3
Apr
2015

Intercettazioni: Gratteri fa il garantista, ma le estende

E’ una costante della vita pubblica italiana, la polemica sulle intercettazioni a strascico e sul danno che la loro pubblicazione crea inevitabilmente a terzi non indagati, come agli indagati stessi. Per quanto ci riguarda non c’è molto da strologare, perché la soluzione per garantisti e liberali quali siamo è quella che un maestro – purtroppo scomparso – come Vittorio Grevi ebbe a scrivere sul Corriere della sera l11 giugno 2010: “si tratta, in sintesi, di stabilire che i risultati delle intercettazioni concernenti persone, fatti e circostanze estranei alle indagini non debbano nemmeno venire depositate tra le carte processuali, essendo essi irrilevanti, ma debbano rimanere custodite in un apposito archivio riservato con il vincolo del segreto, e sotto la responsabilità di un magistrato della procura. Inutile dire che di queste intercettazioni dovrà essere rigorosamente vietata la pubblicazione, con la previsione di sanzioni anche gravi in caso di violazione del divieto”. Punto e basta, preciso e chiaro.

Ieri, inserendosi nelle polemiche sul caso D’Alema, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, attualmente a capo della commissione per la revisione della normativa antimafia dopo esser stato in predicato per il ministero della Giustizia all’atto della formazione del governo, ha molto fatto parlare di sé, avanzando la proposta dell’introduzione di un nuovo reato, quello di pubblicazione arbitraria delle intercettazioni. Di conseguenza abbiamo voluto esaminare nel dettaglio le sue proposte, che riguardano per esteso gli articoli del codice di procedura penale dal 266 al 271, che disciplinano la materia. E la sorpresa è stata, a dire il vero, di trovarci di fronte a proposte che – a parte la pur apprezzabile nuova fattispecie di reato sulla pubblicazione arbitraria, che tuttavia non ci persuade più della semplice e chiara norma che abbiamo ricordato all’inizio – a tutto sembrano ispirate, tranne che al garantismo liberale che avevamo immaginato.

Che cosa propone Gratteri, in sintesi? Innanzitutto che le intercettazioni non siano autorizzate dal gip quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini, come dispongono le norme attuali, ma basta che gli indizi di reato non siano gravi e che le intercettazioni – estese a tutte le forme di comunicazione, comprese quelle epistolari e digitali di ogni tipo – siano considerate necessarie per le indagini, non più “assolutamente indispensabili”. Poi, che l’autorizzazione del gip al pm non sia di 15 giorni in 15 giorni, ma di 40 e poi in serie di altri 20. Tali modifiche vengono giustificate con la necessità di superare l’attuale doppio regime delle intercettazioni rispetto a quello per reati di criminalità organizzata, in nome del fatto che la ricerca della prova non richiede mezzi diversificati a seconda del tipo di reato al quale si riferiscono le indagini. Ma in realtà è evidente, anche a un occhio non tecnico, che l’effetto ricercato sia quello di estendere ulteriormente la facoltà di intercettare.

Resta la facoltà di deposito di intercettazioni che coinvolgano anche terzi, se e perché necessarie al fine probatorio della pericolosità criminale dell’indagato. E si estende il loro utilizzo anche a procedimenti diversi da quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate, in nome del fatto che, dal punto di vista del bilanciamento dei due opposti interessi costituzionali, il sacrificio alla riservatezza ormai perpetrato risulti tanto più giustificato a vantaggio dell’interesse pubblico, quanto più ampio è lo spettro dell’impiego delle intercettazioni a fini repressivi.

Va dato atto che Gratteri propone il diritto per la difesa di ottenere copia dei risultati delle intercettazioni e dei verbali delle operazioni anche se non sono stati ancora depositati compresi i brogliacci delle trascrizioni, appena sia stata notificata o eseguita un’ordinanza che dispone una misura cautelare personale. Che il pm possa stabilire, con il decreto attuativo della intercettazione, anche le “modalità esecutive” inerenti all’accesso clandestino nei luoghi per il posizionamento degli strumenti di intercettazione. E il divieto, tanto al giudice quanto al pm, in qualunque richiesta o provvedimento, ad eccezione delle sentenze, di inserire il testo integrale delle intercettazioni: ma a meno però che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova, e qui ci risiamo…. Per finire poi con la previsione della nuova fattispecie di reato all’art. 595-bis del codice penale, cioè la “pubblicazione arbitraria di intercettazioni” di cui tutti hanno scritto. Ma ai nostri occhi questa serie di proposte “garantiste” non pareggia affatto quelle sostanzialmente volte a estendere , potenziare e moltiplicare le intercettazioni e il Grande Fratello come strumento prioritario probatorio.

Un’infinita molteplicità di casi ha dimostrato, in questi anni, come decine e decine di migliaia di pagine d’intercettazioni estranee alle circostanze oggettive e probatorie delle ipotesi di reato abbiano finito per influenzare potentemente l’opinione pubblica, e le stesse corti giudicanti. E’ alla sostanza che bisogna andare, se vogliamo opporre a tale modalità impropria di esercitare l’azione penale, quella mediatico-giudiziaria, una soluzione finalmente rispettosa delle esigenze della giustizia da una parte, ma anche della privacy e del rispetto costituzionale dovuto a tutti, indagati e tanto più agli estranei al procedimento. E’ la concezione del diritto della giustizia sovraordinato a quello dei cittadini, il problema da affrontare intervenendo sull’attuale regime delle intercettazioni. E a questo fine non serve una mano di vernice a tutela del garantismo, mentre si usa altro cemento per rafforzare la facoltà di intercettare.

3
Apr
2015

L’iniquità ontologica dei sussidi alle agenzie stampa

Negli ultimi giorni a palazzo Chigi si è tornati a parlare di spending review, e c’è un capitolo che, a quanto pare, dovrebbe essere affrontato quanto prima dall’esecutivo: già nelle prossime settimane, infatti, il governo dovrebbe presentare le linee-guida per riorganizzare il settore delle agenzie stampa. Gli obiettivi sono gli stessi da anni: razionalizzare i costi e ridefinire i criteri di accesso ai finanziamenti. In nome della pluralità dell’informazione, infatti, il governo sussidia da anni non solo i giornali, ma anche alcune agenzie stampa (11, ad oggi), per un valore intorno ai 50 milioni di Euro all’anno. Tuttavia, come accade spesso quanto si tenta di regolare (se non addirittura “tutelare” o “promuovere”) settori produttivi tramite l’intervento pubblico, si finisce per incorrere nella difficoltà di individuare regole che possano risultare “giuste” per tutti. Read More

2
Apr
2015

Falso in bilancio: con la riforma, è a totale discrezione dei magistrati

Dopo quasi due anni di ripensamenti e modifiche, il Senato ha ieri approvato il ddl anticorruzione, che ora passa alla Camera in seconda lettura. In sintesi estrema, una esigua maggioranza al Senato, talvolta per 3 o 5 voti,ha trovato convergenza su un durissimo inasprimento delle pene. Ma i Cinque Stelle, che hanno votato no, sono per pene ancora più dure. Una vera alternativa liberale alla via della repressione manettara non è esistita, purtroppo, in questo parlamento. Perché a mancare è una cultura diffusa della via alternativa alle retate giudiziarie: quella di poche regole chiare che disboschino le tonnellate di norme nelle cui pieghe si cela il terreno ideale di un politico o dirigente pubblico che le aggira, aprendo porte discrezionali a privati che pagano per aggirare la concorrenza di imprese oneste. Nei dibattiti pubblici a vincere sono coloro che lamentano l’esiguità dei detenuti per corruzione, non coloro che provano a sostenere che uno Stato che intermedia oltre il 50% del Pil, e che vive di norme bizantine, offre per definizione troppe occasioni a chi delinque. L’effetto è una raffica di aggravamenti di pene edittali, e l’ulteriore estensione alla stragrande maggioranza dei reati della facoltà di intercettazione nelle indagini da parte delle Procure.

La corruzione propria arriva a una pena massima 10 anni. La corruzione in atti giudiziari vien punita da un minimo di 6 a 12 anni di reclusione. Il peculato arriva a 10 anni e 6 mesi, l’induzione indebita sale anch’essa, da un minimo di 6 a un massimo di 10 anni e 6 mesi di carcere. Al contempo, salgono tutte le pene per associazione mafiosa: perché la tendenza invalsa è di estendere la definizione di associazione mafiosa anche ad associazioni a delinquere che con la mafia nulla hanno a che fare (vedi l’indagine a Roma).

E cambia radicalmente la disciplina penale del falso in bilancio, abbattendo la riforma del 2002 che prevedeva per le società non quotate la procedibilità di parte per i danni creati a soci e terzi, e prevedeva per tutti soglie quantitative di non punibilità, rispetto a discostamenti contabili non tali da alterare significativamente la rappresentazione societaria. Tutto torna alla procedibilità d’ufficio, con pene fino a 8 anni per le società quotate, e fino a 5 anni per le non quotate, senza alcuna soglia percentuale di non punibilità. Salgono le sanzioni pecuniarie, previste dalla legge 231 sulla responsabilità oggettiva dell’impresa in caso di reati commessi da loro manager e agenti. E per tutte le quotate, a grande richiesta, c’è facoltà di procedere alle intercettazioni, che restano inibite invece per le non quotate (con dure proteste da parte di chi l’avrebbe voluta invece per tutti, a cominciare dal fior fiore delle grandi testate nazionali d’informazione…)

La condotta illecita deve essere «concretamente idonea a trarre in inganno» ed essere realizzata «consapevolmente». E per le società non quotate è prevista la possibilità di applicare la causa di non punibilità per «tenuità del fatto», approvata a marzo dal Consiglio dei ministri. Ma – e qui viene il punto più grave- si tratta di valutazioni che, per come sono stati scritti i testi, saranno a totale discrezione di pm e giudici. Come è a totale discrezione dei magistrati, visto che il testo votato ieri non lo chiarisce minimamente, valutare e decidere in che cosa consista davvero la “falsa esposizione di fatti materiali”, che cosa significhi in concreto che tali materiali debbano essere invece “rilevanti” per poter procedere nei confronti delle società non quotate, e che cosa identifichi invece l’ “omissione di fatti materiali rilevanti” per cui si procede d’ufficio per quotate e non quotate.

La definizione OGGETTIVA DEI REATI è del tutto indefettibilmente assegnata a chi li perseguirà e giudicherà, nella legge non c’è.

Non ci vuole molta fantasia, per comprendere che la norma darà la stura a intercettazioni a strascico di un considerevole numero di amministratori, manager, sindaci e revisori di conti delle società quotate, e inevitabilmente dei loro clienti e fornitori. Perché ricordatevi bene che il falso in bilancio nella legislazione italiana non riguarda solo le poste contabili del conto economico e patrimoniale, ma qualunque documento preliminare o comunicazione a soci e terzi che afferisca alle poste stesse, agli estimi e valutazioni di qualunque asset e negozio economico posto in essere.

Saranno pm nella generalità assai poco esperti di teoria e prassi della contabilità d’impresa, quelli che valuteranno e interpreteranno come ipotesi di reato ogni possibile aspetto della vita societaria. E, per paradosso, a volerlo sono gli stessi partiti e lo stesso parlamento che nel frattempo s’interrogano sui limiti da porre alle intercettazioni, quando naturalmente danno in pasto ai media i politici che magari non solo neanche indagati, come è capitato per Lupi o per D’Alema. Ed è ancora, paradosso nel paradosso, lo stesso parlamento che, nel frattempo, in un contestuale provvedimento, alza a fisarmonica i termini della prescrizione dei reati: e di conseguenza un processo per ipotesi di falso in bilancio da corruzione, con pene cumulate fino a un massimo di 18 anni per una società quotata, potrà durare fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi. Come se la giustizia giusta fosse una sentenza che non arriva mai ma uccide socialmente ogni imputato, invece di una sentenza rapida.

La preghiera che facciamo sin d’ora è che ci vengano risparmiati pensosi editoriali sui limiti da porre alle intercettazioni, quando inevitabilmente arriveranno ai media le trascrizioni dei colloqui telefonici di manager e amministratori di società quotate, magari sui loro gusti sessuali. Perché è tutto implicito e conseguente alla scelta che il parlamento sta facendo oggi.

Nordio, il procuratore aggiunto di Venezia ammonisce pressoché isolato tra i suoi colleghi, sull’errore capitale di credere che pene più dure e intercettazioni a raffica siano il rimedio alla corruzione. Quanto a noi, abbiamo già indicato che la vera via maestra era cambiare dalle fondamenta il codice degli appalti, abolire il direttore dei lavori scelto dal general contractor che non controlla ma è connivente coi corrotti, affidare i lavori solo su progetti esecutivi con limiti più bassi di variazioni in corso d’opera, tagliare da 35mila a poche decine le stazioni pubbliche appaltanti. Certamente, la via liberale anticorruzione non è fatta per soddisfare le ondate emotive che invocano la galera, e incide nella carne viva di uno Stato che è esso stesso, per le sue follie regolatorie, un invito a delinquere. Abbiamo dunque perso una grande battaglia culturale. Ma non ha vinto la giustizia: che vive d’incentivi a far bene, non di terrore del Grande Inquisitore.

30
Mar
2015

Per chi suona la voluntary disclosure?—di Edoardo Ferrazzani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Ferrazzani.

LAgenzia delle Entrate ha dato il là e la banda ha iniziato a suonare. Lo farà per sei mesi, fino alla decorrenza dei termini per la presentazione della domanda di voluntary disclosure, il 15 settembre 2015. Il lungo corteo per laccaparramento del risparmio in entrata dallestero ha avuto dunque inizio.

Come noto il governo ha scelto di mettere i risparmiatori italiani con capitali allestero con le spalle al muro: da una parte con lintroduzione della voluntary disclosure e del reato di autoriciclaggio previsti dalla legge 186/2014 in materia di Misure per lemersione e il rientro dei capitali allestero nonché per il potenziamento della lotta allevasione fiscale” – e dallaltra con lentrata in vigore dei recenti accordi in materia di desecretazione bancaria tra Italia e Svizzera e la creazione della white/black list tra i cosiddetti paradisi fiscali (infografia Il Sole 24 Ore). Read More

28
Mar
2015

Ora basta: Renzi metta in riga le Agenzie tributarie

Il fisco è una delle frontiere pubbliche più delicate, sulla cui linea libertà e diritti dei cittadini e giusta pretesa dello Stato devono stare in equilibrio. O l’equilibrio c’è, riconosciuto bilateralmente per consenso e in quanto tale cristallizzato in norme chiare. Oppure delle due l’una: i cittadini tenderanno più o meno estesamente a sottrarsi alla pretesa dello Stato; oppure lo Stato, confidando sull’obbligo coattivo che grava sui cittadini, senza contrappesi rischierà di smarrire l’equilibrio e di degenerare nella sua pretesa.

E’ in larga misura il rischio aperto oggi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato come illegittimi 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, e altri in quella del Territorio e delle Dogane. Un problema serio accumulatosi negli anni, non creato dagli attuali freschi vertici delle Agenzie ma dovuto alla forma organizzativa che le Agenzie si sono date, scegliendo di nominare troppi dirigenti facenti funzione a tempo determinato e senza concorsi. Un problema più volte sollevato negli anni pubblicamente davanti ai vertici dell’Agenzia, che non ascoltavano. Oppure confidavano su sanatorie come quella intrapresa dal governo nel 2012, bocciata dal Tar del Lazio prima e ora dalla Corte costituzionale.

Non solo non c’è spazio per sanatorie, come le Agenzie speravano. E dunque si dovrà procedere a concorsi, che vinceranno molti dirigenti bravi, retrocessi oggi a funzionari con tagli retributivi anche di 50mila euro lordi, mentre altri non li supereranno. Ma, soprattutto, c’è anche un problema aperto sulla possibilità e fondatezza delle impugnative degli atti sottoscritti da quei dirigenti. Una facoltà che la Corte Costituzionale limita, ma che a un’attenta lettura della sentenza non sembra esclusa affatto almeno per quegli atti di cui sono ancora aperti i termini per l’impugnativa amministrativa.

E’ un problema serio, al quale i vertici dell’Agenzia delle Entrate hanno replicato con toni duri, quasi con disprezzo, dicendo che le impugnative sarebbero addirittura vergognose. Un errore di tono, e un errore di merito. Primo perché di sicuro non spetta all’Agenzia delle Entrate pronunciarsi sull’accoglibilità di eventuali impugnative, ma al giudice. E poi perché sarebbe il caso di usare una volta per tutte un tono diverso, nei confronti dei contribuenti: soprattutto quando come in questo caso è il fisco a essere in torto conclamato.

C’è una tesi per la quale l’illegittimità varrebbe solo a effetti interni, per i funzionari delle Agenzie discriminati rispetto a chi invece veniva nominato dirigente senza concorso. Non ci convince. La legittimità del titolo proietta un’ombra inevitabile su quella dell’atto sottoscritto e divenuto esecutivo, e dunque sulla cartella erariale indirizzata al contribuente Non è che si possono fare prediche sulla legalità tributaria agli italiani da una parte, e dire che al contempo che, se chi glie le rivolge non è in regola, allora valgono comunque. Ne va della fiducia di milioni di contribuenti verso la macchina tributaria. Macchina che, proprio perché lo Stato di tasse ne incassa tante, dovrebbe essere più monda della moglie di Cesare.

Il problema è purtroppo ancor più ampio. Da anni, ormai, la politica ha delegato di fatto il proprio compito di indirizzo in materia tributaria alle Agenzie fiscali. Le Agenzie scrivono loro le bozze delle norme, e sono loro a darne per circolare l’interpretazione autentica. Mentre non dovrebbero fare né l’una né l’altra cosa. L’Agenzia delle Entrate scrive lei i testi del ministro quando questi risponde della politica tributaria nelle audizioni parlamentari, e sia riconosciuto merito al ministro Padoan che pochi giorni fa ha almeno usato una clausola per la quale le opinioni venivano chiaramente attribuite all’Agenzia, senza che però ne esprimesse di proprie.

E’ venuto allora il momento di applicare la cura Renzi alla politica tributaria. Il premier vuole tornare a una politica che si assuma apertamente le sue responsabilità di fronte ai cittadini, senza delegare tutto a tecnici come alle Infrastrutture avveniva con Incalza. E ha ragione. Ma allora, visto che al MEF da anni ormai il ministro si occupa più che altro dell’agenda europea e dei monitoraggi internazionali ai quali sono sottoposti i nostri non brillantissimi conti pubblici, per riappropriarsi degli indirizzi politici tributari serve una scelta. Se non la separazione tra Tesoro e Finanze, almeno attribuire a un viceministro la responsabilità del fisco, come l’ultima volta avvenne con Vincenzo Visco viceministro di Padoa Schioppa.

Usciremmo così dall’equivoco di capi delle Agenzie che danno giudizi politici e interpretazioni di legge, non perché vogliano far male ma perché spinti o costretti a riempire a modo loro il vuoto lasciato dalla politica. Come la guerra è cosa troppo seria per farla decidere ai generali, il fisco in Italia è troppo pesante per lasciarlo decidere da chi ha incassa bonus su quanto ne raccoglie: ed ecco un’altra bella riforma necessaria, che solo un ministro ad hoc può imporre all’apparato delle entrate, modificandone i criteri di incentivazione dei dirigenti. Oggi serve un politico che dica agli italiani magari anche che i ricorsi saranno discutibili, ma che per consentire al giudice di valutarli l’Agenzia delle Entrate pubblicherà subito i nomi dei 767 dirigenti illegittimi, in modo che i contribuenti possano sapere se è loro la firma sotto gli atti che vogliono contestare. La trasparenza a doppio senso è l’unica che può rafforzare la credibilità dello Stato, che ne chiede tanta ai contribuent. Il segreto e l’opacità sono il segno delle amministrazioni fiscali dei re assoluti, e non devono avere nulla a che vedere con quella della Repubblica.

26
Mar
2015

Corruzione: c’è una via più efficace dell’orgia manettara, ma lo Stato non la pratica

Un rapporto fresco fresco dell’OCSE rilasciato ieri attesta che l’Italia, tra i paesi avanzati, vanta – si fa per dire – la più alta soglia di “corruzione percepita”. Ben il 90%, rispetto a un tasso bassissimo di fiducia, dio poco superiore al 30%, nel governo in quanto istituzione. Mentre in Svezia, che ha il più basso tasso di corruzione percepita al 15%, la fiducia nel governo sta al 55%. Attenzione: questo ranking dice solo che noi ci riteniamo e siamo considerati un paese molto corrotto. Non è affatto una misura quantitativa attendibile. Ancora ieri il Financial Times ricordava che, nell’ultimo mese, se il ministro italiano Lupi si è dimesso scandali di corruzione politica altrettanto se non ancora ancora più gravi sono in corso in Spagna, Regno Unito e Romania. Certo, la corruzione è difficile da stimare. E per favore non ripetete la cifra spesso ricorrente nel dibattito pubblico sui 60miliardi di euro l’anno che la corruzione costerebbe all’Italia: nasce da un report della Corte dei Conti di anni fa, nel quale in realtà la stima veniva definita del tutto nasometrica e inattendibile. Ma spesso in Italia nulla più di un numero inattendibile diventa invece acquisito e ripetuto.

Tuttavia una cosa è certa. In Italia di corruzione ce n’è troppa. Uno Stato che assorbe oltre il 50% del Pil, con una presenza invadente dei partiti, una pubblica amministrazione che spesso deve carriere e potere ai partiti stessi, una normativa iperbolicamente bizantina che appare volta a impedire e che induce politici e funzionari pubblici a farsi pagare da privati corrotti o corruttori per aggirarne i veti: queste le ragioni strutturali della corruzione diffusa, non certo un’atavica predisposizione italica a delinquere più elevata che negli altri popoli. C’è chi lo crede, io no: è la tesi di chi poi pensa che spetti allo Stato creare “l’uomo nuovo” virtuoso, un antico e temibuilisso retaggio dell’idealismo hegeliano e dei suoi tanti discepoli rossi e neri.

Con tale premessa, la vera cura anticorruzione consisterebbe in una drastica purga della spesa e dell’intermediazione pubblica, nella cessione di migliaia di società pubbliche greppie del malaffare, nella separazione tra partiti e pubblica amministrazione, nella rotazione dei dirigenti pubblici. Tranne quest’ultimo punto, a cui stiamo piano piano e con fatica arrivando (confondendo ovviamente l’obbligo che deve valere nel settore pubblico con l’imposizione anche ai privati..), è esattamente ciò che la politica italiana non fa e non farà.

Ci sono allora due strade concettualmente diverse. La prima è quella imboccata dal travagliato disegno di legge anticorruzione che è in cottura da un anno, ora all’esame del Senato dopo l’accelerazione avvenuta con l’approvazione alla Camera. E’ la via, sostanzialmente, dell’inasprimento delle sanzioni penali, principali e accessorie, alle diverse forme che la corruzione e la concussione, indebita induzione e peculato e falso in bilancio, possono assumere. E’ un testo sulle cui inasprite pene si sono alternate le divergenti pressioni dei magistrati da una parte e di Forza Italia dall’altra fino a che esisteva il Patto del Nazareno, e oggi di Ncd rispetto al Pd. Con il ministro Orlando dedito a un paziente lavoro di tessitura. E’ un testo che ci porta al massimo europeo delle pene sia per la corruzione sia per il falso in bilancio, e su quest’ultimo argomento ho molte volte scritto che non sono d’accordo. E’ un testo a cui si aggiunge la pressione sovrapposta del distinto ddl giustizia, che riguarda temi importanti come la riforma della prescrizione dei reati, testo nel quale l’altroieri è apparso l’allungamento a fisarmonica della prescrizione fino alla bellezza di 21 anni e 6 mesi per un procedimento di corruzione. Una proposta che accontenterà pure piazze e magistrati, ma che a un liberale non può che fare ORRORE. Per punire i corrotti occorre una giustizia che, perché sia efficace, deve essere rapida: non ancora più lenta di quanto già lentissima sia oggi in Italia.

C’è poi una seconda strada, che riguarda la torta più sostanziosa della corruzione italiana: le opere pubbliche, grandi e piccole. Quelle che avvampano gli scandali del Mose, Expo, TAV, l’Aquila, e infine la struttura tecnica di missione diretta sotto 7 governi da Ercole Incalza, al Ministero delle Infrastrutture. La lotta alla corruzione nelle opere pubbliche, come ripete instancabilmente e solitariamente rispetto ai suoi colleghi magistrati quel gran galantuomo che è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, si fa molto più efficacemente a colpi di accetta sulla miriade di norme vigenti, e riformandone alcuni punti essenziali, non innalzando le pene a 10, 15 o 20 anni di galera.

La Legge Obiettivo – la culla delle deroghe al Testo Unico sugli appalti nel frattempo modificato da 54 diversi interventi legislativi in 622 punti – è clamorosamente fallita. Su 285 miliardi di opere cantierabili promesse, ne sono state realizzate in realtà l’8%. Con un sovraccosto del 40% rispetto alle prime stime. Dopo tanti scandali, ora sappiamo che cosa va cambiato, per contrastare la corruzione di sistema. E la grande occasione è il recepimento delle direttive europee, che chiedono una sostanziale DELEGIFICAZIONE delle norme sulle opere. Ma in parlamento sembra non rendersene conto nessuno…

Ma come: e i controlli, direte voi? Subito serviti. L’esperienza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione affidata a Raffaele Cantone sta funzionando: facciamone tesoro. O meglio: sta funzionando la sua azione “preventiva”, quella che più mi interessa potenziare. Si operi allora un grande trasferimento di poteri di regolazione all’ANAC, che sia chiamata non solo a vigilare preventivamente, ma a redigere bandi tipo di gara. Abbassiamo il limite delle varianti in corso d’opera al 15%, che è il limite europeo. Aboliamo il general contractor che nacque con la TAV di Necci e che oggi nomina il direttore lavori delle stazioni appaltanti, dimostratosi connivente a corruzione e sovraccosti invece che vigilante. Modifichiamo radicalmente l’attuale regime di progettazioni esecutive, vinte da studi di comodo con ribassi di gara anche dell’80%. Subordiniamo la concessione di lavori al solo progetto definitivo : il che significa darsi uno standard tecnico di valutazione ex ante dei costi-benefici tale da evitare la sistematica sopravvalutazione di molte costose opere poi rivelatesi superflue (vedi il caso della BreBeMi in Lombardia). Applichiamo dovunque la messa in rete digitale di ogni particolare riguardante le opere, seguendo lo schema BIM (sta per Building Information Modelling) chiestoci dalla nuova direttiva europea approvata a inizio 2014 e che DEVE entrare in vigore a gennaio 2016. Tagliamo drasticamente la possibilità di affidi di opere a trattiva privata, invece che sempre con evidenza pubblica.

Infine, prendiamo finalmente sul serio la promessa inattuata dall’attuale governo: ridurre da 35 mila a 35 le stazioni appaltanti pubbliche. Trentacinquemila centri pubblici di affidamento lavori sono un universo incontrollabile per definizione. Lo Stato faccia il favore: oltre – se crede – a promettere secoli di galera, cambi faccia e corporatura. Perché un gigante Briareo dalle mille braccia è fatto apposta perché ogni mano non sappia quel che fa l’altra.

 

23
Mar
2015

La sete di democrazia e il costo dell’“acqua pubblica”—di Max Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Max Del Papa.

Quello che ogni famiglia aveva capito in modo percettivo, sulla pelle del proprio portafoglio, adesso è ufficiale: in un decennio il costo dell’acqua è aumentato praticamente del 100% (95,8%, per la pignoleria). Ne dà notizia Sergio Rizzo sul Corriere riprendendo i risultati dell’Ufficio Studi della Confartigianato. Non basta. La tendenza appare serenamente fuori controllo, e con i nuovi metodi di calcolo delle tariffe le bollette non potranno che impennarsi ulteriormente. Sono serviti i compulsatori di referendum come quello che, nel 2011, metteva di fronte ad un falso dilemma, fuorviante e ideologico: mantenere l’acqua, “bene pubblico”, nelle confortanti e sagaci mani pubbliche, oppure abbandonarla ai rapaci artigli del famelico privato? Read More

23
Mar
2015

Pirelli, la Cina, e la salvaguardia italiana che lo Stato non firma

Ora che conosciamo almeno a grandi linee i particolari dell’intesa su Pirelli tra gli azionisti di controllo italiani, quelli russi di Rosneft, e i nuovi azionisti di China Chemical, il primo invito è: per favore evitiamo di cadere dal pero, come sembrano fare molti immediatamente pronti a ripetere il luogo comune “stanno svendendo l’Italia”. L’informazione esiste per mettere i luoghi comuni alla prova dei numeri e dei fatti. Numeri e fatti che da anni indicano che cosa avesse in mente Marco Tronchetti Provera, e perché abbia provato a risolvere i problemi che doveva affrontare con una serie di successive intese, sino a quella di ieri.

Premessa. La guida operativa e il controllo esercitato da Tronchetti in Pirelli ha alcuni meriti storici. All’inizio, quando subentrò a Leopoldo Pirelli, risanò un grande caos organizzativo e finanziario che andava ben oltre confine. Con le leggi attuali, sarebbe finito dritto nel penale: ma non era così negli anni di Mediobanca all’apogeo. Secondo merito: dopo esser stato bloccato dalla politica in Telecom Italia, quando stava realizzando una grande alleanza sui contenuti con Murdoch e sulle reti con il messicano Slim, Pirelli aveva rimesso quasi 3 miliardi in Telecom, e Tronchetti si è messo già di buzzo buono a rifocalizzarne strategia e mercati di sbocco. La scelta pagante è stata ridimensionare drasticamente i volumi del mass market e puntare sempre più sul segmento premium, a più alta intensità di ricerca e redditività di valore rispetto ai volumi. La strategia ha funzionato, mentre molti storcevano il naso sulle dismissioni necessarie. Terzo: Tronchetti ha avuto infine un altro merito, non nascondere che lo sviluppo industriale e di riposizionamento mondiale aveva bisogno di capitali, necessari ad abbassare l’alta leva finanziaria del controllo (nel frattempo Tronchetti ha semplificato infatti la catena a monte) italiano, a fronteggiare i debiti, ma soprattutto a investire.

Dal secondo e dal terzo punto appena ricordati discendono i tre riassetti finanziari ai quali Tronchetti ha messo mano dal 2012 ad oggi . I primi, alla ricerca di finanza italiana per rafforzare l’azienda. Ma le premesse non sono state adempiute con il gruppo Malacalza, che di Pirelli voleva in realtà impadronirsi sostituendo chi ne ha intravisto e realizzato il riposizionamento sull’alto di valore aggiunto. Di qui lo scioglimento dell’intesa, e una contesa giudiziaria che andava evitata. Secondo passo, sempre italiano: cercare nel fondo Clessidra, in Unicredit e Intesa non solo il ponte finanziario per uscire al meglio dal fallimento dell’accordo con Malacalza, ma anche per affrontare il fururo. Niente da fare, gli altri soci italiani hanno accettato di fare solo da ponte. Ecco perché Tronchetti si è rivolto a grandi soci internazionali. Ed è venuta la scelta dei russi di Rosneft, quando nessuno poteva ancora immaginare la crisi ucraina, le sanzioni e il crollo del prezzo del petrolio. Ergo, eccoci ai cinesi di Chemical China. Che sono pronti a un’opa totalitaria concordata sull’azienda, un’operazione da quasi 8 miliardi di euro.

Si scriverà che Tronchetti vuol far cassa e andare in barca. Ma chi lo scrive sa bene che Pirelli è nel mirino del grande consolidamento mondiale che avverrà non solo nell’auto (e di cui vedremo gli sviluppi con l’accordo che Marchionne firmerà tra FCA e un altro grande gruppo entro il 2018, come ha giàò cominciato a ripetere invitando i concorrenti a fare offerte) ma anche negli penumatici. Con la differenza che i grandi players mondiali di settore come Continental, Bridgestone e Michelin hanno capitalizzazioni miliardarie multiple, rispetto a Piurelli. Si tratta esattamente di evitare una mossa da parte di qualcuno dei grandi gruppi internazionale del settore che inevitabilmente sarebbe arrivata: e allora, con un’opa ostile, in Italia non sarebbe rimasta né la guida del gruppo né la testa pensante della sua ricerca e della sua strategia mondiale. Ne sarebbe venuto solo uno spezzatino.

Come invece non avverrà nell’accordo con i cinesi: grazie a un’esplicita clausola, è stato anticipato, che renderebbe possibile alterare il ruolo strategico industriale italiano solo con un voto al 90%, impossibile senza il 22,6% che resterebbe in mano italiana in caso di successo dell’opa totalitaria. Ecco: la clausola di salvaguardia italiana è il nocciolo vero di questa intesa italo-cinese. Chiunque la critichi avrà il dovere di dire come altrimenti si poteva evitare un’Opa ostile presto o tardi in arrivo.

Il difetto dei tentativi andati a male in Pirelli non ha radice nell’azienda ma nel paese: è la povertà di capitali e strategie del sistema Italia. Nessuno, né gruppi finanziari né banche, ha inteso scommettere somme rilevanti sulla piena italianità di un gruppo, a ebitda in crescita anche a restrizione di perimetro, a fronte dell’ipotesi che in caso di Opa ostile si dovesse esser pronti a tirar fuori miliardi. Ma almeno questa volta, a differenza di tante altre cessioni in mani estere di gioielli italiani, c’è una norma esplicita che presidia l’italianità piena della ricerca e della strategia Pirelli. Che consentirà al gruppo di concentrarsi acnor più sugli pneumatici premium per auto, allocando quelli per trucks insieme alla divisione analoga di China Chem.

E’ finita l’era leggendaria degli Agnelli e dei Pirelli? No. Di leggendario – anche se molti non lo ammetteranno mai – quell’epoca aveva poco, era possibile solo nel mondo di allora, a frontiere e mercati chiusi e non comunicanti. Il problema dell’Italia di oggi è trovare capitali che scommettano sulle sue eccellenze, e non le spoglino per spacchettarle e portarle altrove. L’investimento cinese in Pirelli sembra determinarsi a questo fine, esattamente come accaduto coi tedeschi in Lamborghini e Ducati. Ed è allora un bene che avvenga.

Non si capisce del resto perché nessuno abbia battuto ciglio quando i cinesi hanno investito miliardi per fare un favore allo Stato italiano, rilevando il 35% di Cdp Reti e il 40% di Ansaldo Energia senza che risultino sottoscritte clausole analoghe di salvaguardia dell’italianiotà, nonché quote in Eni, Enel e Saipem. Mentre se si tratta di grandi imprese private che si autotutelano allora ecco che scattano i mal di pancia.

E veniamo all’obiezione finale. Subito si comincerà a dire che Pirelli doveva cercare aiuto nello Stato italiano, al Fondo Strategico e alla CDP. Esprimo un’opinione secca e personale. Tronchetti ha avuto prove brutali a suo discapito dell’inframmettenza pubblica italiana, ai tempi del piano Rovati prodiano e contro l’intesa con Murdoch. Lo Stato italiano nel frattempo ha espropriato dall’ILVA  i soci privati senza neanche riconoscere loro un corrispettivo di alcun tipo, e senza nessuna sentenza. Francamente, di fronte a QUESTO Stato italiano non mi meraviglio, che ci si senta più sicuri persino coi cinesi dopo aver duramente trattato clausole di salvaguardia da loro sottoscritti.

20
Mar
2015

Falso in bilancio e ingolfamento del sistema giudiziario—di Raffaele Fiume

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Raffaele Fiume.

Dopo tanta attesa il Governo ha presentato la propria proposta sulla riforma del reato di falso in bilancio. L’idea di modificare la disciplina vigente è più che benvenuta perché è del tutto evidente che essa oggi merita una revisione.

Il dibattito su questa modifica ha seguito, purtroppo, il mainstream di ideologia, tifo campanilistico e insufficiente approfondimento che caratterizza il processo legislativo da qualche lustro. Read More