13
Giu
2015

Grexit: meglio una fascia di oscillazione su €, piantatela di dire che ITA non rischia nulla

Lo Zimbawbe, paese fallito da 28 anni sotto il regime del presidente Robert Mugabe, ieri si è arreso. Travolto da un’inflazione a 9 cifre cifre, ha deliberato che da lunedì la moneta locale inizierà a sparire, cosa che avverrà definitivamente entro settembre. E sarà trasformata in dollari americani. Al cambio di 1 dollaro USA per 35 quadrilioni della moneta locale. Un quadrilione sono 1 milione di miliardi, 35 quadrilioni sono dunque 35 milioni di miliardi: per un dollaro USA. L’ultima banconota della banca centrale dello Zimbawbe aveva un valore facciale di 100 trilioni, cioè 100mila miliardi. La domanda che si ponevano ieri alcuni giornali europei, annunciando la notizia africana, era scontata: la Grecia come lo Zimbawbe?

La settimana prossima è decisiva, dicono. Ma scappa da ridere a pensarlo, a 6 mesi dalle elezioni greche e di inconcludente balletto tra Alexis Tsipras con i vertici della Ue, della Bce e del Fondo Monetario Internazionale. In ogni caso, lunedì Draghi ha un’audizione al parlamento europeo, martedì si riuniscono gli sherpa che preparano l’eurogruppo di giovedì, e infine venerdì c’è l’Ecofin. Se non si trova l’accordo con Atene, l’ultima istanza è il Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno. Dopodiché, senza accordo la Grecia non paga il miliardo e 600 milioni di dollari che deve al FMI, né a luglio e agosto i 6,8 miliardi di euro che deve alla BCE. E la Grecia va in default, fallisce. Detta così significa però poco o nulla: tutto dipende da “come” fallisce. Ma prima di arrivare a quello, verifichiamo le ipotesi.

Washington. Obama non si capacita che gli europei siano così tonti dal non risolvere il problema dell’eccesso di debito di un membro che vale meno del 2% del Pil dell’euroarea. Putin si precipiterebbe a spalancare le braccia a Tsipras. Per la Casa Bianca è inaccettabile Indebolire il fianco sud della NATO mentre l’UE nicchia sulle sanzioni a Putin, e il caos mediorientale tra Siria, Iraq ed espansione dell’Isis non è minimamente sotto controllo da parte dell’arrabbattata coalizione “aerea” (nel senso che agisce solo bombardando sporadicamente dal cielo) messa in piedi da Obama. Ma è anche vero che sin qui Washington ha fatto mille appelli, ma non ha tirato fuori in dollaro.

FMI. Si è rotto le scatole dell’inconcludenza della Ue. Da almeno tre mesi ha capito che Atene non cede affatto alle richieste di rigore, e che in queste condizioni è inutile perder tempo: l’istituzione multilaterale guidata da Christine Lagarde altri soldi non li mette. Il messaggio è alla cancelleria tedesca: Berlino si prenda la responsabilità di una scelta.

Merkel. Dicono che vorrebbe un accordo anche, ormai, assai poco rigoroso, per concedere ad Atene una prima tranche di 7,2 miliardi di euro di aiuti. Ma ha tre problemi. Nei sondaggi sui tabloid popolari germanici, ormai i tedeschi che vogliono Atene fuori dall’euro hanno superato il 50%. Il tosto ministro delle Finanze Schaueble è ormai della stessa idea, non è stato coinvolto dalla Merkel negli ultimi incontri con Tsipras, e si è incupito non poco. In più, nella CSU ma ormai anche nella CDU la fronda anti-greca conta una settantina di parlamentari. E in caso di aiuti, il Bundestag dovrebbe pronunciarsi, perché in Germania non si dà un cent in più all’Europa senza voto parlamentare (santo principio). Ergo la Merkel deve riuscire a piegare Tsipras almeno su qualche punto di fondo, altrimenti rischia schizzi copiosi di fango a casa sua.

Syriza. E’ inchiodata. Quanto più Tsipras è duro nei negoziati, tanto più cresce nei sondaggi. L’ala sinistra del partito ha fatto votare documenti in cui si ribloccano le privatizzazioni, non si toccano le pensioni, si torna alla contrattazione solo nazionale, si riassumono i dipendenti pubblici. Il problema “con quali soldi” pare irrilevante sull’orizzonte politico greco. Ma del resto troppo spesso vale anche nella politica italiana. I greci però vogliono restare nell’euro, oltre il 70% nei sondaggi si esprime così. E ti credo: è grazie all’euro che la Grecia si è permessa di accentuare ulteriormente tutti i suoi squilibri di folle statalismo. E’ un paese con pensioni medie pressoché pari a quelle tedesche, ma in cui in media si va in pensione 6 anni prima che in Germania, e con un PIL procapite meno della metà di quello tedesco. Senza manifattura, con export industriale pressoché assente, solo il turismo a tirare, produttività bassissima malgrado il record annuale di ore lavorate a testa, e armatori- oligarchi che non pagano le tasse per Costituzione.

Referendum o elezioni. In caso di mancato accordo, per la Merkel la via d’uscita sarebbe di negoziare in accordo con Draghi un trimestre di dilazione, consentendo a Tsipras di chiedere ai greci che cosa vogliono fare. Tsipras non ne ha alcuna voglia, però. Fino a 6 mesi fa erano i premier greci a minacciare la UE con ipotesi di referendum. Ora è la Ue a fare il contrario: sperando che i greci cambino idea nelle urne, al timore di vedere i propri residui risparmi in fumo.

Default incontrollato. Molti economisti filo euro ormai pensano quel che ha scritto Francesco Giavazzi: la Grecia non vuole modernizzarsi, non possiamo obbligarla, lasciamola andare. E’ la stessa tesi dei rigoristi tedeschi più duri come Hans-Werner Sinn, che da mesi scrive che gli aiuti alla Grecia hanno consentito ai greci stessi di portare in questi mesi nell’euroarea decine di miliardi che rimarranno denominati i euro, al riparo da ogni restituzione ai creditori europei, e scudati dalla mega inflazione del 40-50% – è la stima convergente di molte grandi banche internazionali – che si scatenerebbe in Grecia. Un default incontrollato farebbe molto male ai greci, quantomeno nel breve-medio termine (attenti a dirlo: i guru antieuro accademici italiani sono pronti a coprirvi di contumelie e a bannarvi con rito social di fronte ai loro adepti, ahah…). Nel senso che i vincoli sui capitali, i fallimenti bancari e delle imprese i cui debiti restassero in euro con attivi in moneta invece svalutata, la svendita di asset deprezzati a compratori internazionali, il valore reale del risparmio abbattuto da svalutazione e inflazione, porterebbero la recessione greca a trimestri durissimi. Con una ripresa, è vero, nell’arco del biennio successivo, se guardiamo a precedenti come l’Argentina del 2002: ma attenti che la Grecia esporta poco, con la svalutazione non è che venda meglio nel mondo automobili o manufatti che non produce. Certo, per la politica greca sarebbe facile puntare sull’orgoglio nazionale, dando la colpa agli europei nuovi nazisti. E russi e cinesi accorrerebbero a far la parte dei salvatori, campioni come sono delle libertà che fondano l’idea stessa della loro sovranità…

Un default controllato. Il punto è che il default incontrollato non farebbe male solo ai greci, ma anche a noi. Alla Ue, che è invece convinta di non averne nulla da temere. Molti economisti e analisti si sono persuasi che la rottura dell’impossibilità dell’uscita dall’euro sarebbe anzi benedetta: deprezzerebbe la moneta comune, che invece da metà marzo ha ripreso a salire sul dollaro, riguadagnando quota 1,15 dalla quasi parità col biglietto verde che aveva raggiunto. E l’euro deprezzato fa bene alla ripresa europea. Padoan è convinto poi che l’ovvio effetto scommessa dei mercati contro l’Italia, uscita la Grecia, sarebbe piegato dalla Bce, costretta a difenderci comprando ancor più nostri titoli pubblici. Chi qui scrive pensa siano illusioni. La storia è piena di banche centrali sconfitte dai mercati. Noi pagheremmo più oneri sul debito pubblico. Già oggi le previsioni del DEF governativo di aprile non stanno in piedi, visto che i rendimenti di mercato dei titoli pubblici decennali si sono alzati da allora di 100 punti base, incorporando quelli del BUND tedesco. Sarebbe dunque molto meglio concordare un default parziale, con procedure condivise, vincolando la Grecia e la sua dracma a una fascia di oscillazione con l’euro anche ampia ma fissa, in cambio di qualche aiuto. Speriamo qualcuno abbia pronto lo schema, a Berlino e a Francoforte. Se la Grecia fa default non rinunciando formalmente all’euro e con IOU in moneta parallela che avrebbe subito nulla, cadrebbe in deflazione devastante prima che in inflazione…. (anche su questo, attenti alle scomuniche degli antieuro…).

L’Italia. Credere che il nostro paese “non abbia vulnerabilità”, come ha detto Padoan, è una rassicurazione vana. Ne abbiamo eccome. Di enormi. E’ meglio che i governi italiano, spagnolo e francese ci pensino bene. Sono anch’io per lasciare liberi i greci, le monete-prigione nella storia non esistono e non reggono. Ma senza tenerli legati in qualche modo all’euro, allora Podemos in Spagna, Grillo e Salvini in Italia, la Le Pen in Francia, avranno una carta oggettivamente potentissima da giocare di fronte ai rispettivi elettorati. E sarà una colpa ulteriore dell’imbelle politica europea, a quel punto.

 

9
Giu
2015

Tagliare la spesa pubblica. Ecco come si risolve (davvero) Mafia Capitale—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

A leggere dello scandalo di Mafia Capitale è fin troppo facile puntare il dito contro la corruttela e l’immoralità della politica, inneggiare alla forca per i disonesti o fare i grillini chiedendo di mandare tutti a casa. Il che, per carità, non è del tutto sbagliato: i politici disonesti (non tutti) vanno puniti severamente e, quando previsto, cacciati dalle istituzioni.

Fermarsi solo all’aspetto “morale” dell’affaire Mafia Capitale rischia però di semplificare radicalmente il problema, lasciando senza risposta un paio di domande importanti. La prima è se i ladri esistano solo a Roma o in ogni parte d’Italia, ma la risposta è tanto scontata da farci passare oltre. La seconda è perché in Italia il fenomeno corruzione sia tanto pungente. Che la corruttela sia particolarmente diffusa nel nostro Paese non è del resto un luogo comune, ma un dato oggettivo. L’Index of economic freedom della Heritage Foundation, alla voce “libertà dalla corruzione”, assegna al nostro Paese un punteggio di 43/100: non è solo un bel 4 ma un risultato che si avvicina più agli Stati africani rispetto a quelli europei.  Read More

5
Giu
2015

Trasporto non di linea: le proposte dell’Authority e il legislatore sordo

L’ordinanza del Tribunale di Milano che, qualche giorno fa, ha bloccato il servizio “UberPop” in tutta Italia (e di cui su questi pixel ci eravamo già occupati qui, soffermandoci sulla necessità di riformare al più presto il settore) ha riacceso l’infuocato dibattito sull’equilibrio tra le nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il trasporto pubblico non di linea e le prerogative del sistema dei taxi, cui ieri si è aggiunto un ulteriore e autorevole parere. L’Autorità di Regolazione dei Trasporti, infatti, ha inviato al Governo e al Parlamento una segnalazione in cui propone la riforma dell’attuale normativa sul trasporto non di linea, con l’obiettivo di adeguare la legislazione alle sostanziali e significative modifiche che hanno interessato il settore negli ultimi anni. Read More

1
Giu
2015

La Grecia è ormai fallita, a rimetterci saranno i più poveri—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

La crisi di liquidità greca e l’ipotesi di un mancato rinnovo dei prestiti internazionali hanno mandato in fibrillazione non solo Atene ma la stessa Unione europea, preoccupata per un possibile default di Atene. Come ha ricordato Oscar Giannino entro il 19 giugno la Grecia deve infatti rimborsare una rata da 1,6 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale: soldi non ci sono e comunque Alexis Tsipras e il ministro dell’Economia Yanis Varoufakis hanno fatto sapere che non intendono pagare per degli impegni di austerity presi dal precedente governo. Anzi rilanciano l’idea di una nuova ristrutturazione del debito pubblico dopo quella che fra il 2011 e il 2012 ha tagliato più del 60% del valore reale dei crediti detenuti dai privati. Read More

30
Mag
2015

Riformare la PA riducendo la spesa corrente—Il Giardino dei Semplici

L’Istituto Bruno Leoni pubblica una proposta di legge di riforma della pubblica amministrazione elaborata dal gruppo di studio Giardino dei semplici.
La proposta è di particolare interesse, anche rispetto alla delega in materia di riorganizzazione della PA in corso di approvazione in Parlamento, perché unisce l’esigenza di ristrutturazione della PA a quella di revisione della spesa, obbligando le amministrazioni a portare avanti dei programmi di riorganizzazione funzionale interna e quindi anche di riduzione dei costi.
Si tratta di un progetto senz’altro ambizioso, anche perché richiede e fa perno sulla collaborazione delle amministrazioni, ma proprio per questo realistico. Read More

29
Mag
2015

Servono contratti aziendali, per cambiare sindacati e imprese

Per il governo Renzi sono filate lisce come l’olio, le due tradizionali assemblee annuali di fine maggio che sono termometro dell’economia nazionale, quella di Bankitalia e ieri quella di Confindustria. Della prima, molti hanno scritto che è finita l’epoca di via Nazionale che fa le bucce ai governi. La seconda, ieri a Milano per ribadire l’importanza di EXPO, non riservava in realtà sorprese. Perché Confindustria non ha fatto mistero nei mesi di considerare una vera benedizione insperata misure assunte dal governo come la rilevante decontribuzione fino a 8mila euro l’anno che, insieme al contratto a tutele crescenti, traina la rilevante sostituzione di contratti di lavoro in atto da marzo, riducendo quelli atipici. Sia pur con pochissima evidenza ancora di occupazione aggiuntiva.

La polemica su Renzi, che ha disertato ieri la platea confindustriale per recarsi a Melfi a ottenere il deciso sostegno di Marchionne, non coglie in realtà l’evidente dato di fatto. Sia la Fiat uscita 2 anni fa da Confindustria, sia la Confindustria in quanto tale, entrambe sostengono Renzi con più forza di quanto faccia qualunque altro soggetto economico-sociale del nostro paese. Ed è esattamente quel che non va per nulla a genio a un pezzo di sindacato, Cgil e Fiom, e a un pezzo di sinistra, dentro e fuori il Pd. Il sostegno delle imprese viene vissuto come una sorta di tradimento della missione storica della sinistra. Il che rappresenta la miglior conferma di uno dei migliori passaggi della relazione di Giorgio Squinzi a Confindustria, quando ha lamentato la tenace persistenza di un pregiudizio ostile all’impresa nella vita politica e pubblica del nostro paese. Anche nei provvedimenti di questo governo, ha detto Squinzi nella sua unica zampata critica a Renzi, riferendosi alle nuove norme sul falso in bilancio, ecoreati, all’IMU sugli imbullonati e via proseguendo: non si può dire che abbia torto.

Al di là del bilancino politichese, il rapporto Fiat-Confindustria con il governo Renzi da una parte e col sindacato dall’altra descrive il grande bivio di fronte al quale è l’economia italiana. Con 9 punti di Pil da recuperare sul 2007 e il 30% di investimenti in meno, tutte le stime serie convergono sul fatto che, malgrado euro e petrolio deprezzati e i tassi bassissimi, e pur in presenza di decontribuzione e Jobs Act, restiamo afflitti da un tasso di ripresa inferiore solo a quello di Cipro e Grecia, tornata in recessione. Sperare nel mega piano Juncker d’investimenti è affidarsi a promesse sulla carta, mentre l’Unione Europea è a un millimetro dal default greco. Con le maxiclausole fiscali da disinnescare nella prossima legge di stabilità, inutile pensare a un governo che tagli le tasse. Di conseguenza, resta da tracciare una via diversa proprio nelle imprese e sui posti di lavoro, per convergere insieme sul recupero di produttività, sul miglior utilizzo degli impianti, dei turni, degli orari e delle pause di lavoro. Incardinando su questi risultati misurabili, di efficienza, merito e produttività, il più degli aumenti salariali rispetto a quelli tradizionalmente definiti a livello centrale nei contratti nazionali di lavoro.

E’ su questa ragione, che avvenne tre anni fa la riottura tra Confindustria e Fiat. La prima crede ancora nei contratti nazionali, ma ha virato sempre più decisamente verso contratti aziendali integrativi. La seconda ha stipulato un contratto aziendale in deroga, che proprio ora diventa esecutivo con 600 milioni di euro di miglioramenti retributivi triennali, e con una parte mobile salariale – dovuta a indennità di obiettivi di efficienza per ogni singolo stabilimento, e di merito anche per singolo lavoratore – che prevale su quella fissa.

E’ venuto il tempo di sanare quella divisione. Per questo Squinzi ieri ha chiamato il sindacato a un grande round di confronto sulla contrattazione decentrata. Che accetti un tasso di salario variabile molto più spinto di quello sin qui praticato. Senza creder di poter applicare alle piccole e piccolissime imprese le stesse regole di quelle grandi o multinazionali. Ma contemporaneamente liquidando il vecchio rito centralizzato del contratto nazionale: che andrebbe lasciato a garanzia dei diritti e dei minimi retributivi, non del più degli andamenti salariali.

Esistono nella nostra legislazione contraddizioni arcaiche. Una di queste riguarda il welfare aziendale. Conviene alle imprese e ai dipendenti, accordarsi su misure aziendali che offrano al lavoratore mense, prestazioni sanitarie, asili nido e ciò che il welfare statale non offre. Per i lavoratori il vantaggio è evidente, e le imprese risparmiano fiscalmente rispetto al cuneo fiscale sulla retribuzione lorda. Ma il paradosso di questo “modello Luxottica” è che, secondo la vigente normativa fiscale, la piena deducibilità per il welfare aziendale si applica se viene concesso per unilaterale liberalità dell’impresa, ma non se è contemplato in accordi collettivi. Una norma che deriva da una parte dalla vecchia ostilità al “paternalismo” d’impresa, e dall’altra è figlia del timore pubblico di perder gettito.

Ma il punto centrale è quello che, legando salario e andamento delle aziende, investe frontalmente storia e struttura della rappresentanza sindacale da una parte, e d’impresa dall’altra. Un sindacato che accetti questa sfida sarà fatto di più rappresentanti aziendali che trattano i migliori contratti nelle loro imprese, e meno professionisti a vita delle segreterie confederali. Allo stesso modo, contratti aziendali e territoriali svuotano di significato le grandi associazioni settoriali nazionali di Confindustria, i loro direttori generali e funzionari, per spostare il baricentro sulle territoriali e settoriali locali. Tra le imprese manifatturiere della prima territoriale in Italia di Confidustria, l’Assolombarda guidata da Gianfelice Rocca, i contratti aziendali dal 2011 al 2014 sono passati dal 28 al 42% delle imprese iscritte.

E’ questa la strada da battere. La Cisl ieri ha risposto positivamente. La Uil è singolarmente ormai “doppia”. Da una parte in imprese come Fiat è decisamente e orgogliosamente in prima fila nella battaglia per le intese aziendali, dall’altra con Barbagallo alla segreteria nazionale sembra esser tornata a toni di decenni fa. La Cgil resta contraria a livello nazionale, tranne poi – va detto – trattare seriamente, fuori dai riflettori mediatici, in molte realtà territoriali e aziendali, soprattutto in settori diversi dalla meccanica (Fiom) ma talora anche lì. L’ostacolo, ripetiamo, non è solo tra i sindacati. Proprio ieri a radio24 un imprenditore attivo nel settore dei call center raccontava come i suoi colleghi continuino a preferire i livelli bassi nazionali del contratto dei telefonici, rispetto a intese aziendali misurate prioritariamente sui livelli di qualità e valore aggiunto del servizio offerto alle imprese clienti.

Non è una rivoluzione facile da seguire per i media disattenti, non passa attraverso decreti legge e voti parlamentari. Può nascere solo dall’ansia condivisa di far meglio ciascuno il proprio mestiere. E dall’orrore condiviso – imprese e lavoratori insieme – verso degenerazioni che continuano ad avvenire. Come, ieri, il caso di Davide Gabrieli, dipendente scolastico condannato a 2 anni di reclusione per aver sottratto 197 mila euro di fondi pubblici alle scuole che amministrava nel trevigiano, e licenziato perciò senza preavviso, come prescrivono le norme vigenti. Peccato che il giudice del lavoro di Treviso abbia deciso di reintegrarlo, e ora lo Stato gli dovrà pagare anche gli stipendi pregressi non versati. Ecco: non è questa la cultura dei diritti del lavoro di cui abbiamo bisogno, per la ripresa dell’Italia.

27
Mag
2015

UberPop: la colpa non è dei giudici, ma dei politici

Ieri, come noto, il Tribunale di Milano ha accolto (sia pure parzialmente) il ricorso di alcune società e sindacati di tassisti, che chiedevano di “bloccare” il servizio UberPop su tutto il territorio nazionale, in quanto questo determinerebbe una concorrenza sleale al servizio di radiotaxi. Come prevedibile, l’ordinanza ha scatenato reazioni e polemiche feroci, su alcune delle quali è il caso di fare chiarezza. Una cosa è certa: l’avversione dei tassisti ai servizi di Ncc offerti dalle nuove tecnologie è una forma di luddismo, come tale inevitabilmente destinata a soccombere, prima o poi, sotto il peso del progresso. Non sarà un giudice e nemmeno una legge a fermare la naturale evoluzione delle cose: se non sarà Uber oggi, ad avere la meglio, sarà qualcun altro domani. Read More

25
Mag
2015

Grexit: meglio regole concordate di uscita, le monete-prigione basate su eccezioni non reggono

La Grecia non pagherà 1,6 miliardi di euro ch deve al Fondo Monetario Internazionale, in scadenza a giugno. Ci risiamo. Già a maggio, hanno detto che non lo avrebbero fatto. Ma ora il nodo viene al pettine. E si capirà se l’euroarea vuole per davvero trattare il caso greco per quello che è, o se continua in un balletto di finzioni molto rischioso, visto che rischia di finire con una rottura traumatica dell’euro che nessuno dichiara di volere. Ma che si diffonderebbe, come rischio di contagio, in primis sull’Italia. E addio a quel punto ai tassi bassi si cui il governo fa così tanto affidamento, e scommettendo su quali ha rinviato la spending review.

In realtà, sommando l’allarme Grecia al voto locale in Spagna e a quello per le presidenziali in Polonia, le fratture sul rispetto delle regole europee si allargano e non si attenuano. Invece di far finta di niente e lasciar procedere gli elettorati all’ira e alla diffidenza, ci vorrebbe una grande decisione politica: o si consente di uscire dall’euro a chi non ne sopporta o riconosce le regole con una procedura controllata che ne minimizzi per tutti i danni, oppure accettare le condizioni greche non è un’eccezione, significa nuove regole per tutti. Personalmente, credo che la prima ipotesi sia ormai meglio della seconda. Vedo che il più dei media ritiene ancora che i greci alla fine si piegheranno, che è tutta una commedia. Se anche fosse così, sarebbe peggio che affrontare seriamente il problema.

Per oltre 4 mesi, l’euroarea non ha preso sul serio Tsipras e Varoufakis, il premier e il ministro dell’economia che hanno vinto le elezioni in Grecia promettendo con Syriza “ci faremo abbattere ancora il debito”. Si sono sprecate le ironie beffarde, quando si è capito che le richieste europee alla Grecia avanzate a febbraio rimbalzavano su un muro di specchi. Si è detto scritto che Varoufakis fosse un narciso mezzo matto, invece che un determinato radicale statalista come appare a chi lo legge da anni, e che a un certo punto bastasse chiederne la testa perché Tsipras si spaventasse. Storie. Il governo greco ha giocato la partita che aveva indicato sin dall’inizio: non pagheremo quanto dobbiamo pagare quest’anno e nei prossimi, tagliateci ancora il debito, come già avete fatto per oltre il 60% del valore tra 2011 e 2012. Già in vista della rata dovuta al Fondo monetario il 12 maggio scorso, Atene aveva detto che non avrebbe pagato. Lo ha fatto solo strappando all’ultim’ora di utilizzare i suoi diritti speciali di prelievo che ne rappresentano la quota nel capitale del Fondo. Quel capitale di riserva è stato speso. Ora la prossima scadenza è il 5 giugno, e in 4 rate entro il 19 Atene deve al FMI 1,6 miliardi di euro. E Atene fa esattamente la stessa cosa di un mese fa. Ha detto che non paga, non ci pensa neanche.

E’ un messaggio per i ministri delle Finanze del G7 che si riuniscono a Dresda, sotto la presidenza di turno tedesca, il 27-29 maggio, in preparazione del G7 coi capi di stato e di governo, il 7-8 giugno al castello di Elmau. La Grecia è riuscita in quel che voleva: porre il problema all’euroarea della rottura traumatica della moneta comune, dividere la Ue dal Fondo monetario, ed evidenziare che Washington non la pensa affatto come i falchi europei, timorosa che Atene scivoli verso Mosca.

Il punto non sono i 1600 milioni di euro che deve al Fondo a giugno. Entro il 2015 Atene deve ripagare oltre 25 miliardi, tra FMI e BCE e titoli in scadenza. Degli oltre 320 miliardi di debito pubblico greco attuale, la Grecia è creditrice per 131 all’EFSF, 27 alla BCE , 53 a prestiti bilaterali con gli euromembri stessi, e se sommiamo il dovuto alla BEI la quota europea del debito greco arriva a quasi il 70% del totale. Un 9% è in mano al FMI, solo il 17% a privati, il restante 3% sta in pancia alla banca centrale greca. Sommando l’esposizione italiana diretta bilaterale, quella per quota parte in EFSF, Bce, BEI e Fmi, arriviamo a 40 miliardi di euro, subito dopo Germania e Francia che rischiano 90 e 60 miliardi. Per noi si tratta di meno del 3% del Pil, per i piccoli euromembri il costo del default greco – se fosse totale – sta tra il 4 e il 5% del pil. Naturalmente, costi nazionali e percentuale sul PIL di ciascuno cambia a seconda del meccanismo di eventuale ritrutturazione del debito cioè di “default controllato”: se si adottasse una rimodulazione pluridecennale delle scadenze, che già sono state iperdiluite 3 anni fa, l’inflazione rialzatasi nel frattempo farebbe la differenza.

Syriza ha sempre detto che, dopo l’abbattimento di valore di oltre il 60% del debito deciso nei tre salvataggi precedenti della Grecia dal 2011 ad oggi che hanno pelato i titolari privati del debito, chiedeva all’Europa che ne detiene oggi il 70% di procedere a un ulteriore abbattimento della metà, mentre avrebbe pagato i ratei in scadenza al FMI. Finora Fmi e UE non hanno accettato. L’Europa ha creduto che Atene si piegasse abbassandole l’obiettivo di avanzo primario a poco più di mezzo punto di Pil l’anno, ma per il resto doveva procedere con privatizzazioni, contrattazione aziendale, niente passi indietro sulle pensioni.

Syriza non ci pensa neanche. Al comitato centrale di Syriza tenutosi sabato e ieri e dove l’ala sinistra ha picchiato duro, Tsipras ha ribadito che le privatizzazioni ancora da deliberare sono ferme, che le riassunzioni pubbliche vanno avanti, che la contrattazione nazionale e non aziendale è un caposaldo intoccabile. Varoufakis e Tsipras hanno chiesto di poter tassare le transazioni bancarie, quando le banche greche da gennaio in percentuale hanno perso oltre il doppio dei depositi di quanto capitò in Argentina prima che saltasse in aria nel 2000. Hanno promesso assunzioni a tempo dei turisti per la lotta all’evasione turistica. Non cambiano però la Costituzione, che esenta dalle tasse gli armatori.

Il FMI due settimane fa ha detto alla UE che è inutile proseguire nella finta trattativa, non avrebbe più dato ai greci altri soldi per farsi pagare le rate in scadenza. Tocca insomma alla Ue dare una risposta definitiva ai greci. Se si resta sulla linea del piano di riforme o niente, la Grecia va in default, perché gli 80 miliardi della linea straordinaria di finanziamento della Bce garantite ad oggi alle banche greche non bastano per tenerle in piedi. Le vie intermedie di cui si parlato finora sono mezze misure: tipo l’autorizzazione a pagare salari pubblici e pensioni con IOU cioè dei “pagherò”, che sono l’equivalente degli “assegnati” emessi dalla rivoluzione francese la cui svalutazione portò al Consolato di Napoleone. Come in tutti i casi della storia in cui vi si è fatto ricorso, i pagherò di Stato come strumenti sostitutivi della moneta perdono verticalmente valore nel giro di poco tempo, rivelando subito rispetto al valore nominale la fascia di svalutazione rispetto alla moneta forte di cui è stampato sul pezzo di carta il valore, che però lo Stato non detiene per pagare sul serio.

La domanda diventa: dobbiamo premiare ancora i greci, separando le loro responsabilità da quelle dei governi pazzi che li hanno portati in queste condizioni? Ma perché allora Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda si sono massacrati di manovre, per evitarlo? Oppure, come vorrebbero altri: che cosa vogliamo davvero, per abbattere ancora il debito greco e scrivere una pagina nuova delle regole all’euro mancanti, quella della solidarietà ai più deboli?

Se la Grecia esce dall’euro i mercati scommetteranno che anche altri lo faranno. E’ su questo, che punta il ricatto greco (anche se non della parte radicale di Syriza, che punta proprio a uscire e a svalutare massicciamente come da noi vorrebbero Salvini e Grillo, urlando che la colpa è della Ue per il massiccio depauperamento di risparmi e patrimoni che avverrebbe nei successivi due anni). Ma è impossibile credere che darla vinta a Syriza non porti a seguire una frana sulla stessa china, in Italia in Spagna e altrove. Come dimostrano i risultati elettorali europei.

Chi scrive preferirebbe che l’euroarea facesse capire che una moneta è comune solo per chi la sceglie e ne rispetta le regole. Le asimmetrie di produttività troppo forti rendono possibile una moneta comune o aprendo totalmente i mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, consentendo che funzionino come vasi comunicanti delle curve di costo e di prezzo, oppure con mega programmi di assistenza ai paesi meno forti. In assenza di entrambi le asimmetrie restano, anzi si aggravano nelle crisi. Meglio allora decidere procedure di uscita concertate. E se l’Italia dovesse un domani decidere anche lei che vuole tornare alla via greca, come sperano Salvini, Grillo e tanti altri, lo faccia pure. Altri italiani saprebbero semplicemente dove andarsene. Le monete-prigione non esistono, nella storia. O le si usa per quel che possono essere, oppure sono loro a liberarsi di noi, lasciandoci traumaticamente a monete deboli. Quelle fortemente volute da politici che fondano l’idea di sovranità nazionale su inflazione e svalutazione, pregustando di essere a capo di governi che decidono vincoli sui capitali, risparmi, banche e patrimoni. Come avveniva nella da tanti rimpianta Italia degli anni Settanta…

22
Mag
2015

L’inversione contabile del tesoretto

Quod erat demonstrandum: la Commissione europea ha bocciato l’estensione del meccanismo di “reverse charge (o inversione contabile) per il pagamento dell’IVA sulle cessioni di beni verso supermercati e altri operatori della grande distribuzione organizzata (GDO), prevista dal governo nell’ultima legge di Stabilità. Una bocciatura che, a ben vedere, era tutto fuorché imprevedibile. Read More