10
Mar
2015

La crescita che non c’è dice che una manovra di finanza pubblica serve subito

Modesta proposta al governo, al premier Matteo Renzi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Siamo proprio sicuri che sia utile attendere il varo della prossima legge di stabilità per il 2016, cioè perdere 10 mesi? O i dati e le circostanze internazionali favorevoli, rispetto a un andamento asfittico del PIl italiano, ci dicono che proprio ora occorrono decisioni aggiuntive di finanza pubblica? La ragionevolezza a noi sembra indicare la seconda alternativa. Speriamo per questo che il governo accetti almeno di parlarne.

Grazie alle nuove regole di flessibilità assunte in Ue per l’interpretazione del patto di stabilità e crescita, nuove decisioni di finanza pubblica anticipate rispetto alla tradizionale sessione di bilancio non servono – come tante volte in passato – per rimettere sotto controllo l’andamento tendenziale del deficit, ma per un altro fine. Coerente all’impostazione da sempre dichiarata dal governo: si tratta di trasmettere al mercato domestico, alle famiglie e alle imprese, segnali aggiuntivi capaci di rappresentare incentivi addizionali per rafforzare le componenti di ripresa del PIL.

Sappiamo che, da vent’anni a questa parte, l’Italia ha accumulato un’ingente mole di gap, tali da farla crescere meno dei Paesi concorrenti quando il ciclo e la domanda internazionale sono favorevoli, e da farle perdere più punti di Pil quando tira aria di recessione. E’ così, inutile recriminare per le tante responsabilità del passato, di destra e sinistra.

C’è il rischio molto forte che il copione si ripeta. Non è un caso che, nelle previsioni di crescita Ue, ora che il segno più torna davanti alle stime del Pil mensile, nel 2015 ci si attenda che solo Cipro cresca meno di noi. Sembra gran cosa che nel 2015 possano aggiungersi 150mila nuovi occupati, come stima il ministro Poletti, mentre la disastrata Spagna ne ha prodotti oltre 90mila solo a febbraio. I dati odierni rilasciati da Istat e Banca d’Italia confermano che NON siamo ancora in ripresa: a gennaio, la produzione industriale segna -0,7% come andamento congiunturale sul mese precedente e un poco rassicurante dato tendenziale (cioè di proiezione annuale) di -2,2%; i prestiti bancari ai privati su base annua si contraggono ancora del -1,8% e del -2,8% alle imprese su base annua.

Per “spingere” la ripresa, il governo ha puntato sulle riforme: il Jobs Act, la giustizia civile, e ora dovrebbero arrivare quella della scuola e quella della PA. Ma l’effetto di crescita addizionale delle riforme di struttura, a prescindere dal giudizio su ciascuna di esse, si determina nel medio-lungo periodo, dopo che la loro complessa attuazione entrerà a regime.

Per gli effetti di traino a breve, il governo ha puntato nel 2014-2015 sostanzialmente su due scelte prioritarie: il bonus 80 euro, e gli effetti da oggi sull’occupazione del nuovo contratto a tutele crescenti, abbinato al bonus fino a 8mila euro per gli assunti a tempo indeterminato (per tutti gli assunti, anche quelli sostitutivi, senza concentrarli su quelli aggiuntivi rispetto agli organici 2014, cosa che avrebbe avuto un effetto-traino assai maggiore).

A ciò su aggiungono molto più potenti fattori esogeni: il QE della BCE iniziato sui mercati al ritmo di 60 miliardi al mese, il deprezzamento dell’euro sul dollaro, il prezzo del petrolio oggi intorno a poco più di 50 dollari al barile, rispetto ai 114 del giugno scorso.

Tuttavia, l’esperienza di tutti i paesi usciti più rapidamente dalla recessione indica che politiche monetarie “generose” devono essere accompagnate da politiche di bilancio e fiscali altrettanto decise, per sostenere la crescita. Molti credono che questo implichi più spesa pubblica, ma poco riflettono sul fatto che negli USA la crescita 2014 è esplosa dopo che il deficit pubblico, grazie al “sequestro” automatico della spesa pubblica, è sceso da oltre l’11% del Pil a poco più del 5%.

Quel che all’Italia serve oggi sono segnali energici trasmessi subito alle due molle più estenuate della crescita sul mercato domestico: i consumi, e gli investimenti delle imprese.

Di conseguenza, deliberatamente tentiamo qui di seguire un modello di provvedimenti coerente a quello già adottato dal governo. Per il sostegno ai redditi disponibili delle famiglie e dei consumi, è oggi e non tra un anno, il momento di immaginare un’estensione del bonus 80 euro a pensionati, incapienti e autonomi che non hanno visto nulla. Analogamente, oggi si può varare un primo intervento mirato ai 6 milioni di italiani sotto il livello di povertà: 500 euro per due componenti familiari sotto il livello significano 1,5 miliardi di euro. Sommati a un’estensione congrua del bonus 80 euro, siamo intorno ai 10 miliardi.

Altri 5 miliardi andrebbero diretti al rafforzamento degli incentivi agli investimenti delle imprese. Le leggi d’incentivo sono troppe e dispersivamente condizionali, centrali e locali, perciò bisogna mirare a una misura “secca” generale e universale, che premi in maniera incrementale il più alto innalzamento addizionale degli investimenti sul 2014.

Stiamo parlando di una manovra di sgravi fiscali (e trasferimenti, per bonus e povertà) pari almeno a un punto di Pil. E poiché non siamo tifosi del deficit, occorrerebbe da subito porre mano a grandi poste della spending review non recessiva alle quali i governo sinora non ha messo mano: a cominciare dalle partecipate locali, e a seguire il famoso passaggio da 35 mila stazioni d’acquisto e appaltanti pubbliche a 35. Oggi, giustificate dall’innalzamento immediato della crescita e non per il rientro addizionale verso il pareggio di bilancio, queste energiche misure incontrerebbero opposizioni ovvie e dure, ma assai meno efficaci nella loro argomentazione pubblica.

Il governo non faccia l’errore già commesso in legge di stabilità, quando si poteva (doveva) tagliare subito IVA e accisa sui carburanti – oggi rappresentano il 61,8% del costo alla pompa – quando il barile era a 40 dollari. Una misura che avrebbe avuto effetti immediati nei magri bilanci di famiglie e imprese. Anche perché, quanto più la crescita del Pil italiano nel 2015 sarà superiore all’1% invece della sua metà, tanto più le entrate ordinarie saliranno. E insieme ai minori oneri sul debito pubblico grazie a Draghi, aiuteranno il governo stesso nel redigere la prossima legge di stabilità, quando scatta la prima clausola di salvaguardia fatta di aggravi d’entrate per 16 miliardi di euro.

Rivogliamo questa proposta al governo nel massimo spirito costruttivo. Parliamone. E’ la questione centrale italiana, crescere di più subito. Non lo scontro tra partiti e dentro i partiti.

9
Mar
2015

Il canto funebre della spending review, che invece serve ora

Che fine ha fatto la spending review? La riposta a questa domanda purtroppo irrita il governo, ma va detto: se s’intende una rivisitazione organica della spesa pubblica invece di (modesti) tagli lineari dell’ultimora, è rimasta nel cassetto. Per capirlo, sintetizziamo in tre tappe: la legge di stabilità, quel che proponeva Cottarelli, lo stato delle cose.

 La legge di stabilità. Di fatto, era propaganda quella sui “18 miliardi di tasse tagliate”. Bisogna innanzitutto ricordare le clausole di stabilità che prevedono attraverso aggravi fiscali oltre 64 miliardi di euro nel triennio 2016-2018. Nella versione finale approvata dal parlamento, la legge di stabilità per il 2015 ha dunque previsto maggiori entrate, al netto dei tagli, per 64,7 miliardi tra il 2015 e il 2017, con un incremento della spesa pubblica per 62,4 miliardi. Gli interventi di riduzione del carico fiscale decisi, pari a 25,8 miliardi nel triennio, sono stati infatti sterilizzati da un parallelo aumento del prelievo tributario per 89,5 miliardi. Tutte le cifre che indichiamo derivano dalla nota nota tecnico illustrativa alla legge di stabilità realizzata dalla Ragioneria dello Stato, anche se purtroppo pochi l’hanno rilanciata.

Nel 2015, a fronte di minori entrate per 6,4 miliardi (un ruolo essenziale lo gioca la componente lavoro dell’IRAP, tagliata) scatteranno maggiori entrate per 16,2 miliardi, col risultato di un aggravio netto per 10,3 miliardi. Nel 2016 sono stati decisi tagli di tasse per 9,3 miliardi, ma altresì maggiori tributi per 32,7 miliardi, col risultato di un aggravio netto per 23,3 miliardi. Nel 2017, i 9,06 miliardi di minori entrate saranno compensati da 40,08 miliardi di incrementi fiscali per un incremento netto di imposte pari a 31,02 miliardi. Complessivamente nel triennio le minori entrate previste per 25,8 miliardi di euro sono “mangiate” da aggravi fiscali per 89,5 miliardi, determinando una stangata netta da 64,7 miliardi.

Andando alla spesa pubblica, i tagli pluriennali deliberati per complessivi 29,6 miliardi sono più che superati da nuove uscite per 102,09 miliardi. Nel 2015 la spending review inserita nella manovra assicurerà risparmi per 8,4 miliardi (la componente maggiore sono i tagli a Regioni, Comuni e Province) ma porterà uscite aggiuntive sul bilancio statale per 25,4 miliardi, con un incremento netto della spesa pubblica di 17,06 miliardi. Nel 2016, i risparmi per 10,7 miliardi sono “bilanciati” da incrementi di spesa per 36,9 miliardi, col risultato di un incremento netto di 26,2 miliardi. Nel 2017, sono previste riduzioni di uscite per 10,4 miliardi e maggiori spese per 39,6 miliardi, con un incremento netto di spesa per 29,1 miliardi. Complessivamente, nel triennio i tagli di spesa deliberati per 29,6 miliardi sono dunque più che bilanciati da aumenti per 102,09 miliardi, con un aggravio netto sul bilancio pubblico di 62,4 miliardi coperti in deficit.

Cottarelli. Il commissario alla spending review liquidato dal governo Renzi, che l’aveva trovato in eredità da Letta, propose innanzitutto “tagli netti”, cioè non compensati da aumenti di spesa più che proporzionali come fa il governo Renzi. E le sue proposte avrebbero avuto effetti immediati dal 2014, pari a 7 miliardi, che salivano a 18 miliardi nel 2015, e a 34 miliardi nel 2016. Si può dire che la spending review di Cottarelli era persino parecchio “modesta”, come ruicorda spesso a ragione Riccardo Puglisi: era pari al 4% della spesa pubblica complessiva, rispetto al 10% cui mira programmaticamente la spending review in atto nel Regno Unito. Ma sta di fatto che nel 2014 si è perso il treno. E nel 2015 il più ricade sui 5-6 miliardi di riduzione di spesa di Comuni e Regioni, ancora non chiariti nella trattativa tra governo e Autonomie a oggi che siamo a marzo inoltrato, e in attesa di essere compensati d aggravi di aliquote locali, poiché anche nel 2014 le imposte locali sono cresciute sul 2013 di quasi 3 miliardi, raggiungendo i 67 miliardi di incassi. Aggiungiamo il famoso “giallo” dei pdf dei 25 gruppi di lavoro interni alla PA (5 commissioni però non finirono i lavori) presieduti da Cottarelli tra fine 2013 e febbraio 2014, per elaborare le sue proposte: mai pubblicati. Quel che sappiamo però basta e avanza. Cottarelli aveva individuato un metodo, con responsabili pluridicastero dell’attuazione coordinata dei tagli. E aveva proposte a largo spettro sulle maggiori poste di spesa pubblica, alcune delle quali sono attestate in alcune slides che presentò.

Oggi. In alcune interviste, la settimana scorsa, il ministro Padoan ha dichiarato che il governo “sta anticipando” alcuni elementi di riflessione sulla spending review in vista della prossima legge di stabilità. E’ una battuta, ovviamente, visto che la decisione è stata di posticipare. Dunque per il 2015 il governo non dovrebbe riservarci alcuna novità. E’ un errore: perché nuovi sgravi fiscali – tra uno e due punti di Pil – per consumi e investimenti, cioè per rafforzare le componenti più deboli della ripresa economica domestica, servirebbero ora, e andrebbero coperti proprio da tagli di spesa non recessivi. I capitoli da cui ricavare 2 punti di Pil di minor spesa “reale” in 3 anni cominciando da 7-10 miliardi nel primo e cioè dal 2015, restano quelli di Cottarelli. Le partecipate locali, che costano 23 miliardi l’anno. Il passaggio da 35 mila a 35 stazioni d’acquisto e appalto pubblico in Italia, che gestiscono in maniera non trasparente e spesso collusiva con interessi impropri (e spesso illegali, basta vedere le raffiche di inchieste delle procure) ancor oggi oltre 100 miliardi di spesa pubblica annua, in consumi intermedi e investimenti. La sinergia e accorpamento tra forze dell’ordine e di sicurezza. La cessione del patrimonio pubblico immobiliare (attenzione: la cessione riguarda la parte patrimoniale del bilancio, MA non dimenticate che quel pessimo proprietario che è lo Stato ci rimette ogni anno sul suo patrimonio immobiliare invece di guadagnarci, ergo cedere ha anche impatto positivo sul conto economico). La riduzione delle retribuzione dei dirigenti pubblici. L’indentificazione di esuberi veri nell’impiego pubblico (che stiamo invece ulteriormente gonfiando nella scuola). E financo le pensioni, applicando a tappeto il ricalcolo contributivo per le pensioni-regalo retributive. Farlo subito, destinando immediatamente dall’anno in corso per destinare ciontestualmente le risorse a sgravi fiscali per la crescita, taglierebbe le unghie al vasto fronte degli oppositori. Ma non far nulla è il peggio di tutto: significa non avere coperture per rafforzare la crescita ( e dunque rinunciare alle maggiori entrate derivanti) oggi, e una stangata fiscale ancor più pesante domani.

Ps: risparmiate per favore sarcastiche osservazioni sugli effetti recessivi dei tagli di spesa. Gli USA hanno visto la forte crescita del 2014 DOPO il sequestro automatico della spesa pubblica – scattato per il mancato accordo sul tetto di debito tra Obama e Congresso – che  ha ridotto da oltre l’11% di PIL il deficit a poco oltre il 5%. Inoltre le maggiori poste qui indicate, partecipate locali e acquisti, sono FRENI improduttivi al PIL distruttori di risorse. Qui si propone di tradurli in immediati sgravi fiscali, non di usarli a copertura di maggiori spese come fa il governo…

 

9
Mar
2015

Le sanità italiane

Nei giorni scorsi, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) ha pubblicato un rapporto sull’andamento della spesa sanitaria nelle regioni tra il 2008 e il 2013.

Complessivamente, nel periodo 2008-2013 la spesa sanitaria è aumentata, ma è diminuita, seppur di poco, per le regioni commissariate in piano di rientro. Se si considerano solo gli ultimi anni, dal 2010 al 2013, la spesa complessiva è diminuita di circa 1 miliardo di euro, passando da 112,63 miliardi a 111,68.

Per quanto riguarda i risultati di gestione, a livello nazionale si registra un disavanzo per il 2013 di 1,1 miliardi di euro, che tuttavia dal 2008 è andato contraendosi. “Complessivamente si evidenza una contrazione del disavanzo nei vari anni, ma un consistente miglioramento dall’anno 2011 con una variazione media annua 2010-2013 a livello nazionale pari a -37% rispetto ad un -16% nel periodo 2008-2010”.

Dopo l’analisi su scala nazionale, il rapporto offre una riproduzione dei conti economici consolidati del bilancio di ogni regione, oltre a un focus sui costi regionali, consentendo di capire come ogni regione contribuisca ai diversi dati nazionali.

Innanzitutto, balza agli occhi una differenza eclatante tra nord e sud, per la verità non nuova, ovvero le voci del conto economico che riguardano la mobilità. Per quanto riguarda il saldo mobilità attiva, non si registrano cifre diverse da zero nei bilanci delle regioni del sud (fatta eccezione per il Molise). La regione con il saldo mobilità attiva più alto è la Lombardia, con 555 milioni di euro (in aumento rispetto al 2012: 457 milioni), seguita dall’Emilia-Romagna che registra un saldo di 337 milioni (ma in riduzione dal 2012: 368 milioni). Viceversa, come mostra il grafico che segue, il saldo mobilità passiva è più alto per le regioni del sud, da cui i pazienti evidentemente scappano (nel grafico non compaiono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Molise. Per queste infatti il saldo mobilità passiva è pari a zero negli anni esaminati).

Saldo mobilità passiva

 

Per quanto riguarda la composizione dei costi sanitari, non si notano differenze tali da giustificare inferenze. Il capitolo di spesa con le differenze più evidenti è quello relativo alla sanità privata. Tra le regioni a statuto ordinario, la Lombardia è prima anche in questa classifica, con circa il 30% del totale dei costi dedicato ai “servizi esterni” (appunto, la sanità privata) nel 2013, chiude la classifica l’Umbria con l’11,23%, a fronte di una media nazionale del 18%.

Questo dato potrebbe essere tuttavia fuorviante se non accompagnato dalla spesa totale in termini di risorse disponibili (quindi di Pil). La tabella che segue mostra un’istantanea per le regioni a statuto ordinario nel 2012 (anno più recente per cui sono disponibili i dati ISTAT sul PIL regionale).

Innanzitutto vediamo a quanto ammonta la spesa sanitaria totale delle regioni in termini di Pil (in ordine da quella che spende meno a quella che spende più). La terza colonna mostra il saldo mobilità attiva tratto dal rapporto Agenas. La quarta colonna mostra il dato Agenas sui costi dei servizi esterni in rapporto ai costi totali per la sanità. L’ultima colonna mostra la spesa sanitaria privata in rapporto al Pil.

tabella

Le ultime due colonne lasciano trasparire come la questione delle risorse destinate alla sanità privata sia piuttosto controversa. Certamente non ci si può limitare a sostenere che spendere di più in istituzioni pubbliche o private sia determinante a priori per la qualità del sistema. Sappiamo infatti che il tema della qualità del servizio pubblico appare legato più ad altri fattori, quali la storia istituzionale o la cultura civica, assai divergenti tra le regioni del nord e quelle del sud. E questo vale per la sanità (anche dalla tabella è chiara la grande divergenza tra nord e sud in merito alla quantità di risorse destinate alla sanità e a quanto queste siano fruttuose, ad esempio in termini di attrattività di assistenza sanitaria) come per molti altri servizi.

 

@paolobelardinel

7
Mar
2015

Addio a Guido Ghisolfi

Oggi si svolgeranno a Tortona i funerali di Guido Ghisolfi, che si è tolto la vita martedì scorso. Guido era un grande imprenditore, un uomo di intelligenza vivace, ma soprattutto un amico.

Ghisolfi era un uomo di successo. L’azienda di famiglia, la Mossi & Ghisolfi, è un gigante della chimica, di cui lui amava parlare non solo con l’affetto del figlio e l’ardore dell’imprenditore, ma anche e soprattutto con la passione di chi ne sente “suo” ogni pezzo, ogni processo, ogni lavoratore, ogni stabilimento, e più di tutto ogni ricercatore. La vera ragione per cui Gisolfi faceva, e bene, e amandolo, il suo mestiere era questa: era un’opportunità per indagare e scoprire cose nuove. Era un’occasione per circondarsi di giovani scienziati, lanciarli a fare scorribande nei campi dell’ignoto, con la curiosità dello studioso e la concretezza dell’uomo d’impresa. Read More

5
Mar
2015

#buonascuola: il mostro giuridico, il gioco delle 3 carte sui precari e la rivoluzione del merito

Gli incidenti nella predisposizione dei testi di legge stanno diventando troppo frequenti con l’attuale governo per non rappresentare un problema serio. Non abbiamo mai saputo a chi si doveva la soglia depenalizzante delle frodi fiscali, ed esploso il caso a Natale l’attuazione della delega fiscale si è fermata, dunque la delega  scadrà a fine mese e addio semplificazioni. Non abbiamo saputo a chi si doveva la bestiale idea della tassa sul contante e cioè sui depositi bancari oltre i 200 euro quotidiani. E non si è capito nulla di che cosa davvero abbia determinato la doppia decisione di rimettere nel cassetto i due decreti legge che il governo aveva annunciato martedì scorso. Se sia stato il Quirinale, silenziosamente, a far capire che la stagione dei decreti legge a raffica è finita. Se, sulla banda larga il governo abbia capito che rischiava un incidente serissimo visto che, stando al testo delle bozze che giravano tra i giornalisti, vi erano profili di violazione della libertà d’impresa tali da configurare impugnative alla Corte Europea. O ancora se, sulla scuola, il premier non fosse tardivamente soddisfatto del lavoro che pure per 10 mesi era stato fatto al ministero sul testo, con una consultazione pubblica che il governo asserisce aver mobilitato un milione e ottocentomila contatti. Se invece mancassero le coperture finanziarie, dopo tante promesse per 10 mesi. O che altro.

Fatto sta che l’opacità moltiplica l’incertezza e genera mostri giuridici. L’ultimo, oggi, è la nascita dell’inusitato “disegno di legge a tempo”. Il sottosegretario Faraone ha infatti annunciato a Repubblica che il parlamento avrà solo 40 giorni per varare la riforma della scuola (promessa a questo punto per martedì prossimo), altrimenti il testo diventerà decreto legge. Un’altra bestialata. Ma come, la riforma della Rai varata da Gubitosi abbisogna di ben 42 mesi per produrre i suoi risicati risparmi finanziari, e una cosetta come la riforma della scuola va varata in parlamento solo in 1 mese? Dopo 10 mesi dipensamenti e ripensamenti governativi? Viene solo da allargare le braccia, di fronte a tanta creativa disinvoltura istituzionale. E meno male che il premier aveva detto di inchinarsi sulla scuola alla libera dialettica parlamentare, perché “non è un dittatorello”…

Ma fermiamoci sulla scuola. Prima osservazione: è stato il governo, a ripetere per mesi e mesi che la marea di precari della scuola sarebbero stati stabilizzati per il prossimo anno scolastico, mettendoci in regola con i richiami europei (siamo l’unico paese avanzato ad aver concentrato centinaia di migliaia di precari a vario titolo nel sistema della formazione pubblica, per il vecchio vezzo della politica di accendere nuove posizioni a tempo promettendo la messa a ruolo in cambio di voti alle elezioni). Seconda osservazione: anche in questo caso, come per la banda larga, le bozze dei 39 articoli del provvedimento erano ormai pubbliche. Con tutti i particolari di come sarebbero state esaurite – ridefiniti gli organici funzionali per materia, e l’organico d’autonomia per le supplenze dal 2016 – le graduatorie a esaurimento, quelle d’istituto, la riserva per i vincitori del concorso 2012, come pescare dalle graduatorie per gli insegnanti di sostegno , per provincia e con quali limiti di scelta di ciascuno per il distretto. E poi la riforma degli stipendi, su tre fasce stipendiali e con una valutazione triennale. E poi le discusse norme d’incentivo fiscale, il 5 per mille a tutte le scuole, e il voucher di libera scelta per chi sceglie le paritarie. Quelle sui dirigenti scolastici che dovrebbero diventare leader educativi con strumenti e personale adeguati per il miglioramento dell’offerta formativa, quelle sui nuovi organi collegiali, quelle sull’alternanza scuola-lavoro nell’ultimo triennio delle superiori.

Qualche non piccolo indizio che siano le risorse a mancare, c’è eccome. Sarà un caso ma nelle ultime due settimane il numero dei precari da stabilizzare per il 2015-16, dispositivo europeo che giustamente ce li contesta alla mano, da 150mila scendeva secondo indiscrezioni governative di giorno in giorno, per fermarsi a quota 120-110-100mila e ancor meno, escludendo insomma quelli di seconda e terza fascia. Ammettiamolo: dopo decenni in cui la politica ha colpevolmente e cinicamente creato bizzeffe di precari della scuola, illuderli per mesi non è stata una bella trovata.

Continuo a pensare che la stabilizzazione di tutti i precari, com’era prevista nel testo, non distingua sufficientemente il merito reale accumulato perché “dimostrato”, invece che maturato per anzianità. Di conseguenza, il concorso promesso nel 2015 si potrà tenere pure, ma con la stabilizzazione di massa la messa a ruolo iniziale dei vincitori di concorso non comincerà prima del 2020: dunque esiste il forte rischio di creare altri idonei in attesa…

Detto ciò, sta al parlamento pronunciarsi in maniera chiara su alcuni punti che possono essere innovativi sul serio. A cominciare dal merito, dalla valutazione e dal peso che questi due fattori devono avere nelle retribuzioni. Le bozze prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi sarà determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non riuscissero a rientrare almeno nella terza fascia, rischierebbero un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, si potrebbe arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Chi qui scrive pensa che la valutazione, per essere efficace, deve unire chi dirige gli istituti a valutatori terzi. Ma in ogni caso anche ciò che proponeva il governo nelle bozze sarebbe una rivoluzione. Speriamo che il parlamento non ingrani la marcia indietro assecondando la contrarietà dei sindacati, visto che va data per scontata la sensibilità “interessata” di ogni forza politica, a questo punto, a non deludere i precari.

Ricordatevi che già oggi, nella scuola, ai dirigenti spetta valutare l’eventuale incapacità e inidoneità dei docenti. Gianni Maddalon, preside reggente dell’istituto superiore Einaudi-Scarpa di Montebelluna nel trevigiano, è finito sui giornali perché è esattamente ciò che ha fatto, nei confronti di un docente che è stato licenziato. Solo che di Maddalon ce ne sono pochissimi, nella scuola italiana attuale. E ieri, a Radio24, ha detto che nella sua esperienza un 3% dei docenti meriterebbe giudizi simili. Pensateci: su un milione e oltre di dipendenti del MIUR, sarebbero 30mila. Ecco perché serve una svolta vera, sul merito e retribuzioni. Per preparare meglio i giovani i voti non bisogna darli solo a loro, ma innanzitutto a chi insegna.

2
Mar
2015

La fibra ottica verso l’inferno è lastricata di buone intenzioni

Si sa, l’Italia digitale non brilla per velocità di trasmissione dei dati. Chi scrive non ha elementi per valutare, ma vi sono studi che dicono che i nostri megabit viaggiano più lenti della media europea di 40 punti percentuali, con una situazione tuttavia fortemente differenziata a livello geografico e urbanistico, come capita invero per molte realtà.

Quale tipo di connessione, fino a dove e in che tempi portarla può essere non soltanto una questione di mercato. Una volta riconosciuto l’accesso universale, è verosimile che i governi mettano l’occhio sull’ammodernamento della rete infrastrutturale. Le mire del governo sulla posa della banda ultralarga non impressionano tanto per il se, ma per il come. Read More

1
Mar
2015

Banda larga, non banda Bassotti: il governo ci risparmi un piano Rovati bis espropriatore

Ve lo ricordate il piano Rovati, dell’autunno 2006? C’è da sperare che martedì, al Consiglio dei ministri in cui Renzi dovrà presentare un piano per la cosiddetta “banda larga”, eviti il bis di quel pasticcio prodiano. Intanto, ieri il governo ha già dovuto smentire precipitosamente il testo che le agenzie avevano battuto anticipandone i contenuti. E per fortuna, perché era un “piano Rovati al cubo”.

Cerchiamo di capire – in maniera non tecnica, perché il tema è vastissimo e le aziende interessate hanno debolezze e e punti di forza molto diversi – di che cosa si tratta.

Premessa: l’Italia è in fondo alle graduatorie europee per utilizzo di Internet. Troppi italiani che non lo usano, bassa percentuale di case e imprese collegate con reti capaci di elevato download e uplodad, basso utilizzo dell’e-commerce, PA incapace di digitalizzarsi sul serio perché significa rivelare il proprio overstaffing e troppi costi impropri. Da molti anni a questa parte, la questione si centra su una domanda. Poiché al fine di potenziare l’offerta digitale serve un’architettura di infrastrutture fisse e mobili di trasmissione che necessita di alti investimenti – da 2 a 3 punti di Pil a seconda dell’ampiezza di banda da garantire al più dell’Italia, e in che arco tempore – è possibile immaginare la condivisione dei “pezzi” di rete e torri di trasmissione mobile che finora appartengono a ciascun singolo operatore, di tlc e televisivo?

Ogni paese avanzato ha realizzato formule diverse, a seconda delle modalità di sviluppo dell’offerta tv prima e telefonica fissa e mobile poi. Noi non abbiamo la Tv via cavo e non l’avremo mai, a differenza di USA e altri paesi occidentali, perché la scelta andava fatta 40 anni fa ma la RAI di Stato non lo permise. Da noi, ogni azienda di tlc e tv ha mantenuto o realizzato, negli ultimi 20 anni di concorrenza, il “suo” pezzo di rete fissa e mobile. E dal 1997, dalla privatizzazione di Telecom Italia ex Stet-Sip, la mancata soluzione al problema di un’architettura di rete condivisa si sintetizza in due problemi, uno privato e uno pubblico: i debiti di Telecom, la difesa della RAI ( e, dietro di questa, la ripresa massiccia di tornare allo Stato-guida, non regolatore ma gestore).

Telecom Italia ha ereditato dal monopolista pubblico la rete su doppino di rame che arriva nel più delle case italiane. Sul rame, per quanto siano avanzate nei decenni le tecnologie che hanno consentito miracoli di compressione del segnale, non può passare la banca ultra-larga che ha bisogno della fibra ottica. Quella stesa in molte città italiane da Fastweb, che nacque dal cablaggio pubblico a Milano prima di divenire a propria volta privata e, da qualche anno, a controllo svizzero. La multinazionale Vodafone per anni erose il mercato italiano di Telecom Italia, in attesa di capire che cosa la politica e il regolatore Agcom decidessero sulla convergenza della rete. Per poi decidere di investire soprattutto altrove e non in Italia, visto che gli anni passavano e tutto estiva bloccato.

Telecom Italia, mal privatizzata all’inizio con il nocciolino di controllo regalato agli Agnelli e poi sommersa da debiti dalla scalata del 1999 da 100 miliardi di cui il 70% erano in carico a Telecom stessa, ha da sempre il suo margine (TIM, nel mobile, a parte) appeso alla rete in rame. Negli anni, avrebbe dovuto capire che la transizione alla fibra era necessaria. Ma il debito ingentissimo imponeva di “spremere” il rame. Nella gestione Tronchetti, seguita a quella Colaninno, l’azienda lo comprese. Ma quando sottoscrisse una grande alleanza con Murdoch sui contenuti integrati fisso-mobile, e con il messicano Slim per dare più forza mondiale al gruppo, ecco che venne il piano Rovati che puntava a bloccare il progetto e a espropriare la rete fissa.

L’Italia perse l’occasione di una grande alleanza intercontinentale sinergica su servizi e contenuti. Dopo Tronchetti è venuta la gestione Bernabè con le banche italiane in Telco e l’alleanza con gli spagnoli di Telefonica. Poi la reazione della politica all’ascesa spagnola visto che l’azienda andava male e Telco non investiva, fino all’attuale public company guidata da Patuano. Ma i debiti restano due volte e mezzo sul fatturato quelli della Stet-Sip pubblica, all’estero Telecom Italia è rimasta solo con la presenza in Brasile, mentre sul mercato domestico questi anni sono stati magri per tutti. Ergo Telecom Italia continua ad annuciare mega piani di investimento sulla rete – l’ultimo da oltre 12 miliardi – ma serve solo a spingere la palla avanti, per proseguire a spremere il rame. La fibra non serve, non c’è domanda, è il mantra.

Da 10 anni, la politica italiana è stata ricorrentemente presa dalla tentazione di rimettere l’intera rete nelle mani pubbliche, attraverso Cdp e con qualche miliardo a Telecom: la sua rete è valutata 15 miliadi nell’attico patrimoniale, ma 11 sono di avviamento già ammortato Senza quei 15 miliardi di patrimonio, però, Telecom crolla sotto i debiti rispetto al residuo patrimonio.

L’alternativa c’è sempre stata: costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi (compresa la Rai) incentivando fiscalmente i conferimenti in una società comune (a controllo “neutro” o no: è una soluzione regolatori a seconda di che cosa si vuole ottenere), e aggiungendo agli incentivi fiscali tariffe di terminazione reciproca sui servizi incrociati che “spingessero” la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati.

Troppo complicato, per la politica. E poi di mezzo c’è la Rai, Mediaset, Sky di Murdoch: figuriamoci. Nel frattempo, la FCC , l’autorità delle comunicazioni statunitense, ha assunto una discussa decione a maggioranza, per la quale d’ora in poi dovrà valere la net neutrality. Cioè nessun operatore che offre servizi di rete o contenuti deve operare, attraverso prezzi ai concorrenti per passare sulla propria rete e tariffe ai clienti finali, in modo da “avvantaggiarsi” nella fidelizzazione. Una scelta pesante, visto che imporrà vincoli alle strategie d’impresa di tutti i giganti privati, delle tlc e di Internet come Netflix e Google. Ma comunque un’altra galassia, rispetto al ritardo italiano.

In gioco c’è la possibilità per milioni di italiani di avere offerte convergenti a buon mercato di internet e tv, impossibili con qualche kilobites al secondo. Per decine di migliaia di imprese, avere una rete a disposizione per rivoluzionare la propria intera catena di clienti e fornitori elevando la produtttività. Per i produttori di contenuti, la possibilità di non restare “prigionieri” di intese esclusive con grandi operatori di rete.

Fino alla settimana scorsa, la politica ha sperato che la Telecom di Patuano accettasse di salire in Metroweb, la società erede di molta fibra il cui timone è nelle mani di Cdp e F2I. Ma Telecom, per difendere il proprio rame, senza il controllo di Metroweb dice no.

Ecco lo sfondo della decisione che il governo prenderà martedì. Le alternative sono due. Dalle bozze emerse ieri ( e smentite), siamo alla riproposizione dello Stato che decide lui che cosa devono fare i privati. A cominciare da Telecom, di cui si prescriverebbe lo spegnimento di metà della rete in rame fino alle case già a partire dal 2020, e completa al 2030. In più, un articolo prevederebbe che sia il governo a decidere quanto deve investire nei prossimi 15 anni ogni player privato. Uno schema sovietico in salsa IRI.

La seconda alternativa è quella di un paziente confronto tra governo, Agcom, tutte le telefoniche e tutte le società televisive e le maggiori multinazionali internet operanti in Italia, per fissare insieme una rete di incentivi fiscali e tariffari volti a realizzare entro alcuni anni un la convergenza delle reti a investimenti crescenti. Vedremo quale sarà, la scelta di Renzi: se un salto verso il futuro, o un ritorno al passato. Che comporterebbe sanguinose impugnative di tutte le aziende private, e il segnale a tutto il mondo che vogliamo assomigliare al Venezuela.

Può essere pure che Renzi abbia giocato al solito modo in cui ci ha abituati: vedi la norma sulla soglia depenalizzante le frodi fiscali, o la tassa sul contante, entrambe annunciate e poi sparite, elaborate non si sa da chi ma in ogni caso potenti “segnali” al mercato e ai suoi operatori. Beh, se si tratta di questo, è un pessimo modo di governare. Un governo rotea mazze nell’aria per far paura alle imprese e indurle a miti consigli solo se è autoritario. E poiché non credo che il governo Renzi lo sia, vuol dire allora che ha pessimi e scoordinati estensori dei suoi testi nella ristretta cerchia di palazzo Chigi. E peggio mi sento.

 

27
Feb
2015

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