9
Apr
2015

Stato, Regioni, Comuni: i numeri sul troppo grasso che resta

Matteo Renzi forse non l’aveva messo in conto ma, con alla testa il sindaco di Torino Fassino e il presidente del Piemonte Chiamparino cioè non proprio due esponenti di terza fila del Pd, Comuni e Regioni questa volta hanno preso a sparare sui tagli del governo prima ancora che il DEF venga varato. Oggi Renzi incontra l’ANCI, ma il fastidio con cui l’altroieri ha replicato da palazzo Chigi alla minaccia di tagliare i servizi ai cittadini era evidente. Tagliate gli sprechi, ha replicato il premier. Tanto per cambiare, non c’è molto accordo sui numeri dei tagli sin qui realizzati tra Stato centrale e Autonomie, e dunque forse è il caso di mettere un po’ di chiarezza su alcuni punti. Chi ha tagliato quanto, in questi anni? Sembrerebbe facile a dirsi, e in realtà non lo è.

Un conto è parlare dei tagli a parole realizzati dalle manovre susseguitesi dall’ultimo governo Berlusconi a oggi: ricordarsi sempre sono tagli sulla spesa tendenziale, cioè comprensiva degli aumenti inerziali a legislazione vigente per l’anno successivo, dunque non tagli sulla spesa reale precedente. E questo spiega perché poi, dopo anni di manovre sommate per decine e decine di miliardi di tagli deliberati, in realtà la spesa pubblica reale complessiva abbia continuato a crescere: molto meno velocemente di prima, ma fino al 51,1% del PIL.

Altro conto è se si prende in considerazione la spesa primaria compresa nel patto di stabilità interno. Altro conto ancora è se si considera quella che negli ultimi anni è diventata la “spesa aggredibile”, che è un aggregato ancora più ristretto, quella che fa da base all’esercizio sui costi standard regionali decisi nel 2012 sulla base di un campione che comprende anche le regioni meno efficienti, mettendo cioè da parte quelli che dovevano essere i costi standard veri.

Ecco spiegato perché i numeri non tornano mai. Un conto è poi se nella spesa regionale comprendiamo anche la sanità, che costituisce la stragrande maggioranza della spesa regionale. Altro conto è se la escludiamo, visto che il fondo sanitario nazionale vive per così dire di vita propria, quanto a cifra stanziata anno per anno (il ministro Lorenzin sottoscrisse il patto per la salute con le Regioni nel luglio scorso, poi rimesso in discussione dalla finanziaria). Fatte queste premesse, qualche conticino per raccapezzarsi.

Le manovre. Se guardiamo alle manovre sul tendenziale di entrate e spese (con l’accortezza richiamata prima), il totale di quelle varate tra 2008 e 2014 (esclusa l’ultima legge di stabilità) ammonta alla bellezza di 122 miliardi di euro, per il 55% a parole (vedremo alla fine, perché a parole) sulla spesa per 67 miliardi, e il 45% con maggiori entrate, per 55 miliardi di euro. La minor spesa rispetto all’aumento tendenziale è stata ripartita per il 36% (per 23,8 miliardi, ma di questi il 58% sono stati meno spesa in conto capitale cioè meno investimenti, quelli si tagliano senza che nessuno protesi) sull’amministrazione centrale, e per il 48% sulle Autonomie Locali, Regioni, Comuni e Province. Il restante 16% è stato a carico degli Enti pubblici sottoposti al MEF. Dei 32,7 miliardi di tagli di spesa tendenziale alle Autonomie, il 41% è stato a carico delle Regioni, nelle poste di spesa sottoposte a patto di stabilità (fondo sanitario nazionale con trattativa a parte, dunque).

La ripartizione. Considerando i numeri precedenti, le Autonomie hanno delle ragioni da far valere. Sul totale complessivo della spesa pubblica, lo Stato centrale pesa infatti il 29,9%, i Comuni il 7,6%, le province l’1,3%, le Regioni il 18% ma se si esclude la sanità la proporzione scende a meno della metà. Il 40% della spesa avviene attraverso gli enti previdenziali. Dai numeri, i tagli sono stati più a Comuni e Regioni che allo Stato centrale. Da Berlusconi fino all’ultima legge di stabilità esclusa, se dai tagli sulla spesa tendenziale andiamo a quelli “nettizzati”, le Regioni a statuto ordinario hanno subìto tagli per 9,7 miliardi, quelle a statuto speciale per 3,3 miliardi, le Province per 3,7 miliardi, e i Comuni per la bellezza di 8,3 miliardi: il che spiega perché i Comuni abbiano in qualche misura ancora più ragioni a protestare delle Regioni.

I servizi. Hanno ragione o torto le Autonomie, dicendo a Renzi che ora i costi vivi sono all’osso e dunque con nuovi tagli saranno i servizi ai cittadini a ridursi inevitabilmente? O ha ragione Renzi a dire il contrario? Le ricerche accumulate dicono che ha ragione il premier. Se avete la voglia e la pazienza di scaricarvi dal sito revisionedellaspesa.gov.it il pdf del documento consegnato a Cottarelli relativo alla spesa dei Comuni, (con l’avvertenza solita che troverete all’inizuio una stima doppia dei tagli di spesa 20018-2014 rispetto alla netta che vi abbiamo dato, appunto perché basata sul “tendenziale” che avrebbe inglobato gli AUMENTI di spesa previsti a legislazione invariata..) troverete la spesa comunale esaminata per classe dimensionale e per molti voci standard, dai costi in consulenze a quelle per hardware e software per dipendente, dai costi di assicurazione dei mezzi a quelli per affitti e riscaldamento. Riscontrerete tra Nord e Sud e per classi dimensionali dei Comuni coefficienti di variazione nell’ambito del 100, 200 e anche 400%: i dati dicono dunque che c’è ancora molto da fare, nell’ottimizzazione e riduzione della spesa corrente. Soprattutto nei Comuni capoluogo grandi e grandissimi. Mentre i Comuni piccoli hanno costi sempre meno in linea da sopportare, rispetto alla dimensione non ottimale dei servizi che devono offire e eispetto alle risorse disponibili. Non troverete dati altrettanto interessanti nel pdf del documento consegnato dal gruppo di studio che ha preso in esame la spesa delle Regioni. Forti del fatto che hanno vinto nel 2012 la battaglia sui “finti” costi standard, hanno di fatto rifiutato anche a Cottarelli un’esame dettagliato dei coefficienti di variazione – che restano altissimi – nelle maggiori voci di spesa corrente standard.

I tagli “a parole”. Un’ultima considerazione merita il fatto che, in realtà, la ripartizione delle manovre per il 55% fatta sul versante della spesa è un dato virtuoso SOLO IN APPARENZA. Quasi un terzo dei tagli sul tendenziale di spesa operati alle Autonomie è stato infatti recuperato da aumenti della tassazione locale, nelle più diverse forme a cominciare dal mattone. Di conseguenza le manovre correttive sono avvenute più sul versante di un fisco più pesante, che limitando la spesa. Ma ora la capacità di recupero fiscale locale è arrivata al limite, i Comuni e le Regioni lo sanno. Sperano ancora in una local tax per il 2016 che aumenti ulteriormente il gettito rispetto a Tasi. Ed è su questo, altri aumenti fiscali locali a compensazione, la vera partita tra Renzi, Regioni e Comuni. Purtroppo per noi. Ci sarebbe da dire molto poi sul perché lo Stato centrale ritenga di non aver più da tagliare se non per centinaia di milioni invece che per miliardi, come si è visto nell’ultima legge di stabilità che ha chiesto alle Autonomie 3 volte tanto rispetto ai tagli ministeriali. Ma per questo occorre un altro articolo.

Le partecipate. Ha detto Chiamparino che parlare di risparmi dai tagli alle partecipate è un errore, c’è da riaccorpare e ottimizzare ma non da tagliare. E’ il motivo per cui il governo Renzi sinora sulle partecipate locali non ha fatto nulla, tranne una norma manifesto senza effetti inserita in legge di stabilità. Chiamparino e il governo hanno torto. A smentirli è l’analisi e la previsione di risparmio di “almeno 2-3 miliardi” possibile con le 33 proposte dettagliate avanzate un anno fa da Cottarelli dopo aver esaminato l’intera complessa geografia delle 7760 partecipate locali di cui aveva notizia, rispetto alle oltre 10mila esistenti in Italia (non c’è una banca dati affidabile centralizzata, come sempre…), che trovate a pag 39-40 delle slides “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” qui. E’ un report dettagliatissimo, con interventi diversi sulle migliaia di piccole partecipate da chiudere, su quelle da cedere, su quelle in perdita strutturale, sui nuovi criteri da adottare per il TPL, su come tagliare le attuali 37mila posizioni a nomina pubblica censite. Ricordate sempre che ad aver dichiarato “obiettivo del governo è sfoltire da circa 8mila a non più di mille le municipalizzate in Italia” è stato Matteo Renzi, il 18 aprile 2014, come beffardamente Cottarelli ricorda nella prima pagina delle sue stesse slides che vi raccomando di leggere… E il numero non è un caso: in Francia – paese non esattamente poco statalista – sono mille, appunto…

7
Apr
2015

Prima che esca, 4 conti sul DEF per capire di che tasse morire

Tra oggi e venerdì, è atteso il varo da parte del governo di tre documenti essenziali di politica economica: il DEF, il documento che fissa gli obiettivi e le ipotesi macro sottostanti per la prossima legge di stabilità 2016 e per il triennio successivo; il PNR, Piano nazionale delle riforme, che aggiorna gli interventi strutturali più importanti dell’agenda governativa e la loro stima sull’innalzamento del prodotto potenziale italiano; la Nota di aggiornamento del Patto di stabilità e crescita europea, cioè la valutazione dell’impatto che le nuove manovre del governo avranno rispetto agli obiettivi concordati con la Ue di riduzione del deficit e di rientro del debito pubblico.

Sono tre moduli programmatici molto attesi, perché in questo 2015 siamo al primo anno di ripresa del PIL dal calo che era tornato a metà 2011, dopo gli abissi registrati dal 2008 fino a metà 2009. Ma è sbagliato credere che il ritorno alla crescita semplifichi le cose. Molti sono i vincoli davanti al governo, e i più pesanti li ha decisi lui stesso, nella legge di stabilità 2015. A partire dalle tre clausole di garanzia di aumento delle tasse tra 2016 e 2018, per complessivi 72 miliardi. Il primo gradino che scatterebbe nel 2016 riguarda oltre 16 miliardi, di cui 12,8 dal solo aumento dell’aliquota ordinaria IVA dal 22% al 24% (che potrebbe poi salire fino al 25,5% nel 2018). Cerchiamo ora di fissare solo alcuni punti essenziali, per capire come giudicare le decisioni che assumerà il governo.

Allo stato delle cose, l’impegno dell’Italia è di chiudere il deficit pubblico al 2,6% del PIL in questo 2015, per scendere all’1,8% nel 2016. Significa circa 10 miliardi di minor deficit, l’anno prossimo. Aggiungiamoci, per tenerci stretti, la necessità di finanziare le riforme almeno più essenziali che identificano sin qui le scelte di fondo più incisive del governo: il bonus 80 euro anche per il 2016, la decontribuzione anche nel 2016 dei nuovi contratti a tempo indeterminato, la riforma della scuola. Il bonus 80 euro, quand’anche non lo si estendesse rispetto agli attuali percettori come il governo ha più volte promesso, vale circa 10 miliari di euro. La decontribuzione ai contratti di lavoro stanziata per il 1015 vale 1,8 miliardi: per molti non basterà, ma diciamo che almeno 2 miliardi servono anche nel 2016. Quanto alla scuola, l’impegno del governo nel 2016 vale 3 miliardi. Queste sole tre riforme, dunque, necessitano di 15 miliardi almeno di copertura, che sommati ai 10 miliardi di minor deficit portano il conto – spannometrico, ma è per semplificare – a circa 25 miliardi. Se, come il governo ha dichiarato la settimana scorsa, l’intento prioritario è di non far scattare il primo scaglione delle clausole di salvaguardia fiscale, a cominciare dagli oltre 12 miliardi del solo aumento previsto dell’IVA, ecco che il conto delle misure da finanziare sale a circa 37 miliardi di euro se si intende eliminare solo l’aumento IVA, a 41 poi se si conferma la volontà di evitare qualunque aumento di tasse.

Prima di immaginare come sia possibile farlo senza effetti recessivi, spostiamoci a considerare un’altra colonna: quella dei fattori “esogeni”, cioè derivanti dagli impegni europei, e dall’andamento intanto sottostante del PIL.

Con ogni probabilità, il governo potrebbe mirare a contrattare con Bruxelles un abbattimento della metà della soglia di riduzione del deficit 2016, spostandolo verso l’alto dall’1,8 al 2,2 o 2,3% del PIL, in ragione del fatto che la bassa crescita italiana comparata con quella degli altri partners europei anche quest’anno ci valga un’interpretazione “corretta per il basso ciclo” del nostro obiettivo nel 2016 di disavanzo pubblico e di avanzo primario. L’azzeramento del deficit strutturale (cioè sempre corretto per il ciclo), slitterebbe per l’Italia dal 2017 al 2018: ciò che la Francia ha già ottenuto a dicembre scorso. In questo caso, la riduzione del deficit 2016 scenderebbe da 10 a 5 miliardi, e di conseguenza da 41 a 36 miliardi scenderebbe l’ammontare complessivo delle misure da finanziare con la legge di stabilità per il 2016.

Quanto alle riforme confermate nel PNR (e finanziate in legge di stabilità), il governo potrebbe puntare a valutarne come effetto positivo una riduzione pluriennale della differenza tra andamento del PIL reale e PIL potenziale pari a un terzo di quella attuale (su come si misura econometricamente questa differenza c’è una discussione aperta tra Italia e Bruxelles). Tale riduzione, se accolta da Bruxelles, con molto ma molto ottimismo potrebbe valere fino ad altri 4 miliardi di bonus, facendo scendere il conto complessivo da 36 a 32.

Quanto alla crescita del PIL, sappiamo che non possiamo contare in questo 2015 su una significativa crescita nominale cioè dell’inflazione, e il governo ha già fatto sapere che non andrà oltre un aumento delle stime di crescita reale dal +0,6% precedente al +0,7%, per immaginare invece un 2016 molto più positivo, che salirebbe dal +1% precedente verso il +1,5%, e magari anche con un’inflazione che torni verso l’1,5-1,8%. E’ ovvio che più si è ottimisti sulle stime di crescita 2016, più l’effetto è positivo sugli incassi pubblici anche ad aliquote invariate, in un Paese in cui il totale delle entrate pubbliche 2014 è salito al record del 48,1% del PIL. Diciamo che il governo potrebbe far scendere, per maggiori entrate da crescita senza variazioni di aliquote pari a mezzo punto di PIL, la sua stima ottimistica di conto complessivo da finanziare da 32 a 25 miliardi. Restiamo lontani dai 20 miliardi di cui parlano i giornali. E in ogni caso gli aumenti di entrate da crescite future, in un paese a bassa crescita e alto debito, diventano poste molto scivolose da farsi approvare in sede comunitaria.

Diciamo dunque che, anche nella più ottimistica delle ipotesi, il governo deve indicare e assumere decisioni intorno almeno a 25 miliardi di nuove coperture, se non vuole che i suoi conti ballino troppo. Che rinunci al bonus 80 euro, alla decontribuzione dei contratti o all’incremento di risorse per la scuola, sarebbe un clamoroso e inaccettabile voltafaccia. Di conseguenza la domanda diventa: quante di queste risorse è realistico immaginare verranno da programmi di riduzione della spesa?

Se il governo, 13 mesi fa, avesse fatti propri gli obiettivi e le misure indicate dal commissario Carlo Cottarelli, i conti tornerebbero già: perché gli interventi proposti allora, se applicati immediatamente, avrebbero tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi nel 2014 e di 18 miliardi nel 2015 in corso, per poi salire a 34 miliardi di minor spesa nel 2016. Ma il governo ha lasciato il piano Cottareli nel cassetto, e Renzi ha anzi detto a Pasqua al Messaggero che non erano poi idee geniali.

Eppure, è di lì che devono ripartire Gutgeld e Perotti,i due nuovi incaricati della revisione della spesa: ancora una volta esterni al MEF mentre invece l’indicazione degli interventi su spesa e tasse dovrebbe essere la responsabilità politica più alta del premier e del ministro Padoan, poiché l’esperienza da Giarda in avanti ha insegnato che la politica lascia a esterni l’indicazione dei tagli, per poi più agevolmente cambiarli e ridurli al lumicino trattando con i soggetti che dai tagli proposti sono investiti.

Al momento, nessuno immagina che possano venire misure di taglio superiori ai 10 miliardi, sommando qualche miliardino in meno dall’attuale struttura delle agevolazioni fiscali e ai sussidi alle imprese, più nuovi taghli alle Autonomie, ma lasciando da parte il ricalcolo delle pensioni retributive elevate, come gli interventi radicali che Cottarelli aveva indicato sui costi della politica (700 milioni), come il taglio di 1,5 miliardi dei trasferimenti a Fs, o il risparmio di almeno 2 miliardi sulle partecipate locali (che il governo sin qui ha deciso di non toccare, per evitare scontri con Regioni e Comuni alle quali ha tagliato 4,3 miliardi e 800 alle Province nella legge di stabilità per il 2015). Ma il governo può sempre stupirci, e smentire chi si aspetta poco.

Bisogna dunque sperare che Renzi questa volta prenda il timone in mano. Per evitare tre rischi. Il primo:  che il governo abbracci uno scenario nel quale si scongiura l’aumento dell’IVA, ma si recuperano poi nuove entrate aggiuntive comunque, per esempio attraverso una local tax che facesse ulteriormente salire la pressione fiscale locale sul mattone già ascesa oltre i 50 miliardi nel 2014, di cui oltre la metà come componente patrimoniale a carico delle famiglie. Il secondo: che il governo spinga troppo verso l’alto le sue attese di crescita – reali e nominali – poi destinate a sgonfiarsi, ricollocandoci sul mesto record del paese europeo che più ha barato sulla crescita attesa per ben 14 punti di PIl  tra i vari governi succedutisi dal 2008 a oggi (verdi articolo di Enrico Marro sul Corriere di stamane). Il terzo: che il governo chieda in Ue deficit aggiuntivi oltre quelli che abbiamo già indicato, sovrastime degli effetti a breve delle sue riforme, e via contnuando in un negoziato sfibrante che inizia a maggio di quest’anno per continuare fino a fine dicembre.

Noi la pensiamo diversamente. Per rafforzare l’esile ripresa, l’obiettivo dovrebbe essere non quello di non far salire le entrate, ma di diminuirle enrgicamente rispetto al 2014, su lavoro e imprese. E per far questo i tagli di spesa devono essere finalmente energici e decisi. A meno di scommettere tutto sull’azzardo di riaprire il conflitto con l’Europa. Per poi ritrovarsi con gli antieuro naturalnmente più forti, visto che la rirpesa italiana resterebbe mefiticamente asfittica. Molti sarebbero pronti a seguire questa strada. A noi, nei giorni in cui sulla tenuta della Grecia continuano ad accumularsi nubi pesanti, non appare una scelta responsabile.

3
Apr
2015

Intercettazioni: Gratteri fa il garantista, ma le estende

E’ una costante della vita pubblica italiana, la polemica sulle intercettazioni a strascico e sul danno che la loro pubblicazione crea inevitabilmente a terzi non indagati, come agli indagati stessi. Per quanto ci riguarda non c’è molto da strologare, perché la soluzione per garantisti e liberali quali siamo è quella che un maestro – purtroppo scomparso – come Vittorio Grevi ebbe a scrivere sul Corriere della sera l11 giugno 2010: “si tratta, in sintesi, di stabilire che i risultati delle intercettazioni concernenti persone, fatti e circostanze estranei alle indagini non debbano nemmeno venire depositate tra le carte processuali, essendo essi irrilevanti, ma debbano rimanere custodite in un apposito archivio riservato con il vincolo del segreto, e sotto la responsabilità di un magistrato della procura. Inutile dire che di queste intercettazioni dovrà essere rigorosamente vietata la pubblicazione, con la previsione di sanzioni anche gravi in caso di violazione del divieto”. Punto e basta, preciso e chiaro.

Ieri, inserendosi nelle polemiche sul caso D’Alema, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, attualmente a capo della commissione per la revisione della normativa antimafia dopo esser stato in predicato per il ministero della Giustizia all’atto della formazione del governo, ha molto fatto parlare di sé, avanzando la proposta dell’introduzione di un nuovo reato, quello di pubblicazione arbitraria delle intercettazioni. Di conseguenza abbiamo voluto esaminare nel dettaglio le sue proposte, che riguardano per esteso gli articoli del codice di procedura penale dal 266 al 271, che disciplinano la materia. E la sorpresa è stata, a dire il vero, di trovarci di fronte a proposte che – a parte la pur apprezzabile nuova fattispecie di reato sulla pubblicazione arbitraria, che tuttavia non ci persuade più della semplice e chiara norma che abbiamo ricordato all’inizio – a tutto sembrano ispirate, tranne che al garantismo liberale che avevamo immaginato.

Che cosa propone Gratteri, in sintesi? Innanzitutto che le intercettazioni non siano autorizzate dal gip quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini, come dispongono le norme attuali, ma basta che gli indizi di reato non siano gravi e che le intercettazioni – estese a tutte le forme di comunicazione, comprese quelle epistolari e digitali di ogni tipo – siano considerate necessarie per le indagini, non più “assolutamente indispensabili”. Poi, che l’autorizzazione del gip al pm non sia di 15 giorni in 15 giorni, ma di 40 e poi in serie di altri 20. Tali modifiche vengono giustificate con la necessità di superare l’attuale doppio regime delle intercettazioni rispetto a quello per reati di criminalità organizzata, in nome del fatto che la ricerca della prova non richiede mezzi diversificati a seconda del tipo di reato al quale si riferiscono le indagini. Ma in realtà è evidente, anche a un occhio non tecnico, che l’effetto ricercato sia quello di estendere ulteriormente la facoltà di intercettare.

Resta la facoltà di deposito di intercettazioni che coinvolgano anche terzi, se e perché necessarie al fine probatorio della pericolosità criminale dell’indagato. E si estende il loro utilizzo anche a procedimenti diversi da quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate, in nome del fatto che, dal punto di vista del bilanciamento dei due opposti interessi costituzionali, il sacrificio alla riservatezza ormai perpetrato risulti tanto più giustificato a vantaggio dell’interesse pubblico, quanto più ampio è lo spettro dell’impiego delle intercettazioni a fini repressivi.

Va dato atto che Gratteri propone il diritto per la difesa di ottenere copia dei risultati delle intercettazioni e dei verbali delle operazioni anche se non sono stati ancora depositati compresi i brogliacci delle trascrizioni, appena sia stata notificata o eseguita un’ordinanza che dispone una misura cautelare personale. Che il pm possa stabilire, con il decreto attuativo della intercettazione, anche le “modalità esecutive” inerenti all’accesso clandestino nei luoghi per il posizionamento degli strumenti di intercettazione. E il divieto, tanto al giudice quanto al pm, in qualunque richiesta o provvedimento, ad eccezione delle sentenze, di inserire il testo integrale delle intercettazioni: ma a meno però che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova, e qui ci risiamo…. Per finire poi con la previsione della nuova fattispecie di reato all’art. 595-bis del codice penale, cioè la “pubblicazione arbitraria di intercettazioni” di cui tutti hanno scritto. Ma ai nostri occhi questa serie di proposte “garantiste” non pareggia affatto quelle sostanzialmente volte a estendere , potenziare e moltiplicare le intercettazioni e il Grande Fratello come strumento prioritario probatorio.

Un’infinita molteplicità di casi ha dimostrato, in questi anni, come decine e decine di migliaia di pagine d’intercettazioni estranee alle circostanze oggettive e probatorie delle ipotesi di reato abbiano finito per influenzare potentemente l’opinione pubblica, e le stesse corti giudicanti. E’ alla sostanza che bisogna andare, se vogliamo opporre a tale modalità impropria di esercitare l’azione penale, quella mediatico-giudiziaria, una soluzione finalmente rispettosa delle esigenze della giustizia da una parte, ma anche della privacy e del rispetto costituzionale dovuto a tutti, indagati e tanto più agli estranei al procedimento. E’ la concezione del diritto della giustizia sovraordinato a quello dei cittadini, il problema da affrontare intervenendo sull’attuale regime delle intercettazioni. E a questo fine non serve una mano di vernice a tutela del garantismo, mentre si usa altro cemento per rafforzare la facoltà di intercettare.

3
Apr
2015

L’iniquità ontologica dei sussidi alle agenzie stampa

Negli ultimi giorni a palazzo Chigi si è tornati a parlare di spending review, e c’è un capitolo che, a quanto pare, dovrebbe essere affrontato quanto prima dall’esecutivo: già nelle prossime settimane, infatti, il governo dovrebbe presentare le linee-guida per riorganizzare il settore delle agenzie stampa. Gli obiettivi sono gli stessi da anni: razionalizzare i costi e ridefinire i criteri di accesso ai finanziamenti. In nome della pluralità dell’informazione, infatti, il governo sussidia da anni non solo i giornali, ma anche alcune agenzie stampa (11, ad oggi), per un valore intorno ai 50 milioni di Euro all’anno. Tuttavia, come accade spesso quanto si tenta di regolare (se non addirittura “tutelare” o “promuovere”) settori produttivi tramite l’intervento pubblico, si finisce per incorrere nella difficoltà di individuare regole che possano risultare “giuste” per tutti. Read More

2
Apr
2015

Falso in bilancio: con la riforma, è a totale discrezione dei magistrati

Dopo quasi due anni di ripensamenti e modifiche, il Senato ha ieri approvato il ddl anticorruzione, che ora passa alla Camera in seconda lettura. In sintesi estrema, una esigua maggioranza al Senato, talvolta per 3 o 5 voti,ha trovato convergenza su un durissimo inasprimento delle pene. Ma i Cinque Stelle, che hanno votato no, sono per pene ancora più dure. Una vera alternativa liberale alla via della repressione manettara non è esistita, purtroppo, in questo parlamento. Perché a mancare è una cultura diffusa della via alternativa alle retate giudiziarie: quella di poche regole chiare che disboschino le tonnellate di norme nelle cui pieghe si cela il terreno ideale di un politico o dirigente pubblico che le aggira, aprendo porte discrezionali a privati che pagano per aggirare la concorrenza di imprese oneste. Nei dibattiti pubblici a vincere sono coloro che lamentano l’esiguità dei detenuti per corruzione, non coloro che provano a sostenere che uno Stato che intermedia oltre il 50% del Pil, e che vive di norme bizantine, offre per definizione troppe occasioni a chi delinque. L’effetto è una raffica di aggravamenti di pene edittali, e l’ulteriore estensione alla stragrande maggioranza dei reati della facoltà di intercettazione nelle indagini da parte delle Procure.

La corruzione propria arriva a una pena massima 10 anni. La corruzione in atti giudiziari vien punita da un minimo di 6 a 12 anni di reclusione. Il peculato arriva a 10 anni e 6 mesi, l’induzione indebita sale anch’essa, da un minimo di 6 a un massimo di 10 anni e 6 mesi di carcere. Al contempo, salgono tutte le pene per associazione mafiosa: perché la tendenza invalsa è di estendere la definizione di associazione mafiosa anche ad associazioni a delinquere che con la mafia nulla hanno a che fare (vedi l’indagine a Roma).

E cambia radicalmente la disciplina penale del falso in bilancio, abbattendo la riforma del 2002 che prevedeva per le società non quotate la procedibilità di parte per i danni creati a soci e terzi, e prevedeva per tutti soglie quantitative di non punibilità, rispetto a discostamenti contabili non tali da alterare significativamente la rappresentazione societaria. Tutto torna alla procedibilità d’ufficio, con pene fino a 8 anni per le società quotate, e fino a 5 anni per le non quotate, senza alcuna soglia percentuale di non punibilità. Salgono le sanzioni pecuniarie, previste dalla legge 231 sulla responsabilità oggettiva dell’impresa in caso di reati commessi da loro manager e agenti. E per tutte le quotate, a grande richiesta, c’è facoltà di procedere alle intercettazioni, che restano inibite invece per le non quotate (con dure proteste da parte di chi l’avrebbe voluta invece per tutti, a cominciare dal fior fiore delle grandi testate nazionali d’informazione…)

La condotta illecita deve essere «concretamente idonea a trarre in inganno» ed essere realizzata «consapevolmente». E per le società non quotate è prevista la possibilità di applicare la causa di non punibilità per «tenuità del fatto», approvata a marzo dal Consiglio dei ministri. Ma – e qui viene il punto più grave- si tratta di valutazioni che, per come sono stati scritti i testi, saranno a totale discrezione di pm e giudici. Come è a totale discrezione dei magistrati, visto che il testo votato ieri non lo chiarisce minimamente, valutare e decidere in che cosa consista davvero la “falsa esposizione di fatti materiali”, che cosa significhi in concreto che tali materiali debbano essere invece “rilevanti” per poter procedere nei confronti delle società non quotate, e che cosa identifichi invece l’ “omissione di fatti materiali rilevanti” per cui si procede d’ufficio per quotate e non quotate.

La definizione OGGETTIVA DEI REATI è del tutto indefettibilmente assegnata a chi li perseguirà e giudicherà, nella legge non c’è.

Non ci vuole molta fantasia, per comprendere che la norma darà la stura a intercettazioni a strascico di un considerevole numero di amministratori, manager, sindaci e revisori di conti delle società quotate, e inevitabilmente dei loro clienti e fornitori. Perché ricordatevi bene che il falso in bilancio nella legislazione italiana non riguarda solo le poste contabili del conto economico e patrimoniale, ma qualunque documento preliminare o comunicazione a soci e terzi che afferisca alle poste stesse, agli estimi e valutazioni di qualunque asset e negozio economico posto in essere.

Saranno pm nella generalità assai poco esperti di teoria e prassi della contabilità d’impresa, quelli che valuteranno e interpreteranno come ipotesi di reato ogni possibile aspetto della vita societaria. E, per paradosso, a volerlo sono gli stessi partiti e lo stesso parlamento che nel frattempo s’interrogano sui limiti da porre alle intercettazioni, quando naturalmente danno in pasto ai media i politici che magari non solo neanche indagati, come è capitato per Lupi o per D’Alema. Ed è ancora, paradosso nel paradosso, lo stesso parlamento che, nel frattempo, in un contestuale provvedimento, alza a fisarmonica i termini della prescrizione dei reati: e di conseguenza un processo per ipotesi di falso in bilancio da corruzione, con pene cumulate fino a un massimo di 18 anni per una società quotata, potrà durare fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi. Come se la giustizia giusta fosse una sentenza che non arriva mai ma uccide socialmente ogni imputato, invece di una sentenza rapida.

La preghiera che facciamo sin d’ora è che ci vengano risparmiati pensosi editoriali sui limiti da porre alle intercettazioni, quando inevitabilmente arriveranno ai media le trascrizioni dei colloqui telefonici di manager e amministratori di società quotate, magari sui loro gusti sessuali. Perché è tutto implicito e conseguente alla scelta che il parlamento sta facendo oggi.

Nordio, il procuratore aggiunto di Venezia ammonisce pressoché isolato tra i suoi colleghi, sull’errore capitale di credere che pene più dure e intercettazioni a raffica siano il rimedio alla corruzione. Quanto a noi, abbiamo già indicato che la vera via maestra era cambiare dalle fondamenta il codice degli appalti, abolire il direttore dei lavori scelto dal general contractor che non controlla ma è connivente coi corrotti, affidare i lavori solo su progetti esecutivi con limiti più bassi di variazioni in corso d’opera, tagliare da 35mila a poche decine le stazioni pubbliche appaltanti. Certamente, la via liberale anticorruzione non è fatta per soddisfare le ondate emotive che invocano la galera, e incide nella carne viva di uno Stato che è esso stesso, per le sue follie regolatorie, un invito a delinquere. Abbiamo dunque perso una grande battaglia culturale. Ma non ha vinto la giustizia: che vive d’incentivi a far bene, non di terrore del Grande Inquisitore.

30
Mar
2015

Per chi suona la voluntary disclosure?—di Edoardo Ferrazzani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Ferrazzani.

LAgenzia delle Entrate ha dato il là e la banda ha iniziato a suonare. Lo farà per sei mesi, fino alla decorrenza dei termini per la presentazione della domanda di voluntary disclosure, il 15 settembre 2015. Il lungo corteo per laccaparramento del risparmio in entrata dallestero ha avuto dunque inizio.

Come noto il governo ha scelto di mettere i risparmiatori italiani con capitali allestero con le spalle al muro: da una parte con lintroduzione della voluntary disclosure e del reato di autoriciclaggio previsti dalla legge 186/2014 in materia di Misure per lemersione e il rientro dei capitali allestero nonché per il potenziamento della lotta allevasione fiscale” – e dallaltra con lentrata in vigore dei recenti accordi in materia di desecretazione bancaria tra Italia e Svizzera e la creazione della white/black list tra i cosiddetti paradisi fiscali (infografia Il Sole 24 Ore). Read More

28
Mar
2015

Ora basta: Renzi metta in riga le Agenzie tributarie

Il fisco è una delle frontiere pubbliche più delicate, sulla cui linea libertà e diritti dei cittadini e giusta pretesa dello Stato devono stare in equilibrio. O l’equilibrio c’è, riconosciuto bilateralmente per consenso e in quanto tale cristallizzato in norme chiare. Oppure delle due l’una: i cittadini tenderanno più o meno estesamente a sottrarsi alla pretesa dello Stato; oppure lo Stato, confidando sull’obbligo coattivo che grava sui cittadini, senza contrappesi rischierà di smarrire l’equilibrio e di degenerare nella sua pretesa.

E’ in larga misura il rischio aperto oggi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato come illegittimi 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, e altri in quella del Territorio e delle Dogane. Un problema serio accumulatosi negli anni, non creato dagli attuali freschi vertici delle Agenzie ma dovuto alla forma organizzativa che le Agenzie si sono date, scegliendo di nominare troppi dirigenti facenti funzione a tempo determinato e senza concorsi. Un problema più volte sollevato negli anni pubblicamente davanti ai vertici dell’Agenzia, che non ascoltavano. Oppure confidavano su sanatorie come quella intrapresa dal governo nel 2012, bocciata dal Tar del Lazio prima e ora dalla Corte costituzionale.

Non solo non c’è spazio per sanatorie, come le Agenzie speravano. E dunque si dovrà procedere a concorsi, che vinceranno molti dirigenti bravi, retrocessi oggi a funzionari con tagli retributivi anche di 50mila euro lordi, mentre altri non li supereranno. Ma, soprattutto, c’è anche un problema aperto sulla possibilità e fondatezza delle impugnative degli atti sottoscritti da quei dirigenti. Una facoltà che la Corte Costituzionale limita, ma che a un’attenta lettura della sentenza non sembra esclusa affatto almeno per quegli atti di cui sono ancora aperti i termini per l’impugnativa amministrativa.

E’ un problema serio, al quale i vertici dell’Agenzia delle Entrate hanno replicato con toni duri, quasi con disprezzo, dicendo che le impugnative sarebbero addirittura vergognose. Un errore di tono, e un errore di merito. Primo perché di sicuro non spetta all’Agenzia delle Entrate pronunciarsi sull’accoglibilità di eventuali impugnative, ma al giudice. E poi perché sarebbe il caso di usare una volta per tutte un tono diverso, nei confronti dei contribuenti: soprattutto quando come in questo caso è il fisco a essere in torto conclamato.

C’è una tesi per la quale l’illegittimità varrebbe solo a effetti interni, per i funzionari delle Agenzie discriminati rispetto a chi invece veniva nominato dirigente senza concorso. Non ci convince. La legittimità del titolo proietta un’ombra inevitabile su quella dell’atto sottoscritto e divenuto esecutivo, e dunque sulla cartella erariale indirizzata al contribuente Non è che si possono fare prediche sulla legalità tributaria agli italiani da una parte, e dire che al contempo che, se chi glie le rivolge non è in regola, allora valgono comunque. Ne va della fiducia di milioni di contribuenti verso la macchina tributaria. Macchina che, proprio perché lo Stato di tasse ne incassa tante, dovrebbe essere più monda della moglie di Cesare.

Il problema è purtroppo ancor più ampio. Da anni, ormai, la politica ha delegato di fatto il proprio compito di indirizzo in materia tributaria alle Agenzie fiscali. Le Agenzie scrivono loro le bozze delle norme, e sono loro a darne per circolare l’interpretazione autentica. Mentre non dovrebbero fare né l’una né l’altra cosa. L’Agenzia delle Entrate scrive lei i testi del ministro quando questi risponde della politica tributaria nelle audizioni parlamentari, e sia riconosciuto merito al ministro Padoan che pochi giorni fa ha almeno usato una clausola per la quale le opinioni venivano chiaramente attribuite all’Agenzia, senza che però ne esprimesse di proprie.

E’ venuto allora il momento di applicare la cura Renzi alla politica tributaria. Il premier vuole tornare a una politica che si assuma apertamente le sue responsabilità di fronte ai cittadini, senza delegare tutto a tecnici come alle Infrastrutture avveniva con Incalza. E ha ragione. Ma allora, visto che al MEF da anni ormai il ministro si occupa più che altro dell’agenda europea e dei monitoraggi internazionali ai quali sono sottoposti i nostri non brillantissimi conti pubblici, per riappropriarsi degli indirizzi politici tributari serve una scelta. Se non la separazione tra Tesoro e Finanze, almeno attribuire a un viceministro la responsabilità del fisco, come l’ultima volta avvenne con Vincenzo Visco viceministro di Padoa Schioppa.

Usciremmo così dall’equivoco di capi delle Agenzie che danno giudizi politici e interpretazioni di legge, non perché vogliano far male ma perché spinti o costretti a riempire a modo loro il vuoto lasciato dalla politica. Come la guerra è cosa troppo seria per farla decidere ai generali, il fisco in Italia è troppo pesante per lasciarlo decidere da chi ha incassa bonus su quanto ne raccoglie: ed ecco un’altra bella riforma necessaria, che solo un ministro ad hoc può imporre all’apparato delle entrate, modificandone i criteri di incentivazione dei dirigenti. Oggi serve un politico che dica agli italiani magari anche che i ricorsi saranno discutibili, ma che per consentire al giudice di valutarli l’Agenzia delle Entrate pubblicherà subito i nomi dei 767 dirigenti illegittimi, in modo che i contribuenti possano sapere se è loro la firma sotto gli atti che vogliono contestare. La trasparenza a doppio senso è l’unica che può rafforzare la credibilità dello Stato, che ne chiede tanta ai contribuent. Il segreto e l’opacità sono il segno delle amministrazioni fiscali dei re assoluti, e non devono avere nulla a che vedere con quella della Repubblica.

26
Mar
2015

Corruzione: c’è una via più efficace dell’orgia manettara, ma lo Stato non la pratica

Un rapporto fresco fresco dell’OCSE rilasciato ieri attesta che l’Italia, tra i paesi avanzati, vanta – si fa per dire – la più alta soglia di “corruzione percepita”. Ben il 90%, rispetto a un tasso bassissimo di fiducia, dio poco superiore al 30%, nel governo in quanto istituzione. Mentre in Svezia, che ha il più basso tasso di corruzione percepita al 15%, la fiducia nel governo sta al 55%. Attenzione: questo ranking dice solo che noi ci riteniamo e siamo considerati un paese molto corrotto. Non è affatto una misura quantitativa attendibile. Ancora ieri il Financial Times ricordava che, nell’ultimo mese, se il ministro italiano Lupi si è dimesso scandali di corruzione politica altrettanto se non ancora ancora più gravi sono in corso in Spagna, Regno Unito e Romania. Certo, la corruzione è difficile da stimare. E per favore non ripetete la cifra spesso ricorrente nel dibattito pubblico sui 60miliardi di euro l’anno che la corruzione costerebbe all’Italia: nasce da un report della Corte dei Conti di anni fa, nel quale in realtà la stima veniva definita del tutto nasometrica e inattendibile. Ma spesso in Italia nulla più di un numero inattendibile diventa invece acquisito e ripetuto.

Tuttavia una cosa è certa. In Italia di corruzione ce n’è troppa. Uno Stato che assorbe oltre il 50% del Pil, con una presenza invadente dei partiti, una pubblica amministrazione che spesso deve carriere e potere ai partiti stessi, una normativa iperbolicamente bizantina che appare volta a impedire e che induce politici e funzionari pubblici a farsi pagare da privati corrotti o corruttori per aggirarne i veti: queste le ragioni strutturali della corruzione diffusa, non certo un’atavica predisposizione italica a delinquere più elevata che negli altri popoli. C’è chi lo crede, io no: è la tesi di chi poi pensa che spetti allo Stato creare “l’uomo nuovo” virtuoso, un antico e temibuilisso retaggio dell’idealismo hegeliano e dei suoi tanti discepoli rossi e neri.

Con tale premessa, la vera cura anticorruzione consisterebbe in una drastica purga della spesa e dell’intermediazione pubblica, nella cessione di migliaia di società pubbliche greppie del malaffare, nella separazione tra partiti e pubblica amministrazione, nella rotazione dei dirigenti pubblici. Tranne quest’ultimo punto, a cui stiamo piano piano e con fatica arrivando (confondendo ovviamente l’obbligo che deve valere nel settore pubblico con l’imposizione anche ai privati..), è esattamente ciò che la politica italiana non fa e non farà.

Ci sono allora due strade concettualmente diverse. La prima è quella imboccata dal travagliato disegno di legge anticorruzione che è in cottura da un anno, ora all’esame del Senato dopo l’accelerazione avvenuta con l’approvazione alla Camera. E’ la via, sostanzialmente, dell’inasprimento delle sanzioni penali, principali e accessorie, alle diverse forme che la corruzione e la concussione, indebita induzione e peculato e falso in bilancio, possono assumere. E’ un testo sulle cui inasprite pene si sono alternate le divergenti pressioni dei magistrati da una parte e di Forza Italia dall’altra fino a che esisteva il Patto del Nazareno, e oggi di Ncd rispetto al Pd. Con il ministro Orlando dedito a un paziente lavoro di tessitura. E’ un testo che ci porta al massimo europeo delle pene sia per la corruzione sia per il falso in bilancio, e su quest’ultimo argomento ho molte volte scritto che non sono d’accordo. E’ un testo a cui si aggiunge la pressione sovrapposta del distinto ddl giustizia, che riguarda temi importanti come la riforma della prescrizione dei reati, testo nel quale l’altroieri è apparso l’allungamento a fisarmonica della prescrizione fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi per un procedimento di corruzione. Una proposta che accontenterà pure piazze e magistrati, ma che a un liberale non può che fare ORRORE. Per punire i corrotti occorre una giustizia che, perché sia efficace, deve essere rapida: non ancora più lenta di quanto già lentissima sia oggi in Italia.

C’è poi una seconda strada, che riguarda la torta più sostanziosa della corruzione italiana: le opere pubbliche, grandi e piccole. Quelle che avvampano gli scandali del Mose, Expo, TAV, l’Aquila, e infine la struttura tecnica di missione diretta sotto 7 governi da Ercole Incalza, al Ministero delle Infrastrutture. La lotta alla corruzione nelle opere pubbliche, come ripete instancabilmente e solitariamente rispetto ai suoi colleghi magistrati quel gran galantuomo che è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, si fa molto più efficacemente a colpi di accetta sulla miriade di norme vigenti, e riformandone alcuni punti essenziali, non innalzando le pene a 10, 15 o 20 anni di galera.

La Legge Obiettivo – la culla delle deroghe al Testo Unico sugli appalti nel frattempo modificato da 54 diversi interventi legislativi in 622 punti – è clamorosamente fallita. Su 285 miliardi di opere cantierabili promesse, ne sono state realizzate in realtà l’8%. Con un sovraccosto del 40% rispetto alle prime stime. Dopo tanti scandali, ora sappiamo che cosa va cambiato, per contrastare la corruzione di sistema. E la grande occasione è il recepimento delle direttive europee, che chiedono una sostanziale DELEGIFICAZIONE delle norme sulle opere. Ma in parlamento sembra non rendersene conto nessuno…

Ma come: e i controlli, direte voi? Subito serviti. L’esperienza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione affidata a Raffaele Cantone sta funzionando: facciamone tesoro. O meglio: sta funzionando la sua azione “preventiva”, quella che più mi interessa potenziare. Si operi allora un grande trasferimento di poteri di regolazione all’ANAC, che sia chiamata non solo a vigilare preventivamente, ma a redigere bandi tipo di gara. Abbassiamo il limite delle varianti in corso d’opera al 15%, che è il limite europeo. Aboliamo il general contractor che nacque con la TAV di Necci e che oggi nomina il direttore lavori delle stazioni appaltanti, dimostratosi connivente a corruzione e sovraccosti invece che vigilante. Modifichiamo radicalmente l’attuale regime di progettazioni esecutive, vinte da studi di comodo con ribassi di gara anche dell’80%. Subordiniamo la concessione di lavori al solo progetto definitivo : il che significa darsi uno standard tecnico di valutazione ex ante dei costi-benefici tale da evitare la sistematica sopravvalutazione di molte costose opere poi rivelatesi superflue (vedi il caso della BreBeMi in Lombardia). Applichiamo dovunque la messa in rete digitale di ogni particolare riguardante le opere, seguendo lo schema BIM (sta per Building Information Modelling) chiestoci dalla nuova direttiva europea approvata a inizio 2014 e che DEVE entrare in vigore a gennaio 2016. Tagliamo drasticamente la possibilità di affidi di opere a trattiva privata, invece che sempre con evidenza pubblica.

Infine, prendiamo finalmente sul serio la promessa inattuata dall’attuale governo: ridurre da 35 mila a 35 le stazioni appaltanti pubbliche. Trentacinquemila centri pubblici di affidamento lavori sono un universo incontrollabile per definizione. Lo Stato faccia il favore: oltre – se crede – a promettere secoli di galera, cambi faccia e corporatura. Perché un gigante Briareo dalle mille braccia è fatto apposta perché ogni mano non sappia quel che fa l’altra.

 

23
Mar
2015

La sete di democrazia e il costo dell’“acqua pubblica”—di Max Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Max Del Papa.

Quello che ogni famiglia aveva capito in modo percettivo, sulla pelle del proprio portafoglio, adesso è ufficiale: in un decennio il costo dell’acqua è aumentato praticamente del 100% (95,8%, per la pignoleria). Ne dà notizia Sergio Rizzo sul Corriere riprendendo i risultati dell’Ufficio Studi della Confartigianato. Non basta. La tendenza appare serenamente fuori controllo, e con i nuovi metodi di calcolo delle tariffe le bollette non potranno che impennarsi ulteriormente. Sono serviti i compulsatori di referendum come quello che, nel 2011, metteva di fronte ad un falso dilemma, fuorviante e ideologico: mantenere l’acqua, “bene pubblico”, nelle confortanti e sagaci mani pubbliche, oppure abbandonarla ai rapaci artigli del famelico privato? Read More