26
Mar
2015

Corruzione: c’è una via più efficace dell’orgia manettara, ma lo Stato non la pratica

Un rapporto fresco fresco dell’OCSE rilasciato ieri attesta che l’Italia, tra i paesi avanzati, vanta – si fa per dire – la più alta soglia di “corruzione percepita”. Ben il 90%, rispetto a un tasso bassissimo di fiducia, dio poco superiore al 30%, nel governo in quanto istituzione. Mentre in Svezia, che ha il più basso tasso di corruzione percepita al 15%, la fiducia nel governo sta al 55%. Attenzione: questo ranking dice solo che noi ci riteniamo e siamo considerati un paese molto corrotto. Non è affatto una misura quantitativa attendibile. Ancora ieri il Financial Times ricordava che, nell’ultimo mese, se il ministro italiano Lupi si è dimesso scandali di corruzione politica altrettanto se non ancora ancora più gravi sono in corso in Spagna, Regno Unito e Romania. Certo, la corruzione è difficile da stimare. E per favore non ripetete la cifra spesso ricorrente nel dibattito pubblico sui 60miliardi di euro l’anno che la corruzione costerebbe all’Italia: nasce da un report della Corte dei Conti di anni fa, nel quale in realtà la stima veniva definita del tutto nasometrica e inattendibile. Ma spesso in Italia nulla più di un numero inattendibile diventa invece acquisito e ripetuto.

Tuttavia una cosa è certa. In Italia di corruzione ce n’è troppa. Uno Stato che assorbe oltre il 50% del Pil, con una presenza invadente dei partiti, una pubblica amministrazione che spesso deve carriere e potere ai partiti stessi, una normativa iperbolicamente bizantina che appare volta a impedire e che induce politici e funzionari pubblici a farsi pagare da privati corrotti o corruttori per aggirarne i veti: queste le ragioni strutturali della corruzione diffusa, non certo un’atavica predisposizione italica a delinquere più elevata che negli altri popoli. C’è chi lo crede, io no: è la tesi di chi poi pensa che spetti allo Stato creare “l’uomo nuovo” virtuoso, un antico e temibuilisso retaggio dell’idealismo hegeliano e dei suoi tanti discepoli rossi e neri.

Con tale premessa, la vera cura anticorruzione consisterebbe in una drastica purga della spesa e dell’intermediazione pubblica, nella cessione di migliaia di società pubbliche greppie del malaffare, nella separazione tra partiti e pubblica amministrazione, nella rotazione dei dirigenti pubblici. Tranne quest’ultimo punto, a cui stiamo piano piano e con fatica arrivando (confondendo ovviamente l’obbligo che deve valere nel settore pubblico con l’imposizione anche ai privati..), è esattamente ciò che la politica italiana non fa e non farà.

Ci sono allora due strade concettualmente diverse. La prima è quella imboccata dal travagliato disegno di legge anticorruzione che è in cottura da un anno, ora all’esame del Senato dopo l’accelerazione avvenuta con l’approvazione alla Camera. E’ la via, sostanzialmente, dell’inasprimento delle sanzioni penali, principali e accessorie, alle diverse forme che la corruzione e la concussione, indebita induzione e peculato e falso in bilancio, possono assumere. E’ un testo sulle cui inasprite pene si sono alternate le divergenti pressioni dei magistrati da una parte e di Forza Italia dall’altra fino a che esisteva il Patto del Nazareno, e oggi di Ncd rispetto al Pd. Con il ministro Orlando dedito a un paziente lavoro di tessitura. E’ un testo che ci porta al massimo europeo delle pene sia per la corruzione sia per il falso in bilancio, e su quest’ultimo argomento ho molte volte scritto che non sono d’accordo. E’ un testo a cui si aggiunge la pressione sovrapposta del distinto ddl giustizia, che riguarda temi importanti come la riforma della prescrizione dei reati, testo nel quale l’altroieri è apparso l’allungamento a fisarmonica della prescrizione fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi per un procedimento di corruzione. Una proposta che accontenterà pure piazze e magistrati, ma che a un liberale non può che fare ORRORE. Per punire i corrotti occorre una giustizia che, perché sia efficace, deve essere rapida: non ancora più lenta di quanto già lentissima sia oggi in Italia.

C’è poi una seconda strada, che riguarda la torta più sostanziosa della corruzione italiana: le opere pubbliche, grandi e piccole. Quelle che avvampano gli scandali del Mose, Expo, TAV, l’Aquila, e infine la struttura tecnica di missione diretta sotto 7 governi da Ercole Incalza, al Ministero delle Infrastrutture. La lotta alla corruzione nelle opere pubbliche, come ripete instancabilmente e solitariamente rispetto ai suoi colleghi magistrati quel gran galantuomo che è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, si fa molto più efficacemente a colpi di accetta sulla miriade di norme vigenti, e riformandone alcuni punti essenziali, non innalzando le pene a 10, 15 o 20 anni di galera.

La Legge Obiettivo – la culla delle deroghe al Testo Unico sugli appalti nel frattempo modificato da 54 diversi interventi legislativi in 622 punti – è clamorosamente fallita. Su 285 miliardi di opere cantierabili promesse, ne sono state realizzate in realtà l’8%. Con un sovraccosto del 40% rispetto alle prime stime. Dopo tanti scandali, ora sappiamo che cosa va cambiato, per contrastare la corruzione di sistema. E la grande occasione è il recepimento delle direttive europee, che chiedono una sostanziale DELEGIFICAZIONE delle norme sulle opere. Ma in parlamento sembra non rendersene conto nessuno…

Ma come: e i controlli, direte voi? Subito serviti. L’esperienza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione affidata a Raffaele Cantone sta funzionando: facciamone tesoro. O meglio: sta funzionando la sua azione “preventiva”, quella che più mi interessa potenziare. Si operi allora un grande trasferimento di poteri di regolazione all’ANAC, che sia chiamata non solo a vigilare preventivamente, ma a redigere bandi tipo di gara. Abbassiamo il limite delle varianti in corso d’opera al 15%, che è il limite europeo. Aboliamo il general contractor che nacque con la TAV di Necci e che oggi nomina il direttore lavori delle stazioni appaltanti, dimostratosi connivente a corruzione e sovraccosti invece che vigilante. Modifichiamo radicalmente l’attuale regime di progettazioni esecutive, vinte da studi di comodo con ribassi di gara anche dell’80%. Subordiniamo la concessione di lavori al solo progetto definitivo : il che significa darsi uno standard tecnico di valutazione ex ante dei costi-benefici tale da evitare la sistematica sopravvalutazione di molte costose opere poi rivelatesi superflue (vedi il caso della BreBeMi in Lombardia). Applichiamo dovunque la messa in rete digitale di ogni particolare riguardante le opere, seguendo lo schema BIM (sta per Building Information Modelling) chiestoci dalla nuova direttiva europea approvata a inizio 2014 e che DEVE entrare in vigore a gennaio 2016. Tagliamo drasticamente la possibilità di affidi di opere a trattiva privata, invece che sempre con evidenza pubblica.

Infine, prendiamo finalmente sul serio la promessa inattuata dall’attuale governo: ridurre da 35 mila a 35 le stazioni appaltanti pubbliche. Trentacinquemila centri pubblici di affidamento lavori sono un universo incontrollabile per definizione. Lo Stato faccia il favore: oltre – se crede – a promettere secoli di galera, cambi faccia e corporatura. Perché un gigante Briareo dalle mille braccia è fatto apposta perché ogni mano non sappia quel che fa l’altra.

 

23
Mar
2015

La sete di democrazia e il costo dell’“acqua pubblica”—di Max Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Max Del Papa.

Quello che ogni famiglia aveva capito in modo percettivo, sulla pelle del proprio portafoglio, adesso è ufficiale: in un decennio il costo dell’acqua è aumentato praticamente del 100% (95,8%, per la pignoleria). Ne dà notizia Sergio Rizzo sul Corriere riprendendo i risultati dell’Ufficio Studi della Confartigianato. Non basta. La tendenza appare serenamente fuori controllo, e con i nuovi metodi di calcolo delle tariffe le bollette non potranno che impennarsi ulteriormente. Sono serviti i compulsatori di referendum come quello che, nel 2011, metteva di fronte ad un falso dilemma, fuorviante e ideologico: mantenere l’acqua, “bene pubblico”, nelle confortanti e sagaci mani pubbliche, oppure abbandonarla ai rapaci artigli del famelico privato? Read More

23
Mar
2015

Pirelli, la Cina, e la salvaguardia italiana che lo Stato non firma

Ora che conosciamo almeno a grandi linee i particolari dell’intesa su Pirelli tra gli azionisti di controllo italiani, quelli russi di Rosneft, e i nuovi azionisti di China Chemical, il primo invito è: per favore evitiamo di cadere dal pero, come sembrano fare molti immediatamente pronti a ripetere il luogo comune “stanno svendendo l’Italia”. L’informazione esiste per mettere i luoghi comuni alla prova dei numeri e dei fatti. Numeri e fatti che da anni indicano che cosa avesse in mente Marco Tronchetti Provera, e perché abbia provato a risolvere i problemi che doveva affrontare con una serie di successive intese, sino a quella di ieri.

Premessa. La guida operativa e il controllo esercitato da Tronchetti in Pirelli ha alcuni meriti storici. All’inizio, quando subentrò a Leopoldo Pirelli, risanò un grande caos organizzativo e finanziario che andava ben oltre confine. Con le leggi attuali, sarebbe finito dritto nel penale: ma non era così negli anni di Mediobanca all’apogeo. Secondo merito: dopo esser stato bloccato dalla politica in Telecom Italia, quando stava realizzando una grande alleanza sui contenuti con Murdoch e sulle reti con il messicano Slim, Pirelli aveva rimesso quasi 3 miliardi in Telecom, e Tronchetti si è messo già di buzzo buono a rifocalizzarne strategia e mercati di sbocco. La scelta pagante è stata ridimensionare drasticamente i volumi del mass market e puntare sempre più sul segmento premium, a più alta intensità di ricerca e redditività di valore rispetto ai volumi. La strategia ha funzionato, mentre molti storcevano il naso sulle dismissioni necessarie. Terzo: Tronchetti ha avuto infine un altro merito, non nascondere che lo sviluppo industriale e di riposizionamento mondiale aveva bisogno di capitali, necessari ad abbassare l’alta leva finanziaria del controllo (nel frattempo Tronchetti ha semplificato infatti la catena a monte) italiano, a fronteggiare i debiti, ma soprattutto a investire.

Dal secondo e dal terzo punto appena ricordati discendono i tre riassetti finanziari ai quali Tronchetti ha messo mano dal 2012 ad oggi . I primi, alla ricerca di finanza italiana per rafforzare l’azienda. Ma le premesse non sono state adempiute con il gruppo Malacalza, che di Pirelli voleva in realtà impadronirsi sostituendo chi ne ha intravisto e realizzato il riposizionamento sull’alto di valore aggiunto. Di qui lo scioglimento dell’intesa, e una contesa giudiziaria che andava evitata. Secondo passo, sempre italiano: cercare nel fondo Clessidra, in Unicredit e Intesa non solo il ponte finanziario per uscire al meglio dal fallimento dell’accordo con Malacalza, ma anche per affrontare il fururo. Niente da fare, gli altri soci italiani hanno accettato di fare solo da ponte. Ecco perché Tronchetti si è rivolto a grandi soci internazionali. Ed è venuta la scelta dei russi di Rosneft, quando nessuno poteva ancora immaginare la crisi ucraina, le sanzioni e il crollo del prezzo del petrolio. Ergo, eccoci ai cinesi di Chemical China. Che sono pronti a un’opa totalitaria concordata sull’azienda, un’operazione da quasi 8 miliardi di euro.

Si scriverà che Tronchetti vuol far cassa e andare in barca. Ma chi lo scrive sa bene che Pirelli è nel mirino del grande consolidamento mondiale che avverrà non solo nell’auto (e di cui vedremo gli sviluppi con l’accordo che Marchionne firmerà tra FCA e un altro grande gruppo entro il 2018, come ha giàò cominciato a ripetere invitando i concorrenti a fare offerte) ma anche negli penumatici. Con la differenza che i grandi players mondiali di settore come Continental, Bridgestone e Michelin hanno capitalizzazioni miliardarie multiple, rispetto a Piurelli. Si tratta esattamente di evitare una mossa da parte di qualcuno dei grandi gruppi internazionale del settore che inevitabilmente sarebbe arrivata: e allora, con un’opa ostile, in Italia non sarebbe rimasta né la guida del gruppo né la testa pensante della sua ricerca e della sua strategia mondiale. Ne sarebbe venuto solo uno spezzatino.

Come invece non avverrà nell’accordo con i cinesi: grazie a un’esplicita clausola, è stato anticipato, che renderebbe possibile alterare il ruolo strategico industriale italiano solo con un voto al 90%, impossibile senza il 22,6% che resterebbe in mano italiana in caso di successo dell’opa totalitaria. Ecco: la clausola di salvaguardia italiana è il nocciolo vero di questa intesa italo-cinese. Chiunque la critichi avrà il dovere di dire come altrimenti si poteva evitare un’Opa ostile presto o tardi in arrivo.

Il difetto dei tentativi andati a male in Pirelli non ha radice nell’azienda ma nel paese: è la povertà di capitali e strategie del sistema Italia. Nessuno, né gruppi finanziari né banche, ha inteso scommettere somme rilevanti sulla piena italianità di un gruppo, a ebitda in crescita anche a restrizione di perimetro, a fronte dell’ipotesi che in caso di Opa ostile si dovesse esser pronti a tirar fuori miliardi. Ma almeno questa volta, a differenza di tante altre cessioni in mani estere di gioielli italiani, c’è una norma esplicita che presidia l’italianità piena della ricerca e della strategia Pirelli. Che consentirà al gruppo di concentrarsi acnor più sugli pneumatici premium per auto, allocando quelli per trucks insieme alla divisione analoga di China Chem.

E’ finita l’era leggendaria degli Agnelli e dei Pirelli? No. Di leggendario – anche se molti non lo ammetteranno mai – quell’epoca aveva poco, era possibile solo nel mondo di allora, a frontiere e mercati chiusi e non comunicanti. Il problema dell’Italia di oggi è trovare capitali che scommettano sulle sue eccellenze, e non le spoglino per spacchettarle e portarle altrove. L’investimento cinese in Pirelli sembra determinarsi a questo fine, esattamente come accaduto coi tedeschi in Lamborghini e Ducati. Ed è allora un bene che avvenga.

Non si capisce del resto perché nessuno abbia battuto ciglio quando i cinesi hanno investito miliardi per fare un favore allo Stato italiano, rilevando il 35% di Cdp Reti e il 40% di Ansaldo Energia senza che risultino sottoscritte clausole analoghe di salvaguardia dell’italianiotà, nonché quote in Eni, Enel e Saipem. Mentre se si tratta di grandi imprese private che si autotutelano allora ecco che scattano i mal di pancia.

E veniamo all’obiezione finale. Subito si comincerà a dire che Pirelli doveva cercare aiuto nello Stato italiano, al Fondo Strategico e alla CDP. Esprimo un’opinione secca e personale. Tronchetti ha avuto prove brutali a suo discapito dell’inframmettenza pubblica italiana, ai tempi del piano Rovati prodiano e contro l’intesa con Murdoch. Lo Stato italiano nel frattempo ha espropriato dall’ILVA  i soci privati senza neanche riconoscere loro un corrispettivo di alcun tipo, e senza nessuna sentenza. Francamente, di fronte a QUESTO Stato italiano non mi meraviglio, che ci si senta più sicuri persino coi cinesi dopo aver duramente trattato clausole di salvaguardia da loro sottoscritti.

20
Mar
2015

Falso in bilancio e ingolfamento del sistema giudiziario—di Raffaele Fiume

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Raffaele Fiume.

Dopo tanta attesa il Governo ha presentato la propria proposta sulla riforma del reato di falso in bilancio. L’idea di modificare la disciplina vigente è più che benvenuta perché è del tutto evidente che essa oggi merita una revisione.

Il dibattito su questa modifica ha seguito, purtroppo, il mainstream di ideologia, tifo campanilistico e insufficiente approfondimento che caratterizza il processo legislativo da qualche lustro. Read More

19
Mar
2015

Grandi opere: la “maxi-tangente” di cui nessuno parla

Immaginiamo che tutto si risolva in un nulla di fatto. Che l’ennesima bufera giudiziaria sulle Grandi Opere si concluda con l’accertamento che non vi sono responsabilità penali dei soggetti coinvolti. Che non siano state pagate tangenti e che tutto l’iter amministrativo sia stato perfettamente regolare. Dovremmo tirare un sospiro di sollievo e concludere che: “tutto va ben, madama la marchesa”? No. La corruzione, ove accertata, rappresenterebbe la classica punta dell’iceberg.
Quello che non si vede, che non dà scandalo e, anzi, riscuote un consenso molto ampio, ha una rilevanza ben maggiore. Stando a quanto scrive il Corriere della Sera, le tangenti pagate per la realizzazione di opere per un totale di 25 miliardi di euro, ammonterebbero all’1% di tale somma, ossia 250 milioni di euro.
Ora, oltre a preoccuparsi, giustamente, del “numeratore”, sarebbe il caso di farsi qualche domanda in più sul “denominatore” di questo rapporto.
Facciamo l’ipotesi che tutte le opere finanziate con quei 25 miliardi fossero state realizzate a costi efficienti e apportassero benefici superiori ai costi sostenuti: potremmo concludere che il “pedaggio” pagato dalla collettività a causa della corruzione sarebbe tutto sommato modesto, quasi trascurabile.
La realtà è però assai lontana da questo scenario ipotetico. Non solo, come noto, quasi tutti i maggiori investimenti infrastrutturali realizzati negli ultimi vent’anni in Italia (ma non solo) hanno visto i costi lievitare in corso d’opera ma, quando prodotte, si sono rivelate clamorosamente errate le previsioni di traffico; scenari del tutto privi di riscontro nella realtà vengono riproposti anche nei più recenti documenti governativi.
Quale che sia la responsabilità giudiziaria, è quindi provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’incapacità o, peggio, il disinteresse da parte chi ne ha avuta la responsabilità sia tecnica che politica, a valutare correttamente l’opportunità o meno di realizzare determinati investimenti e ad assicurare un soddisfacente controllo dei costi.
Che cosa sarebbe successo se gli stessi errori fossero stati compiuti da dirigenti di un’impresa privata? Posto che la stessa non fosse già fallita, vi sono pochi dubbi che la proprietà li avrebbe allontanati da tempo.
E da tali “errori” derivano costi per i contribuenti che sono di gran lunga superiori a quelli delle presunte tangenti. Laddove le valutazioni economiche sono state riprodotte, adottando ipotesi realistiche, sono state stimate perdite che, ad esempio, nel caso del cosiddetto terzo valico della linea Tortona/Novi Ligure-Genova ammonterebbero a oltre 4 miliardi. Considerato che nel “Programma Infrastrutture Strategiche” sono previste infrastrutture ferroviarie per oltre 30 miliardi di euro e che, per la maggior parte di esse, sussistono condizioni del tutto analoghe a quella sopra delineata, si può ottimisticamente prevedere che, qualora realizzate, il danno arrecato alla collettività sarebbe superiore ai 20 miliardi.
Nell’immediato è quindi assai opportuno il congelamento di tutte le Grandi Opere che sembra essere stato ipotizzato dal Governo ed una revisione, sulla base della metodologia standard riconosciuta in ambito internazionale, delle analisi economiche e finanziarie condotte finora.
Nel medio termine appare auspicabile una revisione complessiva delle attuali modalità di finanziamento passando da una strategia incardinata su investimenti quasi esclusivamente pubblici e statali (oltre ad ingenti sussidi all’esercizio per i trasporti collettivi) ad una che punti maggiormente sugli investimenti stradali e sull’adozione di pedaggi / prelievi fiscali corrispondenti ai costi diretti ed esterni dei trasporti e con responsabilità di reperimento delle risorse prevalentemente a carico di enti locali e soggetti privati.

17
Mar
2015

Legalità e rispetto delle regole—di Guido Ottolenghi

Ritenendolo di particolare interesse per il lettore, ripubblichiamo il testo dell’intervento di Guido Ottolenghi, presidente di Confindustria Romagna, tenuto in occasione del convegno su “Legalità e rispetto delle regole nella logistica” organizzato da Filt CGIL Cesena, Forlì e Ravenna (Cervia, 27 febbraio 2015).

Buongiorno e grazie per l’invito a questa convegno.
Vorrei prima di tutto ricordare che da tempo la nostra associazione promuove la cultura della legalità, insieme al tema della giustizia e della sua amministrazione, con iniziative e riconoscimenti. Quando parliamo di legalità, non pensiamo solo al rispetto delle leggi, ma anche al tema di isolare l’illegalità sul nascere. Chiediamo anche un costante impegno civico per far sì che il mondo in cui viviamo avanzi e non arretri. Non pensiamo che se le cose vanno male sia responsabilità di qualcun altro metterle a posto: da soli non possiamo certo cambiare il mondo, ma senza di noi il mondo non cambia. Se non ci mettiamo in gioco quando vediamo qualcosa che non va, se non ci esponiamo almeno qualche volta, quel che ci sembra quieto vivere un giorno scopriremo che è diventato omertà. Read More

16
Mar
2015

Una legge su partiti e sindacati? Magari, purché dica che..

Sarà davvero interessante capire a che cosa stia pensando il governo, in merito a una legge di attuazione degli articoli 39 e 49 che riguardano sindacati e partiti. Se fosse una mera ripicca alla “coalizione sociale” a cui lavora la Fiom di Landini, sarebbe un grave errore. Serve un meditato intervento organico, che codifichi norme di democrazia e trasparenza.

I sindacati in Italia hanno sempre fatto politica, collaterale ai vecchi partiti un tempo e ora con qualche difficoltà a riconoscersi negli attuali blocchi. Ma politica l’han sempre fatta: faceva politica eccome Di Vittorio come Lama, han fatto politica ecome Cofferati ed Epifani, lo scontro attuale tra Fiom e Cgil non è tra “sindacato puro” vs “sindacato politico”, ma una lotta di egemonia tra chi dei due possa fare politica a sinistra. Poiché il sindacato politica in Italia l’ha sempre fatta,  perciò la politica si è ben guardata dall’adempiere la Costituzione con una legge che disciplinasse la registrazione dei sindacati ancorandola norme di democrazia e doveri di trasparenza.

Quanto ai partiti, di fatto anch’essi libere associazioni non riconosciute e senza personalità giuridica, in Parlamento si sono ben guardati dal redigere una legge che garantisse davvero la propria democrazia interna. Sono intervenuti a proprio favore a raffica solo per darsi soldi pubblici, da metà degli anni Settanta in poi, e allegramente infischiandosene del voto referendario degli italiani nel 1993 abrogativo del finanziamento pubblico, che ora con la riforma votata a inizio 2014 scalerà a diminuire via via, fino a scomparire entro il 2017, sempre che i partiti non ci ripensino. Guarda caso, i minimi requisiti formali per la redazione dei bilanci dei partiti previsti entro il 31 dicembre scorso, e a cui i partiti erano inadempienti,  sono stati protratti dall’attuale governo nel decreto milleproroghe.

Per i partiti, l’aspetto delicato – risolto il finanziamento – è la codificazione in statuti di obblighi nei confronti dei loro iscritti: obblighi di accesso ai conti e all’elenco degli associati, obblighi di procedere a primarie con modalità fissate e secondo liste certificate, obblighi di democrazia interna da osservare negli organi statutari, nelle rappresentanze come nei procedimenti disciplinari. Ve li vedete voi gli attuali partiti assumere impegni per legge che consentirebbero a ogni iscritto e cittadino, di fronte a decisioni assunte seguendo due pesi e due misure – la norma, non l’eccezione, all’interno dei partiti – di adire il Tribunale? Personalmente, non ci credo.

Analogamente vale per il sindacato, ma con la differenza che sono in gioco la valenza erga omnes di contratti oggi assunti da libere associazioni, nonché obblighi di trasparenza finanziaria che, nel mondo sindacale, sono a oggi addirittura inferiori rispetto a quelli dei partiti. In 70 anni, la diffidenza verso una disciplina legislativa dei sindacati si è fatta forte di due timori. Quello di violare l’autonomia organizzativa e l’iniziativa sindacale propria della specificità di ciascuno di essi. E, soprattutto, il freno è venuto dal rischio che la maggioranza politica di un colore scrivesse regole “contro” questo o quel sindacato. Dopo 20 anni di governi a colore alterno, si può sperare che i timori siano svaniti? Stante la conflittualità tra Pd oggi architrave del governo, e Cgil-Fiom, direi di no. Ma sperar non nuoce.

Distinguiamo i due punti essenziali per ogni tentativo legislativo in materia sindacale. Il primo riguarda la rappresentanza perché i contratti siano “esigibili” erga omnes. Il secondo: le finanze.

Sulla rappresentanza, ci si è avvalsi nei decenni di accordi interconfederali tra sindacati e associazioni datoriali. L’ultimo protocollo è del gennaio 2014, traduzione operativa dell’intesa sottoscritta nel 2013 anche dalla Cgil dopo che la precedente nel 2011 – a polemica Fiat esplosa – non aveva ottenuto la sua firma. Ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria, sono ammessi i sindacati che abbiano una rappresentatività almeno del 5% , considerando la media fra dato associativo e dato elettorale. Un dato certificato dall’INPS, che proprio oggi con il presidente Tito Boeri ha firmato il relativo protocollo con imprese e sindacati,.

Ma qui vengono due punti aperti e delicati. Perché riguardano i diritti sindacali e l’esigibilità del contratto nei confronti di chi il contratto non l’ha firmato. Mentre i diritti sindacali alla fine nell’accordo interconfederale sono concessi anche ai sindacati che abbiano solo “partecipato” alla piattaforma negoziale, a differenza di quanto prescrive per legge l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che li riserva solo a chi il contratto l’ha firmato, il protocollo prescrive poi chei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni Sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza, previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice saranno efficaci ed esigibili”. E’ una regola che riprende anch’essa il vecchio Statuto dei lavoratori. Ma è una norma che non solo la FIOM non digerisce: soprattutto la Corte Costituzionale, il 3 luglio del 2013, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 19 dello Statuto nella parte che dava rappresentanza sindacale aziendale solo a i sindacati che avevano sottoscritto il contratto.

Se si interviene per legge, è questo il punto dolente dello scontro tra FIOM e tutti gli altri. Come si mette insieme l’esigibilità piena dei contratti con la strategia di grandi sindacati di non firmali a oltranza e adire il tribunale? Bisogna anche tener conto che si tratta di norme che ricadono poi sui contratti aziendali, di princìpi che devono essere chiari e trasparenti anche per le imprese che non aderiscono a sindacati datoriali, come Fiat che è uscita da Confindustria e UnipolSai uscita dall’ANIA.

C’è poi un capitolo altrettanto delicato: che riguarda le trattenute sindacali, l’intero comparto – oggi opacissimo – del finanziamento pubblico sindacale, e degli obblighi di rendicontazione contabile e patrimoniale. L’anno scorso sul Messaggero sottolineammo che si aggira sul miliardo di euro l’anno la cifra stimata di fonte pubblica che affluisce nei bilanci sindacali – tra convenzioni dei CAF, Patronati, quota-pensioni girata dall’INPS, e via proseguendo. I tre segretari confederali replicarono attribuendo la cifra a un intento malevolo, ma non fornirono un’analitica riaggregazione delle cifre che smentisse la nostra stima.

Senza legge, restando i sindacati libere associazioni non riconosciute, sono solo soggetti ai magri articoli del Codice Civile che disciplinavano nel 1942 tale forma di libera organizzazione dei corpi intermedi. I rendiconti economici annui pubblicati da Cgil, Cisl e Uil sono meri riepiloghi di cassa, non un bilancio analiticamente completo di centro e periferia, di ogni spesa e ogni trasferimento ricevuto, dell’ammontare degli attivi mobiliari e immobiliari nonché delle passività di ogni genere. In assenza di bilanci consolidati resi pubblici, purtroppo, si possono solo stimare le entrate aggiuntive oltre ai finanziamenti diretti tramite le ritenute salariali, e cioè i finanziamenti pubblici che arrivano tramite l’attività degli enti parasindacali, come patronati, CAF ed enti bilaterali, e infine i finanziamenti percepiti tramite la retribuzione percepita dai lavoratori per lo svolgimento di attività di natura sindacale durante l’orario di lavoro. Se i trasferimenti pubblici per CAF e Patronati fossero del tutto equivalenti a ciò che i lavoratori pagano a tal fine, le loro cifre non sarebbero comprese nel rendiconto generale della spesa dello Stato, sotto la voce “contributo pubblico al finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale”. Né Giuliano Amato avrebbe ricevuto dal governo Monti l’incarico di redigere un rapporto sul finanziamento diretto e indiretto dei sindacati.  Né la spending review montiana avrebbe disposto la riduzione del 20% dei compensi per i Caf derivanti dalle dichiarazioni fatte per conto dell’Inps.

Non sappiamo se davvero il Ministero del Lavoro davvero eroghi ai patronati lo 0,226% dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, dall’Inpdap e dall’Inail tenendo conto, e come, per davvero anche della loro concreta organizzazione, come prescrive la legge. L’obbligo di anonimato sulle liste dei distacchi sindacali, tagliati dal governo Renzi nella PA, è ormai una garanzia antidiluviana. Ed è troppo, voler sapere il preciso ammontare dei patrimoni immobiliari sindacali, esente dalla tassazione che tocca a noi tutti?

Non ci aspettiamo che il governo Renzi adotti il modello di un sindacato finanziato da soli contributi liberi e volontari, senza ritenute alla fonte obbligatorie per legge e con propri fondi previdenziali integrativi, in modo che ciascuno possa essere giudicato sulla gestione più efficiente. Pensiamo tuttavia che per primi i dirigenti sindacali guadagnerebbero consensi, tra i loro iscritti e soprattutto tra i molti milioni in più di lavoratori che non lo sono, se non dicessero no a nuovi e penetranti obblighi di trasparenza: loro che sono i primi a chiederli, e giustamente, alle imprese.

 

16
Mar
2015

Al Sud non basta la ripresina. Servono politiche dell’offerta

“Sono convinto che il Sud sia un tema che va riaperto, ma non credo a politiche specifiche. Bisogna continuare con politiche generali, cambiandole all’occorrenza, ma senza risorse aggiuntive”. Così a Cernobbio il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in una giornata in cui ha riconosciuto con sincerità quanto della nuova atmosfera di ottimismo sulla ripresa possibile italiana si debba in realtà soprattutto a Mario Draghi. Ma ha ragione sul Sud, Padoan? Richiamiamo qualche dato. Poi un esempio internazionale. E traiamone una conclusione.

L’aggravamento del gap del Mezzogiorno rispetto al centro-Nord negli anni di crisi è purtroppo ben noto. Nel 2013 il Pil per abitante era pari a 33,5 mila euro nel Nord-Ovest, a 31,4 mila euro nel Nord-est e a 29,4 mila euro nel Centro. Il Mezzogiorno, con un Pil pro capite di 17,2 mila euro, era a un livello inferiore del 45,8% rispetto al Centro-Nord. ll Mezzogiorno ha perso più occupazione rispetto al resto del Paese fin dall’inizio della crisi. Il tasso di occupazione maschile del Mezzogiorno, già inferiore di quasi dieci punti alla media nazionale nel 2008, ha continuato a diminuire con un ritmo più accentuato. Quanto alle donne, al Sud ne lavora solo una su tre. Sono scese le famiglie con due o più occupati in casa: sono solo il 20%. Sono salite quelle in cui non è presente alcun occupato: sono il 20%. Il tasso nazionale di disoccupazione è fatto di una media nazionale che la vede al Nord inferiore ai due terzi, mentre al Sud è doppia. Fermiamoci qui. E’ vero che i dati vanno tarati con il minor costo reale della vita, anche di un terzo inferiore al Sud rispetto  al Nord. Ma pesano anche i peggiori servizi pubblici offerti a chi vive al Sud.

Veniamo al precedente storico a cui guardare. Il divario non è poi molto inferiore a quello che gravava sulla Germania est rispetto a quella Ovest, 25 anni fa alla caduta del muro. La produttività orientale venne calcolata alla riunificazione pari a un terzo di quella occidentale, e di conseguenza così si partì come base salariale. Che rapidamente crebbe però fino a due terzi di quella occidentale nel corso di due rinnovi contrattuali. La Germania Ovest fornì a quella orientale quattro pilastri di solidarietà. Primo: un gigantesco trasferimento di competenze tecniche ai vertici delle amministrazioni pubbliche. Secondo: un’amministrazione straordinaria, la Treuhandanstalt, che portò alla privatizzazione di 33 mila grandi medie e piccole aziende tedesche in 5 anni, restituendone molte altre agli ex proprietari pre-regime. Terzo: un cambio alla pari tra marco occidentale e orientale, contro il parere della Bundesbnak e per volontà di Khol. Quarto, un meccanismo di trasferimento di risorse finanziarie il cui terzo pacchetto è ancora in vigore fino al 2019, e che attraverso i fondi di perequazione tra Laender occidentali e orientali toccò all’inizio il 9% del Pil complessivo tedesco annuale (all’epoca, più del 50% del Pil della ex DDR), per scendere poi oggi sotto il 5%. Il risultato non è ancora la piena parificazione del reddito, occupazione, e produzione. Ma è stato un successo straordinario di livellamento del gap, rispetto alla nostra storia unitaria centocinquantennale che ha visto il gap diminuire solo tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del Novecento.

E ora le conclusioni da trarre, rispetto alle parole di Padoan. Già si era capito dall’impostazione sin qui seguita dal governo, che non si nutre fiducia in politiche ad hoc per ridurre il divario tra Nord e Sud. Se questo significa non ripetere gli errori del passato, cioè l’assistenzialismo clientelare degli ultimi decenni di intervento straordinario e della somma di Casmez e Iri, nonché anche del tentativo giacobin-dirigista dei patti territoriali di era ciampiana, non si può che essere d’accordo. Sono esperienze fallite, e soprattutto la prima ha generato raffiche di punti di debito pubblico ,abituando al prendi-e-fuggi di sussidi e trasferimenti pubblici in assenza di piani industriali seri. In realtà, alimentando dunque l’illegalità e distruggendo fiducia e capitale sociale, che sono i presupposti di ogni crescita economica.

Tuttavia, se cioò significa credere che verrà la ripresa nazionale e risolverà da sola il gap, vuol dire scommettere su un prospettiva fallace. Già siamo reduci da vent’anni di crescita italiana molto più tenue rispetto a quella delle altre nazioni avanzate. E dunque una crescita di zero virgola non può smuovere macigni. Ma, soprattutto, il divario è troppo accentuato nella partecipazione al mercato del lavoro, negli investimenti e nel reddito perché queste precondizioni della crescita non meritino misure ad hoc. Cioè regole diverse sul versante dell’offerta, prima e più che risorse finanziarie

Qualche esempio. Il Jobs Act finora manca del capitolo relativo alle politiche attive: ebbene l’Agenzia nazionale che intermedierà domanda e offerta non può essere la stessa al Nord e al Sud, l’accreditamento e il modello organizzativo deve essere per forza diversi, se vogliamo mordere la bassa partecipazione al lavoro al Sud. La riforma della scuola, al suo avvio parlamentare, non deve prevedere un canale duale professionalizzante uguale in tutto il territorio, ma diverso per specifiche produttive e densità di inoccupati rispetto alle qualifiche richieste localmente. La miriade di micropartecipate pubbliche locali in perdita è più grave al Sud che al Nord, come si desume dai loro conti economici, e la conseguenza è un’offerta di livello troppo basso dei servizi pubblici. La perequazione finanziaria tra Regioni non ha realizzato né una loro sufficiente autonomia finanziaria ( e al Nord continua la spoliazione di risorse da parte dello Stato centrale), né si è data obiettivi di recupero del gap meridionale lontanamente analoghi a quelli del patto tedesco tra Ovest ed Est. Le centinaia di diverse norme incentivanti a livello regionale nel Sud restano una fiera di sprechi, i cui effetti sono nulli su impresa e lavoro.

Non è vero dunque che i disastri del passato impediscono ogni nuova politica per il Sud. E’ vero il contrario: se il Sud non è messo in condizione di recuperare parte rilevante di un gap tanto catstrofico in pochi anni, è l’Italia in quanto tale che continuerà ad avere crescite da nana.  Alla lunga, non è solo l’euro asimmetrico che non può reggere tra paesi a divergente produttività: in piccolo, vale esattamente lo stesso per l’Italia.

 

15
Mar
2015

Renato Crotti. L’ultimo saluto a un uomo libero—di Carlo Zucchi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Zucchi.

Martedì 10 febbraio 2015 si è spento all’età di 93 anni Renato Crotti e con lui se ne va una persona limpida che ha posto la libertà a fondamento della propria esistenza come forse nessun altro in Italia.

Uno dei principali, se non il principale protagonista del boom della maglieria del distretto di Carpi sviluppatosi a partire dal secondo dopoguerra, Renato Crotti è nato a Carpi il 4 marzo del 1921 da una famiglia di origini contadine. Sin da bambino respira l’aria dell’impresa e della maglieria, soprattutto grazie a una madre tenace, volitiva e piena di spirito imprenditoriale. Fu lei, nei primi anni Trenta, ad allestire un piccolo laboratorio di maglieria a Modena, coadiuvata dalle figlie (le sorelle maggiori di Crotti), mentre il padre si occupava della vendita dei prodotti. E persino quando la famiglia andava in vacanza sulle Dolomiti in agosto, con tanto di voluminosi pacchi di maglieria al seguito, il percorso veniva scelto in base al calendario dei mercatini settimanali. Read More