21
Apr
2015

Profughi e immigrati: tre orrendi ritardi della politica

Che cosa induce da oltre vent’anni l’Italia a vivere rispetto agli altri paesi avanzati i flussi di immigrazione in perenne affanno e inseguendo le tragedie di migliaia di annegati? No, la risposta non è geografica, ovviamente per il fatto che al centro del Mediterraneo a poche miglia di mare dalla Libia ci siamo noi, e non altri. La risposta è politico-culturale. Abbiamo vissuto l’esplosione del fenomeno migratorio come una patologia di volta in volta da arginare come fosse emotiva questione di ordine pubblico, dalla legge Martelli alla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini. Non abbiamo capito che dovevamo far tesoro dalle esperienze altrui, cumulate prima di noi innanzi a fenomeni analoghi per decenni, e in alcuni casi per secoli, nel caso di Paesi che hanno avuto Imperi come il Regno Unito o la Francia.
Il ritardo resta, purtroppo, anche oggi. Ed e’ un ritardo a tre dimensioni.

La prima e’ purtroppo quella consegnataci dagli ultimi svilupppi. Per evitare che primavera ed estate del 2015 siano una strage mediterranea continuata, a fronte di una Libia a-statualizzata e della realtà rappresentata da ISIS e dalle sigle islamiste associate e contrapposte, occorre un complesso dispositivo politico-militare. Da costruire sommando Onu, Ue e una coalizione di Stati africani e musulmani.
Spostare la vigilanza sul traffico di carne umana “per impedire che gli scafi partono dalla Libia”, come ha detto Renzi. E che in realtà equivale a quel che ha detto Salvini, invocando il blocco navale. Significa per l’Italia mostrare di avere un coalition power transmediterraneo e transatlantico. Cio’ che la politica estera e militare italiana non ha nelle sue corde, abituata com’e’ a oscillare tra decisioni prese dagli altri – vedi l’intervento in Libia nel 2011, voluto dai franco-britannici – e querimonie verso la Ue che ci trascura, vedi l’evoluzione da Mare Nostrul all’attuale inadeguata missione Triton. Occcorre un vero “gabinetto di guerra” perché l’italia possa, in un paio di mesi, ottenere la cornice internazionale senza la quale “impedire agli scafisti di partire” dalle coste libiche della Sirte sarà un miraggio. La somma complessa di mezzi aero-navali, droni e satelliti necessari a controllare le coste libiche, e a organizzare aree umanitarie di raccolta in Libia, è ipotizzabile solo se l’Italia convince molti paesi che in gioco è la sicurezza comune. Non è cosa agevole se s’immagina di risparmiare uno strumento militare italiano che a malapena raccoglie lo 0,9% del PIL tutto compreso, levando carabinieri e funzioni accessorie dagli stanziamenti della Difesa. Non nutro illusioni, sulla capacità di dar vita a un complesso strumento internazionale di questo tipo. Vedremo Renzi di che cosa sarà capace, e quale sarà la vera disponibilità a impegnarsi all’ONU del summit straordinario europeo domani. Di sicuro la Francia è molto interessata, presente com’è militarmente in Mali e Niger, al confine meridionale della Libia. Sarebbe già molto mettere insieme in un’intelligence unica quanto sanno i servizi francesi e USA, egiziani e tunisini, e – purtroppo – turchi, i quali ultimi tengono rapporti di pelosa prossimità con i trafficanti di schiavi e petrolio islamisti.

Il secondo e il terzo aspetto riguardano invece l’immigrazione ordinaria: la sua pianificazione e la sua gestione. Mentre la dimensione politico-militare del guaio libico è relativamente recente, su questi due aspetti il ritardo italiano è patologico e inescusabile. Sono passati vent’anni da quando avevamo un numero di immigrati di poco superiore a 500mila unità, mentre oggi sono quasi 5 milioni e mezzo, un milione e trecentomila famiglie di soli immigrati, e un milione di minori. Un milione di romeni, mezzo milione di marocchini, mezzo di albanesi (i più rapidamente integratisi). Mentre la popolazione straniera è cresciuta in media ogni anno del 103,3 per mille, quella italiana si è invece ridotta progressivamente dello 0,7 mille.
Avremmo dovuto capire, azzerando ogni polemica politica, che l’attuale andamento demografico non rende sostenibile il futuro del nostro Paese: nel 2014 siamo giunti al minor numero di nati dall’Unità d’Italia, solo 508 mila, i morti sono stati 80mila in più, le donne italiane hanno un numero medio di figlli pari a 1,3 mentre il tasso di equilibrio demografico dovrebbe essere di 2,1, e tutto questo a lungo andare abbasserà sempre più il numero di persone al lavoro rispetto ai pensionati. Vent’anni sono abbastanza per comprendere  che o rimediamo come abbiamo fatto nel quindicennio alle nostre spalle, con in media 300mila immigrati nuovi ogni anno (scesi a 150 mila nel 2014, per la crisi). Oppure, se non vogliamo immigrati, dobbiamo cambiare radicalmente la politica fiscale e il welfare per sostenere le famiglie e la fecondità delle residenti attuali, per portarla oltre il 2,1 al più presto possibile. E dovremmo piantarla di ripetere “quanto ci costano”, visto che l’8% del PIL italiano viene dagli immigrati, e che nel saldo tra imposte e contributi che pagano e le spese a loro rivolte il saldo è positivo per 4 miliardi (vedi i numeri qui).
Questo arido ma essenziale “conto economico delle convenienze dell’immigrazione” è stato fatto nel tempo da altri paesi avanzati. Negli anni Cinquanta la Germania aveva bisogno di manodopera e spalancò  le porte ai Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” prima italiani, poi turchi, poi africani e asiatici. Per poi, nella crisi occupazionale degli anni Duemila, stringere il freno e passare alla pianificazione delle quote nazionali, scelte per specializzazione del capitale umano (e ancor oggi, non dimentichiamolo, le richieste pendenti di asilo in Germania sono 3 volte superiori alle 67mila italiane…). La stessa cosa è avvenuta nel tempo in Australia e negli USA, e in tanti paesi OCSE che senza tanti patemi “scelgono” le qualifiche, basse e alte o altissime, a cui tenere discrezionalmente e diversamente aperte le quote di regolarizzazione degli immigrati. E’ questo l’esempio a cui dobbiamo guardare, a maggior ragione ora che stenteremo per anni a riassorbire tre milioni e mezzo di disoccupati italiani. Ma per fare tutto questo servono politici capaci di vincere l’impopolarità delle “cifre vere”, capaci di studiare e citare ricerche come questa, sull’effetto positivo che i migranti sortiscono sulle basse qualifiche dei lavoratori “nostrani”.

Il terzo aspetto riguarda le politiche sociali e d’integrazione. Prima ancora che ridiscutere se la cittadinanza italiana si dia ancora per solo ius sanguinis invece che aprendo allo ius soli (personalmente sono favorevole a una forma di ius soli “temperata”), l’Italia dovrebbe uscire dal disastroso modello adottato sin qui. Quello per il quale dietro la prima linea dei Cie oggi CARA e cioè delle sistemazioni d’urgenza temporanee, modificatesi nel tempo tra polemiche feroci, abbandona però integralmente agli Enti Locali la competenza delle politiche d’integrazione, abitative e scolastiche, dell’impiego e della formazione del capitale umano. E’ da questa scelta scaricabarile, che deriva il concentrarsi di guai quando in aree delimitate di territorio l’immigrazione, dal 9% scarso oggi media sul totale della popolazione italiana, diventa tre, quattro e cinque volte maggiore rispetto al totale degli italiani, in un quartiere o in un piccolo centro. Molto spesso in aree in cui il reddito degli italiani è a propria volta molto basso e alto è il disagio sociale, e dove ogni intervento pro-immigrati a quel punto alimenta come benzina sul fuoco intolleranze e populismi di ogni tipo. Come avvenne l’anno scorso a Tor Sapienza a Roma, come accade in molte città e province italiane.

Prima che sia troppo tardi, la politica deve decidere di attribuire competenze (e risorse) agli unici che possono affrontare organicamente il problema dell’integrazione di milioni di stranieri: non lo Stato centrale, ma gli Enti Locali. In Germania, le competenze sugli immigrati non fanno capo allo Stato federale, ma ai Laender. E sono le grandi città metropolitane, che nei decenni sin dagli anni Cinquanta hanno elaborato modelli diversi di housing sociale e integrazione scolastica per gli, immigrati.
Sono le 10 nuove Città Metropolitane italiane più Roma capitale – non le Regioni, per carità – e cioè il nuovo macroreticolo amministrativo italiano in cui si addensano popolazione e problemi sociali, a dover avere competenze e risorse per gestire un fenomeno che non può essere affrontato con centri temporanei, magari per di più fonte di appetiti e affari illeciti come abbiamo appreso dalle indagini delle Procure. Ma le nascenti Città Metropolitane nascono invece attualmente senza risorse.

E’ giusto credere che l’Italia debba modificare gli accordi di Dublino sul dovere di asilo del primo paese che registra gli immigrati. Ma cio’ non toglie che il malessere italiano che si legge nei sondaggi sull’immigrazione nasce dal credere di mettere la polvere sotto il tappeto chiudendo per un po’ migliaia di immigrati in spogli palazzoni di degradate periferie. Non è una soluzione. E’ la miccia su una bomba. E alla politica dovrebbe spettare disinnescarla, invece di soffiarci sopra per meschini tornaconti elettorali.

 

21
Apr
2015

Dossier Confedilizia: tasse, tasse, tasse

C’era una volta, fino a poco tempo fa, l’Italia delle tasse molto alte sul reddito, sia quello da lavoro autonomo che da lavoro dipendente, e delle tasse un po’ meno alte sui patrimoni, sia finanziari che immobiliari. Quell’Italia non c’è più.

O meglio, come ha recentemente mostrato Uberto Cardellini, il paese dal folle carico fiscale sui redditi c’è ancora. È venuta a mancare l’altra Italia, quella dalle imposte sui patrimoni leggermente al di sotto della media, così che oggi abbiamo un carico fiscale insostenibile su tutti i fronti. L’inasprimento della tassazione sui patrimoni finanziari, ovvero sui risparmi investiti in strumenti mobiliari, è già stato raccontato, anche su questo blog. Un dossier di Confedilizia ci mostra invece il brusco aumento di imposte verificatosi in questi anni anche sui patrimoni immobiliari.

Stando a questo dossier, nel triennio 2011-2014, si è passati dai 9,2 miliardi dell’ICI ai ben 25 miliardi della doppia imposta IMU-TASI. E il passaggio non è stato per niente graduale: già nel 2012 l’ICI veniva sostituita dall’IMU con un gettito pari a 23,8 miliardi. Mentre nel 2011 pagavamo imposte sugli immobili pari a circa lo 0,6% di PIL, ora siamo vicini al 1,7%, contro una media europea di circa l’1%.

Alcuni esempi, inseriti nello studio, mostrano come l’aumento percentuale di tassazione locale sia arrivato al 291% per gli immobili locati a canone calmierato e a 157% per quelli con contratto libero. Nel caso concreto di un appartamento a Roma notiamo che, comprendendo tutte le imposte (ovvero: IRPEF, addizionali regionale e comunale, IMU, TASI, imposte di registro e di bollo), si arriva a un prelievo fiscale di quasi l’80% del canone di locazione. Certamente si tratta di un caso estremo, ancorché reale, ma è pur sempre utile a far capire la situazione.

Lo shock che c’è stato dal lato delle imposte sul risparmio, sia quello investito in strumenti mobiliari che in beni immobili, è impressionante. Ed è tanto più grave, se si pensa che lo shock non è dipeso tanto da un ripensamento del sistema tributario volto a spostare la tassazione dal lavoro ai patrimoni, quanto da una sorta di irrefrenabile tendenza da parte dei governi a racimolare risorse ovunque ne siano rimaste. Un punto di PIL all’anno tolto alle famiglie italiane in un battito di ciglia. Sarebbe bello se i governi fossero così rapidi, risoluti ed efficienti anche dal lato della spesa pubblica. Invece sembrano perfettamente in grado di imporre la revisione della spesa ai cittadini, ma non a loro stessi.

“Un soldo risparmiato è un soldo guadagnato… Per noi”, diceva lo sceriffo di Nottingham, intento a esigere il soldo-regalo di compleanno di un povero coniglietto, in una scena del Robin Hood di Walt Disney. In Italia non siamo ancora arrivati al rapporto uno a uno, ma come mostra il caso del canone di locazione prelevato all’80%, siamo sulla buona strada, e comunque già ben oltre la soglia della ragionevolezza.

Fa dunque riflettere la raccomandazione con la quale lo sceriffo si congeda sbeffeggiando la povera famigliola: “continuate a risparmiare”.

 

@paolobelardinel

20
Apr
2015

Qualche dubbio sul decreto antiterrorismo—di Lucio Scudiero

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lucio Scudiero.

La scorsa settimana il Senato ha definitivamente convertito in legge il decreto “antiterrorismo (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7), la risposta del nostro Paese alla minaccia del fondamentalismo concretizzatasi nei fatti che sconvolsero Parigi qualche mese fa.

In estrema sintesi, il decreto ha introdotto una serie di previsioni che incidono ad ampio spettro sull’ordinamento del nostro sistema penale e di pubblica sicurezza, introducendo fattispecie penali di contrasto al fenomeno dei cosiddetti foreign fighters, potenziando  gli strumenti di indagine a disposizione delle autorità investigative su fatti e sospettati di attività terroristiche nonché la dotazione delle forze armate e di polizia per operazioni di controllo del territorio e di cooperazione internazionale. Per il dettaglio delle misure, si rinvia qui e qui. Read More

19
Apr
2015

Come si cura la bulimia normativa

Nessuno, nemmeno fra i più importanti organi dello Stato, sa con precisione quante siano le leggi attualmente in vigore in Italia. Alcuni dicono intorno alle 30.000, altri ipotizzano che siano 75.000. Ma la sostanza non cambia. Le troppe leggi italiane, del resto, non sono certo una novità: sulla deregulation si fanno convegni fin dagli anni ’80 (e già allora il Prof. Sabino Cassese dichiarava che l’Italia “ha troppe leggi”, profetizzando che “quando si regolamenta l’apertura dei negozi si può arrivare a tutto”). Nel 2005, per cercare di sfoltire la selva normativa di cui siamo prigionieri, fu istituito il cosiddetto “taglia-leggi”: uno strumento di ricognizione e soppressione delle leggi inutili, divenuto famoso soprattutto per aver cancellato le leggi istitutive di un’ottantina di comuni, la legge che aboliva la pena di morte e quella che istituiva la Corte dei Conti. Ma che, a parte gli incidenti di percorso, riuscì in effetti a sopprimere decine di migliaia di leggi superate o abrogate de facto. Read More

18
Apr
2015

Lo sciopero alla metro di Roma: 3 oltraggi a noi tutti

Ieri nella metropolitana di Roma sono avvenute tre cose. A ben vedere, una più grave dell’altra. La prima: una modalità di sciopero che ha legittimamente suscitato l’immediata esasperazione e protesta dei viaggiatori, romani e non. La seconda: una totale divergenza delle ricostruzioni ufficiali su quanto è accaduto. La terza: reazioni sindacali esultanti, aliene da ogni parola di comprensione verso cittadini e viaggiatori.

Sono tre tessere di un mosaico rivoltante, indegno dello stoico spirito di sopportazione dei cittadini-contribuenti della Capitale. Lontano anni luce da quanto serve garantire in vista del prossimo Giubileo, e della candidatura alle Olimpiadi. E, invece e purtroppo, in linea con quanto avvenne la notte di Capodanno, con la maxi astensione dal lavoro dei vigili urbani su cui, a distanza di mesi, procedono le inchieste, anche sui medici che firmarono illegittimamente quei certificati medici.

Ho rispetto per i diritti sindacali. Anche se, dipendesse da chi qui scrive, gli scioperi in alcuni servizi pubblici essenziali dovrebbero semplicemente essere vietati per legge a favore di altre procedure di protesta, come negli Stati Uniti dopo gli anni Ottanta. Ma, in assenza di questo, limitiamoci a dire che, quando si tratta di servizi pubblici essenziali come i trasporti, deve essere assoluto il rispetto delle regole di garanzia a difesa del diritto all’informazione dell’utente, e della necessità di assicurare comunque servizi minimi. Così dice la legge, così i codici di disciplina dei diversi sottosettori nei servizi pubblici. Per il trasporto pubblico locale, vale la delibera del 31 gennaio 2002 n 02/13 della Commissione nazionale di garanzia sugli scioperi, che naturalmente è titolata “disciplina provvisoria” senza che mai sia seguita una disciplina organica.

Quanto ieri mattina i convogli sulla linea A della metro romana si sono fermati in alcune stazioni invece che a fine linea, violando la disciplina per la quale all’inizio dello sciopero parte l’ultimo convoglio da un capolinea per arrivare regolarmente a fine corsa, i passeggeri non ci hanno più visto, e sono dovute intervenire le vigilanze private e le forze dell’ordine. I passeggeri avevano non una, ma mille ragioni. A maggior ragione nella Capitale martoriata reiteratamente da scioperi, cortei, e manifestazioni.

Ma ecco che la responsabilità di quanto avvenuto è stata immediatamente rimpallata. I due sindacati che hanno proclamato lo sciopero, Ugl e Sul che non si riconoscono nel nuovo accordo siglato tra Atac e Cgil-Cisl e Uil per il recupero di produttività in un’azienda che ne ha bisogno come il pane, hanno immediatamente sostenuto che la responsabilità del blocco dei convogli è stata dell’azienda. L’azienda ha ribattuto che la procedura di sicurezza straordinaria è stata dovuta al fatto che le norme attuali sono carenti, visto che nel trasporto locale l’adesione allo sciopero non è da notificare a inizio turno, dunque l’elevata partecipazione alla protesta dei due sindacati, che pure sono minoritari rispetto all’accordo firmato, obbligava a tale decisione in presenza di uno scorretto comportamento sindacale. Perché l’astensione nasce da una vertenza aziendale senza il pieno rispetto delle procedure di raffreddamento e conciliazione pur previste dalle norme “provvisorie” che abbiamo sopra richiamato.

A tutto questo si sono subito aggiunte note sindacali unicamente centrate sul rilancio della conflittualità verso l’Atac e il suo piano, totalmente incuranti di quanto era avvenuto ai danni di migliaia di romani che pure avevano modificato i propri orari di vita e lavoro per tentare di raggiungere le loro mete rispettando l’orario dell’astensione proclamata, visto che l’interruzione dei convogli è avvenuta prima delle 8,30 quando lo sciopero era annunciato.

Ci penseranno a questo punto gli esposti subito annunciati alle autorità da parte dell’Atac e sostenuti anche dal sindaco Marino, a fare chiarezza. Noi possiamo solo augurarci che i responsabili vengano, come per Capodanno, identificati e puniti. Per voltare pagina, una volta per tutte. Purtroppo, me lo auguro senza davvero sperarci.

E’ evidente che la disciplina provvisoria degli scioperi nel trasporto pubblico locale va modificata e resa più cogente al rispetto dei cittadini. E’ altrettanto chiaro che esiste nel settore dei servizi pubblici la necessità di riaffermare il principio per il quale accordi sottoscritti da sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori diventino esigibili, sia pure nel zoppicante quadro legislativo italiano che mai ha deciso di applicare l’articolo 39 della Costituzione, con una legge organica sui sindacati e sui loro diritti ma anche sui loro doveri. Ed è altrettanto chiaro, infine, che gli amministratori di Roma come di tutte le città italiane, e i manager delle municipalizzate pubbliche sono chiamati a uno straordinario sforzo di responsabilità. Viste le lacune di legge, riportare la macchina pubblica a condizioni almeno minimalmente soddisfacenti di efficienza e produttività impone sforzi straordinari di confronto con sindacati e lavoratori. Ma poi bisogna avere la fermezza di applicare gli accordi che vengono sottoscritti.

E’ troppo comodo continuare a pensare che viaggiatori e cittadini, contribuenti e turisti, lavoratori, giovani e anziani, siano carne da macello che pagano il conto di ogni vertenza aziendale nei trasporti. Il trasporto pubblico, a Roma più che in ogni altra città italiana, dovrebbe essere una vetrina dell’idea d’Italia che vogliamo proporre a noi stessi e al mondo intero. Quella vetrina viene sporcata e infranta ogni settimana. E a chi paga il conto, con il proprio tempo e il proprio denaro, cioè i cittadini, viene il sangue agli occhi apprendendo che le sigle sindacali si compiacciono perché l’una pensa di fare con questo più iscritti dell’altra.

13
Apr
2015

Renzi: “No tagli alla spesa e no aumento tasse”. Male…—di Uberto Cardellini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uberto Cardellini.

Sta per essere varato il Documento di Economia e Finanza del 2015. Non è nostra intenzione entrare nel merito della questione, ma la dichiarazione soddisfatta “non ci sono tagli e non c’è un aumento delle tasse” sembra che non si addica a un premier che abbia intenzione di far cambiare verso a questo Paese; essa offre anzi lo spunto per alcune considerazioni critiche.

Anche ammesso che sia così, ci si può ancora accontentare di non aumentare le tasse? Read More

12
Apr
2015

I numeri che non tornano nel DEF “vero”, rispetto agli annunci: fisco, sanità, Enti Locali

Ora che disponiamo della versione integrale e ufficiale del Documento di economia e Finanza del governo e degli allegati, si può farne un esame non più basato sulle illazioni. Con una premessa, purtroppo inevitabile. Non aiuta a nutrire fiducia la pessima figura rimediata ieri dall’esecutivo, quando si è scoperto che nel decreto legislativo sulla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato si prevedeva una clausola di salvaguardia alla Totò-truffa per la quale, visto che 1,8 miliardi potrebbero non bastare, raggiunta quella cifra sarebbero state le imprese e i lavoratori a vedersi aumentare i contributi. Gli sgravi pagati da coloro ai quali il governo li dispone mancavano, nella variopinta serie delle trovate circensi della politica. Il governo è stato costretto a una precipitosa marcia indietro, sorpreso con le dita nella marmellata su un aspetto paradossale, che aveva sempre nascosto. Non è una buona premessa per far saltare le clausole di salvaguardia fiscale per 2 punti di Pil previste nei prossimi 3 anni, ma tant’è. Sul DEF, procediamo per punti.

Il tesoretto. Renzi è stato abile, ha timbrato il DEF come la prima disponibilità di un tesoretto da spendere subito, dopo anni di strette. Viene naturale associare l’idea di un tesoretto a risultati virtuosi intanto conseguiti. Peccato che quel miliardo e seicento milioni che Renzi deciderà di usare vedremo come, se estendendo il bonus 80 euro o se in misure a sostegno della povertà, e guarda caso lo deciderà pochi giorni prima delle elezioni regionali in arrivo, sia di maggior deficit pubblico per il 2015, che passerà dal 2,5% del Pil al 2,6%. Deficit, non virtù. Ed è è l’intero DEF, in realtà, a essere molto diluente sugli obiettivi di perseguire fino al 2018. La scelta è di non accelerare energicamente gli interventi sulla spesa per adottare subito energici sgravi fiscali aggiuntivi e consolidare così l’esile ripresa in corso. Peccato: a fine 2016 finisce il QE della BCE, il grande regalo di cui stiamo beneficiando e che abbatte anche il valore dell’euro trainando l’export. Diluendo gli obiettivi rischiamo di perdere la grande occasione.

Il vero merito. C’è una grande scelta positiva, nel DEF. L’impegno a far saltare la clausola di salvaguardia fiscale che lo stesso governo aveva assunto nel 2016 per 1 punto di PIL, con aggravi di IVA e accise (più due altre clausole minori previste dai governi precedenti). Sarebbe stata una batosta. Viene annullata per lo 0,4% del Pil grazie ai minori interessi sul debito regalataci da Draghi, e per lo 0,6% con tagli di spesa che rappresentano tutto il nuovo sforzo sulla spesa del DEF, rispetto a quanto già stabilito per i prossimi anni nell’ultima legge di stabilità. Ma fu un demerito dell’attuale governo prevedere le clausole perché non abbracciò i tagli di Cottarelli un anno fa (che dovevano essere di 7 miliardi nello stesso 2014, poi di 16 nel 2015 e di 34 nel 2017). Dunque il demerito di allora si pareggia rimediando con la cancellazione: ma sempre errore di questo governo era stato.

La crescita. Il governo è prudente sul 2015, limitandosi a una attesa di crescita dello 0,7%. Ma fin dal 2016 si scommette su una crescita reale doppia e su una componente di inflazione che risale rapidamente verso il 2% tra 2015 e a 2016: dunque una crescita nominale che dovrebbe essere più vicina al 3% che al 2%. E’ questo quadro, a reggere tutte le stime di finanza pubblica. A fronte del poco che si fa su spesa e tasse, è molto ottimistico. Perché – tranne che per il Jobs Act – dipende in realtà da un commercio mondiale che torni ad aumentare del 4% e ben oltre il 5% tra 2016-2018 , e da un petrolio che non salga per tutti i prossimi anni sopra i 57 dollari al barile. Incrociate le dita.

Le tasse. La versione finale del DEF ha mutato la scansione della pressione fiscale, che dal 43,5 del PIL a cui era salita nel 2014 e restava nel 2015 cresceva ulteriormente al 44,1% nel 2016 e 2017. La nuova tabella è basata sull’assunto caparbio che gli 80 euro vanno contati come meno tasse e non più spese – come accade invece per criterio contabile europeo – e dunque in base a questo afferma che la pressione fiscale scenderà dal 43,5% del Pil al quale restava nel 2015 al 42,9% quest’anno, per poi decrescere nel 2016 al 42,6%, e via via fino al 41,1% nel 2019. La diminuzione rispetto al previsto ingloba per quest’anno il criterio degli 80 euro come meno tasse, ma se l’Europa non l’approva la pressione resterà al 43,5%. Per gli anni a venire, oltre il solito criterio sugli 80 euro si sommano le mancate clausole fiscali, che dovrebbero saltare a partire dal 2016. Ma attenzione, sono previsioni al netto di che cosa potrebbe avvenire ripetendo quanto accaduto dal 2008 ad oggi: quando i tagli alle Autonomie sono state compensati per oltre un terzo da aumenti della pressione fiscale locale. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, finché un governo non deciderà sgravi universali per tutti abbassando questa o quella aliquota di questa o quella tassa.

Nessun taglio. E’ l’annuncio del governo. Che va interpretato: si legge così: nessun taglio aggiuntivo a quelli già disposti per i prossimi anni dall’ultima legge di stabilità. Che sono puntualmente riportati nelle tabelle del DEF. Intendiamoci: poca roba. La spesa pubblica complessiva è stata del 51,1% del Pil nel 2014. Se levate gli interessi sul debito, la spesa primaria è del 46,5% del PIL. Dovrebbe scendere gradualissimamente al 43,3% del PIL solo entro il 2019, mentre gli interessi sul debito passerebbero dal 4,6% del 2014 fino al 3,7% fino al 2019, non si capisce in base a quale ottimismo sull’orizzonte successivo alla fine del QE della BCE. Se esaminate le tabelle programmatiche dei grandi aggregati della spesa pubblica a venire, troverete che un solo comparto scende significativamente, quello dei consumi intermedi cioè delle forniture, che dovrebbe passare dai 134 miliardi 2014 pari all’8,3% del PIL al 7,8% nel 2016 e via via fino al 7% in altri 3 anni. Nessun’altra grande voce, stipendi e pensioni, presenta diminuzioni comparabili, né superiori allo 0,3-0,4% del Pil in 5 anni.

Stato e Autonomie. Il più della non troppo rilevante riduzione della spesa pubblica complessiva – dal 50,5% del PIl in questo 2015 al 49,4% nel 2016 al 48,6% nel 2017 – ha però un andamento previsionale asimmetrico. La spesa corrente di cassa dello Stato centrale sale dal 26,6% del PIL nel 2014 al 28,1% nel 2015, al 29,1% nel 2016, e al 29,2% nel 2017. Quella degli Enti Locali scende dal 13,7% del Pil 2014 al 13,1% nel 2015, al 12,7% nel 2016, e continua a scendere fino all’11,9% nel 2018. Ecco l’allarme rosso: i tagli veri alle Autonomie restano, sono già disposti. E i contribuenti devono vivere questa prospettiva sapendo che, con la nuova local tax in arrivo sul mattine al posto di IMU-TASI o con sovrattasse come quelle ai passeggeri di porti e aeroporti, la pressione fiscale può risalire per compensare parte dei tagli veri che lo Stato non vuole per sé. ma dispone alle Autonomie locali.

La sanità. Indispettito per la protesta preventiva delle Regioni, Renzi alla conferenza stampa del DEF ha sparato contro le troppe ASL che restano in Italia. Abbia ragione o no, nel DEF però i numeri raccontano un’altra sttoria. La sanità nel 2014 è costata 111 miliardi, con un +0,9% sul 2013, ed era composta da spese per personale di 35,4 miliardi, forniture per 29,6mld, prestazioni per 39,6 miliardi. Nel 2015 costerà lo 0,2% in più poiché le spese di personale e forniture salgono, e scende a 38,8 la spesa per prestazioni. Nel 2016 è previsto che la sanità costi l’1,9% in più, per 113 miliardi. Nel 2017 la spesa diventa di 115,5, nel 2018 di 117,7 e nel 2019 di 120 miliardi, con tassi di aumento del 2% l’anno. Quella di Renzi era un’ottima battuta, peccato che i conti del governo dicano cose diverse.

9
Apr
2015

Stato, Regioni, Comuni: i numeri sul troppo grasso che resta

Matteo Renzi forse non l’aveva messo in conto ma, con alla testa il sindaco di Torino Fassino e il presidente del Piemonte Chiamparino cioè non proprio due esponenti di terza fila del Pd, Comuni e Regioni questa volta hanno preso a sparare sui tagli del governo prima ancora che il DEF venga varato. Oggi Renzi incontra l’ANCI, ma il fastidio con cui l’altroieri ha replicato da palazzo Chigi alla minaccia di tagliare i servizi ai cittadini era evidente. Tagliate gli sprechi, ha replicato il premier. Tanto per cambiare, non c’è molto accordo sui numeri dei tagli sin qui realizzati tra Stato centrale e Autonomie, e dunque forse è il caso di mettere un po’ di chiarezza su alcuni punti. Chi ha tagliato quanto, in questi anni? Sembrerebbe facile a dirsi, e in realtà non lo è.

Un conto è parlare dei tagli a parole realizzati dalle manovre susseguitesi dall’ultimo governo Berlusconi a oggi: ricordarsi sempre sono tagli sulla spesa tendenziale, cioè comprensiva degli aumenti inerziali a legislazione vigente per l’anno successivo, dunque non tagli sulla spesa reale precedente. E questo spiega perché poi, dopo anni di manovre sommate per decine e decine di miliardi di tagli deliberati, in realtà la spesa pubblica reale complessiva abbia continuato a crescere: molto meno velocemente di prima, ma fino al 51,1% del PIL.

Altro conto è se si prende in considerazione la spesa primaria compresa nel patto di stabilità interno. Altro conto ancora è se si considera quella che negli ultimi anni è diventata la “spesa aggredibile”, che è un aggregato ancora più ristretto, quella che fa da base all’esercizio sui costi standard regionali decisi nel 2012 sulla base di un campione che comprende anche le regioni meno efficienti, mettendo cioè da parte quelli che dovevano essere i costi standard veri.

Ecco spiegato perché i numeri non tornano mai. Un conto è poi se nella spesa regionale comprendiamo anche la sanità, che costituisce la stragrande maggioranza della spesa regionale. Altro conto è se la escludiamo, visto che il fondo sanitario nazionale vive per così dire di vita propria, quanto a cifra stanziata anno per anno (il ministro Lorenzin sottoscrisse il patto per la salute con le Regioni nel luglio scorso, poi rimesso in discussione dalla finanziaria). Fatte queste premesse, qualche conticino per raccapezzarsi.

Le manovre. Se guardiamo alle manovre sul tendenziale di entrate e spese (con l’accortezza richiamata prima), il totale di quelle varate tra 2008 e 2014 (esclusa l’ultima legge di stabilità) ammonta alla bellezza di 122 miliardi di euro, per il 55% a parole (vedremo alla fine, perché a parole) sulla spesa per 67 miliardi, e il 45% con maggiori entrate, per 55 miliardi di euro. La minor spesa rispetto all’aumento tendenziale è stata ripartita per il 36% (per 23,8 miliardi, ma di questi il 58% sono stati meno spesa in conto capitale cioè meno investimenti, quelli si tagliano senza che nessuno protesi) sull’amministrazione centrale, e per il 48% sulle Autonomie Locali, Regioni, Comuni e Province. Il restante 16% è stato a carico degli Enti pubblici sottoposti al MEF. Dei 32,7 miliardi di tagli di spesa tendenziale alle Autonomie, il 41% è stato a carico delle Regioni, nelle poste di spesa sottoposte a patto di stabilità (fondo sanitario nazionale con trattativa a parte, dunque).

La ripartizione. Considerando i numeri precedenti, le Autonomie hanno delle ragioni da far valere. Sul totale complessivo della spesa pubblica, lo Stato centrale pesa infatti il 29,9%, i Comuni il 7,6%, le province l’1,3%, le Regioni il 18% ma se si esclude la sanità la proporzione scende a meno della metà. Il 40% della spesa avviene attraverso gli enti previdenziali. Dai numeri, i tagli sono stati più a Comuni e Regioni che allo Stato centrale. Da Berlusconi fino all’ultima legge di stabilità esclusa, se dai tagli sulla spesa tendenziale andiamo a quelli “nettizzati”, le Regioni a statuto ordinario hanno subìto tagli per 9,7 miliardi, quelle a statuto speciale per 3,3 miliardi, le Province per 3,7 miliardi, e i Comuni per la bellezza di 8,3 miliardi: il che spiega perché i Comuni abbiano in qualche misura ancora più ragioni a protestare delle Regioni.

I servizi. Hanno ragione o torto le Autonomie, dicendo a Renzi che ora i costi vivi sono all’osso e dunque con nuovi tagli saranno i servizi ai cittadini a ridursi inevitabilmente? O ha ragione Renzi a dire il contrario? Le ricerche accumulate dicono che ha ragione il premier. Se avete la voglia e la pazienza di scaricarvi dal sito revisionedellaspesa.gov.it il pdf del documento consegnato a Cottarelli relativo alla spesa dei Comuni, (con l’avvertenza solita che troverete all’inizuio una stima doppia dei tagli di spesa 20018-2014 rispetto alla netta che vi abbiamo dato, appunto perché basata sul “tendenziale” che avrebbe inglobato gli AUMENTI di spesa previsti a legislazione invariata..) troverete la spesa comunale esaminata per classe dimensionale e per molti voci standard, dai costi in consulenze a quelle per hardware e software per dipendente, dai costi di assicurazione dei mezzi a quelli per affitti e riscaldamento. Riscontrerete tra Nord e Sud e per classi dimensionali dei Comuni coefficienti di variazione nell’ambito del 100, 200 e anche 400%: i dati dicono dunque che c’è ancora molto da fare, nell’ottimizzazione e riduzione della spesa corrente. Soprattutto nei Comuni capoluogo grandi e grandissimi. Mentre i Comuni piccoli hanno costi sempre meno in linea da sopportare, rispetto alla dimensione non ottimale dei servizi che devono offire e eispetto alle risorse disponibili. Non troverete dati altrettanto interessanti nel pdf del documento consegnato dal gruppo di studio che ha preso in esame la spesa delle Regioni. Forti del fatto che hanno vinto nel 2012 la battaglia sui “finti” costi standard, hanno di fatto rifiutato anche a Cottarelli un’esame dettagliato dei coefficienti di variazione – che restano altissimi – nelle maggiori voci di spesa corrente standard.

I tagli “a parole”. Un’ultima considerazione merita il fatto che, in realtà, la ripartizione delle manovre per il 55% fatta sul versante della spesa è un dato virtuoso SOLO IN APPARENZA. Quasi un terzo dei tagli sul tendenziale di spesa operati alle Autonomie è stato infatti recuperato da aumenti della tassazione locale, nelle più diverse forme a cominciare dal mattone. Di conseguenza le manovre correttive sono avvenute più sul versante di un fisco più pesante, che limitando la spesa. Ma ora la capacità di recupero fiscale locale è arrivata al limite, i Comuni e le Regioni lo sanno. Sperano ancora in una local tax per il 2016 che aumenti ulteriormente il gettito rispetto a Tasi. Ed è su questo, altri aumenti fiscali locali a compensazione, la vera partita tra Renzi, Regioni e Comuni. Purtroppo per noi. Ci sarebbe da dire molto poi sul perché lo Stato centrale ritenga di non aver più da tagliare se non per centinaia di milioni invece che per miliardi, come si è visto nell’ultima legge di stabilità che ha chiesto alle Autonomie 3 volte tanto rispetto ai tagli ministeriali. Ma per questo occorre un altro articolo.

Le partecipate. Ha detto Chiamparino che parlare di risparmi dai tagli alle partecipate è un errore, c’è da riaccorpare e ottimizzare ma non da tagliare. E’ il motivo per cui il governo Renzi sinora sulle partecipate locali non ha fatto nulla, tranne una norma manifesto senza effetti inserita in legge di stabilità. Chiamparino e il governo hanno torto. A smentirli è l’analisi e la previsione di risparmio di “almeno 2-3 miliardi” possibile con le 33 proposte dettagliate avanzate un anno fa da Cottarelli dopo aver esaminato l’intera complessa geografia delle 7760 partecipate locali di cui aveva notizia, rispetto alle oltre 10mila esistenti in Italia (non c’è una banca dati affidabile centralizzata, come sempre…), che trovate a pag 39-40 delle slides “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” qui. E’ un report dettagliatissimo, con interventi diversi sulle migliaia di piccole partecipate da chiudere, su quelle da cedere, su quelle in perdita strutturale, sui nuovi criteri da adottare per il TPL, su come tagliare le attuali 37mila posizioni a nomina pubblica censite. Ricordate sempre che ad aver dichiarato “obiettivo del governo è sfoltire da circa 8mila a non più di mille le municipalizzate in Italia” è stato Matteo Renzi, il 18 aprile 2014, come beffardamente Cottarelli ricorda nella prima pagina delle sue stesse slides che vi raccomando di leggere… E il numero non è un caso: in Francia – paese non esattamente poco statalista – sono mille, appunto…

7
Apr
2015

Prima che esca, 4 conti sul DEF per capire di che tasse morire

Tra oggi e venerdì, è atteso il varo da parte del governo di tre documenti essenziali di politica economica: il DEF, il documento che fissa gli obiettivi e le ipotesi macro sottostanti per la prossima legge di stabilità 2016 e per il triennio successivo; il PNR, Piano nazionale delle riforme, che aggiorna gli interventi strutturali più importanti dell’agenda governativa e la loro stima sull’innalzamento del prodotto potenziale italiano; la Nota di aggiornamento del Patto di stabilità e crescita europea, cioè la valutazione dell’impatto che le nuove manovre del governo avranno rispetto agli obiettivi concordati con la Ue di riduzione del deficit e di rientro del debito pubblico.

Sono tre moduli programmatici molto attesi, perché in questo 2015 siamo al primo anno di ripresa del PIL dal calo che era tornato a metà 2011, dopo gli abissi registrati dal 2008 fino a metà 2009. Ma è sbagliato credere che il ritorno alla crescita semplifichi le cose. Molti sono i vincoli davanti al governo, e i più pesanti li ha decisi lui stesso, nella legge di stabilità 2015. A partire dalle tre clausole di garanzia di aumento delle tasse tra 2016 e 2018, per complessivi 72 miliardi. Il primo gradino che scatterebbe nel 2016 riguarda oltre 16 miliardi, di cui 12,8 dal solo aumento dell’aliquota ordinaria IVA dal 22% al 24% (che potrebbe poi salire fino al 25,5% nel 2018). Cerchiamo ora di fissare solo alcuni punti essenziali, per capire come giudicare le decisioni che assumerà il governo.

Allo stato delle cose, l’impegno dell’Italia è di chiudere il deficit pubblico al 2,6% del PIL in questo 2015, per scendere all’1,8% nel 2016. Significa circa 10 miliardi di minor deficit, l’anno prossimo. Aggiungiamoci, per tenerci stretti, la necessità di finanziare le riforme almeno più essenziali che identificano sin qui le scelte di fondo più incisive del governo: il bonus 80 euro anche per il 2016, la decontribuzione anche nel 2016 dei nuovi contratti a tempo indeterminato, la riforma della scuola. Il bonus 80 euro, quand’anche non lo si estendesse rispetto agli attuali percettori come il governo ha più volte promesso, vale circa 10 miliari di euro. La decontribuzione ai contratti di lavoro stanziata per il 1015 vale 1,8 miliardi: per molti non basterà, ma diciamo che almeno 2 miliardi servono anche nel 2016. Quanto alla scuola, l’impegno del governo nel 2016 vale 3 miliardi. Queste sole tre riforme, dunque, necessitano di 15 miliardi almeno di copertura, che sommati ai 10 miliardi di minor deficit portano il conto – spannometrico, ma è per semplificare – a circa 25 miliardi. Se, come il governo ha dichiarato la settimana scorsa, l’intento prioritario è di non far scattare il primo scaglione delle clausole di salvaguardia fiscale, a cominciare dagli oltre 12 miliardi del solo aumento previsto dell’IVA, ecco che il conto delle misure da finanziare sale a circa 37 miliardi di euro se si intende eliminare solo l’aumento IVA, a 41 poi se si conferma la volontà di evitare qualunque aumento di tasse.

Prima di immaginare come sia possibile farlo senza effetti recessivi, spostiamoci a considerare un’altra colonna: quella dei fattori “esogeni”, cioè derivanti dagli impegni europei, e dall’andamento intanto sottostante del PIL.

Con ogni probabilità, il governo potrebbe mirare a contrattare con Bruxelles un abbattimento della metà della soglia di riduzione del deficit 2016, spostandolo verso l’alto dall’1,8 al 2,2 o 2,3% del PIL, in ragione del fatto che la bassa crescita italiana comparata con quella degli altri partners europei anche quest’anno ci valga un’interpretazione “corretta per il basso ciclo” del nostro obiettivo nel 2016 di disavanzo pubblico e di avanzo primario. L’azzeramento del deficit strutturale (cioè sempre corretto per il ciclo), slitterebbe per l’Italia dal 2017 al 2018: ciò che la Francia ha già ottenuto a dicembre scorso. In questo caso, la riduzione del deficit 2016 scenderebbe da 10 a 5 miliardi, e di conseguenza da 41 a 36 miliardi scenderebbe l’ammontare complessivo delle misure da finanziare con la legge di stabilità per il 2016.

Quanto alle riforme confermate nel PNR (e finanziate in legge di stabilità), il governo potrebbe puntare a valutarne come effetto positivo una riduzione pluriennale della differenza tra andamento del PIL reale e PIL potenziale pari a un terzo di quella attuale (su come si misura econometricamente questa differenza c’è una discussione aperta tra Italia e Bruxelles). Tale riduzione, se accolta da Bruxelles, con molto ma molto ottimismo potrebbe valere fino ad altri 4 miliardi di bonus, facendo scendere il conto complessivo da 36 a 32.

Quanto alla crescita del PIL, sappiamo che non possiamo contare in questo 2015 su una significativa crescita nominale cioè dell’inflazione, e il governo ha già fatto sapere che non andrà oltre un aumento delle stime di crescita reale dal +0,6% precedente al +0,7%, per immaginare invece un 2016 molto più positivo, che salirebbe dal +1% precedente verso il +1,5%, e magari anche con un’inflazione che torni verso l’1,5-1,8%. E’ ovvio che più si è ottimisti sulle stime di crescita 2016, più l’effetto è positivo sugli incassi pubblici anche ad aliquote invariate, in un Paese in cui il totale delle entrate pubbliche 2014 è salito al record del 48,1% del PIL. Diciamo che il governo potrebbe far scendere, per maggiori entrate da crescita senza variazioni di aliquote pari a mezzo punto di PIL, la sua stima ottimistica di conto complessivo da finanziare da 32 a 25 miliardi. Restiamo lontani dai 20 miliardi di cui parlano i giornali. E in ogni caso gli aumenti di entrate da crescite future, in un paese a bassa crescita e alto debito, diventano poste molto scivolose da farsi approvare in sede comunitaria.

Diciamo dunque che, anche nella più ottimistica delle ipotesi, il governo deve indicare e assumere decisioni intorno almeno a 25 miliardi di nuove coperture, se non vuole che i suoi conti ballino troppo. Che rinunci al bonus 80 euro, alla decontribuzione dei contratti o all’incremento di risorse per la scuola, sarebbe un clamoroso e inaccettabile voltafaccia. Di conseguenza la domanda diventa: quante di queste risorse è realistico immaginare verranno da programmi di riduzione della spesa?

Se il governo, 13 mesi fa, avesse fatti propri gli obiettivi e le misure indicate dal commissario Carlo Cottarelli, i conti tornerebbero già: perché gli interventi proposti allora, se applicati immediatamente, avrebbero tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi nel 2014 e di 18 miliardi nel 2015 in corso, per poi salire a 34 miliardi di minor spesa nel 2016. Ma il governo ha lasciato il piano Cottareli nel cassetto, e Renzi ha anzi detto a Pasqua al Messaggero che non erano poi idee geniali.

Eppure, è di lì che devono ripartire Gutgeld e Perotti,i due nuovi incaricati della revisione della spesa: ancora una volta esterni al MEF mentre invece l’indicazione degli interventi su spesa e tasse dovrebbe essere la responsabilità politica più alta del premier e del ministro Padoan, poiché l’esperienza da Giarda in avanti ha insegnato che la politica lascia a esterni l’indicazione dei tagli, per poi più agevolmente cambiarli e ridurli al lumicino trattando con i soggetti che dai tagli proposti sono investiti.

Al momento, nessuno immagina che possano venire misure di taglio superiori ai 10 miliardi, sommando qualche miliardino in meno dall’attuale struttura delle agevolazioni fiscali e ai sussidi alle imprese, più nuovi taghli alle Autonomie, ma lasciando da parte il ricalcolo delle pensioni retributive elevate, come gli interventi radicali che Cottarelli aveva indicato sui costi della politica (700 milioni), come il taglio di 1,5 miliardi dei trasferimenti a Fs, o il risparmio di almeno 2 miliardi sulle partecipate locali (che il governo sin qui ha deciso di non toccare, per evitare scontri con Regioni e Comuni alle quali ha tagliato 4,3 miliardi e 800 alle Province nella legge di stabilità per il 2015). Ma il governo può sempre stupirci, e smentire chi si aspetta poco.

Bisogna dunque sperare che Renzi questa volta prenda il timone in mano. Per evitare tre rischi. Il primo:  che il governo abbracci uno scenario nel quale si scongiura l’aumento dell’IVA, ma si recuperano poi nuove entrate aggiuntive comunque, per esempio attraverso una local tax che facesse ulteriormente salire la pressione fiscale locale sul mattone già ascesa oltre i 50 miliardi nel 2014, di cui oltre la metà come componente patrimoniale a carico delle famiglie. Il secondo: che il governo spinga troppo verso l’alto le sue attese di crescita – reali e nominali – poi destinate a sgonfiarsi, ricollocandoci sul mesto record del paese europeo che più ha barato sulla crescita attesa per ben 14 punti di PIl  tra i vari governi succedutisi dal 2008 a oggi (verdi articolo di Enrico Marro sul Corriere di stamane). Il terzo: che il governo chieda in Ue deficit aggiuntivi oltre quelli che abbiamo già indicato, sovrastime degli effetti a breve delle sue riforme, e via contnuando in un negoziato sfibrante che inizia a maggio di quest’anno per continuare fino a fine dicembre.

Noi la pensiamo diversamente. Per rafforzare l’esile ripresa, l’obiettivo dovrebbe essere non quello di non far salire le entrate, ma di diminuirle enrgicamente rispetto al 2014, su lavoro e imprese. E per far questo i tagli di spesa devono essere finalmente energici e decisi. A meno di scommettere tutto sull’azzardo di riaprire il conflitto con l’Europa. Per poi ritrovarsi con gli antieuro naturalnmente più forti, visto che la rirpesa italiana resterebbe mefiticamente asfittica. Molti sarebbero pronti a seguire questa strada. A noi, nei giorni in cui sulla tenuta della Grecia continuano ad accumularsi nubi pesanti, non appare una scelta responsabile.