22
Mag
2015

La banda ultralarga nel modello superfisso

Hanno fatto giustamente rumore, nei giorni scorsi, i commenti cinguettati da Raffaele Tiscar, vice segretario generale di Palazzo Chigi e tra i più influenti consiglieri del premier in materia di banda larga. Chiosando un’immagine che evidenziava la presenza di diversi armadi di strada in una via di Novara, Tiscar ha deprecato la concorrenza infrastrutturale come fonte di moltiplicazione dei costi, forse a beneficio dei produttori di apparati, ma certamente a danno degli utenti.

All’interno di una cabina di regia che si direbbe troppo affollata per produrre un’elaborazione coerente – basti pensare alla battaglia delle bozze che accompagna ogni passo del governo sul tema, questo sì esempio di una proliferazione dannosa – Tiscar è l’alfiere di un dirigismo sincero, faticosamente contenuto dai suoi interlocutori e, soprattutto, dai vincoli comunitari all’intervento pubblico.  Fosse per lui – non crediamo di lavorare troppo di fantasia – le reti le farebbe lo stato, punto; non potendo arrivare a tanto, Tiscar si limita a minacciare la supplenza dell’esecutivo in caso d’inerzia del mercato e a rimarcare che “è il piano industriale del governo che orienta quelli degli operatori, e non viceversa” – posizione che collide con un altro recente cinguettio, questo confezionato dal presidente del Consiglio.

A un livello epidermico, l’intervento di Tiscar può meravigliare: ogni investimento nelle reti di telecomunicazioni dovrebbe essere salutato con entusiasmo da chi ha fatto dello sviluppo delle infrastrutture digitali nel nostro paese la propria missione. A ben vedere, però, si tratta di una reazione spiegabile e, anzi, rivelatrice di un certo approccio all’economia e all’economia delle reti in particolare: quello del modello superfisso, per usare l’accattivante formula di Sandro Brusco.

In questa cornice, sono innanzitutto fissi i bisogni. Nel nostro caso, non si dà nemmeno la fatica d’individuarli, perché la Commissione Europea si è presa la briga di dettagliarli per noi, con gli obiettivi dell’Agenda digitale. Siamo proprio sicuri che ci servano esattamente 100 Mbps per il 50% degli utenti entro il 2020 e non, per dire, 80 Mbps per il 75% degli utenti? Naturalmente, nel modello superfisso non c’è iato tra consumi e bisogni, perché questi vanno soddisfatti comunque, indipendentemente dai relativi costi e benefici – cioè indipendemente dai segnali di prezzo. E anche i metodi di produzione sono fissi: per i 100 Mbps occorre la fibra profonda; poco importa se, grazie all’evoluzione delle tecnologie esistenti, un risultato analogo si può ottenere con architetture alternative, in tempi e a costi ridotti, e ferma restando la possibilità di scalare l’investimento nel momento in cui la domanda lo rendesse necessario – il che non avverrà comunque: non abbiamo detto che i bisogni sono fissi?

Da ciò discendono alcuni corollari: che gli operatori investano a prescindere dal contesto industriale e competitivo, che l’ammontare complessivo dei loro investimenti sia fisso, che la disponibilità di spesa degli utenti non abbia alcun peso nel determinarlo, che ogni euro investito nelle architetture considerate subottimali sia un euro buttato, così come è uno spreco ogni euro investito in aree già servite dalla banda ultralarga. Capirete che, a questo punto, il piano dell’analisi e quello della prescrizione cominciano a confondersi; del resto, i presupposti del modello superfisso richiedono una certa disponibilità a piegare le evenienze della realtà alle esigenze della teoria. E se la realtà non si adegua, peggio per la realtà.

Tuttavia, la nostra esperienza del mondo economico va in un’altra direzione: gli incentivi contano e tocca al sistema dei prezzi veicolarli per permettere agli agenti economici di orientare la propria condotta. Questo è possibile solo se la concorrenza non è limitata per decreto. Sarebbe interessante indagare sulla storia dei cabinet di Novara, ma una semplice verifica su Google Maps ci fornisce qualche elemento in più. Ancora nel 2011, si trovava in quel punto un solo armadio rilegato in rame: in pochi anni sono comparsi nuovi armadi raggiunti dalla fibra e anche quello preesistente è stato adeguato, presumibilmente in risposta all’iniziativa dei concorrenti. Questo sviluppo avrebbe avuto luogo senza concorrenza infrastrutturale?

Lo sconforto del burocrate di fronte alla competizione è comprensibile. Nel mercato dei suoi sogni, gli operatori si limitano a seguirne le indicazioni – infallibili e insostituibili, perché il modello superfisso impone “solo” di ripartire gli investimenti (fissi) per soddisfare i bisogni (fissi). Nei mercati reali, investimenti e bisogni mutano costantemente e la concorrenza permette di approssimarne il punto di caduta. Si tratta di spingere più in là la frontiera del possibile – in termini di tecnologie, di servizi, di prezzi, di investimenti – sotto il pungolo della competizione e il giudizio inappellabile del consumatore.

La concorrenza come strumento di conoscenza e di scoperta in mercati dinamici. Nessuno dubita che tale logica funzioni nel mercato dei servizi – non si vede perché il mercato delle infrastrutture dovrebbe fare eccezione. La scelta al margine non è, in altre parole, tra investimenti organizzati e ben distribuiti e investimenti confusi e ridondanti; bensì tra la presenza e l’assenza di investimenti. Tanto quanto il piano è rassicurante e prevedibile, la concorrenza è sfuggevole e sorprendente. Ma, lungi dall’essere un insiderabile elemento di disturbo, è un lievito essenziale di sviluppo.

21
Mag
2015

Fondi Pensione, opportunità da cogliere e tentazioni da evitare—Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Il Decreto Ministeriale sul Credito di Imposta per gli investimenti in economia reale, effettuati dai Fondi Pensione e dalle Casse Privatizzate, sarà probabilmente poca cosa in termini di reali risparmi ma potrà comunque rappresentare un punto di svolta per il sistema. Non tanto per gli ottanta milioni di euro destinati allo sconto della tassazione sui rendimenti maturati, quanto per il senso di un provvedimento che non ha delimitato il campo delle asset class che ne potranno beneficiare, ampliando invece in maniera significativa l’universo investibile. Ricomprendendovi in sostanza qualsiasi strumento, quotato e non, che sia collegato all’economia reale e sia mantenuto in portafoglio per almeno cinque anni o, nel caso di cessione, ne sia comunque reinvestito il corrispettivo entro trenta giorni in analoga attività. Read More

20
Mag
2015

La narco-economia del calcio, con regolatori conniventi

Quanti anni sono, che i tifosi italiani sanno con assoluta certezza che, a campionati di calcio acquisiti o quasi, scattano pubblicamente le indagini delle procure e delle diverse autorità regolatrici su ipotesi sempre più vaste di calcio-scommesse e illeciti societari? Si è cominciato dagli anni Ottanta. Da oltre un decennio, poi, le indagini scattano precise come orologi svizzeri: per dare il tempo, a campionati fermi nella pausa estiva, di graduare le sanzioni ai club e ai loro dirigenti alla ripresa del campionato successivo. Non è il segno che ovunque, nel calcio come altrove, ci sono mele marce e gente senza scrupoli. E’ la foto di un sistema di cui sappiamo da molti anni la malattia, che non si è voluto curare. Perché di mezzo c’è la politica, e siamo l’unico paese avanzato in cui anche la tv è politica.

Quest’anno è peggio del solito. Non solito ieri la maxi retata con 50 arresti per maxi combines nelle serie minori, falsando i risultati delle partite per farci soldi a palate con le scommesse. Non solo l’ennesimo pezzo del logoro sistema federale del calcio che va in pezzi, con le sciagurate parole del presidente Belloli della Lega Dilettanti contro “le 4 lesbiche” del calcio femminile. C’è pure una maxi indagine che va al cuore del meccanismo finanziario del sistema calcio italico, e che ipotizza un patto occulto tra Lega Calcio, Sky e Mediaset nell’attribuzione dei diritti tv, a fine giugno 2014. E’ un’indagine gravata da un’enorme ipocrisia: perché a dare l’ok alla spartizione a tavolino, che avvenne allora sotto gli occhi di tutti violando il bando e le risultante della gara che era avvenuta, fu insieme all’Agcom anche l’Antitrust che oggi indaga e manda la Finanza a perquisire e sequestrare. Che fosse una brutale intesa anti-concorrenziale, lo denunciarono invano in quegli stessi giorni vasti settori dei media, compreso chi scrive. Mentre ora si procede sulla scorta di una dichiarazione di Lotito, che si è vantato di aver messo allora d’accordo Murdoch e Berlusconi: una cosa che avvenne sotto gli occhi di tutti, e per altro magari con il concorso del presidente di Lega Calcio Beretta, quello che secondo Lotito “conta zero”. Che cosa avvenne, un anno fa?

Che per il triennio 2015-2018 la Lega Calcio decise di incassare 945 milioni a stagione per i diritti tv, con un accordo Sky-Mediaset: la prima pagava e paga 572 milioni per tutte le partite sul satellite, il Biscione 373 per le 8 big sul digitale. Era il risultato della gara che era stata bandita, e che aveva diviso i diritti in 4 lotti? Neanche per idea. La Lega accettò di incassare 130 milioni in meno rispetto alle proposte giunte sul bando di gara. Ma l’esito della gara era tale da alterare l’equilibrio tra Mediaset e Sky. Sky, infatti, si era aggiudicata i diritti delle migliori 8 squadre per il satellite, con l’offerta più alta. Ma non tutte le altre partite in esclusiva su satellite e digitale terrestre: la sua offerta era risultata inferiore a quella di Mediaset. Senonché il lotto arrivò a Sky attraverso Mediaset, dopo che l’Agcom, con l’Antitrust stessa e in accordo con la Lega, diede il via libera alla sub-licenza. Mediaset aveva offerto di più, ma non si capì mai come potesse subordinare la sua offerta anche a uno degli altri lotti maggiori, cosa che il bando non prevedeva. Per questo i due gruppi tv trattarono, e la Lega Calcio ne fu ben felice, non potendosi inimicare il Milan che era anche uno dei due gruppi tv in contesa, nonché un pezzo essenziale della politica italiana.

E la cosa incredibile fu che a quel patto di plateale violazione di ogni regola della concorrenza hanno dato allora la benedizione l’Agcom e l’Antitrust, che oggi indaga evidentemente sulla sua cecità di allora visto che l’infrazuione alle regole avvenne sotto gli occhi di tutti. Il patto consentiva a Sky e Mediaset di continuare a utilizzare le rispettive piattaforme su cui operano tradizionalmente (digitale e satellite), mentre saltava l’assegnazione “incrociata” dei lotti per massimizzare i profitti (ovvio che 130 milioni in meno alla Lega hanno colpito le casse dei club minori).

Il grande padrino dell’accordo fu il consulente della Lega Calcio, la Infront di Marco Bogarelli, il vero mediatore a cavallo tra calcio e tv che sconfessò lui per primo il bando che aveva scritto. E anche se nel frattempo Infront è diventata di proprietà del gruppo cinese Wanda, sempre Bogarelli resta alla sua testa come re invisibile del maggior flusso finanziario che regge il malato calcio italico. Regge per modo di dire: perché quel miliardo scarso l’anno copre solo l’80% del costo del personale dei club di serie A, tanto per dirne una.

Diamo un occhio a valutazione e bilanci dei club. Il Milan nel bilancio 2014 ha registrato ricavi per 224 milioni, il patrimonio netto è negativo per 94 milioni, la perdita è di ben 91 milioni. I debiti totali sono 334 milioni, una volta e mezza il fatturato. La Juventus ha ottenuto ricavi per 300 milioni, ma ha patrimonio netto positivo di 42 milioni, un margine operativo di 69 milioni, perdite di 7 milioni, debiti per 211 milioni. Infatti capitalizza in Borsa praticamente solo quanto i suoi ricavi. La Lazio, tra le tre squadre italiane quotate ha chiuso in utile il 2014 per 7 milioni, ha ricavi per 84 milioni, un margine operativo positivo di 24 milioni, debiti finanziari per soli 20 milioni. Ma vale in Borsa meno dei suoi ricavi. La Roma ha chiuso in perdita per 38 milioni, con debiti a 137 milioni e con solo 128 milioni di ricavi. Ma in Borsa vale un multiplo della Lazio, che invece ha i conti in regola.

Le quotazioni di borsa italiane del calcio sono pura follia, svincolate da asset patrimoniali   e rendimento del capitale. Non andavano autorizzate dalla Consob negli anni ’90, perché altrove in Europa furono consentite solo con stadi propri delle società e attività da merchandising oltre a incassi e diritti tv. Il Manchester United da solo nel 2013 ha registrato profitti per 204 milioni. Fate un paragone coi conti delle grandi società italiane citati prima, e capirete perché in 15 anni la seria A italiana dall’essere insieme alla Premier League britannica la prima del continente per fatturato, è diventata a mala pena la quinta in Europa. Negli ultimi 5 anni, la Premier League britannica ha registrato incassi a vario titolo per 15 miliardi, la serie A per 8. Tre anni di diritti tv britannici valgono quasi 6 miliardi, il doppio dell’accordo dell’intera Lega calcio per tutti i campionati italiani. E mentre la Bundesliga tedesca registrava nei bilanci 2013 profitti per 62 milioni, la serie A aveva perdite per 166 milioni.

E’ per questo, che il calcio italiano è preda di manager senza scrupoli, senza capitali, di scarsa cultura a giudicare dalle loro stesse dichiarazioni, e troppo spesso dediti al malaffare. Sono le cifre a dirlo: e regolatori e istituzioni lo sanno benissimo.

18
Mag
2015

Pensioni: resta l’equità violata tra generazioni

La restituzione dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo INPS, bloccata nel 2011 per gli anni 2012 e 2013 e giudicata illegittima dalla Corte Costituzionale, non sarà integrale per tutte i trattamenti comunque alti. Sarà integrale per quelle a 1500 euro, e via via minore fino a fermarsi ai 3mila euro. Rispondiamo a una prima domanda: è coerente alla sentenza?

la risposta è sì, è coerente. Hanno torto sindacati e opposizioni, a cominciare dalla destra che votò quella misura, ad attaccare il governo asserendo che la sentenza della Corte imponga la restituzione di tutto a tutti. Hanno torto marcio, per ragioni formali e sostanziali, e ora vedremo perché. Ma, in ogni caso, anche la decisione del governo non chiude il capitolo. Perché le storture previdenziali sono tante e tali che, soddisfatta la Corte, bisognerà per forza rimetterci mano.

Perché non bisogna restituire tutto a tutti? In primis, perché è formalmente la stessa sentenza della Corte a consentirlo e indicarlo. Poi, nella sostanza: perché non è giusto. Vediamo l’argomento formale. Nei punti 5, 6 e 7 della sentenza sulle pensioni, la Corte Costituzionale, ripercorrendo gli interventi di blocco perequativo a cui in passato diede assenso, ha richiamato che l’intervento del 2011 andava bocciato perché non tutelava abbastanza le fasce più basse, perché biennale e non annuale, e perché non proporzionava gli effetti di blocco in maniera progressiva. Queste tre condizioni si soddisfano dunque non con la restituzione di tutto a tutti, come continuano a ripetere sindacati e oppositori politici, ma reintegrando maggiormente i trattamenti subito superiori a tre volte il minimo INPS, e poi graduando il recupero fino a una certa soglia, e non prevedendolo invece per quelle superiori.

A questo argomento formale, aggiungiamo la considerazione che scrivemmo all’indomani della sentenza. Non ridare tutto a tutti risponde a equità perché. In un sistema a ripartizione come resta il nostro, non è equo continuare a caricare oneri sui più giovani, i cui contributi pagano le pensioni in essere, non avendo più le giovani generazioni né le pensioni retributive né la facoltà di andare in pensione molto prima, come appunto i pensionati i cui assegni i giovani oggi pagano.

Aggiungiamo anche un altro argomento: non uno di coloro che gridano perché cvogliono la restituzione integrale ha indicato da dove avrebbe preso i miliardi che sarebbero occorsi per l’integrale restituzione  2012-2015 della mancata perequazione. Sono tanti: le cifre fatte nell’audizione parlamentare – non casualmente a porte chiuse – dal viceministro Morando sono per gli anni 2012-2015 complessivamente pari a 23,8 miliardi lordi e 17,6 netti (cioè una volta che lo Stato abbia reincassato l’IRPEF relativa) più 6,4 miliardi lordi e 4,6 netti per ogni anno dal 2106 al 2018 incluso. Non solo la Corte, buona parte della politica italiana ha già dimenticato l’articolo 81 della Costituzione che vincola all’equilibrio di bilancio.

Detto ciò, per il recupero deciso dal governo Renzi usa oltrre 2 miliardi di euro coperti in deficit, visto che il sedicente “tesoretto” era deficit e non coperto da tagli di spesa. resta il problema di capire come si coprirà l’esborso “selettivo” scelto dal governo. La Commissione Europea non era d’accordo, ma ora non fiaterà perché c’è di mezzo una sentenza della Corte Costituzionale.

Ma, al di là di questo, il problema previdenziale italiano resta. Guardiamoci negli occhi. La da tanti odiata riforma Fornero ha alzato l’età pensionistica rafforzando la stabilità del sistema, ma nella fretta di evitare la Trojika non ha affrontato il punto vero dell’equità violata, in materia previdenziale: far pagare a chi ha molto meno pensioni maturate con regole diverse da chi ha molto di più.

Anche nel 2015 l’INPS, informa l’organo di vigilanza dell’istituto, chiuderà per il quarto anno consecutivo con un deficit di almeno 5,6 miliardi, e saranno 30 miliardi cumulati dunque da quando, nel 2012, l’istituto ha accorpato la gestione delle pensioni pubbliche in capo all’INPDAP. Le pensioni pubbliche pesano per 65 miliardi di euro l’anno, cioè sono pari a un quarto del totale dell’esborso annuale previdenziale (in senso stretto, esclusi i trattamenti assistenziali a carico dell’INPS), ma i pensionati pubblici sono solo 2,8 milioni, rispetto a oltre 20 milioni in Italia. La loro pensione media è di circa il 60% superiore a quella degli ex dipendenti privati. L’INPS meritoriamente, dacché ne è presidente Tito Boeri, pubblica le cifre delle gestioni previdenziali delle categorie più “privilegiate” dell’era retributiva, come gli ex dipendenti ferroviari, elettrici, postelegrafonici. Categorie che avevano diritto alle baby pensioni, con multipli di trattamento maturato pari anche a 5 o 6 volte i contributi versati.

A fronte di tutto questo, poiché a pagare quegli assegni sono oggi coloro che quelle pensioni se le sognano e pagano contributi assai più elevati, sarebbe necessario un ricalcolo su base contributiva che incida sul differenziale in maniera progressiva, non annullandolo ma almeno contenendolo nei casi di maggior vantaggio rispetto ai contributi versati e per assegni dai 6 o 7 volte il minimo INPS in più. Sarebbe più che opportuno non solo per abbassare il pur pauroso esborso annuo all’INPS che proviene dalla fiscalità generale pari a 90 miliardi. Quanto per diminuire i contributi versarti oggi da chi sta e starà in futuro molto peggio.

La cosa pazzesca e difficilmente digeribile è che un ricalcolo contributivo preciso per i dipendenti pubblici sia difficoltoso perché lo Stato non ha tenuto il conto dei contributi che versava, per il semplice fatto che li considerava una partita di giro rispetto alle pensioni da erogare, e cioè non li versava. Altra conferma del caos pubblico in cui viviamo, addossandone il costo a chi sta peggio.

Ma ha mille volte ragione Paolo Savona, che ieri ha dichiarato: “il ricalcolo delle pensioni sulla base dei contributi versati è doveroso, perché il cittadino deve sapere quali oneri porta a carico della collettività per regolarsi di conseguenza su quale sia la sua posizione nei confronti della società, sia per calmierarsi nell’uso dei servizi che lo Stato gli rende, sia per pretendere che essi vengano prodotti in modo efficiente, tutti conoscenze che devono orientare l’elettore”. Prima di esaminare anche solo l’ipotesi di concedere salari di cittadinanza, cerchiamo di capire quanti milioni di italiani incassano trattamenti che, a tutti gli effetti, sono già una negative income tax, cioè una franchigia positiva sulle tasse che pagano, con un costo a carico di altri cittadini meno fortunati.

17
Mag
2015

I veri conti del ‘buco’ costituzionale nella spesa per le pensioni

Qual è l’impatto sulla finanza pubblica delle recente sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato la deindicizzazione per il biennio 2012-13 delle pensioni medio-alte ed elevate, introdotta a fine 2011 dal governo Monti? E, in particolare, quale sarebbe il costo complessivo per le casse pubbliche se lo Stato fosse obbligato a una completa restituzione delle somme non erogate dagli istituti previdenziali nel triennio 2012-14 e nell’anno in corso? Poiché le stime pubblicate in questi giorni, nessuna delle quali ufficiale, risultano molto variabili e tutte più elevate del dato inizialmente diffuso, di fonte Avvocatura dello Stato, non sembra esservi soluzione migliore che provare a rifare il calcolo, applicando le regole introdotte dal provvedimento Monti  ai dati disponibili sulle pensioni in essere a fine 2011 e sulla loro distribuzione per classi di importo mensile. Read More

16
Mag
2015

I lavoratori votino a maggioranza, per scioperare nel trasporto pubblico

Ieri, altro venerdì di passione nel trasporto pubblico locale, a Roma e molte altre città italiane. Lo sciopero indetto da un sindacato minore, l’USB, a Roma ha prodotto il fermo di due delle tre linee della metropolitana e una forte riduzione delle corse degli autobus. A Milano lo sciopero non si è tenuto, perché il prefetto ha precettato considerando la concomitanza dell’EXPO. A Torino, per via dell’esposizione della Sindone, è rimbalzato al 24 maggio.

Ma lo stillicidio di scioperi nel trasporto ripropone ormai in maniera non rinviabile una questione che già abbiamo sollevato il 17 aprile scorso, quando l’ira dei passeggeri romani esplose, e dovettero intervenire le forze dell’ordine. Occorre una nuova legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Il ministro Delrio, proprio intervistato dal Messaggero, disse che il governo ci stava pensando. Bene, ora è il momento di passare dalla riflessione ai fatti. Quel che non si può credere, è che i limiti a scioperi proclamati a raffica da sigle sindacali di bassa e bassissima rappresentatività possano essere identificati solo se in una grande città si tiene l’EXPO, l’ostensione della Sindone, o prossimamente a Roma il Giubileo. Liberiamoci da questa ipocrisia. Il diritto dei cittadini, dei lavoratori e dei turisti va meglio salvaguardato sempre, perché oggi e da anni non lo è, rispetto alla tutela che va garantita al diritto di sciopero. Anzi, diciamola tutta: Roma non ha proprio bisogno del Giubileo, per essere salvaguardata meglio ogni giorno. Il peso che porta per le mille manifestazioni annuali che si tengono a Roma perché è la Capitale, l’afflusso costante per la presenza del Vaticano e del papa, tutto ciò basta e avanza perché a Roma – ma vale per tutta Italia – una normativa più equilibrata tuteli meglio la continuità e regolarità del servizio pubblico.

Abbiamo già spiegato ai nostri lettori che in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali abbiamo una legge di fine anni Novanta, emendata successivamente, che insieme agli accordi tra sindacati e imprese di trasporto fissa dei limiti sulle fasce di garanzia da offrire al pubblico, sui tempi minimi di preavviso, e sulle procedure di “raffreddamento” conciliativo delle vertenze. In Italia, per via di quella legge, non sarebbero possibili gli scioperi a oltranza del settore pubblico che avvengono annualmente in Francia, o quello di sette giorni che ha bloccato le ferrovie la settimana scorsa in Germania.

Però quella legge, e gli accordi bilaterali tra sindacati e imprese di trasporto, nulla dicono della rappresentanza minima dei sindacati e-o della necessità di far votare preventivamente i lavoratori, superando nel referendum una certa soglia di consenso, per poter indire uno sciopero. E’ questo il punto più delicato che occorre finalmente affrontare. Sappiamo bene che il governo ha in corso con i sindacati uno scontro diretto su molti temi, a cominciare dalla scuola. Ma non è una buona ragione per non mettere mano a quest’altra questione fondamentale: quali nuove regole porre, perché ogni venerdì di ogni settimana un sindacato minore non firmatario degli accordi con le aziende non s’inventi uno sciopero dei trasporti?

Offriamo qualche spunto di riflessione. L’industria privata, insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo – a un anno di distanza – all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori.

Sono regole che varranno solo in una parte, sia pur molto importante, dell’economia privata italiana. Ma sono da estendere al pubblico. Anche perché le municipalizzate come l’Atac a Roma o l’ATM a Milano hanno contratti “privati”, non pubblici. Per capirci: l’USB non si riconosce né nelle intese firmate da Cgil, Cisl e Uil con l’Atac a Roma, né analogamente in quelle sottoscritte con ATM a Milano. Ma se valessero nel trasporto locale le regole di rappresentanza accettate dal sindacato nell’industria, le intese sarebbero pienamente valide ed esigibili senza che sigle minoritarie non firmatarie potessero disconoscerle.

Cosa ancor più delicata è fissare delle soglie certe di rappresentanza sindacale non per siglare intese e contratti, ma per indire scioperi. Mentre la materia contrattuale vede in campo la tutela dei lavoratori e quella delle aziende, nel caso degli scioperi va tutelato anche l’interesse pubblico, quello dei passeggeri nel trasporto pubblico, e degli utenti in generale nei servizi pubblici essenziali. In questo caso, il governo dovrà riflettere attentamente. Non solo per evitare nuovi scontri con il sindacato.

La giurisprudenza della Corte costituzionale è unanime, nel ritenere il diritto di sciopero come prerogativa del singolo lavoratore, non devoluta alla mera decisione della rappresentanza sindacale. Ci sono stati casi in passato di scioperi promossi dal basso attraverso sms nei confronti dei quali ogni intervento di precetto risultò impossibile, proprio perché la giurisprudenza riconosce che l’esercizio della tutela costituzionale dello sciopero si intesta a ogni singolo lavoratore.

Veda dunque il governo, quale soglia minima di rappresentanza sindacale è necessaria per indire uno sciopero nei trasporti pubblici. Ma dovrà pressoché obbligatoriamente prevedere che siano gli stessi lavoratori, a pronunciarsi preventivamente. Sappiamo di dire una cosa che ai sindacati non piace, ma nel trasporto pubblico occorrerebbe per noi più del 50% dei voti, visti i danni che s’infliggono ai cittadini, e all’economia dell’intero Paese.

Non vogliamo illuderci. Può essere benissimo che il governo scelga soglie più basse. Ma il punto di fondo è un altro. Regole nuove servono. Questo capitolo va aperto. Basta con la guerra tra sigle sindacali – questo sono, gli scioperi delle piccole sigle contro le grandi, per mostrare di aver più seguito – combattute ai danni di Roma e dell’intera comunità nazionale.

 

 

16
Mag
2015

Fare bene il Bene senza bisogno dello Stato

Le casse pubbliche sono vuote o quasi, il debito pubblico continua a posizionarsi su livelli assai elevati, il fallimento della pubblica amministrazione nell’erogazione dei servizi è evidente, mentre il costo del mantenimento della macchina pubblica è oramai insostenibile. A tutto ciò si accompagna un’altrettanto insostenibile compressione degli spazi di libertà di individui e corpi intermedi. Le motivazioni per riaffidare alla cosiddetta “società civile” il compito di finanziare e gestire un’ampia varietà di servizi di welfare sono oggi più forti che mai. Read More

13
Mag
2015

Scuola: boicottare le prove INVALSI è orrore

Sciopero degli scrutini, un altro sciopero generale, boicottaggio delle prove Invalsi. L’incontro di ieri tra governo e sindacati sulla riforma della scuola si è concluso con le confederazioni più in guerra che mai. E si è concluso così perché il copione era già scritto. Non sono i responsabili sindacali della scuola dei diversi sindacati ad aver siglato un patto di ferro, ma i segretari generali delle diverse confederazioni, e infatti erano loro a incontrare il governo. Quel patto ha identificato nella scuola il settore in cui piegare Renzi una volta per tutte. Visto che il governo ha rotto la concertazione preventiva col sindacato su tutta la linea, dal Jobs Act alla riforma della PA, e il sindacato non è riuscito a spuntarla mai, sulla scuola è diverso, pensano i sindacati. Perché la scuola significa un milione di dipendenti, dunque milioni di voti e tradizionalmente orientati più a sinistra che altrove. E dunque, sotto elezioni regionali, o Renzi innesta la marcia indietro su tutta la linea, oppure ne pagherà le conseguenze con la rottura radicale rispetto a una delle constituency elettorali più tradizionalmente rilevanti nel voto a sinistra.

E’ questa la ragione, eminentemente politica, che spiega perché le pur ormai tantissime e rilevanti modifiche, accettate da governo e Pd sul disegno di legge di riforma, per definizione ormai non bastano a soddisfare il sindacato. Non è un caso che la segretaria della Cgil dica in manifestazioni in regioni dove si vota che capisce benissimo chi voterà scheda bianca, o annullerà la scheda. In tutto questo, giocoforza i toni contro la riforma hanno preso a diventare esasperati. Viene dipinta come anticostituzionale, eversiva, non democratica, autoritaria. Sui social, gli attivisti sindacali hanno sparso a piene mani slogan da battaglia di civiltà, e a catena la contrapposizione è diventata incontrollabile.

L’obiettivo è farla ritirare, la riforma. Strappare subito 150 mila precari assunti e non 106mila, e il nuovo contratto. Per il resto, il governo si rimetta in tasca la sua idea di dirigente scolastico con nuovi poteri, l’introduzione di criteri di valutazione dei docenti e dei dirigenti scolastici per primi, gli incentivi fiscali ai privati che vogliano investire nella scuola pubblica, che è insieme quella di Stato e quella paritaria. Sabato, in una trasmissione che abbiamo dedicato alla riforma, ho avuto ospite una rappresentante dei “genitori democratici” che negava la fondatezza dei test internazionali PISA, che vedono gli studenti italiani in fondo alle graduatorie internazionali per comprensione ed elaborazione di testi e soluzione di problemi matematici. “Test infondati”, ha detto, “le scuole italiane sono eccellenti e lo sanno tutti”. E un preside contrario alla riforma, per il quale “l’idea che si debba offrire alle famiglie una griglia di risultati comparati dei risultati di ogni istituto è sbagliata e falsa, le famiglie affidano i loro figli allo Stato e per questo l’istruzione offerta deve essere a tutti rigorosamente e costituzionalmente uguale”.

Argomenti simili a me fannon cadere le braccia. E hanno avuto l’immediata traduzione nel boicottaggio in questi giorni dei test Invalsi nelle scuole, con gli studenti che si sono sentiti eroi democratici solidali nella grande battaglia di resistenza all’inaccettabile criterio del merito diseguale, e per questo hanno dato risposte beffarde ai quiz, tra la soddisfazione degli insegnanti. Un pessimo esempio di autoribaltamento della scuola.

Ci si sente sempre più estranei in patria, di fronte a tutto questo. Una scuola in cui così tanti docenti rifiutano l’idea di essere giudicati per merito e risultati, e trasmettono questa stessa idea di fondo ai loro studenti, è il tradimento della prima missione stessa per cui esiste l’istruzione pubblica. Il governo ha accettato che non il dirigente scolastico, ma il collegio dei docenti e il Consiglio d’istituto approvino il piano di offerta formativa, e che nella definizione concreta dei criteri che vengono comunque indicati in legge per valutare gli stessi docenti, anche se restano gli scatti di anzianità e i premi al merito sono solo aggiuntivi, il dirigente scolastico non farà da solo ma sarà coadiuvato da docenti, famiglie e persino studenti. Ma è l’idea in sé di farsi giudicare, che non piace ai sindacati e ai custodi del culto egualitario. Dimenticando che la libertà, come diceva von Humboldt, è innanzitutto libertà di essere e divenire diseguali. E per questo l’istruzione pubblica deve offrire pari opportunità, che sussistono se misurate nel confronto nazionale e internazionale rispetto alla miglior risposta di ciò che la cittadinanza e il mondo del lavoro e dell’impresa chiedono alle future generazioni, basandosi sui migliori risultati e sul premio al merito.

I sindacati hanno voluto ad esempio che l’aspirante insegnante che superi la prima selezione non debba più frequentare un percorso aggiuntivo con prove finali, ma venga al contrario retribuito fin da subito, mentre progressivamente si specializza e assume responsabilità di gestione della classe, fino al definitivo ingresso in ruolo. E’ una garanzia di miglior preparazione, o serve a limitare il merito? Hanno ottenuto che nel prossimo concorso nazionale bandito nell’ottobre 2015 valgano naturalmente i titoli di anzianità di quanto si è stati supplenti in precedenza. Hanno voluto e ottenuto di rilimitare l’alternanza scuola-lavoro all’ultimo biennio della secondaria superiore, hai visto mai che le aziende mettano piede a scuola prima.

Potremmo continuare, ma fermiamoci. Una riforma della scuola risolta in campo di battaglia tra sinistra politica e sinistra sindacale rischia di nascere arcizoppa e di risolversi solo in un enorme assunzionificio. Con un pessimo segnale dato alla generazione di ragazzi che oggi beffardamente sabotano i test Invalsi. Inutile dire che tantissimi comunque troveranno “fuori” da questo recinto, la miglior risposta alla propria formazione di eccellenza. E che se la cercheranno scegliendo per passaparola i migliori istituti e le migliori università, visto che tutti sappiamo che non è affatto vero che il mondo del lavoro dia lo stesso valore a un pezzo di carta conseguito dovunque, piuttosto che in alcuni istituti e Atenei. Nel Regno Unito, ogni singola famiglia può consultare un sito del ministero dell’Istruzione in cui ogni singolo istituto della scuola primaria e secondaria è inquadrato attraverso i risultati ottenuti e gli esiti delle ispezioni a cui i suoi docenti sono stati sottoposti. E’ un miraggio, credere che anche in Italia sia possibile un giorno avere qualcosa di analogo in Italia? Noi continuiamo a pensare di no.

12
Mag
2015

Enel e banda larga: la clava Pd contro Telecom e Bolloré-Mediaset

Nel mondo delle telecomunicazioni italiane, ieri è stata lanciato un missile a più stadi. La disponibilità dell’ENEL a farsi carico della realizzazione di un pezzo della banda larga di trasmissione che manca in Italia è diventata per poche ore una scelta addittura di sistema, con il governo che secondo Repubblica avrebbe affidato all’ex monopolista elettrico il ruolo dominante per portare la fibra alle case degli italiani. Un’ipotesi impraticabile, alla quale l’Europa direbbe scontatamente no, se non lo facessero per prime l’Agcom e l’Antitrust italiani. E che infatti il governo ha dovuto nelle ore successive circoscrivere e smentire, riconoscendo che non sta certo all’esecutivo decidere il piano industriale di come si realizza la banda larga.

Ma il missile è appunto a più stadi. Parla della voglia di Stato-padrone che – al di là delle chiacchiere blairiste – è fortissima nella mente di esponenti Pd che si occupano di tlc, di consulenti di partito come Tiscar e ovviamente di Bassanini. Rivela l’insoddisfazione profonda del governo per come innanzitutto Telecom Italia, una public company privata, non si sia piegata all’offensiva di Stato lanciatagli dalla Cassa Depositi e Prestiti. E, infine, mostra anche un’ansia crescente, nel Pd e nel governo, rispetto a che cosa diventerà da fine giugno in avanti proprio la “nuova” Telecom Italia. Quella in cui sarà la Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré a diventare l’azionista di riferimento al posto degli spagnoli di Telefonica, mentre tutti sanno che Bolloré e il suo fidato Tarek Ben Ammar hanno in corso contatti con Mediaset, per un’alleanza che potrebbe comportare anche scambi di quote. E chissà, carta per carta anche l’acquisizione da parte della stessa Mediaset di una quota in Telecom Italia. Vediamo di analizzare in breve i fatti salienti del mosaico.

L’ipotesi Enel. Quando a inizio marzo il governo Renzi ha meritoriamente lanciato la sua strategia per accelerare la realizzazione della banda larga in Italia per farci risalire dalla disastrosa condizione in cui versiamo nelle graduatorie internazionali, con 12 miliardi di risorse di cui 6,5 da fondi comunitari, la scelta di fondo era tra due alternative. La prima: costruire pazientemente costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi, incentivando fiscalmente – al di là dei fondi pubblici destinati alle aree a fallimento di mercato – la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati. Le scadenze erano strettissime, poiché Infratel (società del Ministero dello sviluppo economico) avviava subito una consultazione per aggiornare la mappa delle disponibilità di servizi «a banda larga e ultralarga» sul territorio nazionale. Entro il 20 giugno gli operatori di tlc avrebbero dovuto dichiarare i piani di copertura attuali e quelli previsti per il triennio 2016-2018 nelle 94.645 aree in cui è stato suddiviso il Paese: gli impegni saranno successivamente tradotti in contatti con scadenze concordate da rispettare nel corso del triennio. In questo modo sarà possibile determinare quali sono le aree a fallimento di mercato dove sono ammessi gli interventi pubblici. Nel mentre, il governo avrebbe avviato con Bruxelles la verifica delle agevolazioni per non incorrere nella censura come aiuti di Stato, verificato se si potevano aggiungere altri fondi della BEI e CDP, nonché fatto il conto preciso delle disponibilità finanziarie italiane, visto che le agevolazioni vanno coperte in bilancio.

L’aspettativa vera nutrita da governo e CDP era però un’altra: non convergenza spontanea tra privati, ma che Telecom Italia accettasse di realizzare la sua quota d’investimento tramite la pubblica Metroweb, che satrebbe rimasta però controllata dallo Stato tramite Cdp e F2I. E che di fatto abbandonasse la strategia -. obbligata – che la spinge a continuare a usare la rete in rame rispetto alla fibra, perfezionandone la capacità di trasmissione secondo il modello FTTC.

Ma Telecom Italia più che comprensibilmente ha detto no, visto che al rame resta appeso il più del suo EBITDA cioè dei suoi margini di utile. E l’azienda pensa più che giustamente di presentare esposti in sede comunitaria, per tutelarsi rispetto a reiterate e concrete ipotesi che la mano pubblica italiana intervenga in violazione della concorrenza. Al governo questa “resistenza” di Telecom non è piaciuta, a CDP e Bassanini – ricordate le sue sprezzanti dichiarazioni di un mese fa, su Telecom Italia che avrebbe portato la banda larga sì e no a qualche quartiere italiano – tanto meno. Ecco perché il governo ha calorosamente invitato l’ENEL a esprimere ufficialmente la propria disponibilità a usare la rete elettrica per passare la fibra, fino alle case visto che l’ex monopolista elettrico ha in corso una massiccia campagna di sostituzione dei vecchi contatori con “macchine intelligenti”. Una notizia che due settimane fa fu lanciata dal Messaggero. E che ieri Repubblica ha trasformato, pigiando il pedale sull’acceleratore, nell’impossibile affidamento a Enel del ruolo prevalente di tutta l’operazione banda larga. Impossibile perché lo stesso Renzi, resosi conto della portata insostenobile dell’annuncio, ha dovuto subito precisare che non spetta al governo fare piani industriali, il presidente dell’Agcom Cardani ha osservato che se l’ENEL si fa avanti va bene ma a patto che si rispetti la concorrenza, e lo stesso presidente dell’ENEL Grieco ha dovuto chiarire che la disponibilità dell’azienda non può mutare in nulla la sua missione, occuparsi di energia elettrica. Ricordiamoci che l’ENEL ha in corso una massiccia campagna di dismissioni da 5 miliardi di euro per rientrare di un debito che in questo 2015 ammonterà a 39 miliardi. Non sarebbe una passeggiata, addossarsi altri investimenti in un’area di business estranea alle sue priorità. Infatti, ieri in Borsa il titolo ha perso.

Il retroscena. E’ ovvio che il governo e la CDP preferirebbe che il più degli investimenti avvenisse in fretta e tramite una forte mano pubblica: si venderebbe meglio la cosa al paese, sottolineando il ritardo dei privati, e keynesianamente gli effetti sarebbero più concentrati nel tempo ai fini del sostegno a breve del PIL. Ma c’è un punto del piano lanciato ieri da Repubblica che svela il retroscena politico della forzatura avvenuta su Enel. Nel piano, si parla anche di un’ipotesi di rastrellamento pubblico delle torri di trasmissione delle società televisive, quelle Rai e Mediaset, e delle telefoniche di Wind e anche di Telecom Italia. E’ la risposta pubblica alla fallita manovra di Mediaset sulle torri della Rai. Ma non ha molto senso in sé, visto che se sui considerassero le torri strategiche- e non complementario, come sono –  per la banda larga, allora ne occorrerebbero molte di più. E tuttavia, il particolare “televisivo” non è la solita difesa della RAI da parte della politica. Dice invece molto dell’ansia con cui Pd e governo guardano a uno sviluppo in corso, che potrebbe modificare sostanzialmente a breve l’intreccio tra tlc e tv nel nostro paese. E che spiega l’irrituale riunione a porte chiuse avvenuta la settimana scorsa alla sede del Pd, con un partito politico che ha convocato le Autorità di settore, il governo e le aziende perché ciascuna dichiarasse riservatamente su due piedi che cosa era disposta a fare. La ragione di tanta disinvoltura istituzionale? Perché a fine giugno la Vivendi di Bolloré diventa l’azionista di riferimento della public company Telecom Italia, al posto degli spagnoli di Telefonica e della Telco bancaria italiana ormai scioltasi. E Bolloré ha in corso contatti seri con Berlusconi non solo per rilevare una quota della sua pay tv, ma per un accordo che rafforzi strategicamente in Italia la sinergia tra produttori di contenuti tv e tlc. In altre parole, è l’ipotesi di uno scambio di titoli tra Mediaset e Vivendi che Bolloré potrebbe anche realizzare attraverso una quota azionaria di Telecom Italia girata a Mediaset, ciò che non fa dormire la politica italiana. A quel punto, la Rai sarebbe nell’angolo. E Telecom Italia non sarebbe solo l’ex incumbent pubblico della telefonia che rifiuta di piegarsi alla guida pubblica dei suoi investimenti, e del suo stesso modello industriale basato sulla rete in rame. Diventerebbe la reincarnazione moltiplicata per dieci della presenza di Berlusconi, o quanto meno di suoi forti alleati, in una delle partite decisive dell’economia italiana. Il vero avvertimento insito nell’ipotesi Enel forzata ieri è in questa direzione. E’ un avvertimento rozzo, nello stile ormai degli interventi governativi nelle aprtite economiche. Rozzo anche perché sottovaluta che Bolloré non è proprioop il tipo, di assumere presenze forti in Italia per inimicarsi tutti. Solo che, facendo perdere valore al titolo Telecom in borsa, paradossalmente chi nel Pd o al governo pensa di ostacolare eventuali intenti dei due mister B – Bolloré e Berlusconi – sta facendo loro un piacere. Perché con gli stessi soldi potrebbero rilevare una quota maggiore di una Telecom Italia svalutata…