di fatto è, Atene approfitta che la cancelliera tedesca sia in questi giorni l’antemurale occidentale a Putin sulla crisi ucraina. Facendo leva su ciò, Atene si è messa in condizione di portare a casa più concessioni di quanto sarebbe stato possibile, se Ue e NATO non fossero col fiato sospeso per i combattimenti tra Kiev e filorussi. In questo modo il piccolo Davide greco potrebbe riuscire a sfilare dalla tasca del Golia tedesco molto più del previsto. Una lezioncina di spregiudicatezza non male, per gli altri eurodeboli a cominciare dall’Italia.

Tsipras sta coi russi? E’ quel che il governo Syriza ha avuto l’abilità di far credere. Sono bastate un paio di dichiarazioni ufficiali di membri di secondo piano del governo russo, sulla disponibilità di Mosca a dare aiuti alla Grecia. E un colloquio del ministro degli Esteri greco col parigrado russo Lavrov, proco prima del vertice di Minsk in cui la Merkel (con il presidente Hollande come comparsa al fianco) ha dovuto fare l’impossibile perché Putin e Poroshenko accettassero comunemente il cessate il fuoco. In più, Tsipras ha fatto uscire l’indiscrezione anche di un suo colloquio con il premier della Cina. Con gli Stati Uniti ufficialmente durissimi con Putin sulla crisi ucraina – sia pur distinguendo tra la durezza massima dei vertici militari e quella meno oltranzista di Obama, che punta a concentrare gli sforzi militari contro Isis – minacciare di fatto che un paese essenziale del fronte sudeuropeo della NATO affidi la sua sopravvivenza economica e finanziaria ai russi perché l’Unione europea nega aiuti, fa letteralmente imbestialire gli americani. In caso di un no europeo alla Grecia, oggi come oggi Varoufakis scommette molto di più su un aiuto americano diretto ad Atene che su uno russo.

Obama sta con Tsipras? A Washington, con la concessione a Obama dei poteri di guerra contro Isis, la caduta di fatto dello Yemen in mani jihadiste e l’Arabia Saudita con un nuovo sovrano forse più accomodante sul prezzo del petrolio, qualche decina di miliardi di euro di potenziamento degli aiuti per far costare ancor meno il debito greco sembrano letteralmente un’inezia. Non si capacitano di come Ue e BCE si siano messe da sole in questo cul de sac. Che potrebbe, con l’uscita della Grecia dall’euro e di fatto un suo forte raffreddamento nella NATO, segnare di fatto uno sfaldamento occidentale nel Mediterraneo orientale, visto che la Turchia di Erdogan fa capo a sé, contro ISIS non collabora e sta anzi trattando per un nuovo gasdotto con i russi di Gazprom. Non troverete una sola dichiarazione americana a favore dell’abbattimento del debito greco. Ma ne trovate cento a favore del fatto che la UE, cioè la Merkel, non devono fare scherzi e devono trovare un accordo con Tsipras. Mica poco, dal punto di vista di Atene.

Ma la crisi Ucraina non è risolta? No, inutile illudersi. Il cessate il fuoco e i 13 punti tecnici della commissione mista disegnano un quadro pieno di irti problemi irrisolti, di difficilissima attuazione. Nessuno può oggi scommettere che quel fragilissimo armistizio che dovrebbe iniziare domenica abbia in sé sufficiente fiducia reciproca per tradursi in un accordo stabile. Che veda nei mesi arretrare le forze militari, smilitarizzare confini che per Kiev rappresentano comunque una sconfitta, per dar vita a un’autonomia amplissima del Donbass e delle aree oggi occupate dai filorussi (e da unità russe, la cui presenza è comprovata dai caduti, malgrado Mosca neghi le testimonianze dei familiari russi ne sono la prova). Ciò significa: guai ancora seri per gli ucraini, ma possibilità in più per i greci.

Che compromesso può uscirne? E’ stato chiaro sin dall’inizio, che Tsipras avrebbe mandato in naftalina il dimezzamento dell’80% del debito detenuto da BCE ed euromembri, e la sbandierata conferenza europea per l’abbattimento generale del debito. L’accordo si può trovare su un ulteriore potenziamento europeo degli aiuti che sgravi per un’altra ventina di miliardi l’onere del debito greco nei prossimi anni, e che continui a reggere in piedi le azzoppate banche greche attraverso la linea di liquidità straordinaria ELA della BCE. Il ruolo del FMI nella Trojika può venir meno senza particolari problemi, sostituito dall’OCSE. E così Tsipras direbbe al suo elettorato di aver vinto, se anche aggiungesse un paio di punti di PIL di spesa pubblica consentita in più per fare assistenzialismo di Stato. Olandesi e finlandesi storceranno il muso, ma di fatto oggi la Merkel molto difficilmente può fare uno sgarro mortale alla NATO e a Washington.

La Merkel umiliata? Al contrario, già ieri il New York Times indicava la cancelliera tedesca come il vero statista occidentale capace di mettere Putin a un tavolo di accordi, e di non spezzare l’Europa. Usando la pazienza e la mediazione, e non solo la durezza. Vedremo se finirà così. L’imprevisto è sempre in agguato. La cosa certa è che, a oggi, Tsipras e Varoufakis hanno mostrato una affilata spregiudicatezza del tutto ignota ai governi italiani, spagnoli e portoghesi. Del resto, è la collocazione geostrategica a favorirli. Ogni tot secoli, funziona così sin dai tempi in cui fermarono l’orda persiana a Maratona e Salamina.

13
Feb
2015

I 5 paradossi dei vigili urbani che scioperano e bloccano il traffico

Alcune migliaia di vigili urbani, romani e da tutta Italia, hanno sfilato ieri in corteo nella Capitale accogliendo l’invito allo sciopero nazionale di settore lanciato dall’Ospol. L’Osol è il sindacato autonomo che all’indomani dell’assenza di massa dei vigili dalle strade romane la notte di Capodanno dichiarò che la cosa era perfettamente normale, visto il freddo e il periodo dell’anno. E ieri il corteo è stata una manifestazione di fierezza contro le polemiche scatenate dall’incredibile vicenda romana. I cartelli branditi recitavano ‘Colpire la Polizia locale per coprire Mafia Capitale’, ‘Corrotti voi indagati noi’, ‘Assenteista inventato – Mafia Capitale insabbiato’, ‘La nostra riforma va approvata e la divisa mai più oltraggiata”. Altre sigle sindacali non hanno aderito, e anzi ieri i capi della funzione pubblica Cisl e Cgil hanno separato nettamente le proprie responsabilità ,ripetendo che chiunque abbia sbagliato quella notte va identificato con chiarezza e sanzionato. Fin qui la cronaca, sulla quale è il caso di tornare con alcune considerazioni. Con la stessa premessa di sempre: noi non generalizziamo colpe e responsabilità dell’astensionismo e dello scarso attaccamento alla divisa né all’intero corpo né alla maggioranza dei suoi appartenenti, né a Roma né in Italia, e non manchiamo di rispetto e considerazione per chi assicura per le vie pubbliche ordine e sicurezza.

Però. Primo: la consapevolezza delle funzioni che si svolgono si esprime anche attraverso il modo in cui si manifesta. I vigili urbani che bloccano il traffico in corteo sono – diciamolo – un paradosso. Legittimo certo, perché in quel caso stanno manifestando rispettando le legge ed esercitando un proprio pieno diritto di cittadini. Ma sempre paradosso è. I vigili possono anche benissimo manifestare la propria opinione che sindaco e giunta e comandante del corpo siano deficitari e inadeguati. Ma quando si inizia a dare dei corrotti e mafiosi loro per primi dovrebbero sapere che la libertà sindacale non è esente dal rispetto dei limiti delle leggi penali. Una cosa però è chiara: un conto è manifestare e scioperare secondo ciò che consente la legge, altra è travestire una manifestazione organizzata di protesta sindacale da astensionismo di massa, com’è avvenuto la notte di Capodanno. Quest’ultima cosa non è né legittima né tollerabile. Su tale punto preciso, spiace dover osservare che ieri non si è sentito uno slogan che era invece opportuno: “non faremo più astensionismo di massa”.

Secondo: se si lavora per assicurare ordine e sicurezza, si rispetta la legge. Che cosa significa, rispetto all’assenza di massa romana d’inizio d’anno? Che i vigili per primi devono essere rispettosi degli accertamenti che sta svolgendo la Procura di Roma. Giustamente, i magistrati della Capitale hanno subito esteso i controlli a centinaia di medici che hanno sottoscritto i certificati di malattia. Anche qui, nessuna generalizzata condanne di massa. Ma le assenze per malattia di 2 anni prima erano di dieci volte inferiori, e di epidemie a Roma non c’è traccia. Invece di considerare l’azione della Procura come una persecuzione, i vigili per primi si uniscano al sentimento dei cittadini, che ne sono contenti e dicono “finalmente!”. E che vedono nella rotazione delle assegnazioni territoriali e degli incarichi una misura concreta e utile per evitare la corruzione.

Terzo: sui poteri disciplinari ordinari, ancora non ci siamo. Abbiamo detto e ripetuto che le norme ci sono, dal 2009 sono state potenziate e codificate, per sanzionare le assenze ingiustificate e la bassa produttività. Il punto è che vengono vanificate dai criteri di attuazione, visto che lo stesso comandante del corpo della Capitale ha dovuto riconoscere che il deferimento alla disciplinare non poteva andare oltre una trentina di casi. Inutile girarci intorno: è questo a dare alimento alla protesta di chi, ieri, considerava che il fango sulla divisa è stato gettato da chi al Campidoglio ha reagito duramente, e non da chi a Capodanno è rimasto deliberatamente a casa.

Quarto: il governo faccia quel che deve. Perché c’e’ da lavorare, sui criteri di controllo e di attuazione delle norme di cui stiamo parlando. E’ quindi confortante che il ministro Madia ieri abbia ribadito che, nella nuova tranche di norme in gestazione sulla riforma della PA, il governo renderà più penetranti i criteri di controlli sulle assenze di massa, e meno spuntate le armi che oggi si devono invece abbassare di fronte a un certificato medico, perché su quello può intervenire solo il magistrato, se la visita ispettiva non è avvenuta nelle stesse ore di assenza.

Quinto: i vigili hanno giuste ragioni. Certo che le hanno, se guardiamo oggettivamente ad alcuni dei nodi irrisolti che alimentano la loro protesta. A cominciare da ciò che li distingue, in termini di remunerazioni sussidiarie e prerogative, rispetto agli agenti delle forze dell’ordine. Continuando con il loro ruolo rispetto alla “finanza aggiuntiva” dei Comuni rappresentata dalle multe, e a quello contro le frodi commerciali al minuto. E tuttavia, perché questi nodi possano trovare giuste sedi di confronto e soluzioni adeguate, occorre stare nelle regole e avere senso della misura. A Milano, in questi giorni si leggono interviste di sindacalisti che negano la propria disponibilità a lavorare il primo maggio per l’inaugurazione dell’EXPO con il tono di chi vuol difendere l’Alcazar dai franchisti. Per favore, cari vigili urbani, allo stesso modo evitate di dire che vi manca di rispetto chi non accetta che a Capodanno stiate a casa. Diamoci tutti un senso della misura, perché l’Italia vada meglio.

12
Feb
2015

Politica e fame nel mondo: primo non nuocere

Nel videomessaggio inviato in occasione dell’evento “Le Idee di Expo 2015” Papa Francesco ha chiesto ai responsabili dei governi di attuare una diversa politica economica che abbia al centro “la dignità della persona ed il bene comune” e che possa portare a superare l’attuale realtà di un mondo nel quale si stima vi siano ancora 2 miliardi di persone malnutrite e più di 800 milioni che soffrono la fame cronica.
Per capire quale politica possa consentire di porre rimedio a tale drammatica situazione può forse essere utile guardare al passato, ai casi di successo di riduzione della fame e della povertà. Per quanto la condizione odierna sia ben lontana dall’essere soddisfacente, sarebbe infatti sbagliato dimenticare i notevoli progressi che sono stati fatti in particolare negli ultimi venti, trenta anni.
Partiamo dalla malnutrizione: in base ai dati forniti dalla FAO, nel periodo compreso tra il 1991 ed il 2013, la quota della popolazione mondiale che non dispone di cibo sufficiente è stata pressoché dimezzata, dal 19% si è infatti passati all’11%. Tra i numerosi Paesi che hanno visto la propria condizione migliorare rapidamente ne citiamo due, diversissimi per geografia, dimensioni e storia ma accomunati dal fatto che nel recente passato la politica ha deciso di fare qualche passo indietro aumentando gli spazi di libertà per le persone e per le imprese. Stiamo parlando del caso, abbastanza noto, della Cina dove il numero di persone malnutrite si è ridotto da poco meno di 300 milioni a circa 150 milioni (dal 25% all’11% della popolazione) e di quello, forse sconosciuto ai più, del Cile, Paese che forse più di ogni altro ha perseguito una politica di progressiva limitazione dell’interferenza della politica nella vita economica. Ebbene, in quel Paese la quota di persone che vive in condizioni di povertà è diminuita dal 39% al 14% (risultato molto migliore rispetto a quello della America Latina nel suo complesso dove si è passati dal 48% al 40%) e la povertà assoluta si è ridotta dal 13% a meno del 5%. La fame, ancora diffusa negli anni ’70, è stata sostanzialmente debellata e, paradossalmente, oggi vi è una diffusione dei casi di obesità.
Chile_poverty
Rimane purtroppo ancora ai margini del processo di miglioramento delle condizioni di vita a livello mondiale l’Africa sub-sahariana sebbene non manchino anche per quel continente segnali incoraggianti. Se tra il 1970 ed il 1990 la situazione era stazionaria se non in peggioramento, il quadro sembra essere parzialmente mutato negli ultimi vent’anni: è diminuita di circa dieci punti percentuali la quota di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno mentre il reddito medio procapite è cresciuto da 1.600 a poco meno di 2.000 dollari.
Africa_gdp
Anche in questo caso la crescita economica ha avuto ricadute assai positive in termini umani: dal 2001 al 2013 la speranza di vita nell’intero Continente è aumentata da 51 a 58 anni.
Non sembra che un contributo significativo al pur limitato progresso economico dell’Africa sia derivato dalla azione dei governi o dagli interventi delle numerose agenzie ed organizzazioni internazionali. Al contrario, come ha ben documentato nel suo ultimo volume (“La tirannia degli esperti”) William Easterly, economista con una lunga esperienza alla Banca Mondiale, spesso gli interventi “dall’alto” sono al contempo poco efficaci e non rispettosi dei diritti e della dignità dei poveri. Easterly suggerisce un approccio diverso, “dal basso”, da individuo (associazione) ad individuo, attraverso una serie di tentativi ed errori, e non da governo a governo.
Non mancano poi i casi nei quali la politica pone in essere interventi che non solo non aiutano ma addirittura ostacolano la crescita. Pensiamo, ad esempio, per restare nel campo della alimentazione e dell’agricoltura, ai generosi sussidi che i Paesi europei elargiscono ai produttori locali e che mettono fuori mercato i prodotti dei contadini dei paesi poveri privandoli così della possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita.
Oppure riflettiamo sulle politiche di incentivazione dei biocarburanti che hanno ridotto in misura non marginale la disponibilità di cereali per uso alimentare.
Sembra in questo caso riscontrarsi un altro limite della politica che il Papa ha evidenziato nel suo messaggio: la tendenza a farsi guidare dalle emergenze e l’incapacità di definire delle priorità.
L’incentivazione dei biocarburanti è stata infatti motivata con la volontà di ridurre le emissioni di gas serra per limitare il riscaldamento della Terra. Un problema, quello del cambiamento climatico, che viene abitualmente presentato come il più grave dal punto di vista ambientale e che richiederebbe urgenti e radicali misure di riduzione dei consumi di combustibili fossili. Ma le evidenze scientifiche di cui disponiamo ci dovrebbero portare a conclusioni diverse. Vi è infatti sostanziale accordo sul fatto che un moderato incremento della temperatura (al di sotto dei 2° C) sia sostanzialmente neutrale sotto il profilo della crescita economica a livello mondiale. E, al contrario di quanto dato per assodato, non solo fino ad oggi non vi è stato alcun incremento dei fenomeni estremi ma, grazie alla crescita economica e delle conoscenze scientifiche, negli ultimi cento anni i rischi correlati a tali fenomeni sono stati radicalmente ridimensionati. (Anche) grazie ai combustibili fossili siamo oggi in grado di difenderci molto meglio dalle bizzarrie del clima. E’ altrettanto vero che nel lungo periodo il riscaldamento globale potrebbe avere rilevanti impatti negativi: tali effetti si manifesterebbero però solo tra molti decenni e richiederebbero interventi ben ponderati e non azioni dettate da un’emergenza che non c’è e che rischiano di comportare effetti collaterali assai più rilevanti rispetto ai benefici che possono essere conseguiti. Abbiamo prima citato il caso dei biocarburanti. ma non è questo il solo ambito nel quale le politiche climatiche rischiano di essere controproducenti.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità ogni anno oltre quattro milioni di persone muoiono prematuramente nei Paesi più poveri a causa degli elevatissimi livelli di inquinamento che si registrano all’interno delle abitazioni come conseguenza dell’uso di legna, carbone, scarti di prodotti agricoli per il riscaldamento e per la preparazione dei cibi. Per ovviare a tale problema sarebbe necessario un maggior ricorso ai combustibili fossili. Eppure non mancano i casi di agenzie internazionali che vorrebbero vincolare gli aiuti a tali Paesi all’impegno ad utilizzare meno carbone, gas, petrolio.
Per quanto a molti possa sembrare paradossale, per il conseguimento del bene comune ed il rispetto della dignità delle persone dovremmo come prima cosa chiedere alla politica di non nuocere.

11
Feb
2015

Perché Apple, che ha 32 miliardi di dollari di liquidità, emette obbligazioni?—di Galeazzo Scarampi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Galeazzo Scarampi.

È una delle aberrazioni create dal regime di imposizione globale dei redditi che imperversa negli Stati Uniti sin dall’epoca di Kennedy e che ha dato luogo a elusioni e assurdità di ogni genere, come vedremo. Da principio, giova far riferimento alla recente proposta di Budget del Presidente Obama.

Il budget  per l’anno fiscale 2016 presentato dal Presidente Obama il 2 febbraio è infarcito di interventi dirigisti a pioggia: da ”Combating Antibiotic Resistant Bacteria” (pag 65) a “Home Visiting Programs” (pag 30) coi quali assistenti sociali ed infermieri pagati dallo Stato “aiutano le famiglie a monitorare i problemi sanitari e di sviluppo dei figli (..) coltivando good parenting practices”. Il tutto viene riassunto nello slogan “A Government of the Future”, che farebbe persino sorridere se non fosse per il retrogusto orwelliano.

Vi è tuttavia nella parte fiscale una proposta che ha destato grida di dolore, ma che nella sua semplicità ha senso; si tratta della tassazione al 19% per competenza degli utili prodotti all’estero dalle società americane, cui si sommerà  una “toll tax” una tantum del 14% sugli utili imponibili accumulati in elusione all’estero sinora.  Non è una nuova imposta: sin dagli anni ’60 (presidenza Kennedy) gli Stati Uniti hanno abbandonato il principio della territorialità dell’imposizione fiscale, estendendo la tassazione dei cittadini e delle società americani ai redditi ovunque prodotti. Sinora tuttavia tale norma era stata elusa dalle società che si erano basate su una “scappatoia” in quanto la tassazione era per le società “differita” sino al momento del rimpatrio degli utili. Questa scappatoia non è disponibile per le persone fisiche che sono tartassate da decenni (si veda il recente caso del sindaco di Londra Boris Johnson, che è stato costretto a pagare le imposte sui capital gains negli Stati Uniti per la vendita della sua prima casa nella capitale inglese).

Che le imposte debbano essere strettamente territoriali e non globali è ben noto e non è questa la sede per ripetere le chiarissime argomentazioni di Luigi Einaudi in merito. Tuttavia negli ultimi decenni la “esportazione dell imposte” attraverso la globalizzazione della base imponibile ha imperversato, dalla California che tassa il reddito globale di imprese che hanno una sede stabile nello Stato, all’Italia dall’allora ministro Tremonti.

La proposta del Budget di Obama ha il merito di rimuovere una ipocrisia di fondo del sistema che ha creato notevoli distorsioni.  L’opposizione che tale proposta ha suscitato  dovrebbe indurre a ripensare al principio di territorialità. Già nel 2013 Paul Ryan aveva introdotto questo concetto nella sua Budget Proposal (“transition the international tax regime from the current “deferral” approach to a full territorial system”). Vi è da sperare che la maggioranza Repubblicana al Congresso non sprechi questa opportunità.

Veniamo ora alle distorsioni che il regime di “deferral” ha creato.

Le principali multinazionali americane hanno accumulato enormi importi di liquidità all’estero che non rimpatriano per “differire” la imposizione. Per pagare dividendi e finanziare investimenti preferiscono emettere obbligazioni anche se a costi ben superiori del rendimento pressoché nullo della liquidità, per non dire delle commissioni  e spese di emissione che assommano a ben oltre l’1% del valore delle obbligazioni emesse. Qui non si tratta di line di credito a breve per far fronte a sfasamenti temporali, ma di obbligazioni da cinque a trent’anni!

Ecco un campione (dati al 31 Dicembre 2014):

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Si ringrazia Martino Rocca  di Quadrivio SGR per la ricerca.

A livello aggregato si stima che le società americane abbiano accumulato oltre 2 mila miliardi di dollari di imponibile “differito”, investito in liquidità bloccata all’estero.

Un possibile effetto inatteso della proposta del Budget potrebbe essere un (benvenuto) aumento della concorrenza fiscale, in quanto il livello effettivo di tassazione federale sul reddito delle società scenderebbe al 25% per i redditi domestici ed al 19% per quelli prodotti all’estero, livelli decisamente inferiori alla media UE.

La probabilità che questa amministrazione produca una riforma fiscale orientata al mercato è bassa, ma quasi ogni riforma e meglio del regime attuale, e si può sperare che i Repubblicani colgano la occasione per riaprire il tema della territorialità.