17
Mag
2015

I veri conti del ‘buco’ costituzionale nella spesa per le pensioni

Qual è l’impatto sulla finanza pubblica delle recente sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato la deindicizzazione per il biennio 2012-13 delle pensioni medio-alte ed elevate, introdotta a fine 2011 dal governo Monti? E, in particolare, quale sarebbe il costo complessivo per le casse pubbliche se lo Stato fosse obbligato a una completa restituzione delle somme non erogate dagli istituti previdenziali nel triennio 2012-14 e nell’anno in corso? Poiché le stime pubblicate in questi giorni, nessuna delle quali ufficiale, risultano molto variabili e tutte più elevate del dato inizialmente diffuso, di fonte Avvocatura dello Stato, non sembra esservi soluzione migliore che provare a rifare il calcolo, applicando le regole introdotte dal provvedimento Monti  ai dati disponibili sulle pensioni in essere a fine 2011 e sulla loro distribuzione per classi di importo mensile. Read More

16
Mag
2015

I lavoratori votino a maggioranza, per scioperare nel trasporto pubblico

Ieri, altro venerdì di passione nel trasporto pubblico locale, a Roma e molte altre città italiane. Lo sciopero indetto da un sindacato minore, l’USB, a Roma ha prodotto il fermo di due delle tre linee della metropolitana e una forte riduzione delle corse degli autobus. A Milano lo sciopero non si è tenuto, perché il prefetto ha precettato considerando la concomitanza dell’EXPO. A Torino, per via dell’esposizione della Sindone, è rimbalzato al 24 maggio.

Ma lo stillicidio di scioperi nel trasporto ripropone ormai in maniera non rinviabile una questione che già abbiamo sollevato il 17 aprile scorso, quando l’ira dei passeggeri romani esplose, e dovettero intervenire le forze dell’ordine. Occorre una nuova legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Il ministro Delrio, proprio intervistato dal Messaggero, disse che il governo ci stava pensando. Bene, ora è il momento di passare dalla riflessione ai fatti. Quel che non si può credere, è che i limiti a scioperi proclamati a raffica da sigle sindacali di bassa e bassissima rappresentatività possano essere identificati solo se in una grande città si tiene l’EXPO, l’ostensione della Sindone, o prossimamente a Roma il Giubileo. Liberiamoci da questa ipocrisia. Il diritto dei cittadini, dei lavoratori e dei turisti va meglio salvaguardato sempre, perché oggi e da anni non lo è, rispetto alla tutela che va garantita al diritto di sciopero. Anzi, diciamola tutta: Roma non ha proprio bisogno del Giubileo, per essere salvaguardata meglio ogni giorno. Il peso che porta per le mille manifestazioni annuali che si tengono a Roma perché è la Capitale, l’afflusso costante per la presenza del Vaticano e del papa, tutto ciò basta e avanza perché a Roma – ma vale per tutta Italia – una normativa più equilibrata tuteli meglio la continuità e regolarità del servizio pubblico.

Abbiamo già spiegato ai nostri lettori che in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali abbiamo una legge di fine anni Novanta, emendata successivamente, che insieme agli accordi tra sindacati e imprese di trasporto fissa dei limiti sulle fasce di garanzia da offrire al pubblico, sui tempi minimi di preavviso, e sulle procedure di “raffreddamento” conciliativo delle vertenze. In Italia, per via di quella legge, non sarebbero possibili gli scioperi a oltranza del settore pubblico che avvengono annualmente in Francia, o quello di sette giorni che ha bloccato le ferrovie la settimana scorsa in Germania.

Però quella legge, e gli accordi bilaterali tra sindacati e imprese di trasporto, nulla dicono della rappresentanza minima dei sindacati e-o della necessità di far votare preventivamente i lavoratori, superando nel referendum una certa soglia di consenso, per poter indire uno sciopero. E’ questo il punto più delicato che occorre finalmente affrontare. Sappiamo bene che il governo ha in corso con i sindacati uno scontro diretto su molti temi, a cominciare dalla scuola. Ma non è una buona ragione per non mettere mano a quest’altra questione fondamentale: quali nuove regole porre, perché ogni venerdì di ogni settimana un sindacato minore non firmatario degli accordi con le aziende non s’inventi uno sciopero dei trasporti?

Offriamo qualche spunto di riflessione. L’industria privata, insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo – a un anno di distanza – all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori.

Sono regole che varranno solo in una parte, sia pur molto importante, dell’economia privata italiana. Ma sono da estendere al pubblico. Anche perché le municipalizzate come l’Atac a Roma o l’ATM a Milano hanno contratti “privati”, non pubblici. Per capirci: l’USB non si riconosce né nelle intese firmate da Cgil, Cisl e Uil con l’Atac a Roma, né analogamente in quelle sottoscritte con ATM a Milano. Ma se valessero nel trasporto locale le regole di rappresentanza accettate dal sindacato nell’industria, le intese sarebbero pienamente valide ed esigibili senza che sigle minoritarie non firmatarie potessero disconoscerle.

Cosa ancor più delicata è fissare delle soglie certe di rappresentanza sindacale non per siglare intese e contratti, ma per indire scioperi. Mentre la materia contrattuale vede in campo la tutela dei lavoratori e quella delle aziende, nel caso degli scioperi va tutelato anche l’interesse pubblico, quello dei passeggeri nel trasporto pubblico, e degli utenti in generale nei servizi pubblici essenziali. In questo caso, il governo dovrà riflettere attentamente. Non solo per evitare nuovi scontri con il sindacato.

La giurisprudenza della Corte costituzionale è unanime, nel ritenere il diritto di sciopero come prerogativa del singolo lavoratore, non devoluta alla mera decisione della rappresentanza sindacale. Ci sono stati casi in passato di scioperi promossi dal basso attraverso sms nei confronti dei quali ogni intervento di precetto risultò impossibile, proprio perché la giurisprudenza riconosce che l’esercizio della tutela costituzionale dello sciopero si intesta a ogni singolo lavoratore.

Veda dunque il governo, quale soglia minima di rappresentanza sindacale è necessaria per indire uno sciopero nei trasporti pubblici. Ma dovrà pressoché obbligatoriamente prevedere che siano gli stessi lavoratori, a pronunciarsi preventivamente. Sappiamo di dire una cosa che ai sindacati non piace, ma nel trasporto pubblico occorrerebbe per noi più del 50% dei voti, visti i danni che s’infliggono ai cittadini, e all’economia dell’intero Paese.

Non vogliamo illuderci. Può essere benissimo che il governo scelga soglie più basse. Ma il punto di fondo è un altro. Regole nuove servono. Questo capitolo va aperto. Basta con la guerra tra sigle sindacali – questo sono, gli scioperi delle piccole sigle contro le grandi, per mostrare di aver più seguito – combattute ai danni di Roma e dell’intera comunità nazionale.

 

 

16
Mag
2015

Fare bene il Bene senza bisogno dello Stato

Le casse pubbliche sono vuote o quasi, il debito pubblico continua a posizionarsi su livelli assai elevati, il fallimento della pubblica amministrazione nell’erogazione dei servizi è evidente, mentre il costo del mantenimento della macchina pubblica è oramai insostenibile. A tutto ciò si accompagna un’altrettanto insostenibile compressione degli spazi di libertà di individui e corpi intermedi. Le motivazioni per riaffidare alla cosiddetta “società civile” il compito di finanziare e gestire un’ampia varietà di servizi di welfare sono oggi più forti che mai. Read More

13
Mag
2015

Scuola: boicottare le prove INVALSI è orrore

Sciopero degli scrutini, un altro sciopero generale, boicottaggio delle prove Invalsi. L’incontro di ieri tra governo e sindacati sulla riforma della scuola si è concluso con le confederazioni più in guerra che mai. E si è concluso così perché il copione era già scritto. Non sono i responsabili sindacali della scuola dei diversi sindacati ad aver siglato un patto di ferro, ma i segretari generali delle diverse confederazioni, e infatti erano loro a incontrare il governo. Quel patto ha identificato nella scuola il settore in cui piegare Renzi una volta per tutte. Visto che il governo ha rotto la concertazione preventiva col sindacato su tutta la linea, dal Jobs Act alla riforma della PA, e il sindacato non è riuscito a spuntarla mai, sulla scuola è diverso, pensano i sindacati. Perché la scuola significa un milione di dipendenti, dunque milioni di voti e tradizionalmente orientati più a sinistra che altrove. E dunque, sotto elezioni regionali, o Renzi innesta la marcia indietro su tutta la linea, oppure ne pagherà le conseguenze con la rottura radicale rispetto a una delle constituency elettorali più tradizionalmente rilevanti nel voto a sinistra.

E’ questa la ragione, eminentemente politica, che spiega perché le pur ormai tantissime e rilevanti modifiche, accettate da governo e Pd sul disegno di legge di riforma, per definizione ormai non bastano a soddisfare il sindacato. Non è un caso che la segretaria della Cgil dica in manifestazioni in regioni dove si vota che capisce benissimo chi voterà scheda bianca, o annullerà la scheda. In tutto questo, giocoforza i toni contro la riforma hanno preso a diventare esasperati. Viene dipinta come anticostituzionale, eversiva, non democratica, autoritaria. Sui social, gli attivisti sindacali hanno sparso a piene mani slogan da battaglia di civiltà, e a catena la contrapposizione è diventata incontrollabile.

L’obiettivo è farla ritirare, la riforma. Strappare subito 150 mila precari assunti e non 106mila, e il nuovo contratto. Per il resto, il governo si rimetta in tasca la sua idea di dirigente scolastico con nuovi poteri, l’introduzione di criteri di valutazione dei docenti e dei dirigenti scolastici per primi, gli incentivi fiscali ai privati che vogliano investire nella scuola pubblica, che è insieme quella di Stato e quella paritaria. Sabato, in una trasmissione che abbiamo dedicato alla riforma, ho avuto ospite una rappresentante dei “genitori democratici” che negava la fondatezza dei test internazionali PISA, che vedono gli studenti italiani in fondo alle graduatorie internazionali per comprensione ed elaborazione di testi e soluzione di problemi matematici. “Test infondati”, ha detto, “le scuole italiane sono eccellenti e lo sanno tutti”. E un preside contrario alla riforma, per il quale “l’idea che si debba offrire alle famiglie una griglia di risultati comparati dei risultati di ogni istituto è sbagliata e falsa, le famiglie affidano i loro figli allo Stato e per questo l’istruzione offerta deve essere a tutti rigorosamente e costituzionalmente uguale”.

Argomenti simili a me fannon cadere le braccia. E hanno avuto l’immediata traduzione nel boicottaggio in questi giorni dei test Invalsi nelle scuole, con gli studenti che si sono sentiti eroi democratici solidali nella grande battaglia di resistenza all’inaccettabile criterio del merito diseguale, e per questo hanno dato risposte beffarde ai quiz, tra la soddisfazione degli insegnanti. Un pessimo esempio di autoribaltamento della scuola.

Ci si sente sempre più estranei in patria, di fronte a tutto questo. Una scuola in cui così tanti docenti rifiutano l’idea di essere giudicati per merito e risultati, e trasmettono questa stessa idea di fondo ai loro studenti, è il tradimento della prima missione stessa per cui esiste l’istruzione pubblica. Il governo ha accettato che non il dirigente scolastico, ma il collegio dei docenti e il Consiglio d’istituto approvino il piano di offerta formativa, e che nella definizione concreta dei criteri che vengono comunque indicati in legge per valutare gli stessi docenti, anche se restano gli scatti di anzianità e i premi al merito sono solo aggiuntivi, il dirigente scolastico non farà da solo ma sarà coadiuvato da docenti, famiglie e persino studenti. Ma è l’idea in sé di farsi giudicare, che non piace ai sindacati e ai custodi del culto egualitario. Dimenticando che la libertà, come diceva von Humboldt, è innanzitutto libertà di essere e divenire diseguali. E per questo l’istruzione pubblica deve offrire pari opportunità, che sussistono se misurate nel confronto nazionale e internazionale rispetto alla miglior risposta di ciò che la cittadinanza e il mondo del lavoro e dell’impresa chiedono alle future generazioni, basandosi sui migliori risultati e sul premio al merito.

I sindacati hanno voluto ad esempio che l’aspirante insegnante che superi la prima selezione non debba più frequentare un percorso aggiuntivo con prove finali, ma venga al contrario retribuito fin da subito, mentre progressivamente si specializza e assume responsabilità di gestione della classe, fino al definitivo ingresso in ruolo. E’ una garanzia di miglior preparazione, o serve a limitare il merito? Hanno ottenuto che nel prossimo concorso nazionale bandito nell’ottobre 2015 valgano naturalmente i titoli di anzianità di quanto si è stati supplenti in precedenza. Hanno voluto e ottenuto di rilimitare l’alternanza scuola-lavoro all’ultimo biennio della secondaria superiore, hai visto mai che le aziende mettano piede a scuola prima.

Potremmo continuare, ma fermiamoci. Una riforma della scuola risolta in campo di battaglia tra sinistra politica e sinistra sindacale rischia di nascere arcizoppa e di risolversi solo in un enorme assunzionificio. Con un pessimo segnale dato alla generazione di ragazzi che oggi beffardamente sabotano i test Invalsi. Inutile dire che tantissimi comunque troveranno “fuori” da questo recinto, la miglior risposta alla propria formazione di eccellenza. E che se la cercheranno scegliendo per passaparola i migliori istituti e le migliori università, visto che tutti sappiamo che non è affatto vero che il mondo del lavoro dia lo stesso valore a un pezzo di carta conseguito dovunque, piuttosto che in alcuni istituti e Atenei. Nel Regno Unito, ogni singola famiglia può consultare un sito del ministero dell’Istruzione in cui ogni singolo istituto della scuola primaria e secondaria è inquadrato attraverso i risultati ottenuti e gli esiti delle ispezioni a cui i suoi docenti sono stati sottoposti. E’ un miraggio, credere che anche in Italia sia possibile un giorno avere qualcosa di analogo in Italia? Noi continuiamo a pensare di no.

12
Mag
2015

Enel e banda larga: la clava Pd contro Telecom e Bolloré-Mediaset

Nel mondo delle telecomunicazioni italiane, ieri è stata lanciato un missile a più stadi. La disponibilità dell’ENEL a farsi carico della realizzazione di un pezzo della banda larga di trasmissione che manca in Italia è diventata per poche ore una scelta addittura di sistema, con il governo che secondo Repubblica avrebbe affidato all’ex monopolista elettrico il ruolo dominante per portare la fibra alle case degli italiani. Un’ipotesi impraticabile, alla quale l’Europa direbbe scontatamente no, se non lo facessero per prime l’Agcom e l’Antitrust italiani. E che infatti il governo ha dovuto nelle ore successive circoscrivere e smentire, riconoscendo che non sta certo all’esecutivo decidere il piano industriale di come si realizza la banda larga.

Ma il missile è appunto a più stadi. Parla della voglia di Stato-padrone che – al di là delle chiacchiere blairiste – è fortissima nella mente di esponenti Pd che si occupano di tlc, di consulenti di partito come Tiscar e ovviamente di Bassanini. Rivela l’insoddisfazione profonda del governo per come innanzitutto Telecom Italia, una public company privata, non si sia piegata all’offensiva di Stato lanciatagli dalla Cassa Depositi e Prestiti. E, infine, mostra anche un’ansia crescente, nel Pd e nel governo, rispetto a che cosa diventerà da fine giugno in avanti proprio la “nuova” Telecom Italia. Quella in cui sarà la Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré a diventare l’azionista di riferimento al posto degli spagnoli di Telefonica, mentre tutti sanno che Bolloré e il suo fidato Tarek Ben Ammar hanno in corso contatti con Mediaset, per un’alleanza che potrebbe comportare anche scambi di quote. E chissà, carta per carta anche l’acquisizione da parte della stessa Mediaset di una quota in Telecom Italia. Vediamo di analizzare in breve i fatti salienti del mosaico.

L’ipotesi Enel. Quando a inizio marzo il governo Renzi ha meritoriamente lanciato la sua strategia per accelerare la realizzazione della banda larga in Italia per farci risalire dalla disastrosa condizione in cui versiamo nelle graduatorie internazionali, con 12 miliardi di risorse di cui 6,5 da fondi comunitari, la scelta di fondo era tra due alternative. La prima: costruire pazientemente costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi, incentivando fiscalmente – al di là dei fondi pubblici destinati alle aree a fallimento di mercato – la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati. Le scadenze erano strettissime, poiché Infratel (società del Ministero dello sviluppo economico) avviava subito una consultazione per aggiornare la mappa delle disponibilità di servizi «a banda larga e ultralarga» sul territorio nazionale. Entro il 20 giugno gli operatori di tlc avrebbero dovuto dichiarare i piani di copertura attuali e quelli previsti per il triennio 2016-2018 nelle 94.645 aree in cui è stato suddiviso il Paese: gli impegni saranno successivamente tradotti in contatti con scadenze concordate da rispettare nel corso del triennio. In questo modo sarà possibile determinare quali sono le aree a fallimento di mercato dove sono ammessi gli interventi pubblici. Nel mentre, il governo avrebbe avviato con Bruxelles la verifica delle agevolazioni per non incorrere nella censura come aiuti di Stato, verificato se si potevano aggiungere altri fondi della BEI e CDP, nonché fatto il conto preciso delle disponibilità finanziarie italiane, visto che le agevolazioni vanno coperte in bilancio.

L’aspettativa vera nutrita da governo e CDP era però un’altra: non convergenza spontanea tra privati, ma che Telecom Italia accettasse di realizzare la sua quota d’investimento tramite la pubblica Metroweb, che satrebbe rimasta però controllata dallo Stato tramite Cdp e F2I. E che di fatto abbandonasse la strategia -. obbligata – che la spinge a continuare a usare la rete in rame rispetto alla fibra, perfezionandone la capacità di trasmissione secondo il modello FTTC.

Ma Telecom Italia più che comprensibilmente ha detto no, visto che al rame resta appeso il più del suo EBITDA cioè dei suoi margini di utile. E l’azienda pensa più che giustamente di presentare esposti in sede comunitaria, per tutelarsi rispetto a reiterate e concrete ipotesi che la mano pubblica italiana intervenga in violazione della concorrenza. Al governo questa “resistenza” di Telecom non è piaciuta, a CDP e Bassanini – ricordate le sue sprezzanti dichiarazioni di un mese fa, su Telecom Italia che avrebbe portato la banda larga sì e no a qualche quartiere italiano – tanto meno. Ecco perché il governo ha calorosamente invitato l’ENEL a esprimere ufficialmente la propria disponibilità a usare la rete elettrica per passare la fibra, fino alle case visto che l’ex monopolista elettrico ha in corso una massiccia campagna di sostituzione dei vecchi contatori con “macchine intelligenti”. Una notizia che due settimane fa fu lanciata dal Messaggero. E che ieri Repubblica ha trasformato, pigiando il pedale sull’acceleratore, nell’impossibile affidamento a Enel del ruolo prevalente di tutta l’operazione banda larga. Impossibile perché lo stesso Renzi, resosi conto della portata insostenobile dell’annuncio, ha dovuto subito precisare che non spetta al governo fare piani industriali, il presidente dell’Agcom Cardani ha osservato che se l’ENEL si fa avanti va bene ma a patto che si rispetti la concorrenza, e lo stesso presidente dell’ENEL Grieco ha dovuto chiarire che la disponibilità dell’azienda non può mutare in nulla la sua missione, occuparsi di energia elettrica. Ricordiamoci che l’ENEL ha in corso una massiccia campagna di dismissioni da 5 miliardi di euro per rientrare di un debito che in questo 2015 ammonterà a 39 miliardi. Non sarebbe una passeggiata, addossarsi altri investimenti in un’area di business estranea alle sue priorità. Infatti, ieri in Borsa il titolo ha perso.

Il retroscena. E’ ovvio che il governo e la CDP preferirebbe che il più degli investimenti avvenisse in fretta e tramite una forte mano pubblica: si venderebbe meglio la cosa al paese, sottolineando il ritardo dei privati, e keynesianamente gli effetti sarebbero più concentrati nel tempo ai fini del sostegno a breve del PIL. Ma c’è un punto del piano lanciato ieri da Repubblica che svela il retroscena politico della forzatura avvenuta su Enel. Nel piano, si parla anche di un’ipotesi di rastrellamento pubblico delle torri di trasmissione delle società televisive, quelle Rai e Mediaset, e delle telefoniche di Wind e anche di Telecom Italia. E’ la risposta pubblica alla fallita manovra di Mediaset sulle torri della Rai. Ma non ha molto senso in sé, visto che se sui considerassero le torri strategiche- e non complementario, come sono –  per la banda larga, allora ne occorrerebbero molte di più. E tuttavia, il particolare “televisivo” non è la solita difesa della RAI da parte della politica. Dice invece molto dell’ansia con cui Pd e governo guardano a uno sviluppo in corso, che potrebbe modificare sostanzialmente a breve l’intreccio tra tlc e tv nel nostro paese. E che spiega l’irrituale riunione a porte chiuse avvenuta la settimana scorsa alla sede del Pd, con un partito politico che ha convocato le Autorità di settore, il governo e le aziende perché ciascuna dichiarasse riservatamente su due piedi che cosa era disposta a fare. La ragione di tanta disinvoltura istituzionale? Perché a fine giugno la Vivendi di Bolloré diventa l’azionista di riferimento della public company Telecom Italia, al posto degli spagnoli di Telefonica e della Telco bancaria italiana ormai scioltasi. E Bolloré ha in corso contatti seri con Berlusconi non solo per rilevare una quota della sua pay tv, ma per un accordo che rafforzi strategicamente in Italia la sinergia tra produttori di contenuti tv e tlc. In altre parole, è l’ipotesi di uno scambio di titoli tra Mediaset e Vivendi che Bolloré potrebbe anche realizzare attraverso una quota azionaria di Telecom Italia girata a Mediaset, ciò che non fa dormire la politica italiana. A quel punto, la Rai sarebbe nell’angolo. E Telecom Italia non sarebbe solo l’ex incumbent pubblico della telefonia che rifiuta di piegarsi alla guida pubblica dei suoi investimenti, e del suo stesso modello industriale basato sulla rete in rame. Diventerebbe la reincarnazione moltiplicata per dieci della presenza di Berlusconi, o quanto meno di suoi forti alleati, in una delle partite decisive dell’economia italiana. Il vero avvertimento insito nell’ipotesi Enel forzata ieri è in questa direzione. E’ un avvertimento rozzo, nello stile ormai degli interventi governativi nelle aprtite economiche. Rozzo anche perché sottovaluta che Bolloré non è proprioop il tipo, di assumere presenze forti in Italia per inimicarsi tutti. Solo che, facendo perdere valore al titolo Telecom in borsa, paradossalmente chi nel Pd o al governo pensa di ostacolare eventuali intenti dei due mister B – Bolloré e Berlusconi – sta facendo loro un piacere. Perché con gli stessi soldi potrebbero rilevare una quota maggiore di una Telecom Italia svalutata…

8
Mag
2015

Renzi: scrollare l’albero non basta…—di Davide Grignani

…in primavera occorre potarlo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Davide Grignani.

La storia talvolta offre ai leader opportunità irripetibili: a Matteo Renzi se ne presenta una nel 2015 probabilmente di portata epocale. La nostra economia quest’anno potrebbe beneficiare di alcune “bombole d’ossigeno” per tirare un respirone e riprendere un cammino di crescita interrotto ormai da troppi anni.

Analizziamo per un attimo i fari da poco accesi sulla pista di decollo e che alcuni analisti hanno definito come “ Triple Booster” italiano: Read More

7
Mag
2015

In Italia non rischi mai di avere ragione fino in fondo, sopratutto quando vinci contro la Pubblica Amministrazione.

Da più di dieci anni un mio amico è dipendente dell’Università come ricercatore confermato a tempo indeterminato. Nel 2012 ha deciso di partecipare alla procedura che il Ministero dell’Università ha indetto per valutare l’idoneità di ricercatori e studiosi ad assumere il titolo e le funzioni di professori associati ed ordinari. Il mio amico ha presentato titoli, pubblicazioni scientifiche e curriculum per sottoporsi al giudizio di idoneità per professore di seconda fascia (professore associato). All’esito della valutazione la commissione nominata dal Ministero lo ha ritenuto non idoneo con un giudizio sommario poco lusinghiero. L’unica consolazione, nell’immediato, è stata quella di essere in buona compagnia, visto che più del 60% dei candidati non è stato giudicato idoneo e considerato che persino un Presidente di sezione ed alcuni membri del Consiglio di Stato sono stati giudicati (con vero e sacrosanto scandalo) non idonei all’insegnamento del diritto amministrativo, di quella disciplina, cioè, in virtù della quale gli stessi magistrati decidono decine di casi al mese scrivendo altrettante sentenze definitive.
Smaltiti gli effetti emotivi della bocciatura, il mio amico ha deciso di rivolgersi al Tribunale per fare valere quella che sin da subito gli è apparsa una grave ingiustizia sul piano personale ed un oltraggio su quello professionale. Armatosi di santa pazienza ha presentato un ricorso al Tar del Lazio con sede in Roma (perché del Tribunale capitolino è la competenza in questa materia) e, non essendo egli residente entro i confini del compianto Stato pontificio, ma trattandosi di cittadino del troppo bistrattato ex regno delle due sicilie, ha dovuto affrontare non poche spese per l’avvocato e per presenziare nell’ordine: ad un’udienza cautelare, che il Tribunale ha mostrato di non gradire, ad un udienza di rinvio, che in un vero processo italiano non può mai mancare, e, infine, ad un’udienza di discussione all’esito della quale finalmente il ricorso è stato introitato (si, avete letto bene, si dice così, introitato) per la decisione.
Per fortuna c’è un giudice anche a Roma, tanto è vero che il Tribunale ha riconosciuto che l’amministrazione universitaria l’ha combinata davvero grossa, dimenticandosi addirittura di valutargli i titoli e le pregresse esperienze lavorative all’interno della stessa università. Il giudizio di idoneità deve essere pertanto ripetuto e siccome gli esseri umani sono schizzinosi ed ipersensibili è meglio, dicono in sostanza i giudici, che a rivalutare il mio amico, questa volta si spera correttamente, provveda una diversa commissione composta da professori ordinari differenti da quelli che lo hanno già valutato una prima volta.
Giustizia è fatta. Al netto della possibilità che il Ministero decida di impugnare la decisione di primo grado innanzi al Consiglio di Stato, chissà, magari davanti al collegio composto dai candidati ritenuti non idonei all’insegnamento del diritto amministrativo, i quali nel frattempo sono risultati però vittoriosi contro il Ministero proprio davanti a quel Consiglio di Stato dove lavorano, il mio amico può ritenersi per ora soddisfatto. La parcella dell’avvocato ed i costi per le numerose trasferte romane sono stati soldi ben spesi in definitiva; denari però che, nonostante la vittoria in giudizio, non gli saranno rimborsati dalla pubblica amministrazione che lo ha violentemente preso a pesci in faccia. Il Tribunale amministrativo, infatti, ha ritenuto di compensare le spese del giudizio perché il mio amico, pur essendo stato costretto a rivolgersi alla giustizia per tutelare il suo diritto ad essere giudicato correttamente, ha scritto un ricorso troppo lungo, ha impiegato troppe pagine per spiegare il torto che ha subito dallo Stato e così, quello stolto, dicono i giudici, ha violato il principio della sinteticità degli atti di cui al secondo comma dell’art. 3 del codice del processo amministrativo. Per tale motivo l’amministrazione che lo ha trattato da suddito e non da cittadino non gli deve rimborsare alcuna spesa processuale. Niente. Come dire: hai ragione, ma parli troppo e dunque non ti pago. E di un giustizia sin troppo giusta non è proprio il Paese questo.
@roccotodero

7
Mag
2015

Corte Costituzionale e pensioni: per equità NON bisogna restituire tutto a tutti

All’indomani della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il blocco nel 2012 e 2013 dell’indicizzazione delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo, siamo stati i primi a esporre le nostre forti critiche alla sentenza. Nei giorni successivi, non siamo rimasti soli. Diverse voci, commentatori, economisti, giuristi, si sono aggiunte approfondendo le numerose e profonde contraddizione che si leggono nella decisione della Corte. L’indifferenza all’articolo 81 della Costituzione che prevede il bilancio pubblico in equilibrio, rispetto all’attenzione solo data agli articoli 36 e 38 per la natura di “retribuzione differita” della pensione. Il contrasto con sentenze precedenti, nelle quali la Corte aveva giustificato interventi anche retroattivi del legislatore su trattamenti economici. Il difetto in motivazione, poiché la Corte afferma che il motivo dell’intervento sulla perequazione non appariva adeguatamente giustificato da parlamento e governo, mentre a chiunque è chiaro che gli interventi di finanza pubblica dall’estate 2011 alla primavera 2012 avvenivano mentre l’Italia era sul ciglio del baratro e del commissariamento da parte della Trojika.

Ma infine e soprattutto, l’assenza di ogni riferimento all’equità intergenerazionale. Poiché, in un sistema previdenziale a ripartizione, nel quale le pensioni in essere sono pagate dai contributi di chi oggi lavora e non da quelli versati in precedenza da chi oggi è pensionato, tornare a rimborsare quei quasi 5 miliardi bloccati nel 2012 e 2013, e continuare a coprirne gli effetti per il 2014 e 2015 e anni a venire, significa dover reperire 12-13 miliardi di euro a carico di chi le pensioni retributive di cui si parla non le avrà mai, e a stento riuscirà ad averne tra molti anni di contributive, ma molto più basse. E non si ferma a questo, l’aspetto di equità tra generazioni che la Corte ha deciso di ignorare. Perché ha dimenticato che lo stop alle perequazioni a quelle pensioni già erogate si accompagnava non solo al cambio di sistema – da retributivo a contributivo, come detto – per i più giovani, ma anche al brusco innalzamento dell’età pensionabile, per alcuni milioni di italiani che contavano fino al giorno prima di andare in pensione a breve.

Oggi che si tratta di fronteggiare le conseguenze della sentenza, ora che il governo deve decidere a chi e come garantire il rimborso, la strada non è obbligata. Non è affatto vero, che la sentenza obblighi a ripagare tutto a tutti. Le strade possibili dipendono esattamente da quale sia l’opinione politica prevalente sulla decisione della Corte. Per questo abbiamo ripetuto le nostre critiche. Perché ci auguriamo che governo e parlamento ne tangano conto.

La destra, aliena ormai dal ragionare sul merito delle cose e interessata solo a un’opposizione frontale contro il governo, batte la strada del rimborso integrale a tutti. E se non tornassero i conti – visto che nel frattempo siamo già di nuovo sul filo di un possibile 3% di deficit e la UE tra pochi giorni a quanto pare dirà no anche alla reverse charge sull’IVA decisa dal governo (lo avevamo avvisato, non ha ascoltato) con altri 700 milioni di euro da coprire in questo stesso 2015 – tanto peggio per Renzi, pensa l’opposizione. No, tanto peggio per l’Italia e per noi tutti, ci permettiamo di replicare, se cittadini e contribuenti saranno ancora una volta obbligati per cause di forza maggiore a mettere vieppiù mano al loro esangue portafoglio.

La sentenza della Corte è invece l’occasione per riaffermare il principio al quale la Corte è rimasta sorda. Se per rispettare la decisione ha senso provvedere a un rimborso dei trattamenti di poco superiori a 3 volte il minimo INPS, non ha senso farlo per quelli 5,6.7 e 10 o più volte superiori. Lo ha detto fuori dai denti il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti. E secondo noi ha fatto bene. Salvini ha replicato che è un furto. Ma al contrario è un furto a chi ha meno, molto meno, chiedere oggi di reintegrare trattamenti previdenziali che sono multipli del reddito medio e mediano degli italiani da una parte. E che, soprattutto, non sono affatto commisurati, in quanto pensioni retributive, ai contributi versati mentre si lavorava. Tranne un 7-8% di trattamenti previdenziali retributivi erogati oggi infatti a chi ha avuto retribuzioni alte e altissime nel più della carriera lavorativa, in tutti gli altri casi la pensione collegata ai soli ultimi anni di stipendio è un premio rispetto ai contributi versati. Senza contare poi le centinaia di migliaia di pensioni incassate oggi da chi apparteneva a fondi come quello dei lavoratori elettrici, o postelegrafonici, o agricoli, i cui trattamenti previdenziali retributivi, maturati grazie alle norme di patronage politico degli “allegri” decenni alle nostre spalle, possono essere pari anche a multipli vertiginosi dei contributi versati.

Oltre a un rimborso parziale rigorosamente a scalare al crescere del multiplo del trattamento minimo, dunque, questa potrebbe essere l’occasione giusta anche per una operazione-giustizia di revisione almeno di quei trattamenti eccessivamente “regalati” a spese, ripetiamolo, di chi oggi ha la certezza di riscuotere nel suo futuro molto meno, sempre che riesca a lavorare.

Non sappiamo se la politica avrà la forza di una simile scelta, visto che in ballo ci sono comunque oltre 5 milioni di pensionati. Ma quand’anche, com’è ovvio, i partiti dovessero guardare innanzitutto ai consensi invece che al merito di una “vera” giustizia tra generazioni, allora dovrebbero bastare due conti per sapere che i milioni di italiani chiamati con altri sacrifici – contributivi o di ulteriore aggravio tributario – a rimpinguare redditi previdenziali superiori alla media, sono più numerosi di coloro il cui solo ed esclusivo diritto è stato affermato dalla Corte. Diceva Lord Bowen che piove sul giusto e sull’ingiusto: ma sul giusto di più, perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello. Ecco, aggravare ancora gli oneri a chi ha meno è proprio come levar loro anche l’ombrello, dopo che già offriamo loro un futuro italiano di pioggia fitta senza facili schiarite.

5
Mag
2015

Crony capitalism: Renzi ha ragione solo a metà

Matteo Renzi ha capacità di reazione straordinarie. Così, 3 giorni dopo le devastazioni a Milano rese possibili dalle direttive date dal governo alle forze di polizia, sempre a Milano ha cambiato copione. E, incontrando la crema della finanza italiana a Piazza Affari ha sfoderato la spada contro il capitalismo di relazione. “Quel sistema che poneva la relazione come elemento chiave di un Paese in cui giornali, banche, imprese, fondazioni bancarie, partiti politici hanno pensato che si potesse andare avanti tutti insieme dialogando e discutendo, è morto” ha detto, aggiungendo che “se non muore quel sistema muore l’Italia”. Ora lasciamo perdere che c’era una punta evidente di malevolenza nel replicare senza citarlo a Ferruccio de Bortoli, rivendicando la democrazia come “governo dei maleducati” contro l’aristocrazia “governo degli educati male”. E che in realtà non ha anticipato alla comunità finanziaria alcuna novità, dopo aver bastonato fiscalmente i fondi previdenziali integrativi e aver alzato le tasse sul risparmio. Il punto è un altro. Sul capitalismo di relazione ha ragione, Renzi, oppure no? La risposta obiettiva – numeri alla mano – è che ha ragione, sui privati. Ma non sullo Stato, e anche sul suo governo.

I numeri dicono che, in effetti, il crony capitalism, il capitalismo clientelare che pratica controllo e gestione delle imprese, selezione negli affari e nelle forniture, e concessione di credito il tutto basato sui rapporti intrecciati tra persone invece che sul merito dei progetti come delle persone stesse, è in riduzione rispetto ai tempi in cui Stato-Iri da una parte e galassia-Mediobanca cucciana dall’altra erano la sintesi di un’Italia finanziaria praticamente tutta – o quasi – “relazionale”. I patti di sindacato che univano tutti i piani alti del capitalismo privato incentrati su Mediobanca si sono sciolti o diluiti, Mario Greco alla testa di Generali non è più parte delle cosiddette “operazioni di sistema” che tanto male hanno fatto all’Italia e alle sue aziende (da Telecom Italia ad Alitalia), Intesa e Unicredit sono oggi guidate da manager come Carlo Messina e Federico Ghizzoni che pensano a fare banca e non a compiacere le parti correlate.

Ma attenzione, il capitalismo di relazione che solo un anno fa Giovanni Bazoli difendeva a spada sul Financial Times non è affatto tramontato. Bazoli ne resta in fondo il più grande campione, perché in un paese di capitalismo fondato sul merito vicende come il rastrellamento di partecipazioni compiute dal suo protetto Zaleski con esposizioni miliardarie sarebbero finite in tribunale, non nel mega salvataggio operato concordemente dal sistema bancario italiano e negato di regola a qualunque altro imprenditore italiano (con eccezioni, ovvio, vedi l’altro salvataggio “relazionale” operato dalle banche nella debenedettiana Sorgenia, l’anno scorso..).

I numeri della Consob dicono che a fine 2014 l’85% delle società quotate italiane e il 75% della capitalizzazione di Borsa è controllato da una o più persone, mentre le società a vasta diffusione del capitale sono solo 10, per un 20% della capitalizzazione. I patti di sindacato sono scesi da fine anni ’90 e riguardano un quarto delle quotate, ma in compenso sono aumentati i patti di voto e quelli di coalizione senza patti ma con liste comuni, dal 22 al 40% e dall’8 al 10%. Soprattutto, lo Stato continua a controllare direttamente il 35% del totale della capitalizzazione di mercato: ed è questo il punto debole dell’accusatore Renzi.

Il premier ha detto ieri che “lo Stato si è chiamato fuori” dal capitalismo relazionale, ma i numeri dicono il contrario. Nel settore dei servizi, il 67% della capitalizzazione di Borsa è controllata dallo Stato con le multiutilities. E se dal 1998 sul totale delle quotate italiane i gruppi a controllo verticale – altro classico del capitalismo relazionale, visto che consentono di controllare società impegnando pochissimo capitale ad alta leva, in alto nella catena di controllo, prevaricando i diritti degli investitori presenti nel capitale “in basso” – sono scesi dal 39% al 20%, è proprio lo Stato oggi a detenerne il primato (vedi Cdp rispetto alle sue ormai decine di partecipazioni). I favori incrociati tra manager pubblici e potere politico continuano ad esistere eccome, in gruppi “pesantissimi” dove i sussidi incrociati pubblici hanno un peso rilevante nel conto economico (vedi la modalità di quotazione in arrivo di Poste, senza sciogliere il sussidio incrociato che va alla preponderante attività finanziaria e assicurativa dalla residua attività di consegna ormai ex “servizio universale”).

A tutto questo, aggiungiamo che è al capitalismo di relazione che si devono molti dei guasti con cui è alle prese il sistema bancario italiano. Il 12% di PIL di crediti deteriorati, una montagna che al più delle banche tranne Intesa e Unicredit risulta non smaltibile con procedure di mercato, dipende dal pessimo merito di credito praticato nel pre-crisi, cioè dal prevalere di criteri relazionali nella scelta di coloro a cui concedere troppo credito rispetto ai rischi insiti nell’impego, e a chi negarlo anche se magari aveva buoni o ottimi progetti di business. La conferma di questa tesi, che l’ABI naturalmente respinge, ancora una volta viene dai numeri: sul totale dei quasi 200 miliardi di crediti in sofferenza, il 70% è concentrato in imprese grandissime, grandi e medie, non nelle piccole e piccolissime che rappresentano il 95% del tessuto d’impresa italiano. In banche grandissime come Mps, medie come molte Popolari che non hanno superato l’AQR europea e oggi devono cambiare forma giuridica, e piccolissime come molte delle oltre 300 BCC, i guai dell’eccessiva concentrazione del rischio di credito sono figli del criterio relazionale praticato per decenni. Su 340 ispezioni in 2 anni praticate dalla vigilanza bancaria in Italia, in un caso su 5 sono state rilevate gravi irregolarità di governance a cominciare proprio dal troppo credito agli “amici degli amici”, e in un caso su 7 queste irregolarità hanno avuto risvolti penali. Non proprio il sistema bancario più sano del mondo, come troppo spesso si ripete. E Renzi ieri non ha aggiunto nulla alle indiscrezioni che girano da un anno sull’ipotesi di bad bank a cui il governo starebbe lavorando.

Renzi dunque ha fatto bene a scudisciare i privati. Ma oltre alla massiccia presenza dello Stato che con lui non arretra, ha inoltre dimenticato che proprio il suo governo l’anno scorso ha fatto un bel regalo al capitalismo relazionale, consentendo a chi controlla le quotate detenendo i titoli da almeno un anno di potersi dare un voto plurimo per mantenerne il controllo, adottando la riforma statutaria a maggioranza semplice invece che qualificata, e cioè con un calcio in faccia agli investitori istituzionali presenti nel capitale ma in minoranza. Anzi, per essere precisi bisogna dire che è stato il parlamento a volere tale regalo per le quotate, perché all’inizio il governo lo concepiva solo per le società piccole. Lo Stato ci ha guadagnato di poter far cassa scendendo nella quota detenuta nei giganti quotati senza perderne il controllo, ma in cambio ha esattamente fatto un favore al capitalismo di relazione privato che ieri Renzi ha attaccato, ostacolando la contendibilità delle imprese che esso controlla. Per fortuna ad adottare in questo modo disinvolto il voto plurimo sono stati in pochi, per non sfidare i fondi esteri che piano piano cominciano a essere più presenti e attivi nel capitale delle grandi quotate italiane.

E ancora: sottoscrivendo la cosiddetta autoriforma delle fondazioni bancarie italiane, altre protagoniste di prima grandezza del capitalismo di relazione italiano, il governo ha sì posto limiti alla quota che ciascuna di esse detiene in una sola banca, ma esteso la possibilità di scambi di quote attraverso le quali esse potranno oggi anche entrare in patti di controllo delle grandi banche popolari che diventano spa. Col bel risultato che, invece di scendere nel controllo delle banche italiane e concentrarsi nelle loro funzioni di privato sociale, le fondazioni controlleranno ancora più banche di prima.

Ecco: ci sarebbe piaciuto ieri sentire qualche grande privato italiano rispondere per le rime a Renzi. Riconoscendo che ha ragione nello sfidare i privati a superare il retaggio relazionale del passato. Ma aggiungendo che lo Stato è ancora ben lungi dal poter dare lezioni, con le decine di migliaia di partecipate locali greppia di politici e partiti. Ma quel grande privato non c’è stato. Segno, vien da pensare, di cattiva coscienza.