8
Mag
2015

Renzi: scrollare l’albero non basta…—di Davide Grignani

…in primavera occorre potarlo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Davide Grignani.

La storia talvolta offre ai leader opportunità irripetibili: a Matteo Renzi se ne presenta una nel 2015 probabilmente di portata epocale. La nostra economia quest’anno potrebbe beneficiare di alcune “bombole d’ossigeno” per tirare un respirone e riprendere un cammino di crescita interrotto ormai da troppi anni.

Analizziamo per un attimo i fari da poco accesi sulla pista di decollo e che alcuni analisti hanno definito come “ Triple Booster” italiano: Read More

7
Mag
2015

In Italia non rischi mai di avere ragione fino in fondo, sopratutto quando vinci contro la Pubblica Amministrazione.

Da più di dieci anni un mio amico è dipendente dell’Università come ricercatore confermato a tempo indeterminato. Nel 2012 ha deciso di partecipare alla procedura che il Ministero dell’Università ha indetto per valutare l’idoneità di ricercatori e studiosi ad assumere il titolo e le funzioni di professori associati ed ordinari. Il mio amico ha presentato titoli, pubblicazioni scientifiche e curriculum per sottoporsi al giudizio di idoneità per professore di seconda fascia (professore associato). All’esito della valutazione la commissione nominata dal Ministero lo ha ritenuto non idoneo con un giudizio sommario poco lusinghiero. L’unica consolazione, nell’immediato, è stata quella di essere in buona compagnia, visto che più del 60% dei candidati non è stato giudicato idoneo e considerato che persino un Presidente di sezione ed alcuni membri del Consiglio di Stato sono stati giudicati (con vero e sacrosanto scandalo) non idonei all’insegnamento del diritto amministrativo, di quella disciplina, cioè, in virtù della quale gli stessi magistrati decidono decine di casi al mese scrivendo altrettante sentenze definitive.
Smaltiti gli effetti emotivi della bocciatura, il mio amico ha deciso di rivolgersi al Tribunale per fare valere quella che sin da subito gli è apparsa una grave ingiustizia sul piano personale ed un oltraggio su quello professionale. Armatosi di santa pazienza ha presentato un ricorso al Tar del Lazio con sede in Roma (perché del Tribunale capitolino è la competenza in questa materia) e, non essendo egli residente entro i confini del compianto Stato pontificio, ma trattandosi di cittadino del troppo bistrattato ex regno delle due sicilie, ha dovuto affrontare non poche spese per l’avvocato e per presenziare nell’ordine: ad un’udienza cautelare, che il Tribunale ha mostrato di non gradire, ad un udienza di rinvio, che in un vero processo italiano non può mai mancare, e, infine, ad un’udienza di discussione all’esito della quale finalmente il ricorso è stato introitato (si, avete letto bene, si dice così, introitato) per la decisione.
Per fortuna c’è un giudice anche a Roma, tanto è vero che il Tribunale ha riconosciuto che l’amministrazione universitaria l’ha combinata davvero grossa, dimenticandosi addirittura di valutargli i titoli e le pregresse esperienze lavorative all’interno della stessa università. Il giudizio di idoneità deve essere pertanto ripetuto e siccome gli esseri umani sono schizzinosi ed ipersensibili è meglio, dicono in sostanza i giudici, che a rivalutare il mio amico, questa volta si spera correttamente, provveda una diversa commissione composta da professori ordinari differenti da quelli che lo hanno già valutato una prima volta.
Giustizia è fatta. Al netto della possibilità che il Ministero decida di impugnare la decisione di primo grado innanzi al Consiglio di Stato, chissà, magari davanti al collegio composto dai candidati ritenuti non idonei all’insegnamento del diritto amministrativo, i quali nel frattempo sono risultati però vittoriosi contro il Ministero proprio davanti a quel Consiglio di Stato dove lavorano, il mio amico può ritenersi per ora soddisfatto. La parcella dell’avvocato ed i costi per le numerose trasferte romane sono stati soldi ben spesi in definitiva; denari però che, nonostante la vittoria in giudizio, non gli saranno rimborsati dalla pubblica amministrazione che lo ha violentemente preso a pesci in faccia. Il Tribunale amministrativo, infatti, ha ritenuto di compensare le spese del giudizio perché il mio amico, pur essendo stato costretto a rivolgersi alla giustizia per tutelare il suo diritto ad essere giudicato correttamente, ha scritto un ricorso troppo lungo, ha impiegato troppe pagine per spiegare il torto che ha subito dallo Stato e così, quello stolto, dicono i giudici, ha violato il principio della sinteticità degli atti di cui al secondo comma dell’art. 3 del codice del processo amministrativo. Per tale motivo l’amministrazione che lo ha trattato da suddito e non da cittadino non gli deve rimborsare alcuna spesa processuale. Niente. Come dire: hai ragione, ma parli troppo e dunque non ti pago. E di un giustizia sin troppo giusta non è proprio il Paese questo.
@roccotodero

7
Mag
2015

Corte Costituzionale e pensioni: per equità NON bisogna restituire tutto a tutti

All’indomani della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocco nel 2012 e 2013 dell’indicizzazione delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo, siamo stati i primi a esporre le nostre forti critiche alla sentenza. Nei giorni successivi, non siamo rimasti soli. Diverse voci, commentatori, economisti, giuristi, si sono aggiunte approfondendo le numerose e profonde contraddizione che si leggono nella decisione della Corte. L’indifferenza all’articolo 81 della Costituzione che prevede il bilancio pubblico in equilibrio, rispetto all’attenzione solo data agli articoli 36 e 38 per la natura di “retribuzione differita” della pensione. Il contrasto con sentenze precedenti, nelle quali la Corte aveva giustificato interventi anche retroattivi del legislatore su trattamenti economici. Il difetto in motivazione, poiché la Corte afferma che il motivo dell’intervento sulla perequazione non appariva adeguatamente giustificato da parlamento e governo, mentre a chiunque è chiaro che gli interventi di finanza pubblica dall’estate 2011 alla primavera 2012 avvenivano mentre l’Italia era sul ciglio del baratro e del commissariamento da parte della Trojika.

Ma infine e soprattutto, l’assenza di ogni riferimento all’equità intergenerazionale. Poiché, in un sistema previdenziale a ripartizione, nel quale le pensioni in essere sono pagate dai contributi di chi oggi lavora e non da quelli versati in precedenza da chi oggi è pensionato, tornare a rimborsare quei quasi 5 miliardi bloccati nel 2012 e 2013, e continuare a coprirne gli effetti per il 2014 e 2015 e anni a venire, significa dover reperire 12-13 miliardi di euro a carico di chi le pensioni retributive di cui si parla non le avrà mai, e a stento riuscirà ad averne tra molti anni di contributive, ma molto più basse. E non si ferma a questo, l’aspetto di equità tra generazioni che la Corte ha deciso di ignorare. Perché ha dimenticato che lo stop alle perequazioni a quelle pensioni già erogate si accompagnava non solo al cambio di sistema – da retributivo a contributivo, come detto – per i più giovani, ma anche al brusco innalzamento dell’età pensionabile, per alcuni milioni di italiani che contavano fino al giorno prima di andare in pensione a breve.

Oggi che si tratta di fronteggiare le conseguenze della sentenza, ora che il governo deve decidere a chi e come garantire il rimborso, la strada non è obbligata. Non è affatto vero, che la sentenza obblighi a ripagare tutto a tutti. Le strade possibili dipendono esattamente da quale sia l’opinione politica prevalente sulla decisione della Corte. Per questo abbiamo ripetuto le nostre critiche. Perché ci auguriamo che governo e parlamento ne tangano conto.

La destra, aliena ormai dal ragionare sul merito delle cose e interessata solo a un’opposizione frontale contro il governo, batte la strada del rimborso integrale a tutti. E se non tornassero i conti – visto che nel frattempo siamo già di nuovo sul filo di un possibile 3% di deficit e la UE tra pochi giorni a quanto pare dirà no anche alla reverse charge sull’IVA decisa dal governo (lo avevamo avvisato, non ha ascoltato) con altri 700 milioni di euro da coprire in questo stesso 2015 – tanto peggio per Renzi, pensa l’opposizione. No, tanto peggio per l’Italia e per noi tutti, ci permettiamo di replicare, se cittadini e contribuenti saranno ancora una volta obbligati per cause di forza maggiore a mettere vieppiù mano al loro esangue portafoglio.

La sentenza della Corte è invece l’occasione per riaffermare il principio al quale la Corte è rimasta sorda. Se per rispettare la decisione ha senso provvedere a un rimborso dei trattamenti di poco superiori a 3 volte il minimo INPS, non ha senso farlo per quelli 5,6.7 e 10 o più volte superiori. Lo ha detto fuori dai denti il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti. E secondo noi ha fatto bene. Salvini ha replicato che è un furto. Ma al contrario è un furto a chi ha meno, molto meno, chiedere oggi di reintegrare trattamenti previdenziali che sono multipli del reddito medio e mediano degli italiani da una parte. E che, soprattutto, non sono affatto commisurati, in quanto pensioni retributive, ai contributi versati mentre si lavorava. Tranne un 7-8% di trattamenti previdenziali retributivi erogati oggi infatti a chi ha avuto retribuzioni alte e altissime nel più della carriera lavorativa, in tutti gli altri casi la pensione collegata ai soli ultimi anni di stipendio è un premio rispetto ai contributi versati. Senza contare poi le centinaia di migliaia di pensioni incassate oggi da chi apparteneva a fondi come quello dei lavoratori elettrici, o postelegrafonici, o agricoli, i cui trattamenti previdenziali retributivi, maturati grazie alle norme di patronage politico degli “allegri” decenni alle nostre spalle, possono essere pari anche a multipli vertiginosi dei contributi versati.

Oltre a un rimborso parziale rigorosamente a scalare al crescere del multiplo del trattamento minimo, dunque, questa potrebbe essere l’occasione giusta anche per una operazione-giustizia di revisione almeno di quei trattamenti eccessivamente “regalati” a spese, ripetiamolo, di chi oggi ha la certezza di riscuotere nel suo futuro molto meno, sempre che riesca a lavorare.

Non sappiamo se la politica avrà la forza di una simile scelta, visto che in ballo ci sono comunque oltre 5 milioni di pensionati. Ma quand’anche, com’è ovvio, i partiti dovessero guardare innanzitutto ai consensi invece che al merito di una “vera” giustizia tra generazioni, allora dovrebbero bastare due conti per sapere che i milioni di italiani chiamati con altri sacrifici – contributivi o di ulteriore aggravio tributario – a rimpinguare redditi previdenziali superiori alla media, sono più numerosi di coloro il cui solo ed esclusivo diritto è stato affermato dalla Corte. Diceva Lord Bowen che piove sul giusto e sull’ingiusto: ma sul giusto di più, perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello. Ecco, aggravare ancora gli oneri a chi ha meno è proprio come levar loro anche l’ombrello, dopo che già offriamo loro un futuro italiano di pioggia fitta senza facili schiarite.

5
Mag
2015

Crony capitalism: Renzi ha ragione solo a metà

Matteo Renzi ha capacità di reazione straordinarie. Così, 3 giorni dopo le devastazioni a Milano rese possibili dalle direttive date dal governo alle forze di polizia, sempre a Milano ha cambiato copione. E, incontrando la crema della finanza italiana a Piazza Affari ha sfoderato la spada contro il capitalismo di relazione. “Quel sistema che poneva la relazione come elemento chiave di un Paese in cui giornali, banche, imprese, fondazioni bancarie, partiti politici hanno pensato che si potesse andare avanti tutti insieme dialogando e discutendo, è morto” ha detto, aggiungendo che “se non muore quel sistema muore l’Italia”. Ora lasciamo perdere che c’era una punta evidente di malevolenza nel replicare senza citarlo a Ferruccio de Bortoli, rivendicando la democrazia come “governo dei maleducati” contro l’aristocrazia “governo degli educati male”. E che in realtà non ha anticipato alla comunità finanziaria alcuna novità, dopo aver bastonato fiscalmente i fondi previdenziali integrativi e aver alzato le tasse sul risparmio. Il punto è un altro. Sul capitalismo di relazione ha ragione, Renzi, oppure no? La risposta obiettiva – numeri alla mano – è che ha ragione, sui privati. Ma non sullo Stato, e anche sul suo governo.

I numeri dicono che, in effetti, il crony capitalism, il capitalismo clientelare che pratica controllo e gestione delle imprese, selezione negli affari e nelle forniture, e concessione di credito il tutto basato sui rapporti intrecciati tra persone invece che sul merito dei progetti come delle persone stesse, è in riduzione rispetto ai tempi in cui Stato-Iri da una parte e galassia-Mediobanca cucciana dall’altra erano la sintesi di un’Italia finanziaria praticamente tutta – o quasi – “relazionale”. I patti di sindacato che univano tutti i piani alti del capitalismo privato incentrati su Mediobanca si sono sciolti o diluiti, Mario Greco alla testa di Generali non è più parte delle cosiddette “operazioni di sistema” che tanto male hanno fatto all’Italia e alle sue aziende (da Telecom Italia ad Alitalia), Intesa e Unicredit sono oggi guidate da manager come Carlo Messina e Federico Ghizzoni che pensano a fare banca e non a compiacere le parti correlate.

Ma attenzione, il capitalismo di relazione che solo un anno fa Giovanni Bazoli difendeva a spada sul Financial Times non è affatto tramontato. Bazoli ne resta in fondo il più grande campione, perché in un paese di capitalismo fondato sul merito vicende come il rastrellamento di partecipazioni compiute dal suo protetto Zaleski con esposizioni miliardarie sarebbero finite in tribunale, non nel mega salvataggio operato concordemente dal sistema bancario italiano e negato di regola a qualunque altro imprenditore italiano (con eccezioni, ovvio, vedi l’altro salvataggio “relazionale” operato dalle banche nella debenedettiana Sorgenia, l’anno scorso..).

I numeri della Consob dicono che a fine 2014 l’85% delle società quotate italiane e il 75% della capitalizzazione di Borsa è controllato da una o più persone, mentre le società a vasta diffusione del capitale sono solo 10, per un 20% della capitalizzazione. I patti di sindacato sono scesi da fine anni ’90 e riguardano un quarto delle quotate, ma in compenso sono aumentati i patti di voto e quelli di coalizione senza patti ma con liste comuni, dal 22 al 40% e dall’8 al 10%. Soprattutto, lo Stato continua a controllare direttamente il 35% del totale della capitalizzazione di mercato: ed è questo il punto debole dell’accusatore Renzi.

Il premier ha detto ieri che “lo Stato si è chiamato fuori” dal capitalismo relazionale, ma i numeri dicono il contrario. Nel settore dei servizi, il 67% della capitalizzazione di Borsa è controllata dallo Stato con le multiutilities. E se dal 1998 sul totale delle quotate italiane i gruppi a controllo verticale – altro classico del capitalismo relazionale, visto che consentono di controllare società impegnando pochissimo capitale ad alta leva, in alto nella catena di controllo, prevaricando i diritti degli investitori presenti nel capitale “in basso” – sono scesi dal 39% al 20%, è proprio lo Stato oggi a detenerne il primato (vedi Cdp rispetto alle sue ormai decine di partecipazioni). I favori incrociati tra manager pubblici e potere politico continuano ad esistere eccome, in gruppi “pesantissimi” dove i sussidi incrociati pubblici hanno un peso rilevante nel conto economico (vedi la modalità di quotazione in arrivo di Poste, senza sciogliere il sussidio incrociato che va alla preponderante attività finanziaria e assicurativa dalla residua attività di consegna ormai ex “servizio universale”).

A tutto questo, aggiungiamo che è al capitalismo di relazione che si devono molti dei guasti con cui è alle prese il sistema bancario italiano. Il 12% di PIL di crediti deteriorati, una montagna che al più delle banche tranne Intesa e Unicredit risulta non smaltibile con procedure di mercato, dipende dal pessimo merito di credito praticato nel pre-crisi, cioè dal prevalere di criteri relazionali nella scelta di coloro a cui concedere troppo credito rispetto ai rischi insiti nell’impego, e a chi negarlo anche se magari aveva buoni o ottimi progetti di business. La conferma di questa tesi, che l’ABI naturalmente respinge, ancora una volta viene dai numeri: sul totale dei quasi 200 miliardi di crediti in sofferenza, il 70% è concentrato in imprese grandissime, grandi e medie, non nelle piccole e piccolissime che rappresentano il 95% del tessuto d’impresa italiano. In banche grandissime come Mps, medie come molte Popolari che non hanno superato l’AQR europea e oggi devono cambiare forma giuridica, e piccolissime come molte delle oltre 300 BCC, i guai dell’eccessiva concentrazione del rischio di credito sono figli del criterio relazionale praticato per decenni. Su 340 ispezioni in 2 anni praticate dalla vigilanza bancaria in Italia, in un caso su 5 sono state rilevate gravi irregolarità di governance a cominciare proprio dal troppo credito agli “amici degli amici”, e in un caso su 7 queste irregolarità hanno avuto risvolti penali. Non proprio il sistema bancario più sano del mondo, come troppo spesso si ripete. E Renzi ieri non ha aggiunto nulla alle indiscrezioni che girano da un anno sull’ipotesi di bad bank a cui il governo starebbe lavorando.

Renzi dunque ha fatto bene a scudisciare i privati. Ma oltre alla massiccia presenza dello Stato che con lui non arretra, ha inoltre dimenticato che proprio il suo governo l’anno scorso ha fatto un bel regalo al capitalismo relazionale, consentendo a chi controlla le quotate detenendo i titoli da almeno un anno di potersi dare un voto plurimo per mantenerne il controllo, adottando la riforma statutaria a maggioranza semplice invece che qualificata, e cioè con un calcio in faccia agli investitori istituzionali presenti nel capitale ma in minoranza. Anzi, per essere precisi bisogna dire che è stato il parlamento a volere tale regalo per le quotate, perché all’inizio il governo lo concepiva solo per le società piccole. Lo Stato ci ha guadagnato di poter far cassa scendendo nella quota detenuta nei giganti quotati senza perderne il controllo, ma in cambio ha esattamente fatto un favore al capitalismo di relazione privato che ieri Renzi ha attaccato, ostacolando la contendibilità delle imprese che esso controlla. Per fortuna ad adottare in questo modo disinvolto il voto plurimo sono stati in pochi, per non sfidare i fondi esteri che piano piano cominciano a essere più presenti e attivi nel capitale delle grandi quotate italiane.

E ancora: sottoscrivendo la cosiddetta autoriforma delle fondazioni bancarie italiane, altre protagoniste di prima grandezza del capitalismo di relazione italiano, il governo ha sì posto limiti alla quota che ciascuna di esse detiene in una sola banca, ma esteso la possibilità di scambi di quote attraverso le quali esse potranno oggi anche entrare in patti di controllo delle grandi banche popolari che diventano spa. Col bel risultato che, invece di scendere nel controllo delle banche italiane e concentrarsi nelle loro funzioni di privato sociale, le fondazioni controlleranno ancora più banche di prima.

Ecco: ci sarebbe piaciuto ieri sentire qualche grande privato italiano rispondere per le rime a Renzi. Riconoscendo che ha ragione nello sfidare i privati a superare il retaggio relazionale del passato. Ma aggiungendo che lo Stato è ancora ben lungi dal poter dare lezioni, con le decine di migliaia di partecipate locali greppia di politici e partiti. Ma quel grande privato non c’è stato. Segno, vien da pensare, di cattiva coscienza.

 

3
Mag
2015

La costituzionalità sostenibile delle pensioni italiane

Ha suscitato viva approvazione negli interessati, e nei sindacati che li tutelano, e nello stesso tempo forte preoccupazione in tutti coloro che sono interessati alla sopravvivenza economica del paese la recente decisione della Corte Costituzionale in tema di pensioni. L’aver dichiarato incostituzionali le norme del decreto legge del governo Monti ‘SalvaItalia’ del 6 dicembre 2011 con le quali era stata cancellata per il biennio 2012-13 l’indicizzazione all’inflazione dei trattamenti previdenziali superiori a tre volte il minimo, pari a poco meno di 1.450 euro mensili lordi, apre un buco consistente nei conti pubblici. Dovrà infatti essere restituito il mancato gradino di aumento del 2012, stimato in 1,8 miliardi, e il doppio mancato gradino del 2013, stimato in 3 miliardi, il quale, dato il carattere permanente della mancata indicizzazione, non è stato tuttavia corrisposto neppure nel 2014 e nell’anno in corso. Il conto totale per la finanza pubblica è pertanto stimabile in circa 11 miliardi per il 2015 (3 miliardi per tre anni più 1,8), più 3 miliardi, destinati a ulteriore rivalutazione monetaria, per ogni anno successivo.  Read More

3
Mag
2015

Le 4 ragioni del NO al laissez-faire dello Stato a Milano

E’ bene interrogarsi a fondo, sulla versione ufficiale resa dal Viminale e dal vertice della Polizia su quanto è accaduto a Milano il primo maggio. I settecento travisati che con molotov, bastoni, pietre, petardi, hanno vandalizzato, bruciato e distrutto auto e negozi, avrebbero teso un’astuta trappola alle forze dell’ordine. Che non ci sono cascate. E si sono astenute da interventi diretti per evitare le violenze per milioni di euro a privati, perché sarebbe stato molto peggio. L’inaugurazione di EXPO non meritava di essere macchiata, ha detto il capo della Polizia. E lo scrittore anti-camorra Roberto Saviano, commentando in un video, ha espresso per così dire l’interpretazione autentica della versione ufficiale resa dallo Stato: le violenze ai privati sono state un “prezzo necessario”, ha detto, ed è “un grande cambiamento” nella gestione della sicurezza pubblica, che finalmente si sia capito che questo è il modo giusto per trattare i black bloc che s’insinuano nei cortei.

Il grande cambiamento renderebbe possibile finalmente a tutti comprendere che i violenti non hanno nulla a che vedere con chi protesta contro mercato e imprese e governi. Certo i danni a privati sono stati “terribili” anche per Saviano. Che ha aggiunto che quei proprietari di negozi e auto sono “spesso innocenti”: e quello “spesso” significa inevitabilmente che, insomma, non proprio tutti meritano di essere considerati innocenti davvero. Col sottinteso che forse, se vai a vedere bene, chissà quanti di loro se negozianti pagano davvero tutte le tasse, o se hanno un Audi se non sono dei corrotti.

Con tutto il rispetto dovuto e necessario per il Viminale, il capo della Polizia e Saviano, una cosa va detta con altrettanta chiarezza. A noi non pare accettabile in nessun modo una simile concezione della legalità. Per almeno quattro ragioni: una riguarda la storia, la seconda i fatti di Milano, la terza le conseguenze, la quarta è invece culturale (e, forse, dovrebbe venire prima delle altre).

Il fattore storico ha il suo peso. Dopo la recente condanna dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per i fatti della Diaz a Genova nel 2001, è ancor più evidente a chiunque che le forze dell’ordine italiane devono attenersi a procedure e regole d’ingaggio di manifestanti in caso di violenze rigorosamente rispettose di princìpi e limiti coerenti a un ordinamento democratico, e strettamente correlati alla proporzione della forza, e alla valutazione delle sue conseguenze su persone e cose. Detto ciò, l’alternativa ai vergognosi fatti di Genova non è limitarsi agli idranti a distanza, e per il resto stare a guardare. E’ inaccoglibile l’obiezione di chi difende l’operato delle forze dell’ordine a Milano fondata su “ma cosa volete, il bis di Genova?”. Una moderna cultura della sicurezza pretende che, di fronte al fenomeno dei black bloc, il coordinamento di polizie e intelligence tragga da ogni episodio nuove lezioni da mettere in comune, su come preventivamente identificare ed espellere i violenti, e su come fronteggiarli nelle strade. No, non si può restare a guardare.

Quanto ai fatti di Milano, la trappola tesa dai devastatori sarebbe stata di voler attirare polizia e carabinieri fuori dai presìdi fissi da garantire in centro città e all’EXPO, per forzare poi qualcuna della “aree rosse” che andavano prioritariamente preservate. E’ una tesi apparentemente logica. Ma fa acqua. Se dovesse essere presa alla lettera, significa che d’ora in poi le forze dell’ordine preservano le autorità e i palazzi del potere, e per il resto devastazioni e violenze a privati sono invece da mettere in conto. Perdonateci, ma i cittadini pagano le tasse allo Stato per altro, non per sentirsi dire e subire cose simili. Poiché EXPO dura sei mesi, non può essere questo il segnale che le autorità danno a centinaia di migliaia di milanesi, ciascuno impegnato a fare in modo che EXPO sia una straordinaria occasione economica di ripresa per l’intera Italia.

Le conseguenze sono presto dette. I black bloc italiani ed europei studiano e approfondiscono a ogni loro “impresa” le falle delle procedure delle forze di polizia. Se dopo Milano passa il messaggio che in Italia d’ora in poi gli apparati dello Stato si accontentano di tenere circoscritte in alcune aree delle città devastazioni e violenze che vengono però lasciate perpetrare, ebbene per loro è una straordinaria vittoria. E’ quello che vogliono. Non è proprio il caso che ci possano contare.

Infine, è necessaria qualche parola sulla cultura della violenza. Nella politica del nostro paese, dagli anni ’70 ha giocato un ruolo pesante e sanguinoso. Negli ultimi anni, abbiamo di fatto circoscritto il terrorismo agli ultimi assassini di giuslavoristi riformisti caduti sotto il piombo, e naturalmente alla matrice islamica. Rifiutiamo di considerare terrorismo le nuove forme di violenza politica. Basti pensare al Tribunale del riesame di Torino che respinge la tesi della Procura, per la quale gli assalti e i sabotaggi dei No TAV ai cantieri siano terrorismo. E alla simpatia maggioritaria che va a Erri de Luca per il suo invito a sabotare, libera manifestazione di un pensiero “antagonista” che nulla ha a che vedere con gli effetti che invita a porre in essere. Siamo diventati un ben singolare ordinamento penale: ci inventiamo sempre nuove forme di concorso esterno a gravissimi delitti associativi con pene durissime, ma mandiamo in onda in tv ore di falò di negozi e auto convinti che le forze dell’ordine siano nel giusto a non intervenire.

In verità, un paese che non ha la sicurezza penale di continuare a definire terrorismo tutte le nuove forme violente volte all’intimidazione di massa, è un paese che non ha la minima certezza storica dei limiti da porre – sempre – a qualunque tipo di violenza nel dibattito e nel confronto pubblico. E’ una gravissima lacuna culturale: quel giovane che tutti avete visto in tv, esaltato per la bellezza della devastazione che poteva compiere, è il figlio di questo abisso culturale italiano.

Per tutte queste ragioni, non possiamo che augurarci che politica e forze dell’ordine correggano l’autoassoluzione compiaciuta che si sono impartiti a Milano, liquidando i fati come compiuti “da quattro figli di papà” come ha detto incredibilmente il premier. Viva i cittadini che senza proteste si sono messi alacramente a riparare a spese proprie i danni. Danni avvenuti senza che lo Stato abbia saputo e voluto impedirli. Ma di qui a dire che un buono Stato esiste per questo fine, diciamo che ce ne corre come tra il giorno e la notte.

1
Mag
2015

La Corte sulle pensioni dimentica l’equità intergenerazionale

E’ una sentenza che pone molti problemi, quella adottata in materia previdenziale dalla Corte Costituzionale. Non solo problemi per i conti pubblici, reperire 4,8 miliardi di euro. Ma, soprattutto, problemi di equità, anche se apparentemente la decisione è proprio a favore della giustizia sociale. La Corte ha bocciato lo stop alla perequazione del costo della vita che nel 2012 e 2013, per effetto della riforma Fornero, toccò a circa 6 milioni di assegni previdenziali che erano superiori a poco più di 1500 euro mensili lordi, cioè pari ad almeno tre volte il trattamento minimo INPS. La misura fu adottata per ottenere effetti di cassa a breve, pari a 4,8 miliardi nei due anni, in attesa che la riforma strutturale dell’innalzamento dell’età previdenziale, facendo coincidere i requisiti dei trattamenti di vecchiaia e di anzianità, conferisse maggior stabilità negli anni al sistema previdenziale italiano. Ma la Corte la stabilito che l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo conseguenziale il diritto a una “prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

E’ ovvio che il governo debba ora dimenticarsi il “tesoretto” che aveva promesso in vista delle elezioni regionali, perché con 5 miliardi di buco aggiuntivo non è proprio il caso di pensare a spenderne 1,6 coperti in deficit. Anche se, a ben vedere, un’alternativa ci sarebbe. Ma prima di esaminarla, soffermiamoci sui presupposti della sentenza. Perché le decisioni della Corte costituzionale hanno avuto un enorme impatto storico, sull’evoluzione del sistema previdenziale italiano. Ogni studente di diritto costituzionale impara che, negli anni ‘60 e ’70, la Corte produsse una lunga serie di sentenze cosiddette “additive”, in cui si estendevano benignamente verso l’alto i trattamenti previdenziali a categorie che avevano ereditato dalla storia trattamenti diversi. All’epoca, in un’Italia che cresceva tra il 2 e il 3% annuo, a bassa disoccupazione e bassa tassazione, la Corte non si poneva il problema di creare le basi per la crescita della spesa previdenziale sul PIL, quando quelle condizioni fossero mutate. Come sono mutate, eccome, nei decenni a seguire.

Poi, a partire dagli anni ’80 e ’90, subentrò una diversa consapevolezza. Con sentenze come la  180 del 1982 e la 220 del 1988, la Corte difese la discrezionalità del legislatore nel mutare le prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Né mancarono sentenze(come la 349 del 1985, la 822 del 1998, la 416 del 1999) nelle quali, a differenza della decisione presa oggi, la Corte difese anche trattamenti peggiorativi decisi dal legislatore con effetto retroattivo. La Corte escluse un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, negando cioè proprio quei cosiddetti “diritti acquisiti” che vengono sempre impugnati da coloro che immaginano che il trattamento di un tempo debba sempre restare eguale, anche se non ci sono risorse per finanziarlo.

Certo, la Corte si è sempre riservata il diritto di bocciare comunque interventi del legislatore che fossero irrazionali o ingiustificati. La Corte ha così respinto come irrazionale, con la sentenza 116 del 2013, un’altra misura che era stata assunta nel terribile biennio 2011-2012 in cui l’Italia era sul ciglio del baratro, cioè il contributo di solidarietà sulle pensioni pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il prelievo aveva carattere tributario secondo la Corte, e come tale però introduceva aliquote sperequate rispetto a chi aveva le stesse soglie di reddito, ma non da pensione. Oggi invece la Corte respinge lo stop biennale al recupero dell’inflazione sopra i 1500 euro, sostenendo che quella misura fosse ingiustificata, cioè non correlata per esteso nella riforma Fornero all’indicazione di specifiche necessità di cassa non altrimenti perseguibili.

Veniamo ai problemi giuridici che la sentenza solleva. Sta davvero alla Corte costituzionale, stabilire quale sia la soglia della “prestazione previdenziale adeguata”? Se così fosse, in base a quali criteri di calcolo e di comparazione col resto dei redditi medi italiani è fissata quella soglia, visto che si interveniva su una media superiore e non inferiore al reddito medio di quell’anno? E perché a questo punto adottare una decisione simile sullo stop a tempo alla perequazione degli assegni previdenziali, quando da anni e ancor oggi tutti i dipendenti pubblici subiscono il blocco degli scatti contrattuali? E soprattutto: è possibile alla Corte adottare decisioni simili, senza assumere un giusto criterio di equità?

Direte voi: è tutto il contrario, è proprio in nome dell’equità che la Corte interviene. E invece no, se pensate a come funziona in concreto il nostro attuale sistema previdenziale. Pur passando gradualmente nel tempo da retributivo a contributivo, cioè un sistema in cui l’assegno è parametrato non agli ultimi anni di retribuzione conseguita ma ai contributi versati, moltiplicati per coefficienti che comprendono l’andamento del Pil e l’attesa di vita, il nostro resta comunque come prima un sistema a ripartizione. Cioè le pensioni in essere vengono pagate da chi lavora oggi. Vengono pagate da chi non solo non avrà pensioni retributive, in molti casi multiple di 5 o 6 e persino 8 volte rispetto ai contributi versati, ma in molti casi non avrà neanche i requisiti minimi delle minori pensioni contributive, vista l’età molto più avanzata in cui si riesce oggi a ottenere un lavoro, e la assai più frequente discontinuità dei versamenti contributivi, tra periodi di disoccupazione e occupazione a tempo.

Una vera equità, nell’assumere decisioni in materia previdenziale, dovrebbe essere quella che guarda alla reale ripartizione degli oneri: cioè l’equità intergenerazionale. E la domanda vera diventa: è giusto addossare a chi oggi ha assai meno di un tempo, l’onore di pagare i 5 miliardi aggiuntivi per il recupero di due anni di inflazione deciso allora? L’equilibrio intertemporale dovrebbe essere il criterio di ogni intervento che ha effetti di lungo periodo, fiscali e contributivi, sulla finanza pubblica. Basta assumere decisioni solo nell’interesse di chi è vissuto in un’Italia più felice. Ora occorre pensare a chi non lavora e non avrà pensione in un’Italia disastrata dalla crisi, e al fatto che se non pagheranno loro i contributi per finanziare le pensioni in essere, si aggraverà ulteriormente l’esborso che dalla fiscalità generale serve ogni anno per tenere in piedi i conti dell’INPS, e che nel 2014 è stato di quasi 90 miliardi di euro. Ci ha pensato, la Corte a tutto questo? O è un diritto cieco alle sue conseguenze, quello che incarna la giustizia sociale nel nostro paese? Date voi la risposta, a noi tocca però porre seriamente la domanda.

Quanto all’alternativa seria per trovare rimedio ai 5 miliardi di buco, c’è eccome. Invece di porre mano al rimborso, il governo sfrutti l’occasione per un ricalcolo contributivo ragionato di tutte le pensioni retributive eccessivamente generose. Sarebbe un modo ancor più concreto per pensare ai diritti dei giovani, sulle cui spalle ammassiamo sempre maggiori oneri.

28
Apr
2015

Scuola, il rischio concreto della riforma abortita

Non c’è da stupirsi, della levata di scudi dell’intero mondo della scuola contro la riforma all’esame del parlamento. I sindacati sanno quel che gli studi elettorali confermano, cioè che il bacino elettorale del milione di dipendenti del sistema formativo pubblico è sempre stato a prevalenza di sinistra e del Pd. Dunque, sotto elezioni regionali, ecco lo sciopero unitario generale della scuola, il prossimo 5 maggio. O il governo e il Pd cedono in parlamento prima di allora su punti essenziali della riforma, oppure ci sarà uno scotto da pagare alle urne. L’eventualità più probabile è che quel poco di buono che era rimasto in una riforma tre volte riscritta sparisca, e il tutto si risolva in un’ancor più estesa sanatoria di precari.

Aggiungiamo però che il governo doveva aspettarselo. Aveva acceso molte speranze, appena entrato in carica. Aveva adottato una consultazione pubblica senza canale preferenziale con i sindacati, però su un testo poi sconfessato. Riformulatolo, aveva annunciato decreti legge. Per poi ripiegare due mesi fa su un disegno di legge ancora variato, ma promettendo un decreto legge assumi-precari visto che l’esame parlamentare altrimenti non sarebbe coerente con i tempi necessari a formare le classi per settembre, con i 100mila nuovi assunti. Il sindacato ha osservato indispettito questo zigzagare, e sa anche che il ministro Giannini si è trovata lei per prima più volte spiazzata. Non è un caso che oggi, a protesta esplosa e a incidente avvenuto alla Festa dell’Unità, siano per primi esponenti del Pd ad accusarla di essere stata poco sensibile al confronto sindacale. Se la Giannini sperava di procurarsi uno scudo entrando nel Pd, direi che ha proprio fatto male i conti.

Il rischio ora diventa quello di vedere travolte anche alcune delle pur attenuate novità che la riforma ancora conteneva. E’ ovvio che i sindacati chiedano la messa in ruolo di tutti i precari, e la decadenza del neo registro regionale in cui finirebbero quelli di seconda fascia, non stabilizzati. E che diventerà più difficile salvaguardare guardando al solo merito, per esempio tutelando chi aveva seguito e superato il percorso abilitante per prove del TFA. Ma il segnale meno incoraggiante è il forte attacco in corso sulla questione dell’autonomia, del dirigente scolastico, della valutazione. Cioè appunto sul residuo di novità più significative rimaste nel testo della riforma.

E’ la valutazione del merito, la questione di fondo. Già il governo ha dovuto fare, nelle diverse bozze, molte marce indietro. Le dichiarazioni iniziali prevedevano che solo il 30% massimo degli aumenti retributivi ai docenti sarebbe stato determinato dall’anzianità, e il 70% dal merito. Premiando in tre fasce di diversa progressione l’80% dei docenti ed escludendone il 20%. A valutare il merito, secondo un certo peso tra crediti didattici, formativi e professionali, sarebbe stato un nucleo di valutazione per ogni istituto, presieduto dal dirigente scolastico. Se gli insegnanti per due volte di fila non fossero riusciti a rientrare almeno nella terza fascia, avrebbero rischiato un’ispezione. Se la mancata promozione persistesse, poteva arrivare fino a quella che in gergo scolastico si chiama dispensa, cioè la sospensione dal servizio per incapacità, fino al licenziamento per inidoneità.

Nel testo finale quella rivoluzione è già scomparsa. Gli scatti retributivi di anzianità restano, per gli insegnanti. Ma il governo ha scovato per il 2016 anche 200 milioni di premi al merito per i docenti, attribuiti secondo le valutazioni su ogni insegnante che in ogni istituto farà innanzitutto il dirigente scolastico e i suoi collaboratori. E in più il governo ha anche aggiunto una carta-insegnante di 500 euro l’anno, per sostenere i consumi culturali che ogni docente deve sostenere per l’aggiornamento, dai libri al teatro.

Ora i sindacati hanno messo nel mirino il ruolo del dirigente, e già il Pd ha accettato che non avrà un ruolo prevalente né nel giudicare il merito dei docenti, né nella scelta dell’integrazione all’organico pescando dall’albo regionale dei docenti a disposizione, né nella vita economica, organizzativa e lavorativa della scuola che doveva configurare la nuova ed estesa autonomia di ogni istituto. Tutto dovrà avvenire nel concerto assoluto del corpo docente di ogni istituto, no ad ogni attribuzione al dirigenti di poteri sovraordinati. E, smontati gli scatti di merito ripristinando quelli di anzianità, e lasciato al merito la sola funzione di un premio aggiuntivo, si tratta ora di attribuirlo a tutti estendendone i criteri il più possibile a progetti comuni a cui partecipino tutti gli insegnanti di ogni istituto.

Se finirà così, e oggi appare molto probabile, sarà un’altra vittoria della storica indisponibilità a farsi selettivamente giudicare del pubblico impiego secondo criteri di impegno e produttività. Se la valutazione di merito è seria, deve avvenire secondo criteri noti ex ante, che contemplino le performance ottenute nelle classi, le verifiche sull’insegnamento frontale, i giudizi di studenti e famiglie. Deve prevedere fasce di crediti e punteggio diverse. E deve essere parte integrante della retribuzione. Si potevano seguire alcuni dei modelli praticati con successo da molti altri paesi. Ma, per questo risultato, occorreva essere espliciti e chiari, scegliendone uno. Il sindacato avrebbe resistito, ma non avrebbe potuto dire di non esser stato coinvolto. Anche perché il governo sapeva benissimo che questa vicenda si inserisce nel quadro di contratti del pubblico impiego fermi da anni. A maggior ragione il governo doveva procedere nella chiarezza, se dalla scuola intendeva estendere a tappeto in tutta la PA una logica premiale del merito, e una cultura e prassi seria della valutazione delle performance individuai. Cominciando nella scuola oggi, ma in tutto il mondo pubblico subito dopo.

Vedremo l’esito finale. La tendenza a non farsi misurare e valutare individualmente è il vero problema della pubblica amministrazione italiana. Il solo accennarvi suscita ondate di protesta dei docenti come degli impiegati pubblici, molti dei quali per altro si sottopongono anche a sforzi innegabili. Per piegare resistenze tanto forti un governo riformatore deve saperlo, che l’ostacolo al farsi valutare si supererà solo quando i primi a essere ancor più inflessibilmente giudicati saranno proprio i dirigenti: chi più ha responsabilità, per primo dovrebbe sapere che se non raggiunge gli obiettivi assegnati può andare anche a casa, senza scaricabarile su chi è sottoposto alle sue direttive. Non è una scuola o una pubblica amministrazione gerarchica, quella che mette il merito al centro di tutto. Sono una scuola e una PA efficienti, quelle che consentono a chi s’impegna di guadagnare anche molto di più, e di diventare dirigente a 35 anni invece che a 60. Temiamo che resterà un sogno.