Corruzione: c’è una via più efficace dell’orgia manettara, ma lo Stato non la pratica
Un rapporto fresco fresco dell’OCSE rilasciato ieri attesta che l’Italia, tra i paesi avanzati, vanta – si fa per dire – la più alta soglia di “corruzione percepita”. Ben il 90%, rispetto a un tasso bassissimo di fiducia, dio poco superiore al 30%, nel governo in quanto istituzione. Mentre in Svezia, che ha il più basso tasso di corruzione percepita al 15%, la fiducia nel governo sta al 55%. Attenzione: questo ranking dice solo che noi ci riteniamo e siamo considerati un paese molto corrotto. Non è affatto una misura quantitativa attendibile. Ancora ieri il Financial Times ricordava che, nell’ultimo mese, se il ministro italiano Lupi si è dimesso scandali di corruzione politica altrettanto se non ancora ancora più gravi sono in corso in Spagna, Regno Unito e Romania. Certo, la corruzione è difficile da stimare. E per favore non ripetete la cifra spesso ricorrente nel dibattito pubblico sui 60miliardi di euro l’anno che la corruzione costerebbe all’Italia: nasce da un report della Corte dei Conti di anni fa, nel quale in realtà la stima veniva definita del tutto nasometrica e inattendibile. Ma spesso in Italia nulla più di un numero inattendibile diventa invece acquisito e ripetuto.
Tuttavia una cosa è certa. In Italia di corruzione ce n’è troppa. Uno Stato che assorbe oltre il 50% del Pil, con una presenza invadente dei partiti, una pubblica amministrazione che spesso deve carriere e potere ai partiti stessi, una normativa iperbolicamente bizantina che appare volta a impedire e che induce politici e funzionari pubblici a farsi pagare da privati corrotti o corruttori per aggirarne i veti: queste le ragioni strutturali della corruzione diffusa, non certo un’atavica predisposizione italica a delinquere più elevata che negli altri popoli. C’è chi lo crede, io no: è la tesi di chi poi pensa che spetti allo Stato creare “l’uomo nuovo” virtuoso, un antico e temibuilisso retaggio dell’idealismo hegeliano e dei suoi tanti discepoli rossi e neri.
Con tale premessa, la vera cura anticorruzione consisterebbe in una drastica purga della spesa e dell’intermediazione pubblica, nella cessione di migliaia di società pubbliche greppie del malaffare, nella separazione tra partiti e pubblica amministrazione, nella rotazione dei dirigenti pubblici. Tranne quest’ultimo punto, a cui stiamo piano piano e con fatica arrivando (confondendo ovviamente l’obbligo che deve valere nel settore pubblico con l’imposizione anche ai privati..), è esattamente ciò che la politica italiana non fa e non farà.
Ci sono allora due strade concettualmente diverse. La prima è quella imboccata dal travagliato disegno di legge anticorruzione che è in cottura da un anno, ora all’esame del Senato dopo l’accelerazione avvenuta con l’approvazione alla Camera. E’ la via, sostanzialmente, dell’inasprimento delle sanzioni penali, principali e accessorie, alle diverse forme che la corruzione e la concussione, indebita induzione e peculato e falso in bilancio, possono assumere. E’ un testo sulle cui inasprite pene si sono alternate le divergenti pressioni dei magistrati da una parte e di Forza Italia dall’altra fino a che esisteva il Patto del Nazareno, e oggi di Ncd rispetto al Pd. Con il ministro Orlando dedito a un paziente lavoro di tessitura. E’ un testo che ci porta al massimo europeo delle pene sia per la corruzione sia per il falso in bilancio, e su quest’ultimo argomento ho molte volte scritto che non sono d’accordo. E’ un testo a cui si aggiunge la pressione sovrapposta del distinto ddl giustizia, che riguarda temi importanti come la riforma della prescrizione dei reati, testo nel quale l’altroieri è apparso l’allungamento a fisarmonica della prescrizione fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi per un procedimento di corruzione. Una proposta che accontenterà pure piazze e magistrati, ma che a un liberale non può che fare ORRORE. Per punire i corrotti occorre una giustizia che, perché sia efficace, deve essere rapida: non ancora più lenta di quanto già lentissima sia oggi in Italia.
C’è poi una seconda strada, che riguarda la torta più sostanziosa della corruzione italiana: le opere pubbliche, grandi e piccole. Quelle che avvampano gli scandali del Mose, Expo, TAV, l’Aquila, e infine la struttura tecnica di missione diretta sotto 7 governi da Ercole Incalza, al Ministero delle Infrastrutture. La lotta alla corruzione nelle opere pubbliche, come ripete instancabilmente e solitariamente rispetto ai suoi colleghi magistrati quel gran galantuomo che è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, si fa molto più efficacemente a colpi di accetta sulla miriade di norme vigenti, e riformandone alcuni punti essenziali, non innalzando le pene a 10, 15 o 20 anni di galera.
La Legge Obiettivo – la culla delle deroghe al Testo Unico sugli appalti nel frattempo modificato da 54 diversi interventi legislativi in 622 punti – è clamorosamente fallita. Su 285 miliardi di opere cantierabili promesse, ne sono state realizzate in realtà l’8%. Con un sovraccosto del 40% rispetto alle prime stime. Dopo tanti scandali, ora sappiamo che cosa va cambiato, per contrastare la corruzione di sistema. E la grande occasione è il recepimento delle direttive europee, che chiedono una sostanziale DELEGIFICAZIONE delle norme sulle opere. Ma in parlamento sembra non rendersene conto nessuno…
Ma come: e i controlli, direte voi? Subito serviti. L’esperienza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione affidata a Raffaele Cantone sta funzionando: facciamone tesoro. O meglio: sta funzionando la sua azione “preventiva”, quella che più mi interessa potenziare. Si operi allora un grande trasferimento di poteri di regolazione all’ANAC, che sia chiamata non solo a vigilare preventivamente, ma a redigere bandi tipo di gara. Abbassiamo il limite delle varianti in corso d’opera al 15%, che è il limite europeo. Aboliamo il general contractor che nacque con la TAV di Necci e che oggi nomina il direttore lavori delle stazioni appaltanti, dimostratosi connivente a corruzione e sovraccosti invece che vigilante. Modifichiamo radicalmente l’attuale regime di progettazioni esecutive, vinte da studi di comodo con ribassi di gara anche dell’80%. Subordiniamo la concessione di lavori al solo progetto definitivo : il che significa darsi uno standard tecnico di valutazione ex ante dei costi-benefici tale da evitare la sistematica sopravvalutazione di molte costose opere poi rivelatesi superflue (vedi il caso della BreBeMi in Lombardia). Applichiamo dovunque la messa in rete digitale di ogni particolare riguardante le opere, seguendo lo schema BIM (sta per Building Information Modelling) chiestoci dalla nuova direttiva europea approvata a inizio 2014 e che DEVE entrare in vigore a gennaio 2016. Tagliamo drasticamente la possibilità di affidi di opere a trattiva privata, invece che sempre con evidenza pubblica.
Infine, prendiamo finalmente sul serio la promessa inattuata dall’attuale governo: ridurre da 35 mila a 35 le stazioni appaltanti pubbliche. Trentacinquemila centri pubblici di affidamento lavori sono un universo incontrollabile per definizione. Lo Stato faccia il favore: oltre – se crede – a promettere secoli di galera, cambi faccia e corporatura. Perché un gigante Briareo dalle mille braccia è fatto apposta perché ogni mano non sappia quel che fa l’altra.