No, il whistleblower liberale non è il delatore anonimo invocato dal fisco italiano
Poiché le cronache italiane non risparmiano episodi di corruzione anche nell’amministrazione tributaria, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha ieri scritto a tutti i suoi dipendenti, annunciando un’iniziativa che farà discutere. Verrà aperta una casella elettronica criptata, attraverso la quale i dipendenti potranno segnalare attività illegali all’interno del proprio ambiente lavorativo, venendo comunque tutelato con l’anonimato contro ritorsioni. Adottiamo anche noi l’istituto anglosassone del whistleblowing, ha detto la Orlandi, “con orgoglio e primi nella pubblica amministrazione italiana”.
E’ il caso di chiarire. Per evitare che si compia il bis del grave infortunio avvenuto nel 1996, quando l’allora ministro alle Finanze Vincenzo Visco adottò una prassi analoga – l’idea era stata di Franco Reviglio- istituendo il numero telefonico 117 aperto a tutti i contribuenti, invitandoli alla segnalazione di casi sospetti di evasione fiscale. In 3 giorni arrivarono 3500 telefonate, e il quarto giorno il ministro dovette diramare una circolare nella quale si chiariva che le segnalazioni anonime erano ammesse sì, ma su tale base non si potevano istruire accertamenti, solo valutare in presenza di precisi documenti alla mano se compierli o meno. Da allora il 117 è rimasto ma, come si desume dai rapporti annuali della Guardia di Finanza, dalle circa 50mila telefonate annuali in arrivo non partono certo chissà quali verifiche.
Qual è il punto essenziale da chiarire? Essenzialmente, uno. Il whistleblowing anglosassone – presente in ordinamenti come quello degli Usa, Regno Unito e Australia – incoraggia e tutela segnalazioni, all’interno della vita delle imprese, nelle banche e nella finanza prima che di natura fiscale, in modo da porre al riparo da ingiuste ritorsioni chi sente il dovere di esplicitarle. Ma assicura in una prima fase la confidenzialità della segnalazione, non l’anonimato. Pone tutele specifiche a ritorsioni di mobbing salariale, di mansione o promozione. E giunge poi a prevedere una premialità specifica all’individuo che ha segnalato gli illeciti risultati comprovati. Come si capisce al volo, premiare pubblicamente è l’esatto contrario dell’anonimato. Il whistleblower alla lettera suona un fischietto ben udibile, come quello dell’arbitro in campo, non fa una “soffiata” nascondendo la mano dietro la bocca. E’ una sentinella civica, non un delatore che cela la sua identità.
E’ una differenza essenziale. Se riprendiamo in mano i princìpi del nostro ordinamento – cito la sentenza 29/77 della Corte Costituzionale – <<è pacifico che nell’attuale sistema non incomba sul cittadino un generale dovere di denunciare qualsiasi reato del quale venga a conoscenza: tolti i casi in cui la denuncia è obbligatoria ed è punita la sua omissione (art. 364 cod. pen.), ogni persona che abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio, “può”, non “deve”, farne denuncia (art. 7 cod. proc. pen.). Se, avvalendosi di questa facoltà, presenti la denuncia per iscritto, deve firmarla (art. 8, comma terzo, cod. proc. pen.). L’inosservanza di tale prescrizione comporta l’applicazione dell’art. 141, ma non configura, di per sé, un reato a carico dell’autore della denuncia anonima, salvo che questi non sia responsabile, per la falsità della denuncia medesima, di simulazione di reato (art. 367 cod. pen.), di calunnia (art. 368 cod. pen.) o di autocalunnia (art. 369 cod. pen.). La facoltà di denuncia concreta, dunque, una funzione socialmente utile; e nel suo palese e responsabile esercizio il denunciante si rende portatore ed interprete dell’interesse della collettività acché i reati non restino impuniti. Ma non può, allo stato della legislazione, configurarsi per questo nei suoi confronti un inderogabile dovere di solidarietà sociale, del quale sia richiesto in ogni caso l’adempimento>>.
In sintesi, il nostro ordinamento è contrario alla delazione, e infatti l’articolo 333 del codice di procedura penale prescrive che la denuncia anonima non costituisca notizia di reato, può solo essere valutata dalla procura mediante verifiche non invasive. Per aver dimenticato questo basilare principio, nel 1996 l’invito alla delazione fiscale componendo il 117 si risolse in un grave incidente istituzionale.
E’ un bene dunque che l’amministrazione pubblica si dia procedure di tutela di chi, al suo interno, segnalasse illeciti – per altro sarebbe, come dipendente pubblico, tenuto a farlo in maniera più stringente di un privato cittadino, secondo l’articolo 54 del testo unico sul pubblico impiego – e che in quanto tale va posto al riparo da indebite ritorsioni esercitate da colleghi e dirigenti. Ma dev’essere ben chiara una cosa: la delazione anonima è ciò di cui si nutriva l’Inquisizione, in un ordinamento moderno è inammissibile. Dopo il rafforzamento del whistleblowing nella disciplina societaria e bancaria americana, con il Sarbanes-Oxley ACT del 2009 successivo ai grandi crac del 2008, anche alcune grandi imprese italiane hanno iniziato ad adottare procedure analoghe nei propri codici etici e statuti. Sicuramente incentivare e tutelare segnalazioni spontaneee di illeciti e prassi scorrette fa parte della necessaria costruzione di una cultura di massa più proclive alla legalità, e di “sanzioni reputazionali” a chi la viola, prima che penali e tributarie. Ma tutto ciò significa costruire una cittadinanza attiva che si esercita alla luce, non coltivare l’insinuazione mascherata che realizza vendette e invidie.
Purtroppo, proprio in materia fiscale lo Stato ha la pessima abitudine di mettere i contribuenti gli uni contro gli altri. Lavoratori dipendenti cotnro autonomi. Percettori di reddito da lavoro contro quelli da capitale. Lavoratori contro pensionati. E via proseguendo. Eviti ora di confondere la tutela di chi collabora con la giustizia con la delazione di massa. Perché quest’ultima è da sempre il sistema con cui autocrazie politiche e religiose hanno allevato sudditi tremebondi, non cittadini consapevoli.