3
Mag
2015

La costituzionalità sostenibile delle pensioni italiane

Ha suscitato viva approvazione negli interessati, e nei sindacati che li tutelano, e nello stesso tempo forte preoccupazione in tutti coloro che sono interessati alla sopravvivenza economica del paese la recente decisione della Corte Costituzionale in tema di pensioni. L’aver dichiarato incostituzionali le norme del decreto legge del governo Monti ‘SalvaItalia’ del 6 dicembre 2011 con le quali era stata cancellata per il biennio 2012-13 l’indicizzazione all’inflazione dei trattamenti previdenziali superiori a tre volte il minimo, pari a poco meno di 1.450 euro mensili lordi, apre un buco consistente nei conti pubblici. Dovrà infatti essere restituito il mancato gradino di aumento del 2012, stimato in 1,8 miliardi, e il doppio mancato gradino del 2013, stimato in 3 miliardi, il quale, dato il carattere permanente della mancata indicizzazione, non è stato tuttavia corrisposto neppure nel 2014 e nell’anno in corso. Il conto totale per la finanza pubblica è pertanto stimabile in circa 11 miliardi per il 2015 (3 miliardi per tre anni più 1,8), più 3 miliardi, destinati a ulteriore rivalutazione monetaria, per ogni anno successivo.  Read More

3
Mag
2015

Le 4 ragioni del NO al laissez-faire dello Stato a Milano

E’ bene interrogarsi a fondo, sulla versione ufficiale resa dal Viminale e dal vertice della Polizia su quanto è accaduto a Milano il primo maggio. I settecento travisati che con molotov, bastoni, pietre, petardi, hanno vandalizzato, bruciato e distrutto auto e negozi, avrebbero teso un’astuta trappola alle forze dell’ordine. Che non ci sono cascate. E si sono astenute da interventi diretti per evitare le violenze per milioni di euro a privati, perché sarebbe stato molto peggio. L’inaugurazione di EXPO non meritava di essere macchiata, ha detto il capo della Polizia. E lo scrittore anti-camorra Roberto Saviano, commentando in un video, ha espresso per così dire l’interpretazione autentica della versione ufficiale resa dallo Stato: le violenze ai privati sono state un “prezzo necessario”, ha detto, ed è “un grande cambiamento” nella gestione della sicurezza pubblica, che finalmente si sia capito che questo è il modo giusto per trattare i black bloc che s’insinuano nei cortei.

Il grande cambiamento renderebbe possibile finalmente a tutti comprendere che i violenti non hanno nulla a che vedere con chi protesta contro mercato e imprese e governi. Certo i danni a privati sono stati “terribili” anche per Saviano. Che ha aggiunto che quei proprietari di negozi e auto sono “spesso innocenti”: e quello “spesso” significa inevitabilmente che, insomma, non proprio tutti meritano di essere considerati innocenti davvero. Col sottinteso che forse, se vai a vedere bene, chissà quanti di loro se negozianti pagano davvero tutte le tasse, o se hanno un Audi se non sono dei corrotti.

Con tutto il rispetto dovuto e necessario per il Viminale, il capo della Polizia e Saviano, una cosa va detta con altrettanta chiarezza. A noi non pare accettabile in nessun modo una simile concezione della legalità. Per almeno quattro ragioni: una riguarda la storia, la seconda i fatti di Milano, la terza le conseguenze, la quarta è invece culturale (e, forse, dovrebbe venire prima delle altre).

Il fattore storico ha il suo peso. Dopo la recente condanna dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per i fatti della Diaz a Genova nel 2001, è ancor più evidente a chiunque che le forze dell’ordine italiane devono attenersi a procedure e regole d’ingaggio di manifestanti in caso di violenze rigorosamente rispettose di princìpi e limiti coerenti a un ordinamento democratico, e strettamente correlati alla proporzione della forza, e alla valutazione delle sue conseguenze su persone e cose. Detto ciò, l’alternativa ai vergognosi fatti di Genova non è limitarsi agli idranti a distanza, e per il resto stare a guardare. E’ inaccoglibile l’obiezione di chi difende l’operato delle forze dell’ordine a Milano fondata su “ma cosa volete, il bis di Genova?”. Una moderna cultura della sicurezza pretende che, di fronte al fenomeno dei black bloc, il coordinamento di polizie e intelligence tragga da ogni episodio nuove lezioni da mettere in comune, su come preventivamente identificare ed espellere i violenti, e su come fronteggiarli nelle strade. No, non si può restare a guardare.

Quanto ai fatti di Milano, la trappola tesa dai devastatori sarebbe stata di voler attirare polizia e carabinieri fuori dai presìdi fissi da garantire in centro città e all’EXPO, per forzare poi qualcuna della “aree rosse” che andavano prioritariamente preservate. E’ una tesi apparentemente logica. Ma fa acqua. Se dovesse essere presa alla lettera, significa che d’ora in poi le forze dell’ordine preservano le autorità e i palazzi del potere, e per il resto devastazioni e violenze a privati sono invece da mettere in conto. Perdonateci, ma i cittadini pagano le tasse allo Stato per altro, non per sentirsi dire e subire cose simili. Poiché EXPO dura sei mesi, non può essere questo il segnale che le autorità danno a centinaia di migliaia di milanesi, ciascuno impegnato a fare in modo che EXPO sia una straordinaria occasione economica di ripresa per l’intera Italia.

Le conseguenze sono presto dette. I black bloc italiani ed europei studiano e approfondiscono a ogni loro “impresa” le falle delle procedure delle forze di polizia. Se dopo Milano passa il messaggio che in Italia d’ora in poi gli apparati dello Stato si accontentano di tenere circoscritte in alcune aree delle città devastazioni e violenze che vengono però lasciate perpetrare, ebbene per loro è una straordinaria vittoria. E’ quello che vogliono. Non è proprio il caso che ci possano contare.

Infine, è necessaria qualche parola sulla cultura della violenza. Nella politica del nostro paese, dagli anni ’70 ha giocato un ruolo pesante e sanguinoso. Negli ultimi anni, abbiamo di fatto circoscritto il terrorismo agli ultimi assassini di giuslavoristi riformisti caduti sotto il piombo, e naturalmente alla matrice islamica. Rifiutiamo di considerare terrorismo le nuove forme di violenza politica. Basti pensare al Tribunale del riesame di Torino che respinge la tesi della Procura, per la quale gli assalti e i sabotaggi dei No TAV ai cantieri siano terrorismo. E alla simpatia maggioritaria che va a Erri de Luca per il suo invito a sabotare, libera manifestazione di un pensiero “antagonista” che nulla ha a che vedere con gli effetti che invita a porre in essere. Siamo diventati un ben singolare ordinamento penale: ci inventiamo sempre nuove forme di concorso esterno a gravissimi delitti associativi con pene durissime, ma mandiamo in onda in tv ore di falò di negozi e auto convinti che le forze dell’ordine siano nel giusto a non intervenire.

In verità, un paese che non ha la sicurezza penale di continuare a definire terrorismo tutte le nuove forme violente volte all’intimidazione di massa, è un paese che non ha la minima certezza storica dei limiti da porre – sempre – a qualunque tipo di violenza nel dibattito e nel confronto pubblico. E’ una gravissima lacuna culturale: quel giovane che tutti avete visto in tv, esaltato per la bellezza della devastazione che poteva compiere, è il figlio di questo abisso culturale italiano.

Per tutte queste ragioni, non possiamo che augurarci che politica e forze dell’ordine correggano l’autoassoluzione compiaciuta che si sono impartiti a Milano, liquidando i fati come compiuti “da quattro figli di papà” come ha detto incredibilmente il premier. Viva i cittadini che senza proteste si sono messi alacramente a riparare a spese proprie i danni. Danni avvenuti senza che lo Stato abbia saputo e voluto impedirli. Ma di qui a dire che un buono Stato esiste per questo fine, diciamo che ce ne corre come tra il giorno e la notte.

1
Mag
2015

La Corte sulle pensioni dimentica l’equità intergenerazionale

E’ una sentenza che pone molti problemi, quella adottata in materia previdenziale dalla Corte Costituzionale. Non solo problemi per i conti pubblici, reperire 4,8 miliardi di euro. Ma, soprattutto, problemi di equità, anche se apparentemente la decisione è proprio a favore della giustizia sociale. La Corte ha bocciato lo stop alla perequazione del costo della vita che nel 2012 e 2013, per effetto della riforma Fornero, toccò a circa 6 milioni di assegni previdenziali che erano superiori a poco più di 1500 euro mensili lordi, cioè pari ad almeno tre volte il trattamento minimo INPS. La misura fu adottata per ottenere effetti di cassa a breve, pari a 4,8 miliardi nei due anni, in attesa che la riforma strutturale dell’innalzamento dell’età previdenziale, facendo coincidere i requisiti dei trattamenti di vecchiaia e di anzianità, conferisse maggior stabilità negli anni al sistema previdenziale italiano. Ma la Corte la stabilito che l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo conseguenziale il diritto a una “prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

E’ ovvio che il governo debba ora dimenticarsi il “tesoretto” che aveva promesso in vista delle elezioni regionali, perché con 5 miliardi di buco aggiuntivo non è proprio il caso di pensare a spenderne 1,6 coperti in deficit. Anche se, a ben vedere, un’alternativa ci sarebbe. Ma prima di esaminarla, soffermiamoci sui presupposti della sentenza. Perché le decisioni della Corte costituzionale hanno avuto un enorme impatto storico, sull’evoluzione del sistema previdenziale italiano. Ogni studente di diritto costituzionale impara che, negli anni ‘60 e ’70, la Corte produsse una lunga serie di sentenze cosiddette “additive”, in cui si estendevano benignamente verso l’alto i trattamenti previdenziali a categorie che avevano ereditato dalla storia trattamenti diversi. All’epoca, in un’Italia che cresceva tra il 2 e il 3% annuo, a bassa disoccupazione e bassa tassazione, la Corte non si poneva il problema di creare le basi per la crescita della spesa previdenziale sul PIL, quando quelle condizioni fossero mutate. Come sono mutate, eccome, nei decenni a seguire.

Poi, a partire dagli anni ’80 e ’90, subentrò una diversa consapevolezza. Con sentenze come la  180 del 1982 e la 220 del 1988, la Corte difese la discrezionalità del legislatore nel mutare le prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Né mancarono sentenze(come la 349 del 1985, la 822 del 1998, la 416 del 1999) nelle quali, a differenza della decisione presa oggi, la Corte difese anche trattamenti peggiorativi decisi dal legislatore con effetto retroattivo. La Corte escluse un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, negando cioè proprio quei cosiddetti “diritti acquisiti” che vengono sempre impugnati da coloro che immaginano che il trattamento di un tempo debba sempre restare eguale, anche se non ci sono risorse per finanziarlo.

Certo, la Corte si è sempre riservata il diritto di bocciare comunque interventi del legislatore che fossero irrazionali o ingiustificati. La Corte ha così respinto come irrazionale, con la sentenza 116 del 2013, un’altra misura che era stata assunta nel terribile biennio 2011-2012 in cui l’Italia era sul ciglio del baratro, cioè il contributo di solidarietà sulle pensioni pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il prelievo aveva carattere tributario secondo la Corte, e come tale però introduceva aliquote sperequate rispetto a chi aveva le stesse soglie di reddito, ma non da pensione. Oggi invece la Corte respinge lo stop biennale al recupero dell’inflazione sopra i 1500 euro, sostenendo che quella misura fosse ingiustificata, cioè non correlata per esteso nella riforma Fornero all’indicazione di specifiche necessità di cassa non altrimenti perseguibili.

Veniamo ai problemi giuridici che la sentenza solleva. Sta davvero alla Corte costituzionale, stabilire quale sia la soglia della “prestazione previdenziale adeguata”? Se così fosse, in base a quali criteri di calcolo e di comparazione col resto dei redditi medi italiani è fissata quella soglia, visto che si interveniva su una media superiore e non inferiore al reddito medio di quell’anno? E perché a questo punto adottare una decisione simile sullo stop a tempo alla perequazione degli assegni previdenziali, quando da anni e ancor oggi tutti i dipendenti pubblici subiscono il blocco degli scatti contrattuali? E soprattutto: è possibile alla Corte adottare decisioni simili, senza assumere un giusto criterio di equità?

Direte voi: è tutto il contrario, è proprio in nome dell’equità che la Corte interviene. E invece no, se pensate a come funziona in concreto il nostro attuale sistema previdenziale. Pur passando gradualmente nel tempo da retributivo a contributivo, cioè un sistema in cui l’assegno è parametrato non agli ultimi anni di retribuzione conseguita ma ai contributi versati, moltiplicati per coefficienti che comprendono l’andamento del Pil e l’attesa di vita, il nostro resta comunque come prima un sistema a ripartizione. Cioè le pensioni in essere vengono pagate da chi lavora oggi. Vengono pagate da chi non solo non avrà pensioni retributive, in molti casi multiple di 5 o 6 e persino 8 volte rispetto ai contributi versati, ma in molti casi non avrà neanche i requisiti minimi delle minori pensioni contributive, vista l’età molto più avanzata in cui si riesce oggi a ottenere un lavoro, e la assai più frequente discontinuità dei versamenti contributivi, tra periodi di disoccupazione e occupazione a tempo.

Una vera equità, nell’assumere decisioni in materia previdenziale, dovrebbe essere quella che guarda alla reale ripartizione degli oneri: cioè l’equità intergenerazionale. E la domanda vera diventa: è giusto addossare a chi oggi ha assai meno di un tempo, l’onore di pagare i 5 miliardi aggiuntivi per il recupero di due anni di inflazione deciso allora? L’equilibrio intertemporale dovrebbe essere il criterio di ogni intervento che ha effetti di lungo periodo, fiscali e contributivi, sulla finanza pubblica. Basta assumere decisioni solo nell’interesse di chi è vissuto in un’Italia più felice. Ora occorre pensare a chi non lavora e non avrà pensione in un’Italia disastrata dalla crisi, e al fatto che se non pagheranno loro i contributi per finanziare le pensioni in essere, si aggraverà ulteriormente l’esborso che dalla fiscalità generale serve ogni anno per tenere in piedi i conti dell’INPS, e che nel 2014 è stato di quasi 90 miliardi di euro. Ci ha pensato, la Corte a tutto questo? O è un diritto cieco alle sue conseguenze, quello che incarna la giustizia sociale nel nostro paese? Date voi la risposta, a noi tocca però porre seriamente la domanda.

Quanto all’alternativa seria per trovare rimedio ai 5 miliardi di buco, c’è eccome. Invece di porre mano al rimborso, il governo sfrutti l’occasione per un ricalcolo contributivo ragionato di tutte le pensioni retributive eccessivamente generose. Sarebbe un modo ancor più concreto per pensare ai diritti dei giovani, sulle cui spalle ammassiamo sempre maggiori oneri.

28
Apr
2015

Scuola, il rischio concreto della riforma abortita

Non c’è da stupirsi, della levata di scudi dell’intero mondo della scuola contro la riforma all’esame del parlamento. I sindacati sanno quel che gli studi elettorali confermano, cioè che il bacino elettorale del milione di dipendenti del sistema formativo pubblico è sempre stato a prevalenza di sinistra e del Pd. Dunque, sotto elezioni regionali, ecco lo sciopero unitario generale della scuola, il prossimo 5 maggio. O il governo e il Pd cedono in parlamento prima di allora su punti essenziali della riforma, oppure ci sarà uno scotto da pagare alle urne. L’eventualità più probabile è che quel poco di buono che era rimasto in una riforma tre volte riscritta sparisca, e il tutto si risolva in un’ancor più estesa sanatoria di precari.

Aggiungiamo però che il governo doveva aspettarselo. Aveva acceso molte speranze, appena entrato in carica. Aveva adottato una consultazione pubblica senza canale preferenziale con i sindacati, però su un testo poi sconfessato. Riformulatolo, aveva annunciato decreti legge. Per poi ripiegare due mesi fa su un disegno di legge ancora variato, ma promettendo un decreto legge assumi-precari visto che l’esame parlamentare altrimenti non sarebbe coerente con i tempi necessari a formare le classi per settembre, con i 100mila nuovi assunti. Il sindacato ha osservato indispettito questo zigzagare, e sa anche che il ministro Giannini si è trovata lei per prima più volte spiazzata. Non è un caso che oggi, a protesta esplosa e a incidente avvenuto alla Festa dell’Unità, siano per primi esponenti del Pd ad accusarla di essere stata poco sensibile al confronto sindacale. Se la Giannini sperava di procurarsi uno scudo entrando nel Pd, direi che ha proprio fatto male i conti.

Il rischio ora diventa quello di vedere travolte anche alcune delle pur attenuate novità che la riforma ancora conteneva. E’ ovvio che i sindacati chiedano la messa in ruolo di tutti i precari, e la decadenza del neo registro regionale in cui finirebbero quelli di seconda fascia, non stabilizzati. E che diventerà più difficile salvaguardare guardando al solo merito, per esempio tutelando chi aveva seguito e superato il percorso abilitante per prove del TFA. Ma il segnale meno incoraggiante è il forte attacco in corso sulla questione dell’autonomia, del dirigente scolastico, della valutazione. Cioè appunto sul residuo di novità più significative rimaste nel testo della riforma.

E’ la valutazione del merito, la questione di fondo. Già il governo ha dovuto fare, nelle diverse bozze, molte marce indietro. Le dichiarazioni iniziali prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi ai docenti sarebbe stato determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, sarebbe stato un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non fossero riusciti a rientrare almeno nella terza fascia, avrebbero rischiato un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, poteva arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Nel testo finale quella rivoluzione è già scomparsa. Gli scatti retributivi di anzianità restano, per gli insegnanti. Ma il governo ha scovato per il 2016 anche 200 milioni di premi al merito per i docenti, attribuiti secondo le valutazioni su ogni insegnante che in ogni istituto farà innanzitutto il dirigente scolastico e i suoi collaboratori. E in più il governo ha anche aggiunto una carta-insegnante di 500 euro l’anno, per sostenere i consumi culturali che ogni docente deve sostenere per l’aggiornamento, dai libri al teatro.

Ora i sindacati hanno messo nel mirino il ruolo del dirigente, e già il Pd ha accettato che non avrà un ruolo prevalente né nel giudicare il merito dei docenti, né nella scelta dell’integrazione all’organico pescando dall’albo regionale dei docenti a disposizione, né nella vita economica, organizzativa e lavorativa della scuola che doveva configurare la nuova ed estesa autonomia di ogni istituto. Tutto dovrà avvenire nel concerto assoluto del corpo docente di ogni istituto, no ad ogni attribuzione al dirigenti di poteri sovraordinati. E, smontati gli scatti di merito ripristinando quelli di anzianità, e lasciato al merito la sola funzione di un premio aggiuntivo, si tratta ora di attribuirlo a tutti estendendone i criteri il più possibile a progetti comuni a cui partecipino tutti gli insegnanti di ogni istituto.

Se finirà così, e oggi appare molto probabile, sarà un’altra vittoria della storica indisponibilità a farsi selettivamente giudicare del pubblico impiego secondo criteri di impegno e produttività. Se la valutazione di merito è seria, deve avvenire secondo criteri noti ex ante, che contemplino le performance ottenute nelle classi, le verifiche sull’insegnamento frontale, i giudizi di studenti e famiglie. Deve prevedere fasce di crediti e punteggio diverse. E deve essere parte integrante della retribuzione. Si potevano seguire alcuni dei modelli praticati con successo da molti altri paesi. Ma, per questo risultato, occorreva essere espliciti e chiari, scegliendone uno. Il sindacato avrebbe resistito, ma non avrebbe potuto dire di non esser stato coinvolto. Anche perché il governo sapeva benissimo che questa vicenda si inserisce nel quadro di contratti del pubblico impiego fermi da anni. A maggior ragione il governo doveva procedere nella chiarezza, se dalla scuola intendeva estendere a tappeto in tutta la PA una logica premiale del merito, e una cultura e prassi seria della valutazione delle performance individuai. Cominciando nella scuola oggi, ma in tutto il mondo pubblico subito dopo.

Vedremo l’esito finale. La tendenza a non farsi misurare e valutare individualmente è il vero problema della pubblica amministrazione italiana. Il solo accennarvi suscita ondate di protesta dei docenti come degli impiegati pubblici, molti dei quali per altro si sottopongono anche a sforzi innegabili. Per piegare resistenze tanto forti un governo riformatore deve saperlo, che l’ostacolo al farsi valutare si supererà solo quando i primi a essere ancor più inflessibilmente giudicati saranno proprio i dirigenti: chi più ha responsabilità, per primo dovrebbe sapere che se non raggiunge gli obiettivi assegnati può andare anche a casa, senza scaricabarile su chi è sottoposto alle sue direttive. Non è una scuola o una pubblica amministrazione gerarchica, quella che mette il merito al centro di tutto. Sono una scuola e una PA efficienti, quelle che consentono a chi s’impegna di guadagnare anche molto di più, e di diventare dirigente a 35 anni invece che a 60. Temiamo che resterà un sogno.

27
Apr
2015

Su Whirlpool in ITA qualcuno avvisò che numeri non tornavano..

Un numero per rappresentare la crisi crisi italiana del “bianco”, il settore degli elettrodomestici casalinghi fiore all’occhiello dell’Italia del boom: nell’ultimo decennio il numero di pezzi venduto nel nostro Paese è sceso da oltre 30 a poco più di 11 milioni di pezzi l’anno. Continuiamo a esser forti nei forni e piani di cottura ad elevata qualità dei materiali. Ma i decenni gloriosi del gruppo Ignis di Giovanni Borghi, di Zanussi, Indesit e Merloni sono alle spalle. Resiste solo la Candy che nel 1946 fu fondata da Peppino Fumagalli appena scomparso, che creò la prima lavabiancheria elettrica italiana. Per il resto, tutti i gruppi hanno dovuto arrendersi al consolidamento del settore in atto su scala globale. E il fulmine a ciel sereno di Whirlpool, dopo aver perfezionato l’acquisizione di Merloni-Indesit solo l’anno scorso, cioè i 1300 esuberi di cui 800 nel sito campano di Carinaro, è l’ultimo atto di questa storia. Una storia per metà fatta delle tradizionali manchevolezze di pur anzitempo prestigiose famiglie imprenditoriali. Per l’altra metà, di una forte miopia italiana nel valutare OGGETTIVAMENTE gli effetti quando si perde potere di mercato.

Fino alla fine degli anni Ottanta, i re del “bianco italiano” ressero meglio di altri concorrenti europei all’evoluzione e alle difficoltà dei mercati. L’Italia garantiva decine di milioni di pezzi venduti, perché le famiglie erano alla prima ondata di elettrodomestici di massa. Il costo del lavoro italiano era più contenuto rispetto ai concorrenti stranieri, le reti distributive erano efficienti e praticavano politiche commerciali aggressive nell’export esportazione. L’Ariston dei Merloni, la Candy dei Fumagalli e l’Ocean dei Nocivelli erano protagonisti europei, quando la stagflazione e il necessario balzo in avanti di cospicui investimenti in nuove tecnologie da incorporare negli elettrodomestici iniziò a modificare il settore. Poco alla volta, le prime bandiere bianche: Ignis passò all’olandese Philips, la Zanussi alla svedese Electrolux. La Merloni, al contrario, cresceva: all’inizio degli anni ’90 era tra i primi cinque produttori continentali. Dieci anni fa era il secondo produttore europeo, con 16 stabilimenti tra Italia, Polonia, Uk, Russia e Turchia, e 24 sedi commerciali.

Il 2008 ha cambiato tutto. Merloni cerò di decentrare il più possibile in Polonia, con minori costi di lavoro, energetici e fiscali. Ma i capitali necessari per crescere nell’innovazione (oggi gli elettrodomestici sono componenti della domotica casalinga, diventano programmabili a distanza attraverso mobile device e smartphone..), e per fusioni e acquisizioni necessarie a economie di scala planetarie e non solo europee, visto che oggi gli elettrodomestici sono comprati a centinaia di milioni di pezzi in Asia e non più nei vecchi paesi avanzati, quei capitali alla famiglia Merloni mancavano. E’ nata così l’acquisizione per 768 milioni di euro della Merloni-Indesit da parte degli americani di Whirlpool, impegnati in una battaglia globale rispetto a Electrolux. Solo pochi mesi erano passati dall’acquisizione italiana che gli svedesi di Electrolux hanno risposto con gli interessi, rilevando per 3,3 miliardi di dollari gli elettrodomestici di General Electric: in questo modo gli svedesi raggiungono un fatturato superiore ai 22,5 miliardi di Whirlpool, e la superano nello stesso mercato Usa, con un quarto delle vendite. Per avere una proporzione che spiega la resa italiana, Indesit-Merloni non raggiungeva i 3 miliardi di fatturato: impossibile pensare di avere un ruolo mondiale.

Ma in  Italia nessuno è sembrato rendersi conto della nuova realtà disegnata dalla risposta di Electrolux a Whirlpool. Primo grave errore: perché è esattamente la botta portata su scala globale da Electrolux a Whirlpool, successiva all’acquisizione americana di Merloni-Indesit, a spiegare l’annuncio a sorpresa degli esuberi in Italia. Solo l’anno scorso, infatti, gli americani si erano impegnati a non toccare la base produttiva e occupazionale italiana, fino al 2018. Ma questo valeva prima di essere scavalcati dagli svedesi. Ora il discorso è cambiato, e occorre rifare i conti. E qui veniamo all’illusione della politica, dei sindacati e delle classi dirigenti italiane, quando non si considerano bene gli effetti della perdita di potere di mercato, e del conseguente passaggio proprietario di gruppi italiani in mani straniere. Che non è affatto un male in sé, visto che è meglio difendere base produttiva prescindendo dalle bandierine nazionali proprietarie. A patto di saper fare i conti, sull’economicità e sostenibilità della base produttiva che si intende difendere.

L’anno scorso si disse ottimisticamente che Whirlpool e Merloni erano complementari. Grazie allo shopping italiano, gli americani entravano nel mercato russo dove erano forti gli italiani con un miliardo di ricavi, e rafforzavano inoltre la presenza nel Regno Unito, divenendovi leader. Le basi produttive europee erano equilibrate: Whirlpool con tre stabilimenti tra Francia, Polonia e Slovacchia, Indesit con quattro tra Russia, Polonia, Inghilterra e Turchia. Ma sull’Italia fin dall’inizio un osservatore con un minimo di discernimento avrebbe dovuto capire che le cose non potyevano funzionare come si affermava ottimisticamente nell’intesa allora sottoscritta. Sia Whirlpool sia Indesit avevano da anni in corso chiusure nel nostro Paese. Whirlpool oltre al centro di ricerca e stile ha tre stabilimenti a Varese, Siena e Napoli, quelli di Indesit sono a Fabriano e Caserta, più il centro ricerche marchigiano, e il polo logistico e di ricerca piemontese di None. Con tutto il rispetto, chi qui scrive avanzò qualche dubbio sin dall’inizio, in una trasmissione a radio24, che davvero si potesse credere all’impegno americano di non toccare nulla in Italia sino al 2019.

Ed eccoci al redde rationem. A questo punto il governo – che è di fatto turlupinato, visto che gli impegni furono assunti a un tavolo pubblico – deve affrontare con energia la Whirlpool per capire come i 500 milioni di investimenti promessi si coniughino con gli esuberi e le chiusure annunciate. La vertenza sarà dura, perché Whirlpool deve oggettivamente recuperare margini, rispetto a quando perfezionò l’accordo italiano. Ma bisogna provarci a tutti i costi. Si afferma ora giustamente che il Sud non può subire un altro colpo di queste proporzioni. Ma c’è una lezione che biene prima, e che non riguarda solo la politica: chi non ha i capitali per crescere, è difficile che possa avere l’ultima parola.

23
Apr
2015

Divorzio breve? Benissimo, ma ora rivediamo le pensioni di reversibilità ai coniugi superstiti

E’ una riforma epocale, quella del divorzio varata ieri dal parlamento. Dopo decenni di dibattito vano, l’Italia si avvicina alla media europea, e fissa in soli sei mesi la separazione in caso di separazione consensuale tra coniugi. E in 12 mesi, a partire dal giorno di comparsa davanti al giudice, la separazione nel caso giudiziale, quando cioè vi sia un conflitto aperto sulle condizioni relative al patrimonio, reddito  o alla prole. Esistono paesi come la Francia dove, nel caso di divorzio consensuale, non è prevista alcuna separazione. Idem nel regno Unito, se il giudice valuta che vi siano conflittualità tali da creare rischi nel periodo di separazione. In Svezia, per divorziare basta recarsi in Comune e dichiarare finito il matrimonio. E in Danimarca si può procedere tramite firma elettronica, senza dover neanche reincontrare il proprio partner.

La scelta del parlamento non può che piacere a chi ritiene che la legge debba rispettare la libera volontà dei cittadini, e non coartarla quando l’opinione è mutata rispetto a un vincolo coniugale. Ma, detto questo, cerchiamo anche di capire quali conseguenze discenderanno, da una scelta che fotografa la minor importanza della solidità familiare, determinatasi in realtà da lungo tempo nella secolarizzazione del costume e delle credenze nel nostro Paese.

Come prima cosa, l’esperienza di tutti i paesi che hanno prima di noi fatto analoghe scelte, vedi la Spagna sotto Zapatero nel 2005, ha portato non solo a un aumento dei divorzi. Quel che più conta è che, differenziando come da noi la consensuale da quella conflittuale, ha portato a un innalzamento delle separazioni conflittuali davanti al giudice, dal 35% precedente la riforma a oltre il 40%. Qui sorge un primo problema. La realtà dei tempi della giustizia italiana vieta di credere che i 12 mesi di separazione previsti da oggi per la separazione conflittuale saranno davvero rispettati. Non è così. Il procedimento dura in media oggi 36 mesi, e anche oltre 4 anni per chi arriva alla Cassazione. Senza sezioni specializzate in diritto di famiglia, i tempi resteranno quelli, riforma o non riforma. Davanti ai sei soli mesi di separazione previsti dalla consensuale, potrebbe essere forte – a differenza che in Spagna – l’incentivo a scegliere il percorso breve: ma a danno del coniuge “debole” nella coppia, a quel punto meno tutelato dal giudice per la determinazione dell’assegno di mantenimento o per l’affidamento della prole. Non è affatto detto, come un tempo, che il coniuge “debole” sia per definizione la donna: sono oltre 800mila ormai i padri separati in enorme difficoltà economica per versare l’assegno determinato dal giudice, e senza affidamento della prole anche in enorme difficoltà nel rapporto coi propri figli.

Secondo problema: se la famiglia è istituzione più debole per l’ordinamento, allora vanno modificati i criteri che ne traducevano la centralità e stabilità precedente in concreti diritti patrimoniali e reddituali. Per quanto riguarda l’entità dell’assegno divorzile, di fatto sta già avvenendo non per legge ma nella giurisprudenza. Fatta 100 la media rispetto al reddito precedente dei primi anni di giurisprudenza nel determinare l’assegno, siamo ormai scesi verso quota 50, 40 e talvolta anche 30 . Ma certo, con un matrimonio più facilmente solubile, anche la pretesa temporale all’assegno di mantenimento si dovrebbe affievolire.

Terzo problema: di sicuro invece dovrebbero essere modificate le nome sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, che nel 2013 sono state incassate da 4 milioni 813mila soggetti per l’ammontare di 40 miliardi. (vedi tabella a pag. 52 del Rapporto sul sistema previdenziale presentato la settimana scorsa, il pdf integrale si scarica qui) A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo cinque anni, almeno tre dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. E, in percentuali diverse, la pensione di reversibilità è ammessa per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori in vita del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento.

In un paese dove l’INPS sta in piedi grazie a 90 miliardi di trasferimenti a carico della fiscalità generale, dovrebbero essere riviste tutte queste regole relative alla reversibilità pensionistica tra coniugi, o almeno le percentuali degli assegni se non i diritti a incassarli (che andrebbero riregolati secondo clausole temporali e di reddito nel frattempo raggiunto, e di età a cui l’assegno si incassa rispetto all’aspettativa di vita per limitare l’ormai famoso fenomeno delle badanti che sposano gli 80enni..). Non si può credere di definire la famiglia meno vincolante nel suo legame per legge, ma al contempo farne discendere diritti patrimoniali uguali a quando non era possibile divorziare in pochi mesi. Se chi si sposa lo fa sapendo di contrarre un vincolo più labile, pure i diritti conseguenti devono diventarlo. Anche se, scommetto, saranno in pochi a pensarla così.

 

23
Apr
2015

Il fisco discrezionale: abuso di diritto, funzionari illegittimi, e Stato che non paga

In un paese civile e ordinato, il fisco dovrebbe essere una materia chiara nelle sue norme e rigorosa nella reciprocità dei rapporti: lo Stato rigoroso verso chi non ottempera al dovere fiscale, ma anche pronto a sottoporsi alla stessa regola quando è lui, a finire in torto verso i contribuenti. Invece, da decenni aggiungiamo stortura a stortura. Il dovere fiscale è fatto di norme sempre più complicate e fumose. E lo Stato, in nome della lotta all’evasione e in difficoltà nei conti pubblici, sempre più pretende dal contribuente comportamenti ai quali è il primo a sottrarsi. La conseguenza? Lo Stato rigoroso a senso unico perde credibilità e legittimità, e senza di queste non vincerà la lotta all’evasione

Alcuni esempi concreti, che danno evidenza al nostro assunto. Martedì è ripreso il tortuoso cammino dell’applicazione della delega fiscale, dopo l’incidente in cui il governo è incorso alla vigilia di Natale con un testo – rimasto senza padre, scomparso nel silenzio – in cui affiorava un’incredibile norma di depenalizzazione della frode fiscale. Dei tre decreti delegati approvati martedì in Consiglio dei ministri e che ora andranno all’esame parlamentare, uno molto atteso riguarda il cosiddetto “abuso di diritto”. Tra le tante stranezze indigeribili del nostro paese, vi era quella di un reato penale tributario, l’elusione fiscale da abuso di diritto, mai scritta da alcun legislatore in alcun codice, ma entrata nel nostro ordinamento attraverso estensive definizioni giurisprudenziali, cioè con sentenze dei giudici, fino a pronunzie di Cassazione che ne avevano definito la fattispecie. Era divenuto reato penale la scelta da parte di un’impresa, nel pieno rispetto delle leggi fiscali esistenti – ripetiamolo: nel pieno rispetto delle leggi esistenti, senza violarne alcuna – di allocazioni di asset o di attività da cui conseguisse un vantaggio fiscale. Poiché la norma ha creato infinite interpretazioni diverse, affidate alla discrezionalità del giudice, e vasto contenzioso, la legge delega chedeva di fare finalmente chiarezza.

La chiarezza è consistita nel fatto che il reato non sarà più penale ma amministrativo, ma per il resto esso resta praticamente com’era stato in precedenza definito dalla Corte di Cassazione. Certo, si scrive che sarà l’Agenzia delle Entrate a doverlo provare (altra stortura, nel nostro ordinamento ha finito per prevalere l’idea che spetti al contribuente l’onere della prova..), e si ammette benignamente la possibilità che l’impresa possa preventivamente interpellare l’Agenzia prima di compiere la sua scelta (altro segno che non ci siamo: chiedere preventivamente permesso prima di fare una cosa è la miglior riprova che le norme da sole non consentono di capirlo). Ma resta il fatto che, se nel pieno rispetto delle norme vigenti un’impresa dovesse compiere scelte o assumere condotte tali da realizzare un prevalente vantaggio fiscale rispetto a quello economico o organizzativo, ecco che allora Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate avranno comunque la facoltà di contestarlo in nome del fatto che il risparmio fiscale sia illegittimo. L’imprenditore non può perseguire un vantaggio fiscale consentito dalle norme, se non ci sono evidenze che il vantaggio prevalente conseguito in conto economico e patrimoniale venga da altro: come se il fisco fosse una componente residuale, del risultato finale annuale.

Aspettarsi da un simile “chiarimento” meno incertezza e contenzioso è del tutto singolare, per non dire lunare. Agenti del fisco e commissioni tributarie resteranno loro i veri e unici depositari di che cosa configuri il vantaggio fiscale legittimo rispetto a quello illegittimo. Da una norma così, le imprese ricavano la non trascurabile certezza di evitare il penale, non quella di sapere con sicurezza che scelte poter compiere tali da evitare contestazioni tributarie. E in ogni caso il precedente contenzioso resterà in piedi penale compreso, secondo la pessima abitudine del fisco di non riconoscere che, quando una nuova norma è in favore di presunti precedenti rei, l’accusa decade automaticamente.

Si dirà che nei decreti delegati vi sono comunque novità positive, dal decadere dei doppi termini di accertamento da 4 a 8 anni che l’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto per sé in presenza di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, alla fatturazione elettronica che gradualmente supera spesometro e scontrini. Verissimo: ma quanto a chiarire in che cosa consista la presunta elusione nella scelta di opzioni fiscalmente più vantaggiose offerte dalla stessa legislazione italiana ed europea, il decreto ha fallito la delega che gli era affidata. Ed è lo Stato a riservarsi discrezionalmente l’ultima parola.

A che cosa corrisponde questa opacità dello Stato verso il contribuente, quando il torto conclmato è dello Stato e non del cittadino? Vediamone alcuni esempi concreti. Il primo è la sentenza della terza sezione del TAR del Lazio il 15 febbraio scorso, sul caso della signora Ivana Antonietta Di Mambro. Riconosciuta la fondatezza della sua richiesta, e cioè il pieno riconoscimento di un indennizzo dovutogli dal ministero della Salute compreso il periodo dal 2009 a oggi, il TAR ha negato che siano dovuti alla signora anche gli interessi di mora intercorsi sul mancato pagamento. La giustificazione? Testuale: “vista la condizione in cui versa la Pubblica amministrazione debitrice, debitamente documentate, nonché la notoria situazione di congiuntura che ha imposto severi tagli alla spesa pubblica, particolarmente nel settore sanitario afflitto da disavanzi di notevoli dimensioni”. Chiunque dovrebbe insorgere, leggendo un simile dispositivo. Il contribuente, quand’anche ammesso a rateazione dallo Stato per mancanza di liquidi, paga profumati interessi di mora e non si può sottrarre. Lo Stato si scrive una sentenza per non pagarli al contribuente, al quale ha intanto anche alzato le tasse. Una cosa da monarchie assolute, in pieno dispregio dell’elementare reciprocità di legalità che deve caratterizzare i rapporti tra Stato e cittadino. Eppure nessuno ha fatto un plissé, di fronte a una simile decisione del TAR.

Altri esempi, dal pacco quotidiano di segnalazioni da parte di lettori e ascoltatori. La Colorex di Lugo di Vicenza mi manda copia dell’atto per il quale, avendo richiesto accesso al regime di compensazione dei crediti IVA maturati nella sua attività di export, l’Agenzia delle Entrate chiede all’azienda una fidejussione a propria garanzia – dovessero risultare impropri i crediti – di 80mila euro. Inutile dirvi che oltre a essere proporzionata all’importo del credito, la richiesta di fidejussione comprende eccome anche gli interessi sul periodo relativo, al 2%. Ha senso per voi, che lo Stato chieda soldi in garanzia a coloro che maturano crediti fiscali nei suoi confronti? Datevi una risposta. E ancora. Da un’Agenzia viaggi in provincia di Modena, il cui titolare ha rateizzato 1400 euro di contravvenzioni e bolli non pagati, la fotocopia di una cartella esattoriale relativa a 12 centesimi di errore e sottostima nei pagamenti a saldo effettuati. Per la cui estinzione il contribuente dovrà versare la bellezza di 117 euro.

Infine, piovono sentenze come quella della commissione provinciale tributaria di Milano, che danno ragione ai contribuenti che impugnano come illegittimi gli atti di accertamento ed esecutivi sottoscritti dagli 800 dirigenti sanzionati come illegittimi dalla Corte Costrituzionale. Esattamente l’opposto della tesi sostenyuta dalla direttrice di AgEntrate Orlandi,  per la quale è “vergognoso” anche solo pensar a impugnative di atti firmati da quei dirigenti, “perché i cittadini perderanno i loro soldi”. Un tono e un argomento incommentabile, da satrapìe dell’antico impero persiano.

Ha senso un fisco così? La risposta è una sola. No, non ce l’ha. Finché continua a darsi ragione da solo, chiedendo a noi di comportarsi come lui per primo non si comporta, il fisco deve riformare se stesso prima di riformare il paese.

21
Apr
2015

Commissioni interbancarie: quel che si vede e quel che non si vede

Nessuna sorpresa sul fonte delle commissioni interbancarie sulle carte di pagamento: com’era atteso, il Consiglio UE ha approvato il regolamento introdotto nel 2013 dalla Commissione e licenziato il mese scorso dal Parlamento, imponendo un limite dell0 0,3% dell’importo della transazione per le carte di credito e dello 0,2% dell’importo della transazione per le carte di debito e le cosiddette carte universali.

In particolare, la misura interessa gli schemi di carte di pagamento più diffusi, quelli a quattro parti, in cui la transazione tra debitore e creditore è regolata attraverso la mediazione delle rispettive banche: senza l’intervento della banca del debitore, che emette la carta di pagamento, non sarebbe possibile autorizzare il trasferimento di denaro. Sennonché, mentre il creditore (tipicamente un esercente) riconosce alla propria banca delle provvigioni a fronte della possibilità di ricevere pagamenti elettronici, di norma l’istituto emittente non scarica sul debitore (tipicamente un consumatore) il costo del credito: per garantire il buon funzionamento del sistema, allora, sarà la banca del creditore a remunerare la banca del debitore, retrocedendole parte della propria commissione.

Le intenzioni del legislatore comunitario sono commendevoli, ma sostenute da un’analisi lacunosa. Le commissioni interbancarie costituiscono una quota considerevole delle commissioni di pagamento, che a propria volta si riflettono sui prezzi al dettaglio; limitare le prime dovrebbe, dunque, aiutare a contenere gli ultimi. Perché ciò avvenga, però, è necessario che gli esercenti trasferiscano ai consumatori il risparmio ottenuto: un’eventualità che il provvedimento dà per scontata, con un’ingenuità inaccettabile diciotto secoli dopo Diocleziano. Inoltre, il regolamento non tiene in considerazione l’effetto dei mancati ricavi sulle strategie commerciali delle banche emittenti.

Misure simili sono state sperimentate in diversi paesi: Spagna, Australia e Stati Uniti, tra questi. I risultati sono stati uniformemente negativi: i ridotti introiti degli istituti emittenti sono stati prevalentemente intercettati della grande distribuzione, mentre i consumatori hanno visto aumentare le proprie spese bancarie; negli Stati Uniti, questi cambiamenti, ancorché limitati alle carte di credito, hanno spinto quasi un milione di famiglie a uscire dal sistema bancario – è il fenomeno degli unbanked.

Simili conseguenze si possono prevedere anche per i paesi dell’Unione: per la sola Italia, la società di consulenza Europe Economics stima in 494 milioni di euro i minori ricavi di competenza delle banche, che saranno compensati da un aumento proporzionale dei costi a carico dei correntisti, mentre i minori costi per gli esercenti, preventivabili in 445 milioni di euro, saranno incamerati quasi esclusivamente dalla grande distribuzione. L’effetto combinato di queste tendenze sarà quello di frenare la diffusione dei pagamenti elettronici, con conseguenze dannose per l’efficienza, la sicurezza, la speditezza e la convenienza dei traffici commerciali.

Il legislatore europeo si muove qui sulla scorta di una malintesa teoria della concorrenza nel campo dei pagamenti elettronici: la competizione tra schemi diversi, si dice, incentiverebbe un aumento delle commissioni interbancarie funzionale alla seduzione delle banche emittenti. Si tratta di una visione parziale, che sottovaluta le altre forze che influiscono sulla fissazione delle tariffe, ma soprattutto di una diagnosi incoerente con la soluzione proposta. Se è vero che parliamo di un mercato caratterizzato da un deficit di concorrenza, allora la strada maestra è quella di propiziare l’ingresso di nuovi operatori. Restringerne i margini di manovra va precisamente nella direzione opposta.