27
Feb
2015

No, il whistleblower liberale non è il delatore anonimo invocato dal fisco italiano

Poiché le cronache italiane non risparmiano episodi di corruzione anche nell’amministrazione tributaria, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha ieri scritto a tutti i suoi dipendenti, annunciando un’iniziativa che farà discutere. Verrà aperta una casella elettronica criptata, attraverso la quale i dipendenti potranno segnalare attività illegali all’interno del proprio ambiente lavorativo, venendo comunque tutelato con l’anonimato contro ritorsioni. Adottiamo anche noi l’istituto anglosassone del whistleblowing, ha detto la Orlandi, “con orgoglio e primi nella pubblica amministrazione italiana”.

E’ il caso di chiarire. Per evitare che si compia il bis del grave infortunio avvenuto nel 1996, quando l’allora ministro alle Finanze Vincenzo Visco adottò una prassi analoga – l’idea era stata di Franco Reviglio- istituendo il numero telefonico 117 aperto a tutti i contribuenti, invitandoli alla segnalazione di casi sospetti di evasione fiscale. In 3 giorni arrivarono 3500 telefonate, e il quarto giorno il ministro dovette diramare una circolare nella quale si chiariva che le segnalazioni anonime erano ammesse sì, ma su tale base non si potevano istruire accertamenti, solo valutare in presenza di precisi documenti alla mano se compierli o meno. Da allora il 117 è rimasto ma, come si desume dai rapporti annuali della Guardia di Finanza, dalle circa 50mila telefonate annuali in arrivo non partono certo chissà quali verifiche.

Qual è il punto essenziale da chiarire? Essenzialmente, uno. Il whistleblowing anglosassone – presente in ordinamenti come quello degli Usa, Regno Unito e Australia – incoraggia e tutela segnalazioni, all’interno della vita delle imprese, nelle banche e nella finanza prima che di natura fiscale, in modo da porre al riparo da ingiuste ritorsioni chi sente il dovere di esplicitarle. Ma assicura in una prima fase la confidenzialità della segnalazione, non l’anonimato. Pone tutele specifiche a ritorsioni di mobbing salariale, di mansione o promozione. E giunge poi a prevedere una premialità specifica all’individuo che ha segnalato gli illeciti risultati comprovati. Come si capisce al volo, premiare pubblicamente è l’esatto contrario dell’anonimato. Il whistleblower alla lettera suona un fischietto ben udibile, come quello dell’arbitro in campo, non fa una “soffiata” nascondendo la mano dietro la bocca. E’ una sentinella civica, non un delatore che cela la sua identità.

E’ una differenza essenziale. Se riprendiamo in mano i princìpi del nostro ordinamento – cito la sentenza 29/77 della Corte Costituzionale – <<è pacifico che nell’attuale sistema non incomba sul cittadino un generale dovere di denunciare qualsiasi reato del quale venga a conoscenza: tolti i casi in cui la denuncia è obbligatoria ed è punita la sua omissione (art. 364 cod. pen.), ogni persona che abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio, “può”, non “deve”, farne denuncia (art. 7 cod. proc. pen.). Se, avvalendosi di questa facoltà, presenti la denuncia per iscritto, deve firmarla (art. 8, comma terzo, cod. proc. pen.). L’inosservanza di tale prescrizione comporta l’applicazione dell’art. 141, ma non configura, di per sé, un reato a carico dell’autore della denuncia anonima, salvo che questi non sia responsabile, per la falsità della denuncia medesima, di simulazione di reato (art. 367 cod. pen.), di calunnia (art. 368 cod. pen.) o di autocalunnia (art. 369 cod. pen.). La facoltà di denuncia concreta, dunque, una funzione socialmente utile; e nel suo palese e responsabile esercizio il denunciante si rende portatore ed interprete dell’interesse della collettività acché i reati non restino impuniti. Ma non può, allo stato della legislazione, configurarsi per questo nei suoi confronti un inderogabile dovere di solidarietà sociale, del quale sia richiesto in ogni caso l’adempimento>>.

In sintesi, il nostro ordinamento è contrario alla delazione, e infatti l’articolo 333 del codice di procedura penale prescrive che la denuncia anonima non costituisca notizia di reato, può solo essere valutata dalla procura mediante verifiche non invasive. Per aver dimenticato questo basilare principio, nel 1996 l’invito alla delazione fiscale componendo il 117 si risolse in un grave incidente istituzionale.

E’ un bene dunque che l’amministrazione pubblica si dia procedure di tutela di chi, al suo interno, segnalasse illeciti – per altro sarebbe, come dipendente pubblico, tenuto a farlo in maniera più stringente di un privato cittadino, secondo l’articolo 54 del testo unico sul pubblico impiego – e che in quanto tale va posto al riparo da indebite ritorsioni esercitate da colleghi e dirigenti. Ma dev’essere ben chiara una cosa: la delazione anonima è ciò di cui si nutriva l’Inquisizione, in un ordinamento moderno è inammissibile. Dopo il rafforzamento del whistleblowing nella disciplina societaria e bancaria americana, con il Sarbanes-Oxley ACT del 2009 successivo ai grandi crac del 2008, anche alcune grandi imprese italiane hanno iniziato ad adottare procedure analoghe nei propri codici etici e statuti. Sicuramente incentivare e tutelare segnalazioni spontaneee di illeciti e prassi scorrette fa parte della necessaria costruzione di una cultura di massa più proclive alla legalità, e di “sanzioni reputazionali” a chi la viola, prima che penali e tributarie. Ma tutto ciò significa costruire una cittadinanza attiva che si esercita alla luce, non coltivare l’insinuazione mascherata che realizza vendette e invidie.

Purtroppo, proprio in materia fiscale lo Stato ha la pessima abitudine di mettere i contribuenti gli uni contro gli altri. Lavoratori dipendenti cotnro autonomi. Percettori di reddito da lavoro contro quelli da capitale. Lavoratori contro pensionati. E via proseguendo. Eviti ora di confondere la tutela di chi collabora con la giustizia con la delazione di massa. Perché quest’ultima è da sempre il sistema con cui autocrazie politiche e religiose hanno allevato sudditi tremebondi, non cittadini consapevoli.

27
Feb
2015

Partecipata canaglia—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Ci sono i cosiddetti stati canaglia, quegli Stati considerati una minaccia per la pace mondiale. E ci sono le partecipate canaglia, una minaccia alla legalità nel nostro paese.
Il tema dell’infiltrazione in gare ed appalti della criminalità organizzata è di grande attualità. Ma non è un argomento solo del presente. Credo però sia indispensabile cominciare a lavorare con la memoria e con i fatti.

Per non dimenticare. Per non dimenticare, ad esempio, che dalla seconda metà degli anni ’90 fino quasi alla prima decade del 2000 in molte città del nord, in Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, ecc., grandi società partecipate pubbliche hanno disinvoltamente affidato in appalto la gestione di servizi alla mafia.

Sì, alla mafia.

Per non dimenticare, un nome per tutti: Italia 90. Che dire, ricordando gli scandali di quei mondiali in quanto a mazzette, appalti truccati e la peggior politica coinvolta, già il nome fu profetico. Nasceva come Truddaio S.a.s con sede a Palermo, alla Via dello Spasimo.

L’occasione locale è un contratto di appalto per la gestione dei rifiuti solidi urbani/ingombranti umido/differenziata, ecc.ecc. con servizio di raccolta e trasporto, della durata di 5 anni per alcuni comuni del circondario della provincia per il valore di svariati milioni di euro e affidati con procedura ristretta. L’appalto, come previsto nel contratto stesso, viene interamente gestito coordinato e controllato anche nelle modalità di erogazione del servizio e di pagamento dalla Grande Partecipata del capoluogo.

Nessuna verifica, nessun controllo sulla società affidataria? Nessun dubbio o nessun sospetto?
In fondo, basta navigare un po’, e neppure tanto.

Italia 90 S.r.l. era una società nelle mani di Luigi Abbate detto Ginu u’ mitra, vista la sua abilità con le armi, uomo del mandamento di Palermo Porta Nuova, la figlia Maria, Susanna Ingargiola, Claudio Demma, tutti affiliati con pedigree completo, alcuni di loro finiti poi in carcere all’Ucciardone, con tutti i beni sequestrati.

La società, peraltro, collezionava vertenze di lavoro perché, ovviamente, ca va san dire, non pagava i dipendenti e tutti insieme appassionatamente, amministratori palermitani e sindacati locali a ranghi completi, venivano ricevuti dai prefetti per trovare accordi sulle spettanze non pagate: insomma, il meglio della concertazione.

I nostri comuni riempiono i loro siti di buone intenzioni antimafia, mille protocolli, adesioni a manifestazioni del variegato associazionismo contro le mafie.

Ma è possibile che nessuno si sia accorto dell’“anomalo” affidatario dell’appalto?
Già, le società partecipate, ricettacolo di clientele politiche bipartisan: conviene a tutti tacere.

Vale sempre l’adagio della casta partitica “oggi a me domani a te”. La capacità di spesa, totalmente fuori controllo di questi apparati gestiti secondo le logiche della spartizione politica, fa gola a tutti e, ovviamente, non può non far gola alla criminalità organizzata.

In quegli stessi anni, in una nota società privata multinazionale straniera nel ramo trasporti “saltava” l’intero board italiano per un mero sospetto di infiltrazione della criminalità organizzata in una delle tante società appaltatrici; venivano licenziati e sospesi dipendenti e manager con grande accortezza e prudenza sebbene il caso fu chiuso, archiviato, senza alcuna responsabilità individuata né in capo ai singoli né in capo alla società. Eccesso di zelo? No, serietà.

E dove sono oggi gli amministratori di quelle società partecipate? Hanno dovuto rendere conto di questo? Qualcuno ha indagato o semplicemente verificato quantomeno le ragioni di quelle scelte?

La domanda è retorica. E a volte è purtroppo solo retorica anche l’antimafia. Come la retorica dello Stato che ci protegge: sicuramente dall’infiltrazione nell’economia della criminalità non sempre.

26
Feb
2015

Basta rodei: c’è un interesse nazionale di mercato sulle torri RaiWay, Mediaset e Telecom Italia

Ci sono due modi per guardare all’offerta a sorpresa di acquisto pubblico e scambio lanciata da Mediaset su Rai Way, la società quotata in borsa recentemente in cui sono concentrate le torri di illuminazione del segnale televisivo delle reti RAI. Il primo è quello in cui si butta a pesce la politica italiana, immediatamente riproponendo – il patto del Nazareno, si sa, è finito – il classico schema Berlusconi sì-Berlusconi no. Il secondo è guardare alla vicenda con il punto di vista degli interessi del paese e del mercato. Le due ottiche non sono affatto coincidenti, anzi la prima elide la seconda. Avremmo dovuto impararlo, in vent’anni. Ma si sa, ci sono lezioni dure da assimilare quando l’istinto prevale sulla logica.

Cerchiamo, in maniera non tecnica, di capire i dati del problema. Nella seconda metà del 2014, la Rai in fretta e furia ha deciso di quotare le sue torri in Rai Way, mantenendone oltre il 60% in capo all’azienda pubblica radiotelevisiva. L’ha fatto per tirar su cassa, visto che il governo a sorpresa aveva tagliato 150 milioni dal bilancio corrente 2014 dell’azienda. Autorizzando la quotazione, il governo emanò un decreto della presidenza del Consiglio nel quale si affermava che il 51% dell’azienda doveva restare pubblico. Attenzione, un DPCM non è una legge. Al mercato non si è affatto detto che Rai Way sarà pubblica per sempre. In realtà una quotazione di tal fatta è stata una classica italianata: si è fatto appello a capitali privati per quote minoritarie di un’azienda che ricava il 90% del suo fatturato dalla RAI. Come a dire: caro mercato dacci i soldi, così anche tu ti unirai ai partiti che vogliono la Rai resti com’è oggi.

In realtà, il mercato sa che in Italia esistono due problemi concorrenti, su questa materia. Ruiguarda sia le aziende tv, sia quelle telefoniche. Mediaset ha le sue torri in EI Towers, di cui in aprile 2014 ha ceduto sul mercato il 25% per 300 milioni. La Rai ha le sue in Rai Way. Ogni società telefonica ha le sue. Telecom Italia da 2 anni rinvia la quotazione delle sue sul mercato. Wind, controllata dai russi di VimpelCom, quando Rai Way accelerò la quotazione decise di cederne 6mila su 10mila, e un mese fa ha chiuso l’affare con gli spagnoli di Abertis che ne stanno facendo incetta nel mondo, e hanno offerto ben un miliardo a Wind portandosene a casa 1200 più del previsto (nota successiva del 2 marzo: il closing dell’operazione emerso solo oggi fissa la cifra in 693 milioni per 7377 torri, con una valutazione significativamente inferiore alle indiscrezioni circolanti quando ho scritto).

Il mercato sa che le aziende televisive e le telefoniche se la passano maluccio, sul mercato domestico italiano. E sa che mantenere, per ognuna di esse, le proprie infrastrutture di trasmissione è economicamente un non senso. Non lo è per ciascun proprietario separato, perché ha molti debiti e poco da investire. E non lo è per il mercato italiano in generale: perché un tale sistema impedisce che, mettendo insieme gli impianti nelle mani di uno o due soggetti al massimo ma ben capitalizzati, si realizzi finalmente un’architettura di rete infrastrutturale capace di coniugare lo sviluppo dell’intera offerta di tv e tlc insieme. E’ esattamente lo stesso problema che ci blocca da anni per l’infrastruttura su rete fissa telefonica, con Telecom Italia protesa a difendere allo stremo il doppino in rame, e dunque una banda larga aperta ai concorrenti in fibra ma solo fino all’armadio di Telecom fuori dalle abitazioni – si chiama FTTC – rispetto alla cablatura in fibra fino alle case – in gergo: FTTH. Da anni – vedi l’ultimo scontro la settimana scorsa su quali quote Telecom possa o voglia acquisire salendo in Metroweb rispetto alle telcos sue concorrenti, a F2I e a Cdp – siamo bloccati su questo punto. Cadendo sempre più indietro nelle graduatorie europee del digital divide, altro che chiacchiere continue sull’Agenda Digitale.

Di conseguenza, ecco perché grandi fondi d’investimento internazionali come Blackrock hanno assunto un 10% di EI quando Mediaset ne ha ceduto una quota sul mercato, e un 5% di Rai Way quando la Rai ha fatto la stessa cosa. Anche i fondi esteri sanno bene che il Dpcm di Renzi fissava nel 51% il controllo delle torri pubbliche che deve restare in mani RAI. Ma sanno altrettanto bene che, se e quando l’Italia vorrà darsi soluzioni efficienti in materia di infrastrutture di tlc, siano esse televisive o telefoniche, ebbene quel giorno per forza di cose bisognerà imboccare la via di un’ottimizzazione proprietaria e di gestione degli impianti di illuminazione e trasmissione. Se fosse un soggetto privato a poterlo fare acquisendoli, avremmo tempi più rapidi di ottimizzazione di reti e servizi, ed è ovvio che il sottoscritto sia a favore di tale soluzione. Se invece fosse il pubblico – come pensano alcuni, che da anni invocano una rete pubblica fissa che copra di miliardi Telecom Italia risolvendole il debito e acquisendone la rete fissa (sarebbe la morte di TI) attraverso CDP – ci metteremmo invece se va bene 10 anni, tra infinite decisioni e conrodecisioni dei partiti. Non è un caso che la stssa Mediaset ieri, di fronte al governo che diceva “Rai Way resta a controllo pubblico”, abbia detto “allora fateci voi una proposta per le nostre torri”.  Ma in nessun caso la proprietà e gestione delle infrastrutture “accentrate” impedirebbe o influenzerebbe l’evoluzione dei prodotti e servizi di ciascun player di settore, televisivo e di tlc. Visto che, com’è ovvio, l’accesso agli impianti sarebbe paritario e invigilato dalle autorità di mercato e di settore.

L’Opas lanciata da Mediaset consentirà di imboccare la strada dell’interesse nazionale e di mercato, rispetto all’ennesimo scontro tra ex duopolisti della tv (ex, perché intanto Sky con una logica di puro mercato li fa sempre più neri..) e della politica? C’è da scommeterci: no. Troppo forte è il richiamo della giungla, della coazione a ripetere Berlusconi sì-Berlusconi no che è la sintesi dell’intera Seconda Repubblica. E probabilmente in Mediaset hanno lanciato l’offerta proprio perché con il no si torni a quella vecchia logica. Però l’hanno pensata bene: perché offrendo Mediaset per Rai Way più del 50% più del prezzo di collocazione sul mercato, a dirle no si rischia pure un bel danno erariale…

26
Feb
2015

DDL Concorrenza: Banche

La bozza del Disegno di Legge sulla concorrenza del governo contiene tre articoli – il 23, il 24 e il 25 – che riguardano le banche, anche se pare che altre e più consistenti riforme (riguardanti le Banche Popolari) saranno incluse altrove. I tre articoli sono poco incisivi e riguardano aspetti secondari.

Articolo 23

“Gli istituti bancari e le società di carte di credito assicurano che l’accesso ai propri servizi di assistenza ai clienti avvenga a costi telefonici non superiori rispetto alla tariffazione ordinaria urbana. […]”

L’articolo 23 pone un tetto ai costi telefonici dei servizi di assistenza clienti. Spesso però le imposizioni ex lege di uno sconto su un servizio producono aumenti in altri servizi, e quindi è probabile che l’eventuale risparmio netto sarà trascurabile.

Articolo 24

“[…] sono individuati i prodotti bancari maggiormente diffusi tra la clientela per i quali è assicurata la possibilità di confrontare le spese addebitate dai prestatori di servizi di pagamento attraverso un apposito sito internet. […]”

L’articolo 24 riguarda la comparabilità dei costi dei più diffusi (e omogenei) servizi bancari. Se ci saranno o meno vantaggi per i consumatori dipenderà dalla legislazione accessoria che l’articolo richiede: pubblicare online prospetti informativi non è particolarmente utile per la maggioranza della popolazione italiana, ma per gli altri l’articolo potrebbe consentire scelte più informate riguardo i fornitori di servizi bancari.

Articolo 25

L’articolo 25 è scritto in legalese e consiste in istruzioni da dare ad un editor di testi per modificare un altro testo. Il riferimento è all’articolo 28 della legge n°27 del 2012, e la legge modifica il comma 1 dell’articolo, e aggiunge i commi 1-bis e 3-bis. Abbiamo tradotto la legge in italiano per voi, mettendo le aggiunte tra parentesi graffe ed esplicitando le cancellazioni.

«Art. 28 (Assicurazioni connesse all’erogazione di mutui immobiliari e di credito al consumo). –

1. […] le banche, gli istituti di credito e gli intermediari finanziari se condizionano l’erogazione del mutuo immobiliare o del credito al consumo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita {, ovvero qualora l’offerta di un contratto di assicurazione sia contestuale all’erogazione del mutuo o del credito}  sono tenuti a […]. Il cliente e’ comunque libero di scegliere sul mercato la polizza sulla vita piu’ conveniente […]

{1-bis Nei casi di cui al comma 1, la mancata presentazione dei due preventivi comporta l’irrogazione […] di una sanzione […]}

[…]

{3-bis. In ogni caso, le banche, gli istituti di credito e gli intermediari finanziari di cui al comma 1, sono tenuti ad informare il richiedente […]. In caso di offerta di polizza assicurativa emessa da società appartenente al medesimo gruppo […]}

Si cerca di aumentare la concorrenza tra prodotti finanziari rendendo più difficile il bundling di mutui e prestiti ad altri servizi finanziari, che possono essere comprati altrove. Specificamente si estende la legge preesistente a più prodotti finanziari, si esplicitano le sanzioni, e si sottolinea la questione delle “società appartenenti al medesimo gruppo”. La formulazione della nuova legge è più generale e quindi ha un maggiore campo di applicazione, e verosimilmente porterà ad un aumento della concorrenza sul mercato.

L’idea sottintesa è che la concorrenza sia prodotta dai consumatori e non dagli imprenditori, anche se nella mia esperienza i consumatori non sono granché proattivi. Questo articolo sembra però il più efficace dei tre nel promuovere la concorrenza.

Nessuno dei tre articoli affronta i problemi strutturali del sistema bancario: la sottocapitalizzazione, gli elevati costi per la clientela, la sovraesposizione ai titoli pubblici, la commistione con la politica per il tramite delle Fondazioni, l’accumularsi dei crediti inesigibili. Alcuni di questi problemi non si possono risolvere ex lege, come la sottocapitalizzazione e i crediti inesigibili; altri sì, al costo però di improbabili sacrifici per la classe politica.

È in discussione una riforma delle Banche Popolari, attualmente in fase di conversione sotto il nome di “Investment Compact”, ma non si parla del tema nel DDL in questione. Lo scopo dell’Investment Compact, almeno a parole, è di affrontare i problemi strutturali del sistema bancario, cosa che il DDL Liberalizzazioni palesemente non fa.

25
Feb
2015

DDL Concorrenza: Professioni

Fra le misure contenute nel pacchetto di liberalizzazioni varato dal Governo, ve ne sono alcune relative ai servizi professionali.

Nel settore della professione forense, innanzitutto, il Ddl elimina il vincolo di appartenenza a una sola associazione professionale: se la norma verrà confermata durante l’iter parlamentare che la attende, gli avvocati potranno pertanto partecipare a più associazioni. Di conseguenza, il Ddl ha anche eliminato l’obbligo di avere il domicilio professionale nella sede dell’associazione di cui si è parte. Read More

25
Feb
2015

DDL Concorrenza: Servizi postali

Il processo di progressiva liberalizzazione che ha interessato i servizi postali dalla fine degli anni ’90 a oggi ha reso possibile, anche in Italia, l’emergere di nuovi operatori in concorrenza fra loro e con l’ex monopolista. Ciononostante, quest’ultimo ha mantenuto un quasi-monopolio de facto su moltissime attività teoricamente liberalizzate grazie al cosiddetto ‘servizio universale’, oltre ad aver usufruito di politiche “generose” che, in questi anni, l’hanno avvantaggiato non poco.

Tra le sacche di monopolio rimaste in capo a Poste Italiane S.p.A., qualche settimana fa l’Istituto Bruno Leoni si era occupato, con un Briefing Paper, dell’esclusiva sulle notifiche degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada a mezzo postale, chiedendosi che ragioni diverse dalla consuetudine avesse il permanere della riserva in capo all’ex monopolista e auspicando la prossima rimozione della riserva.

Ebbene, il Ddl concorrenza abroga, a partire dal 10 giugno 2016, l’articolo 4 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, liberalizzando il servizio di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada. In questo senso, pertanto, la novità è da accogliere certamente con favore: un privilegio – piccolo, ma non insignificante – è stato rimosso e nuovi operatori potranno prestare un servizio con modalità innovative, economie di scala, costi inferiori per i cittadini e per il sistema-giustizia.

Gli interventi del Ddl concorrenza nel settore postale, tuttavia, si fermano qui. Rispetto alla bozza iniziale, pertanto, non può certo ritenersi che si sia fatto abbastanza. Soprattutto, l’impressione che può trarsi dal testo uscito dal Consiglio dei ministri è quella di un esecutivo che, per quanto riguarda il settore postale, non ha avuto il coraggio di affrontare il nodo centrale della mancanza di concorrenza del nostro Paese: l’uso (e l’abuso) del concetto di ‘servizio universale’.

Sarebbe opportuno, in questo senso, escludere tutte le prestazioni di servizi e le cessioni di beni negoziate individualmente dal perimetro del servizio universale (perché, non trattandosi di condizioni standard, non presentano alcun carattere di universalità), così come i servizi di posta massiva e le raccomandate non retail. Come aveva già sottolineato l’Agcom, infatti, tali servizi appaiono non più compatibili con gli obiettivi di inclusione sociale e sostegno alle fasce più deboli dei consumatori cui è sotteso il regime di servizio universale (così come gli invii di posta assicurata, la corrispondenza ordinaria e quella registrata). Mantenere l’esenzione IVA in favore di Poste Italiane per questi servizi, al contrario, continua a limitare fortemente un’equa competizione fra i diversi operatori presenti sul mercato, tanto piu’ che l’esenzione IVA é stata già eliminata in un provvedimento dell’estate scorsa per i servizi negoziati individualmente. Si tratta solo, quindi, di dare piena coerenza all’intervento.

Più in generale, la bozza precedente prevedeva che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni verificasse con cadenza triennale l’adeguatezza alle condizioni del mercato postale dei contenuti e dei requisiti previsti per il servizio universale, individuando – se del caso – limiti di contenuti e obblighi di qualità da rispettare per il fornitore di tale servizio. Mantenere nel Ddl tale previsione avrebbe costituito un primo passo in una sempre più necessaria riflessione critica sul ruolo e sull’estensione che il servizio universale postale deve assumere in un Paese in cui un mercato concorrenziale appare sempre più idoneo a raggiungerne le finalità, generando solamente benefici per l’utenza finale.

25
Feb
2015

DDL Concorrenza: Assicurazioni e Fondi pensione—di Andrea Varsori

La proposta di legge annuale sulla concorrenza varata dal Consiglio dei Ministri venerdì scorso ha finalmente posto fine a un’inadempienza che dura dal 2009. La versione ufficiale del decreto legge, però, è decisamente più snella rispetto alle bozze che erano circolate nelle ultime settimane. In alcuni settori, ci si attendeva un intervento a favore della concorrenza che è poi stato notevolmente edulcorato: la mancata apertura della vendita dei farmaci di fascia C è solo l’esempio più noto. Altri settori, d’altro canto, quali le attività portuali, il noleggio con conducente e i servizi pubblici locali, non vengono nemmeno menzionati. A fronte di queste esclusioni, l’importanza delle misure riguardanti le assicurazioni è notevolmente accresciuta.  Occupando dieci pagine e quattordici articoli sulle diciotto pagine e trentatre articoli della legge nel suo complesso, il Capo I, “Assicurazioni e fondi pensione” ha un peso fondamentale in questo disegno di legge. Eppure, più che liberalizzare il settore, le misure contenute negli articoli dal 2 al 15 hanno l’effetto di aiutare il consumatore nei rapporti con le ditte assicurative, garantendo sconti e tutele dove necessario. Read More

24
Feb
2015

DDl Concorrenza: Servizi sanitari

E’ sparita dal disegno di legge sulla concorrenza la questione delle procedure di accreditamento delle strutture private sanitarie, che sembrava invece potesse essere inclusa.

Un intervento legislativo in tal senso avrebbe potuto consegnare agli investitori un sistema più affidabile e meno incerto, ma tant’è. Il tema è stato del tutto rimosso dal disegno di legge approvato, ed è un peccato. La spesa privata accreditata rappresenta circa il 22% della spesa complessiva del SSN (in Lombardia, dove si trova uno dei migliori sistemi sanitari italiani, siamo intorno al 30%), che diventa il 37% del totale se si guarda alla sola spesa ospedaliera. Read More

24
Feb
2015

DDL Concorrenza: Farmaci e farmacie

Il disegno di legge sulla concorrenza, come è noto, ha coinvolto anche il settore farmaceutico.

Finalmente anche le società di capitali potranno diventare titolari di farmacie private e quindi i soci non dovranno più essere obbligatoriamente farmacisti. Inoltre, non esisterà più il limite massimo di quattro licenze in capo allo stesso soggetto. In sostanza quindi, potranno crearsi catene farmaceutiche e ci sarà più margine per sfruttare le economie di scala, fino a oggi molto ristrette dal limite di quattro licenze. Questo è quanto è stato fatto a favore della concorrenza tra farmacie, e quindi di noi consumatori. Un punto a favore del Governo Renzi, che ci auguriamo possa produrre effetti tali da controbilanciare il punto a suo sfavore: la mancata liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C. Read More