24
Feb
2015

DDL Concorrenza: Energia – di Lorenzo Castellani

Il Capo IV del ddl concorrenza riguarda la piena liberalizzazione dei mercati retail dell’energia elettrica e del gas, e del mercato della distribuzione dei carburanti per autotrazione. Le misure di liberalizzazione presentate dal Governo in questo settore possono considerarsi positive in quanto tese a finalizzare un processo di piena liberalizzazione avviato quasi vent’anni fa e che allineerebbero l’Italia ai Paesi europei che garantiscono il maggior tasso di concorrenza nel settore come riportato recentemente da uno studio IBL (http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=15629). Read More

24
Feb
2015

DDL Concorrenza: Comunicazioni

Il crinale tra genuina pulsione procompetitiva e consumerismo maldestro è sovente più sottile di quanto si possa immaginare; accade, così, che a liberalizzazioni autentiche si accompagnino misure che con la rimozione dei vincoli alla concorrenza hanno poco a che vedere. Non fa eccezione il DDL Concorrenza licenziato dall’esecutivo venerdì scorso: iniziativa complessivamente meritoria per la sostanza di numerose disposizioni e, soprattutto, perché finalmente ottempera a un obbligo beatamente disatteso dal 2009, eppure segnata da alcune contraddizioni.

Ci riferiamo, in particolare, alle norme dettate in materia di comunicazioni dagli artt. 16 e 17. L’art. 17 demanda al Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, l’adozione di un decreto che disciplini l’identificazione in via indiretta del cliente nell’ambito delle procedure di migrazione tra operatori di telefonia mobile, anche mediante ricorso al Sistema Pubblico per la gestione dell’Identità Digitale – la cui messa in opera, a quasi dieci anni dalla sua originaria previsione, pare oggi in dirittura d’arrivo.

Si tratta di una misura di buon senso, caldeggiata anche dall’Antitrust nella propria Segnalazione annuale. È davvero grottesco che, nel 2015, l’attivazione di servizi di comunicazione mobili continui a richiedere la presentazione e la riproduzione di un documento d’identità. Occorre, semmai, rilevare una certa timidezza, da parte del governo, nel limitare l’applicazione del principio al suo ambito più ovvio: quello della portabilità del numero, cioè del trasferimento di un’utenza già attiva (e, pertanto, riferibile a un individuo già identificato) da un operatore a un altro.

La riduzione di questi vincoli può agevolare l’impiego di forme di commercializzazione a distanza, più convenienti per la clientela e meno onerose per le compagnie. È del tutto evidente che la necessità di munirsi di una rete capillare di punti vendita costituisce una significativa barriera all’ingresso di nuovi soggetti del mercato delle comunicazioni mobili – si pensi agli operatori virtuali. Ben venga, dunque, questo primo passo, ferma restando l’opportunità d’estendere il ricorso a metodi alternativi d’identificazione anche alle nuove attivazioni.

Ben diverso il giudizio sull’art. 16, che si pone in continuità ideologica e formale – intervenendo sull’articolato del secondo decreto Bersani – con la stagione delle famigerate lenzuolate. Le modifiche introducono una serie di misure relative alla conclusione e alla cessazione dei contratti aventi ad oggetto servizi di comunicazione e servizi audiovisivi. Nelle intenzioni del governo, tali disposizioni dovrebbero garantire un maggior grado di trasparenza ed equilibrio negoziale; in realtà, siamo di fonte a previsioni in alcuni casi ridondanti, alla luce della già intensa tutela garantita ai consumatori dalla normativa vigente, e comunque destinate a irrigidire gli scambi in un settore caratterizzato da continua innovazione e tariffe in calo.

Si osservi, per esempio, l’introducendo comma 3-ter, che limiterebbe a ventiquattro mesi la durata dei vincoli “comprensivi di offerte promozionali”; con ciò contravvenendo a prassi negoziali apprezzate dai consumatori, quali quelle che garantiscono l’utilizzo “sussidiato” dei dispositivi. Davvero non si coglie quale profilo di tutela debba qui prevalere sul beneficio dell’utente che desideri, ipotizziamo, spalmare il proibitivo costo di un iPhone su una relazione di trenta mesi con il proprio operatore, com’è oggi comune. L’unico effetto di norme simili è quello di mutilare la libertà negoziale tanto dei consumatori, quanto delle imprese, sterilizzando formule commerciali mutualmente vantaggiose.

È utile segnalare, incidentalmente, che, proprio in queste settimane, è in corso presso l’Agcom un procedimento sulla medesima materia. Un ulteriore elemento che avrebbe dovuto sconsigliare interventi frettolosi e demagogici.

23
Feb
2015

Ddl concorrenza: l’analisi dell’Istituto Bruno Leoni

Per la prima volta dal 2009, il Governo presenta al Parlamento un disegno di legge sulla concorrenza. Non una scelta, ma un preciso impegno che deriva da una legge finora inattuata. Nell’abitudine al calpestio della legge da parte dello Stato e dei suoi organi, stupisce positivamente che stavolta il governo abbia deciso di sottostare agli impegni presi.

L’Istituto Bruno Leoni coglie quindi l’occasione del primo disegno di legge annuale della concorrenza per analizzare, in una serie di articoli, il merito dell’articolato, già disponibile – altra buona novità rispetto alle ultime abitudini dei governi – all’indomani del Consiglio di ministri. Read More

23
Feb
2015

Lo scontro a sinistra sul Jobs Act, una questione marxiana

Il Jobs Act non è affatto perfetto. Ma le obiezioni ragionevoli – cioè quelle “non” ideologiche – riguardano per esempio l’opacità che ancora pesa sulle politiche attive del lavoro e sulla nuova Agenzia Nazionale per intermediare domanda e offerta di occupazione: perché finché non sarà chiaro come sarà e come funzionerà potrebbe rivelarsi un azzardo i 24 e poi 18 mesi del nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari (anch’esso esteso per la prima volta, sia pur in forma ridotta, anche ai precari). Senza politiche attive di “svolta” – quelle per cui spendiamo 5 volte meno rispetto alle politiche passive nel bilancio pubblico, quasi solo per stipendiare chi vi è addetto e con risultati pessimi che testimoniano l’incapacità della PA di “capire” il mercato — la maggior flessibilità sui licenziamenti e il nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari sono solo metà di quel che serve: NON affrontano infatti la rioccupabilità, che serve dannatamente per innalzare la partecipazione al mercato del lavoro in un paese a tre milioni e mezzo di disoccupati. Altre obiezioni fondamentali investono il limite delle nuove norme, che cambiano il lavoro privato ma non quello pubblico. E sarebbe stato decisamente meglio estendere la riforma a tutti i lavoratori privati di qualunque anzianità, invece di aprire un’asimmetria tra vecchie tutele e nuove che durerà decenni, e creerà inevitabilmente problemi rilevanti alle imprese. E ancora: troppo poco si fa ancora – per i diritti nel welfare– a favore del lavoro autonomo, dimenticato dal bonus 80 euro e graziato, dopo gravi errori  del governo, facendo retromarcia precipitosa sul massacro che era stato deliberato del regime dei minimi e con l’aumento di contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Ma non è su questo – tranne che da pochissimi come ADAPT di Michele Tiraboschi – che viene attaccato il Jobs Act. Una beffa per la sinistra e per i gruppi parlamentari Pd. Un’opera di macelleria sociale. Un favore a Confindustria.  Un colossale furto di diritti. Così vengono bollati i primi decreti attuativi del Jobs Act non solo dalle forze dell’opposizione a cominciare dai pentastellati, ma dalla minoranza Pd e dai sindacati (la Cgil, ma pure Uil e Cisl).  La somma di un atto autocratico, e di una completa abiura alle idee fondanti della sinistra. C’è chi pensa per reazione a una legge di iniziativa popolare, chi già parla di referendum. Landini vuole farne motivo di impegno politico diretto. Si è aggiunta al coro anche la presidente della Camera Boldrini, che ha parlato di “un giorno non storico”, perché il parlamento è stato umiliato e in ogni caso il lavoro bisogna crearlo, non si fa riformandone le regole.

Com’è evidente, non sono critiche che si possano facilmente respingere con argomenti fattuali. Perché è l’ideologia a ispirarle. E usiamo questo termine senza alcuna sottovalutazione: l’ideologia è fondamentale in politica. Un liberale aggiunge: purtroppo. Ma si sa, qui non stiamo parlando di un campo che faccia riferimento al liberalismo.

Mettiamola nel modo storicamente più corretto. A ispirare la repulsione non è il Jobs Act in quanto tale, ma l’aver modificato uno dei totem della sinistra e del sindacato nel dopoguerra: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le tutele al licenziamento. E’ questo il motivo, per cui nessuno mai era riuscito a sfiorare l’argomento senza incorrere in roventi anatemi (per prima la Fornero, che diede la prima energica spinta e dovette parecchio rivederla in parlamento).

Un classico delle citazioni marxiste sul lavoro è tratto dai Manoscritti economico-filosofici del 1844: “ Il lavoro produce sicuramente meraviglie per i ricchi, ma spoglia l’operaio. Produce palazzi, ma antri per l’operaio.. respinge una parte dei lavoratori a occupazioni barbariche, e riduce a macchine l’altra parte”. Centosettant’anni di ideologie antagoniste del lavoro hanno continuato – nell’evoluzione dei tempi, dei modi di produrre, del welfare affermatosi e divenuto poi Stato dilapidatore – a ispirarsi a tale tesi. Sindacato e sinistra lottavano perciò per regole “rigide” a tutela del lavoro e dei lavoratori: servivano a ingabbiare la propensione all’incanaglimento considerata istintivamente connaturata agli imprenditori, all’economia di mercato. Senza rendersi conto di sommare due errori. Il primo è quello “antropologico”, per così dire, sulla disumanità di mercato e imprenditori. Il secondo è reso più grave dalla globalizzazione: in un mondo di capitali liberi, un lavoro “rigidamente vincolato” perde. Diventa obbligato – nei paesi avanzati ad alti costi – a deflazionare. La risposta illusoria della sinistra è: teniamo vincolato il lavoro e vincoliamo anche i capitali. La risposta giusta è: come son o liberi i capitali, deve essere libero anche il lavoro.

Un anno fa, nel suo commento alla riedizione di Destra e Sinistra di Norberto Bobbio, Matteo Renzi scrisse con chiarezza come la pensava. A quell’impostazione ne preferiva un’altra. Va bene considerare ancora fondamentale per la sinistra l’eguaglianza – “ma non l’egualitarismo”, chiosava – ma le categorie per descrivere sinistra e destra per lui erano altre: “innovazione/conservazione, movimento/stagnazione”.

Discutibile quanto volete ma, venendo al lavoro, che cosa deve rappresentare una priorità – in generale, ma innanzitutto per la sinistra – in un paese nelle condizioni dell’Italia? Con tre milioni e mezzo di disoccupati e uno sterminio di inoccupati giovani, difendere le tutele-rigidità di chi un lavoro a tempo indeterminato ce l’ha, o aprire alla flessibilità che consentirà più facilmente un lavoro a chi non ce l’ha, e di miglioralo a chi – i giovani – finora dal dualismo delle tutele sono stati costretti al precariato di massa? E’ questa, la questione fondamentale a sinistra. I dissidenti di sinistra di Renzi e il sindacato ripetono quel che hanno sempre pensato: bisogna estendere a tutti la rigidità delle tutele del tempo indeterminato anche a chi non ce l’ha. Al costo di rendere sempre più onerosi e – alla lunga – illegali ogni altro tipo di contratto. Alla fine le imprese avrebbero dovuto capire: o tutele rigide e tempo indeterminato per tutti, o niente.

Come tutte le impostazioni rigide, non è una posizione che ammetta alternative. E’ fondata sul disconoscimento che, in un Paese ad alto cuneo fiscale e altissime tasse, e in un mondo in cui le imprese devono essere in condizione di riorganizzarsi continuativamente per rispondere ad andamenti della domanda interna e internazionale sempre più erratici, i contratti a tempo servano davvero e non siano figli della malvagità dell’imprenditore.

Per questo disconosce che i licenziamenti economici – quelli che servono alle ristrutturazioni – siano soggetti solo a indennizzi. Per questo ha tentato in parlamento di stoppare che la nuova disciplina valesse anche per il più dei licenziamenti economici, non quelli individuali ma quelli che passano per le contrattazioni e procedure collettive. Per questo s’inalbera al fatto che dei contratti a tempo cesseranno essenzialmente solo i co.co.pro, mentre tutti gli altri resteranno col vincolo dei 36 mesi entro il massimo dei rinnovi legittimi.  Né l’obiezione può placarsi di fronte ai nuovi diritti estesi su materie come il congedo di maternità quello parentale, la sua estensione anche a lavoratori autonomi e precari,  il part time aperto finalmente a chi ha patologie gravi.

Ripeto: il Jobs Act non è perfetto, e manca sinora della svolta per la rioccupabilità. Ma Renzi sapeva benissimo che, toccando in profondità l’articolo 18, accendeva le polveri di uno scontro all’ultimo sangue. Per i suoi oppositori di sinistra fuori e dentro il Pd e per il sindacato, perdere questa battaglia comporta un obbligo a cambiare dalle fondamenta impostazione. O a diventare ancor più nostalgici di un passato che ai loro occhi non passa. Sarà, questo, un pezzo fondamentale della sfida elettorale di Renzi, quando mai andremo alle urne: convincere l’elettorato tradizionale della sinistra a riconoscersi nella sua nuova impostazione, nel mentre adottandola prova a convincere fasce smarrite di elettorato moderato. I liberali, purtroppo, possono solo commentare sugli spalti.

 

 

23
Feb
2015

Precari e merito: i due criteri su cui preoccuparsi della sbandierata “buona scuola”

Tra pochi giorni sapremo in concreto qual è il punto di caduta della “buona scuola”, la riforma alla quale giustamente Matteo Renzi, il ministro Giannini e l’intero governo annettono grande importanza. E’ persino inutile dire che hanno ragione, visto che la formazione del capitale umano è una componente essenziale del recupero del gap nazionale che abbiamo accumulato in termini di produttività e competitività. Le graduatorie PISA sull’arretratezza della preparazione data agli studenti italiani in materie essenziali, a cominciare da quelle matematico-scientifiche fino alla comprensione elemntare ed elaborazione di testi, è lì da anni a dimostrarlo.

MA degli annunci ormai è meglio on fidarsi. Un giudizio sarà possibile, dopo tanti mesi di preparazione, solo a testi presentati e letti. Il governo sottolinea i fondi mobilitati, un miliardo quest’anno e tre a cominciare dal 2016, il nuovo ruolo dei dirigenti scolastici per dare più vigore all’autonomia di ogni istituto, l’introduzione del tutor e del mentor: vedere per credere. Ma due criteri di fondo, dice il governo,  dovrebbero rappresentare la svolta: il merito e la valutazione. Fermiamoci allora a questo, ferrati dalla lezione – anche sotto questo governo – che il diavolo si nasconde nei dettagli.

Perché merito e valutazione sono essenziali? Semplice, purtroppo. Perché al di là delle novità nei programmi e materie, del 5 per mille promesso anche per le scuole, del diritto allo studio potenziato (che però è di competenza delle Regioni…) e di tanti altre novità che giudicheremo, proprio il merito e la valutazione sono due crinali attraverso i quali giudicare l’intera riforma. Per capire una cosa: se per la prima volta da decenni si guarda alla scuola e al sistema formativo adottando il punto di vista prioritario delle necessità di chi la frequenta e delle loro famiglie, o se invece si continua a privilegiare l’ottica a cui la cattiva Italia pubblica ci ha abituato da decenni, e cioè che si interviene sulla scuola innanzitutto pensando a chi ci lavora dentro, insegnanti e personale tecnico ATA.

Il governo innalza fieramente la bandiera “mai più precari nella scuola”. In effetti, siamo tanto per cambiare inadempienti con l’Europa, che da anni minaccia sanzioni visto che abbiamo accumulato nella scuola, per ragioni clientelari, 180mila precari a tempo in diverse forme. Uno dei pilastri della riforma è la piena assunzione nei ruoli dei 146 mila precari delle cosiddette graduatorie a esaurimento. Il governo dice che 120 mila di loro verranno messi a ruolo dal prossimo settembre. Vedremo come davvero sarà disciplinato questo delicato tema. Innumerevoli studi – per ultimo quello pubblicato la scorsa settimana dalla Fondazione Agnelli – comprovano che quei 146mila o 120 mila che siano rappresentano un problema. Sono geograficamente squilibrati: troppi al Sud, che per le proiezioni sulla popolazione scolastica dovrebbe scendere dal 40% dell’organico attuale al 37% nel 2025; e pochi al Nord, che invece dovrebbe salire dal 40 al 42%. Sono troppi in materie per cui i posti in organico non sono previsti tanto numerosi, e pochi nelle materie in cui gli organici sono carenti, come matematica e scienze. E sono inoltre anche composti da chi per anni non ha insegnato, o non ha mai insegnato per niente. Mentre chi ha seguito intanto il percorso abilitante per prove spendendo di tasca propria – i 10 mila del cosiddetto Tfa – non sarebbero premiati. E’ evidente che una sanatoria generale risponde solo al problema (grave) di ordine sociale di questa vasta fascia di lavoratori pubblici. Ma la qualità della scuola è un altro paio di maniche, chiede criteri selettivi.

Quanto alla valutazione, la proposta originaria del governo messa in consultazione ipotizzava un salario di merito valutato a livello d’istituto. Su questo i sindacati hanno innalzato le barricate. Il governo continua a dire che il merito avrà un ruolo essenziale sia nella valutazione sia nella retribuzione. Ma quanto è emerso sino ad oggi fa pensare che purtroppo si potrebbe scendere di parecchio sul totale del compenso, estendendo ultyeriormente la sua fascia di attribuzione. I sindacati chiedono voce in capitolo: perché di mezzo naturalmente c’è il blocco pluriennale dei contratti pubblici, e l’egualitarismo che il mero criterio delll’anzianità ha sempre premiato. Già si era partiti da un salario di merito aggiuntivo che doveva toccare comunque almeno a due terzi dei docenti di ogni istituto – un criterio pessimo, una valutazione seria si fa per punti e non per quote. Il rischio è di approdare a metodi ancora più indigeribili.

Uno dei pilastri di una “buona scuola” è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, come abbiamo più volte ricordato, e per essere credibile andrebbe affidata per la maggior parte a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. Le anticipazioni del decreto in arrivo nulla dicono sinora in concreto del metodo con cui si procederà alla valutazione, tranne ribadire che dovrebbe spettare ai singoli istituti ( e già non ci siamo).

Vedremo quanto la vincerà l’anzianità, e quanto l’assunzione di massa indistinta ancora una volta si spiegherà soprattutto con criteri di premio elettorale futuro. Sarebbe una grande occasione persa. Perché prima del promesso prossimo concorso nazionale, con una popolazione studentesca che dal 2014 al 2024 per demografia scende da 9,8 a 9,7 milioni, passeranno vent’anni. Ma, naturalmente, il governo già sin d’ora nelle sue anticipazioni lo promette per il 2016 o 2017. Tanto, c’è chi paga…

18
Feb
2015

Il prezzo della lettura

Hanno ragione i sostenitori della legge Levi che il prezzo medio dei libri in Italia è calato. Non sappiamo se per effetto di questa legge che limita gli sconti sul prezzo di copertina o se per altre cause. Non potremo mai saperlo, ma solo ipotizzarlo insieme ad altre, plausibili ragioni. Quel che però sappiamo, è che si legge meno. Dall’anno di entrata in vigore della legge che, limitando le possibilità di sconto dei libri, doveva rendere un servizio alla lettura, i lettori in Italia sono diminuiti dal 49 al 43%, e gli acquirenti dal 44 al 37% (AIE, Rapporto sullo stato dell’editoria 2014).

Si legge meno, quindi, anche qualora i prezzi fossero davvero diminuiti, e anche qualora questo effetto fosse dovuto alla limitazione agli sconti. L’obiettivo della legge, ossia «contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura» (art. 1), non è stato quindi, come era prevedibile, raggiunto.

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17
Feb
2015

Grandi stazioni e carrelli vuoti—di Edoardo Garibaldi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Garibaldi.

“Eh! Chi siete. Cosa fate. Cosa portate. Sì, ma quanti siete. Un fiorino”.  Questo è il trascritto della celebre scena del film “Non ci resta che piangere” con Roberto Benigni e Massimo Troisi che si trovano a dover varcare una frontiera nell’Italia rinascimentale. Ma è la drammatica immagine che a più riprese, cinquecento anni dopo, sembra riproporre l’amministrazione comunale di Genova ogni qualvolta un operatore della Grande distribuzione organizzata cerchi di fare l’ingresso nel mercato della Superba. Read More

16
Feb
2015

I servizi pubblici locali nella bozza di legge sulla concorrenza—di Andrea Varsori

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Varsori.

La legge annuale sulla concorrenza e il mercato è un classico esempio di come lo Stato italiano riesce a obbligarsi a delle scadenze che, regolarmente, non rispetta. L’avverbio “regolarmente” non è casuale: è dal 2009, infatti, che il Parlamento e il Governo sarebbero tenuti a recepire, ogni anno, le indicazioni dell’Autorità per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) in materia di liberalizzazioni. L’appello, però, è stato finora disatteso. Read More

15
Feb
2015

Expo: nessun bicchier d’acqua è gratis

È di pochi giorni fa la notizia che nei padiglioni dell’Expo di Milano, che aprirà i battenti fra pochi mesi, sarà fornita acqua “gratuita” per tutta la durata dell’evento grazie alle case dell’acqua, cioè impianti che distribuiscono acqua proveniente dall’acquedotto tramite appositi erogatori, con in aggiunta la possibilità di refrigerarla o renderla frizzante. In pratica, fontanelle 2.0 che distribuiscono acqua gratuita con consumi di plastica ed emissioni di Co2 ridotte a zero. Read More