30
Mag
2015

Riformare la PA riducendo la spesa corrente—Il Giardino dei Semplici

L’Istituto Bruno Leoni pubblica una proposta di legge di riforma della pubblica amministrazione elaborata dal gruppo di studio Giardino dei semplici.
La proposta è di particolare interesse, anche rispetto alla delega in materia di riorganizzazione della PA in corso di approvazione in Parlamento, perché unisce l’esigenza di ristrutturazione della PA a quella di revisione della spesa, obbligando le amministrazioni a portare avanti dei programmi di riorganizzazione funzionale interna e quindi anche di riduzione dei costi.
Si tratta di un progetto senz’altro ambizioso, anche perché richiede e fa perno sulla collaborazione delle amministrazioni, ma proprio per questo realistico. Read More

29
Mag
2015

Servono contratti aziendali, per cambiare sindacati e imprese

Per il governo Renzi sono filate lisce come l’olio, le due tradizionali assemblee annuali di fine maggio che sono termometro dell’economia nazionale, quella di Bankitalia e ieri quella di Confindustria. Della prima, molti hanno scritto che è finita l’epoca di via Nazionale che fa le bucce ai governi. La seconda, ieri a Milano per ribadire l’importanza di EXPO, non riservava in realtà sorprese. Perché Confindustria non ha fatto mistero nei mesi di considerare una vera benedizione insperata misure assunte dal governo come la rilevante decontribuzione fino a 8mila euro l’anno che, insieme al contratto a tutele crescenti, traina la rilevante sostituzione di contratti di lavoro in atto da marzo, riducendo quelli atipici. Sia pur con pochissima evidenza ancora di occupazione aggiuntiva.

La polemica su Renzi, che ha disertato ieri la platea confindustriale per recarsi a Melfi a ottenere il deciso sostegno di Marchionne, non coglie in realtà l’evidente dato di fatto. Sia la Fiat uscita 2 anni fa da Confindustria, sia la Confindustria in quanto tale, entrambe sostengono Renzi con più forza di quanto faccia qualunque altro soggetto economico-sociale del nostro paese. Ed è esattamente quel che non va per nulla a genio a un pezzo di sindacato, Cgil e Fiom, e a un pezzo di sinistra, dentro e fuori il Pd. Il sostegno delle imprese viene vissuto come una sorta di tradimento della missione storica della sinistra. Il che rappresenta la miglior conferma di uno dei migliori passaggi della relazione di Giorgio Squinzi a Confindustria, quando ha lamentato la tenace persistenza di un pregiudizio ostile all’impresa nella vita politica e pubblica del nostro paese. Anche nei provvedimenti di questo governo, ha detto Squinzi nella sua unica zampata critica a Renzi, riferendosi alle nuove norme sul falso in bilancio, ecoreati, all’IMU sugli imbullonati e via proseguendo: non si può dire che abbia torto.

Al di là del bilancino politichese, il rapporto Fiat-Confindustria con il governo Renzi da una parte e col sindacato dall’altra descrive il grande bivio di fronte al quale è l’economia italiana. Con 9 punti di Pil da recuperare sul 2007 e il 30% di investimenti in meno, tutte le stime serie convergono sul fatto che, malgrado euro e petrolio deprezzati e i tassi bassissimi, e pur in presenza di decontribuzione e Jobs Act, restiamo afflitti da un tasso di ripresa inferiore solo a quello di Cipro e Grecia, tornata in recessione. Sperare nel mega piano Juncker d’investimenti è affidarsi a promesse sulla carta, mentre l’Unione Europea è a un millimetro dal default greco. Con le maxiclausole fiscali da disinnescare nella prossima legge di stabilità, inutile pensare a un governo che tagli le tasse. Di conseguenza, resta da tracciare una via diversa proprio nelle imprese e sui posti di lavoro, per convergere insieme sul recupero di produttività, sul miglior utilizzo degli impianti, dei turni, degli orari e delle pause di lavoro. Incardinando su questi risultati misurabili, di efficienza, merito e produttività, il più degli aumenti salariali rispetto a quelli tradizionalmente definiti a livello centrale nei contratti nazionali di lavoro.

E’ su questa ragione, che avvenne tre anni fa la riottura tra Confindustria e Fiat. La prima crede ancora nei contratti nazionali, ma ha virato sempre più decisamente verso contratti aziendali integrativi. La seconda ha stipulato un contratto aziendale in deroga, che proprio ora diventa esecutivo con 600 milioni di euro di miglioramenti retributivi triennali, e con una parte mobile salariale – dovuta a indennità di obiettivi di efficienza per ogni singolo stabilimento, e di merito anche per singolo lavoratore – che prevale su quella fissa.

E’ venuto il tempo di sanare quella divisione. Per questo Squinzi ieri ha chiamato il sindacato a un grande round di confronto sulla contrattazione decentrata. Che accetti un tasso di salario variabile molto più spinto di quello sin qui praticato. Senza creder di poter applicare alle piccole e piccolissime imprese le stesse regole di quelle grandi o multinazionali. Ma contemporaneamente liquidando il vecchio rito centralizzato del contratto nazionale: che andrebbe lasciato a garanzia dei diritti e dei minimi retributivi, non del più degli andamenti salariali.

Esistono nella nostra legislazione contraddizioni arcaiche. Una di queste riguarda il welfare aziendale. Conviene alle imprese e ai dipendenti, accordarsi su misure aziendali che offrano al lavoratore mense, prestazioni sanitarie, asili nido e ciò che il welfare statale non offre. Per i lavoratori il vantaggio è evidente, e le imprese risparmiano fiscalmente rispetto al cuneo fiscale sulla retribuzione lorda. Ma il paradosso di questo “modello Luxottica” è che, secondo la vigente normativa fiscale, la piena deducibilità per il welfare aziendale si applica se viene concesso per unilaterale liberalità dell’impresa, ma non se è contemplato in accordi collettivi. Una norma che deriva da una parte dalla vecchia ostilità al “paternalismo” d’impresa, e dall’altra è figlia del timore pubblico di perder gettito.

Ma il punto centrale è quello che, legando salario e andamento delle aziende, investe frontalmente storia e struttura della rappresentanza sindacale da una parte, e d’impresa dall’altra. Un sindacato che accetti questa sfida sarà fatto di più rappresentanti aziendali che trattano i migliori contratti nelle loro imprese, e meno professionisti a vita delle segreterie confederali. Allo stesso modo, contratti aziendali e territoriali svuotano di significato le grandi associazioni settoriali nazionali di Confindustria, i loro direttori generali e funzionari, per spostare il baricentro sulle territoriali e settoriali locali. Tra le imprese manifatturiere della prima territoriale in Italia di Confidustria, l’Assolombarda guidata da Gianfelice Rocca, i contratti aziendali dal 2011 al 2014 sono passati dal 28 al 42% delle imprese iscritte.

E’ questa la strada da battere. La Cisl ieri ha risposto positivamente. La Uil è singolarmente ormai “doppia”. Da una parte in imprese come Fiat è decisamente e orgogliosamente in prima fila nella battaglia per le intese aziendali, dall’altra con Barbagallo alla segreteria nazionale sembra esser tornata a toni di decenni fa. La Cgil resta contraria a livello nazionale, tranne poi – va detto – trattare seriamente, fuori dai riflettori mediatici, in molte realtà territoriali e aziendali, soprattutto in settori diversi dalla meccanica (Fiom) ma talora anche lì. L’ostacolo, ripetiamo, non è solo tra i sindacati. Proprio ieri a radio24 un imprenditore attivo nel settore dei call center raccontava come i suoi colleghi continuino a preferire i livelli bassi nazionali del contratto dei telefonici, rispetto a intese aziendali misurate prioritariamente sui livelli di qualità e valore aggiunto del servizio offerto alle imprese clienti.

Non è una rivoluzione facile da seguire per i media disattenti, non passa attraverso decreti legge e voti parlamentari. Può nascere solo dall’ansia condivisa di far meglio ciascuno il proprio mestiere. E dall’orrore condiviso – imprese e lavoratori insieme – verso degenerazioni che continuano ad avvenire. Come, ieri, il caso di Davide Gabrieli, dipendente scolastico condannato a 2 anni di reclusione per aver sottratto 197 mila euro di fondi pubblici alle scuole che amministrava nel trevigiano, e licenziato perciò senza preavviso, come prescrivono le norme vigenti. Peccato che il giudice del lavoro di Treviso abbia deciso di reintegrarlo, e ora lo Stato gli dovrà pagare anche gli stipendi pregressi non versati. Ecco: non è questa la cultura dei diritti del lavoro di cui abbiamo bisogno, per la ripresa dell’Italia.

27
Mag
2015

UberPop: la colpa non è dei giudici, ma dei politici

Ieri, come noto, il Tribunale di Milano ha accolto (sia pure parzialmente) il ricorso di alcune società e sindacati di tassisti, che chiedevano di “bloccare” il servizio UberPop su tutto il territorio nazionale, in quanto questo determinerebbe una concorrenza sleale al servizio di radiotaxi. Come prevedibile, l’ordinanza ha scatenato reazioni e polemiche feroci, su alcune delle quali è il caso di fare chiarezza. Una cosa è certa: l’avversione dei tassisti ai servizi di Ncc offerti dalle nuove tecnologie è una forma di luddismo, come tale inevitabilmente destinata a soccombere, prima o poi, sotto il peso del progresso. Non sarà un giudice e nemmeno una legge a fermare la naturale evoluzione delle cose: se non sarà Uber oggi, ad avere la meglio, sarà qualcun altro domani. Read More

25
Mag
2015

Grexit: meglio regole concordate di uscita, le monete-prigione basate su eccezioni non reggono

La Grecia non pagherà 1,6 miliardi di euro ch deve al Fondo Monetario Internazionale, in scadenza a giugno. Ci risiamo. Già a maggio, hanno detto che non lo avrebbero fatto. Ma ora il nodo viene al pettine. E si capirà se l’euroarea vuole per davvero trattare il caso greco per quello che è, o se continua in un balletto di finzioni molto rischioso, visto che rischia di finire con una rottura traumatica dell’euro che nessuno dichiara di volere. Ma che si diffonderebbe, come rischio di contagio, in primis sull’Italia. E addio a quel punto ai tassi bassi si cui il governo fa così tanto affidamento, e scommettendo su quali ha rinviato la spending review.

In realtà, sommando l’allarme Grecia al voto locale in Spagna e a quello per le presidenziali in Polonia, le fratture sul rispetto delle regole europee si allargano e non si attenuano. Invece di far finta di niente e lasciar procedere gli elettorati all’ira e alla diffidenza, ci vorrebbe una grande decisione politica: o si consente di uscire dall’euro a chi non ne sopporta o riconosce le regole con una procedura controllata che ne minimizzi per tutti i danni, oppure accettare le condizioni greche non è un’eccezione, significa nuove regole per tutti. Personalmente, credo che la prima ipotesi sia ormai meglio della seconda. Vedo che il più dei media ritiene ancora che i greci alla fine si piegheranno, che è tutta una commedia. Se anche fosse così, sarebbe peggio che affrontare seriamente il problema.

Per oltre 4 mesi, l’euroarea non ha preso sul serio Tsipras e Varoufakis, il premier e il ministro dell’economia che hanno vinto le elezioni in Grecia promettendo con Syriza “ci faremo abbattere ancora il debito”. Si sono sprecate le ironie beffarde, quando si è capito che le richieste europee alla Grecia avanzate a febbraio rimbalzavano su un muro di specchi. Si è detto scritto che Varoufakis fosse un narciso mezzo matto, invece che un determinato radicale statalista come appare a chi lo legge da anni, e che a un certo punto bastasse chiederne la testa perché Tsipras si spaventasse. Storie. Il governo greco ha giocato la partita che aveva indicato sin dall’inizio: non pagheremo quanto dobbiamo pagare quest’anno e nei prossimi, tagliateci ancora il debito, come già avete fatto per oltre il 60% del valore tra 2011 e 2012. Già in vista della rata dovuta al Fondo monetario il 12 maggio scorso, Atene aveva detto che non avrebbe pagato. Lo ha fatto solo strappando all’ultim’ora di utilizzare i suoi diritti speciali di prelievo che ne rappresentano la quota nel capitale del Fondo. Quel capitale di riserva è stato speso. Ora la prossima scadenza è il 5 giugno, e in 4 rate entro il 19 Atene deve al FMI 1,6 miliardi di euro. E Atene fa esattamente la stessa cosa di un mese fa. Ha detto che non paga, non ci pensa neanche.

E’ un messaggio per i ministri delle Finanze del G7 che si riuniscono a Dresda, sotto la presidenza di turno tedesca, il 27-29 maggio, in preparazione del G7 coi capi di stato e di governo, il 7-8 giugno al castello di Elmau. La Grecia è riuscita in quel che voleva: porre il problema all’euroarea della rottura traumatica della moneta comune, dividere la Ue dal Fondo monetario, ed evidenziare che Washington non la pensa affatto come i falchi europei, timorosa che Atene scivoli verso Mosca.

Il punto non sono i 1600 milioni di euro che deve al Fondo a giugno. Entro il 2015 Atene deve ripagare oltre 25 miliardi, tra FMI e BCE e titoli in scadenza. Degli oltre 320 miliardi di debito pubblico greco attuale, la Grecia è creditrice per 131 all’EFSF, 27 alla BCE , 53 a prestiti bilaterali con gli euromembri stessi, e se sommiamo il dovuto alla BEI la quota europea del debito greco arriva a quasi il 70% del totale. Un 9% è in mano al FMI, solo il 17% a privati, il restante 3% sta in pancia alla banca centrale greca. Sommando l’esposizione italiana diretta bilaterale, quella per quota parte in EFSF, Bce, BEI e Fmi, arriviamo a 40 miliardi di euro, subito dopo Germania e Francia che rischiano 90 e 60 miliardi. Per noi si tratta di meno del 3% del Pil, per i piccoli euromembri il costo del default greco – se fosse totale – sta tra il 4 e il 5% del pil. Naturalmente, costi nazionali e percentuale sul PIL di ciascuno cambia a seconda del meccanismo di eventuale ritrutturazione del debito cioè di “default controllato”: se si adottasse una rimodulazione pluridecennale delle scadenze, che già sono state iperdiluite 3 anni fa, l’inflazione rialzatasi nel frattempo farebbe la differenza.

Syriza ha sempre detto che, dopo l’abbattimento di valore di oltre il 60% del debito deciso nei tre salvataggi precedenti della Grecia dal 2011 ad oggi che hanno pelato i titolari privati del debito, chiedeva all’Europa che ne detiene oggi il 70% di procedere a un ulteriore abbattimento della metà, mentre avrebbe pagato i ratei in scadenza al FMI. Finora Fmi e UE non hanno accettato. L’Europa ha creduto che Atene si piegasse abbassandole l’obiettivo di avanzo primario a poco più di mezzo punto di Pil l’anno, ma per il resto doveva procedere con privatizzazioni, contrattazione aziendale, niente passi indietro sulle pensioni.

Syriza non ci pensa neanche. Al comitato centrale di Syriza tenutosi sabato e ieri e dove l’ala sinistra ha picchiato duro, Tsipras ha ribadito che le privatizzazioni ancora da deliberare sono ferme, che le riassunzioni pubbliche vanno avanti, che la contrattazione nazionale e non aziendale è un caposaldo intoccabile. Varoufakis e Tsipras hanno chiesto di poter tassare le transazioni bancarie, quando le banche greche da gennaio in percentuale hanno perso oltre il doppio dei depositi di quanto capitò in Argentina prima che saltasse in aria nel 2000. Hanno promesso assunzioni a tempo dei turisti per la lotta all’evasione turistica. Non cambiano però la Costituzione, che esenta dalle tasse gli armatori.

Il FMI due settimane fa ha detto alla UE che è inutile proseguire nella finta trattativa, non avrebbe più dato ai greci altri soldi per farsi pagare le rate in scadenza. Tocca insomma alla Ue dare una risposta definitiva ai greci. Se si resta sulla linea del piano di riforme o niente, la Grecia va in default, perché gli 80 miliardi della linea straordinaria di finanziamento della Bce garantite ad oggi alle banche greche non bastano per tenerle in piedi. Le vie intermedie di cui si parlato finora sono mezze misure: tipo l’autorizzazione a pagare salari pubblici e pensioni con IOU cioè dei “pagherò”, che sono l’equivalente degli “assegnati” emessi dalla rivoluzione francese la cui svalutazione portò al Consolato di Napoleone. Come in tutti i casi della storia in cui vi si è fatto ricorso, i pagherò di Stato come strumenti sostitutivi della moneta perdono verticalmente valore nel giro di poco tempo, rivelando subito rispetto al valore nominale la fascia di svalutazione rispetto alla moneta forte di cui è stampato sul pezzo di carta il valore, che però lo Stato non detiene per pagare sul serio.

La domanda diventa: dobbiamo premiare ancora i greci, separando le loro responsabilità da quelle dei governi pazzi che li hanno portati in queste condizioni? Ma perché allora Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda si sono massacrati di manovre, per evitarlo? Oppure, come vorrebbero altri: che cosa vogliamo davvero, per abbattere ancora il debito greco e scrivere una pagina nuova delle regole all’euro mancanti, quella della solidarietà ai più deboli?

Se la Grecia esce dall’euro i mercati scommetteranno che anche altri lo faranno. E’ su questo, che punta il ricatto greco (anche se non della parte radicale di Syriza, che punta proprio a uscire e a svalutare massicciamente come da noi vorrebbero Salvini e Grillo, urlando che la colpa è della Ue per il massiccio depauperamento di risparmi e patrimoni che avverrebbe nei successivi due anni). Ma è impossibile credere che darla vinta a Syriza non porti a seguire una frana sulla stessa china, in Italia in Spagna e altrove. Come dimostrano i risultati elettorali europei.

Chi scrive preferirebbe che l’euroarea facesse capire che una moneta è comune solo per chi la sceglie e ne rispetta le regole. Le asimmetrie di produttività troppo forti rendono possibile una moneta comune o aprendo totalmente i mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, consentendo che funzionino come vasi comunicanti delle curve di costo e di prezzo, oppure con mega programmi di assistenza ai paesi meno forti. In assenza di entrambi le asimmetrie restano, anzi si aggravano nelle crisi. Meglio allora decidere procedure di uscita concertate. E se l’Italia dovesse un domani decidere anche lei che vuole tornare alla via greca, come sperano Salvini, Grillo e tanti altri, lo faccia pure. Altri italiani saprebbero semplicemente dove andarsene. Le monete-prigione non esistono, nella storia. O le si usa per quel che possono essere, oppure sono loro a liberarsi di noi, lasciandoci traumaticamente a monete deboli. Quelle fortemente volute da politici che fondano l’idea di sovranità nazionale su inflazione e svalutazione, pregustando di essere a capo di governi che decidono vincoli sui capitali, risparmi, banche e patrimoni. Come avveniva nella da tanti rimpianta Italia degli anni Settanta…

22
Mag
2015

L’inversione contabile del tesoretto

Quod erat demonstrandum: la Commissione europea ha bocciato l’estensione del meccanismo di “reverse charge (o inversione contabile) per il pagamento dell’IVA sulle cessioni di beni verso supermercati e altri operatori della grande distribuzione organizzata (GDO), prevista dal governo nell’ultima legge di Stabilità. Una bocciatura che, a ben vedere, era tutto fuorché imprevedibile. Read More

22
Mag
2015

La banda ultralarga nel modello superfisso

Hanno fatto giustamente rumore, nei giorni scorsi, i commenti cinguettati da Raffaele Tiscar, vice segretario generale di Palazzo Chigi e tra i più influenti consiglieri del premier in materia di banda larga. Chiosando un’immagine che evidenziava la presenza di diversi armadi di strada in una via di Novara, Tiscar ha deprecato la concorrenza infrastrutturale come fonte di moltiplicazione dei costi, forse a beneficio dei produttori di apparati, ma certamente a danno degli utenti.

All’interno di una cabina di regia che si direbbe troppo affollata per produrre un’elaborazione coerente – basti pensare alla battaglia delle bozze che accompagna ogni passo del governo sul tema, questo sì esempio di una proliferazione dannosa – Tiscar è l’alfiere di un dirigismo sincero, faticosamente contenuto dai suoi interlocutori e, soprattutto, dai vincoli comunitari all’intervento pubblico.  Fosse per lui – non crediamo di lavorare troppo di fantasia – le reti le farebbe lo stato, punto; non potendo arrivare a tanto, Tiscar si limita a minacciare la supplenza dell’esecutivo in caso d’inerzia del mercato e a rimarcare che “è il piano industriale del governo che orienta quelli degli operatori, e non viceversa” – posizione che collide con un altro recente cinguettio, questo confezionato dal presidente del Consiglio.

A un livello epidermico, l’intervento di Tiscar può meravigliare: ogni investimento nelle reti di telecomunicazioni dovrebbe essere salutato con entusiasmo da chi ha fatto dello sviluppo delle infrastrutture digitali nel nostro paese la propria missione. A ben vedere, però, si tratta di una reazione spiegabile e, anzi, rivelatrice di un certo approccio all’economia e all’economia delle reti in particolare: quello del modello superfisso, per usare l’accattivante formula di Sandro Brusco.

In questa cornice, sono innanzitutto fissi i bisogni. Nel nostro caso, non si dà nemmeno la fatica d’individuarli, perché la Commissione Europea si è presa la briga di dettagliarli per noi, con gli obiettivi dell’Agenda digitale. Siamo proprio sicuri che ci servano esattamente 100 Mbps per il 50% degli utenti entro il 2020 e non, per dire, 80 Mbps per il 75% degli utenti? Naturalmente, nel modello superfisso non c’è iato tra consumi e bisogni, perché questi vanno soddisfatti comunque, indipendentemente dai relativi costi e benefici – cioè indipendemente dai segnali di prezzo. E anche i metodi di produzione sono fissi: per i 100 Mbps occorre la fibra profonda; poco importa se, grazie all’evoluzione delle tecnologie esistenti, un risultato analogo si può ottenere con architetture alternative, in tempi e a costi ridotti, e ferma restando la possibilità di scalare l’investimento nel momento in cui la domanda lo rendesse necessario – il che non avverrà comunque: non abbiamo detto che i bisogni sono fissi?

Da ciò discendono alcuni corollari: che gli operatori investano a prescindere dal contesto industriale e competitivo, che l’ammontare complessivo dei loro investimenti sia fisso, che la disponibilità di spesa degli utenti non abbia alcun peso nel determinarlo, che ogni euro investito nelle architetture considerate subottimali sia un euro buttato, così come è uno spreco ogni euro investito in aree già servite dalla banda ultralarga. Capirete che, a questo punto, il piano dell’analisi e quello della prescrizione cominciano a confondersi; del resto, i presupposti del modello superfisso richiedono una certa disponibilità a piegare le evenienze della realtà alle esigenze della teoria. E se la realtà non si adegua, peggio per la realtà.

Tuttavia, la nostra esperienza del mondo economico va in un’altra direzione: gli incentivi contano e tocca al sistema dei prezzi veicolarli per permettere agli agenti economici di orientare la propria condotta. Questo è possibile solo se la concorrenza non è limitata per decreto. Sarebbe interessante indagare sulla storia dei cabinet di Novara, ma una semplice verifica su Google Maps ci fornisce qualche elemento in più. Ancora nel 2011, si trovava in quel punto un solo armadio rilegato in rame: in pochi anni sono comparsi nuovi armadi raggiunti dalla fibra e anche quello preesistente è stato adeguato, presumibilmente in risposta all’iniziativa dei concorrenti. Questo sviluppo avrebbe avuto luogo senza concorrenza infrastrutturale?

Lo sconforto del burocrate di fronte alla competizione è comprensibile. Nel mercato dei suoi sogni, gli operatori si limitano a seguirne le indicazioni – infallibili e insostituibili, perché il modello superfisso impone “solo” di ripartire gli investimenti (fissi) per soddisfare i bisogni (fissi). Nei mercati reali, investimenti e bisogni mutano costantemente e la concorrenza permette di approssimarne il punto di caduta. Si tratta di spingere più in là la frontiera del possibile – in termini di tecnologie, di servizi, di prezzi, di investimenti – sotto il pungolo della competizione e il giudizio inappellabile del consumatore.

La concorrenza come strumento di conoscenza e di scoperta in mercati dinamici. Nessuno dubita che tale logica funzioni nel mercato dei servizi – non si vede perché il mercato delle infrastrutture dovrebbe fare eccezione. La scelta al margine non è, in altre parole, tra investimenti organizzati e ben distribuiti e investimenti confusi e ridondanti; bensì tra la presenza e l’assenza di investimenti. Tanto quanto il piano è rassicurante e prevedibile, la concorrenza è sfuggevole e sorprendente. Ma, lungi dall’essere un insiderabile elemento di disturbo, è un lievito essenziale di sviluppo.

21
Mag
2015

Fondi Pensione, opportunità da cogliere e tentazioni da evitare—Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Il Decreto Ministeriale sul Credito di Imposta per gli investimenti in economia reale, effettuati dai Fondi Pensione e dalle Casse Privatizzate, sarà probabilmente poca cosa in termini di reali risparmi ma potrà comunque rappresentare un punto di svolta per il sistema. Non tanto per gli ottanta milioni di euro destinati allo sconto della tassazione sui rendimenti maturati, quanto per il senso di un provvedimento che non ha delimitato il campo delle asset class che ne potranno beneficiare, ampliando invece in maniera significativa l’universo investibile. Ricomprendendovi in sostanza qualsiasi strumento, quotato e non, che sia collegato all’economia reale e sia mantenuto in portafoglio per almeno cinque anni o, nel caso di cessione, ne sia comunque reinvestito il corrispettivo entro trenta giorni in analoga attività. Read More

20
Mag
2015

La narco-economia del calcio, con regolatori conniventi

Quanti anni sono, che i tifosi italiani sanno con assoluta certezza che, a campionati di calcio acquisiti o quasi, scattano pubblicamente le indagini delle procure e delle diverse autorità regolatrici su ipotesi sempre più vaste di calcio-scommesse e illeciti societari? Si è cominciato dagli anni Ottanta. Da oltre un decennio, poi, le indagini scattano precise come orologi svizzeri: per dare il tempo, a campionati fermi nella pausa estiva, di graduare le sanzioni ai club e ai loro dirigenti alla ripresa del campionato successivo. Non è il segno che ovunque, nel calcio come altrove, ci sono mele marce e gente senza scrupoli. E’ la foto di un sistema di cui sappiamo da molti anni la malattia, che non si è voluto curare. Perché di mezzo c’è la politica, e siamo l’unico paese avanzato in cui anche la tv è politica.

Quest’anno è peggio del solito. Non solito ieri la maxi retata con 50 arresti per maxi combines nelle serie minori, falsando i risultati delle partite per farci soldi a palate con le scommesse. Non solo l’ennesimo pezzo del logoro sistema federale del calcio che va in pezzi, con le sciagurate parole del presidente Belloli della Lega Dilettanti contro “le 4 lesbiche” del calcio femminile. C’è pure una maxi indagine che va al cuore del meccanismo finanziario del sistema calcio italico, e che ipotizza un patto occulto tra Lega Calcio, Sky e Mediaset nell’attribuzione dei diritti tv, a fine giugno 2014. E’ un’indagine gravata da un’enorme ipocrisia: perché a dare l’ok alla spartizione a tavolino, che avvenne allora sotto gli occhi di tutti violando il bando e le risultante della gara che era avvenuta, fu insieme all’Agcom anche l’Antitrust che oggi indaga e manda la Finanza a perquisire e sequestrare. Che fosse una brutale intesa anti-concorrenziale, lo denunciarono invano in quegli stessi giorni vasti settori dei media, compreso chi scrive. Mentre ora si procede sulla scorta di una dichiarazione di Lotito, che si è vantato di aver messo allora d’accordo Murdoch e Berlusconi: una cosa che avvenne sotto gli occhi di tutti, e per altro magari con il concorso del presidente di Lega Calcio Beretta, quello che secondo Lotito “conta zero”. Che cosa avvenne, un anno fa?

Che per il triennio 2015-2018 la Lega Calcio decise di incassare 945 milioni a stagione per i diritti tv, con un accordo Sky-Mediaset: la prima pagava e paga 572 milioni per tutte le partite sul satellite, il Biscione 373 per le 8 big sul digitale. Era il risultato della gara che era stata bandita, e che aveva diviso i diritti in 4 lotti? Neanche per idea. La Lega accettò di incassare 130 milioni in meno rispetto alle proposte giunte sul bando di gara. Ma l’esito della gara era tale da alterare l’equilibrio tra Mediaset e Sky. Sky, infatti, si era aggiudicata i diritti delle migliori 8 squadre per il satellite, con l’offerta più alta. Ma non tutte le altre partite in esclusiva su satellite e digitale terrestre: la sua offerta era risultata inferiore a quella di Mediaset. Senonché il lotto arrivò a Sky attraverso Mediaset, dopo che l’Agcom, con l’Antitrust stessa e in accordo con la Lega, diede il via libera alla sub-licenza. Mediaset aveva offerto di più, ma non si capì mai come potesse subordinare la sua offerta anche a uno degli altri lotti maggiori, cosa che il bando non prevedeva. Per questo i due gruppi tv trattarono, e la Lega Calcio ne fu ben felice, non potendosi inimicare il Milan che era anche uno dei due gruppi tv in contesa, nonché un pezzo essenziale della politica italiana.

E la cosa incredibile fu che a quel patto di plateale violazione di ogni regola della concorrenza hanno dato allora la benedizione l’Agcom e l’Antitrust, che oggi indaga evidentemente sulla sua cecità di allora visto che l’infrazuione alle regole avvenne sotto gli occhi di tutti. Il patto consentiva a Sky e Mediaset di continuare a utilizzare le rispettive piattaforme su cui operano tradizionalmente (digitale e satellite), mentre saltava l’assegnazione “incrociata” dei lotti per massimizzare i profitti (ovvio che 130 milioni in meno alla Lega hanno colpito le casse dei club minori).

Il grande padrino dell’accordo fu il consulente della Lega Calcio, la Infront di Marco Bogarelli, il vero mediatore a cavallo tra calcio e tv che sconfessò lui per primo il bando che aveva scritto. E anche se nel frattempo Infront è diventata di proprietà del gruppo cinese Wanda, sempre Bogarelli resta alla sua testa come re invisibile del maggior flusso finanziario che regge il malato calcio italico. Regge per modo di dire: perché quel miliardo scarso l’anno copre solo l’80% del costo del personale dei club di serie A, tanto per dirne una.

Diamo un occhio a valutazione e bilanci dei club. Il Milan nel bilancio 2014 ha registrato ricavi per 224 milioni, il patrimonio netto è negativo per 94 milioni, la perdita è di ben 91 milioni. I debiti totali sono 334 milioni, una volta e mezza il fatturato. La Juventus ha ottenuto ricavi per 300 milioni, ma ha patrimonio netto positivo di 42 milioni, un margine operativo di 69 milioni, perdite di 7 milioni, debiti per 211 milioni. Infatti capitalizza in Borsa praticamente solo quanto i suoi ricavi. La Lazio, tra le tre squadre italiane quotate ha chiuso in utile il 2014 per 7 milioni, ha ricavi per 84 milioni, un margine operativo positivo di 24 milioni, debiti finanziari per soli 20 milioni. Ma vale in Borsa meno dei suoi ricavi. La Roma ha chiuso in perdita per 38 milioni, con debiti a 137 milioni e con solo 128 milioni di ricavi. Ma in Borsa vale un multiplo della Lazio, che invece ha i conti in regola.

Le quotazioni di borsa italiane del calcio sono pura follia, svincolate da asset patrimoniali   e rendimento del capitale. Non andavano autorizzate dalla Consob negli anni ’90, perché altrove in Europa furono consentite solo con stadi propri delle società e attività da merchandising oltre a incassi e diritti tv. Il Manchester United da solo nel 2013 ha registrato profitti per 204 milioni. Fate un paragone coi conti delle grandi società italiane citati prima, e capirete perché in 15 anni la seria A italiana dall’essere insieme alla Premier League britannica la prima del continente per fatturato, è diventata a mala pena la quinta in Europa. Negli ultimi 5 anni, la Premier League britannica ha registrato incassi a vario titolo per 15 miliardi, la serie A per 8. Tre anni di diritti tv britannici valgono quasi 6 miliardi, il doppio dell’accordo dell’intera Lega calcio per tutti i campionati italiani. E mentre la Bundesliga tedesca registrava nei bilanci 2013 profitti per 62 milioni, la serie A aveva perdite per 166 milioni.

E’ per questo, che il calcio italiano è preda di manager senza scrupoli, senza capitali, di scarsa cultura a giudicare dalle loro stesse dichiarazioni, e troppo spesso dediti al malaffare. Sono le cifre a dirlo: e regolatori e istituzioni lo sanno benissimo.

18
Mag
2015

Pensioni: resta l’equità violata tra generazioni

La restituzione dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo INPS, bloccata nel 2011 per gli anni 2012 e 2013 e giudicata illegittima dalla Corte Costituzionale, non sarà integrale per tutte i trattamenti comunque alti. Sarà integrale per quelle a 1500 euro, e via via minore fino a fermarsi ai 3mila euro. Rispondiamo a una prima domanda: è coerente alla sentenza?

la risposta è sì, è coerente. Hanno torto sindacati e opposizioni, a cominciare dalla destra che votò quella misura, ad attaccare il governo asserendo che la sentenza della Corte imponga la restituzione di tutto a tutti. Hanno torto marcio, per ragioni formali e sostanziali, e ora vedremo perché. Ma, in ogni caso, anche la decisione del governo non chiude il capitolo. Perché le storture previdenziali sono tante e tali che, soddisfatta la Corte, bisognerà per forza rimetterci mano.

Perché non bisogna restituire tutto a tutti? In primis, perché è formalmente la stessa sentenza della Corte a consentirlo e indicarlo. Poi, nella sostanza: perché non è giusto. Vediamo l’argomento formale. Nei punti 5, 6 e 7 della sentenza sulle pensioni, la Corte Costituzionale, ripercorrendo gli interventi di blocco perequativo a cui in passato diede assenso, ha richiamato che l’intervento del 2011 andava bocciato perché non tutelava abbastanza le fasce più basse, perché biennale e non annuale, e perché non proporzionava gli effetti di blocco in maniera progressiva. Queste tre condizioni si soddisfano dunque non con la restituzione di tutto a tutti, come continuano a ripetere sindacati e oppositori politici, ma reintegrando maggiormente i trattamenti subito superiori a tre volte il minimo INPS, e poi graduando il recupero fino a una certa soglia, e non prevedendolo invece per quelle superiori.

A questo argomento formale, aggiungiamo la considerazione che scrivemmo all’indomani della sentenza. Non ridare tutto a tutti risponde a equità perché. In un sistema a ripartizione come resta il nostro, non è equo continuare a caricare oneri sui più giovani, i cui contributi pagano le pensioni in essere, non avendo più le giovani generazioni né le pensioni retributive né la facoltà di andare in pensione molto prima, come appunto i pensionati i cui assegni i giovani oggi pagano.

Aggiungiamo anche un altro argomento: non uno di coloro che gridano perché cvogliono la restituzione integrale ha indicato da dove avrebbe preso i miliardi che sarebbero occorsi per l’integrale restituzione  2012-2015 della mancata perequazione. Sono tanti: le cifre fatte nell’audizione parlamentare – non casualmente a porte chiuse – dal viceministro Morando sono per gli anni 2012-2015 complessivamente pari a 23,8 miliardi lordi e 17,6 netti (cioè una volta che lo Stato abbia reincassato l’IRPEF relativa) più 6,4 miliardi lordi e 4,6 netti per ogni anno dal 2106 al 2018 incluso. Non solo la Corte, buona parte della politica italiana ha già dimenticato l’articolo 81 della Costituzione che vincola all’equilibrio di bilancio.

Detto ciò, per il recupero deciso dal governo Renzi usa oltrre 2 miliardi di euro coperti in deficit, visto che il sedicente “tesoretto” era deficit e non coperto da tagli di spesa. resta il problema di capire come si coprirà l’esborso “selettivo” scelto dal governo. La Commissione Europea non era d’accordo, ma ora non fiaterà perché c’è di mezzo una sentenza della Corte Costituzionale.

Ma, al di là di questo, il problema previdenziale italiano resta. Guardiamoci negli occhi. La da tanti odiata riforma Fornero ha alzato l’età pensionistica rafforzando la stabilità del sistema, ma nella fretta di evitare la Trojika non ha affrontato il punto vero dell’equità violata, in materia previdenziale: far pagare a chi ha molto meno pensioni maturate con regole diverse da chi ha molto di più.

Anche nel 2015 l’INPS, informa l’organo di vigilanza dell’istituto, chiuderà per il quarto anno consecutivo con un deficit di almeno 5,6 miliardi, e saranno 30 miliardi cumulati dunque da quando, nel 2012, l’istituto ha accorpato la gestione delle pensioni pubbliche in capo all’INPDAP. Le pensioni pubbliche pesano per 65 miliardi di euro l’anno, cioè sono pari a un quarto del totale dell’esborso annuale previdenziale (in senso stretto, esclusi i trattamenti assistenziali a carico dell’INPS), ma i pensionati pubblici sono solo 2,8 milioni, rispetto a oltre 20 milioni in Italia. La loro pensione media è di circa il 60% superiore a quella degli ex dipendenti privati. L’INPS meritoriamente, dacché ne è presidente Tito Boeri, pubblica le cifre delle gestioni previdenziali delle categorie più “privilegiate” dell’era retributiva, come gli ex dipendenti ferroviari, elettrici, postelegrafonici. Categorie che avevano diritto alle baby pensioni, con multipli di trattamento maturato pari anche a 5 o 6 volte i contributi versati.

A fronte di tutto questo, poiché a pagare quegli assegni sono oggi coloro che quelle pensioni se le sognano e pagano contributi assai più elevati, sarebbe necessario un ricalcolo su base contributiva che incida sul differenziale in maniera progressiva, non annullandolo ma almeno contenendolo nei casi di maggior vantaggio rispetto ai contributi versati e per assegni dai 6 o 7 volte il minimo INPS in più. Sarebbe più che opportuno non solo per abbassare il pur pauroso esborso annuo all’INPS che proviene dalla fiscalità generale pari a 90 miliardi. Quanto per diminuire i contributi versarti oggi da chi sta e starà in futuro molto peggio.

La cosa pazzesca e difficilmente digeribile è che un ricalcolo contributivo preciso per i dipendenti pubblici sia difficoltoso perché lo Stato non ha tenuto il conto dei contributi che versava, per il semplice fatto che li considerava una partita di giro rispetto alle pensioni da erogare, e cioè non li versava. Altra conferma del caos pubblico in cui viviamo, addossandone il costo a chi sta peggio.

Ma ha mille volte ragione Paolo Savona, che ieri ha dichiarato: “il ricalcolo delle pensioni sulla base dei contributi versati è doveroso, perché il cittadino deve sapere quali oneri porta a carico della collettività per regolarsi di conseguenza su quale sia la sua posizione nei confronti della società, sia per calmierarsi nell’uso dei servizi che lo Stato gli rende, sia per pretendere che essi vengano prodotti in modo efficiente, tutti conoscenze che devono orientare l’elettore”. Prima di esaminare anche solo l’ipotesi di concedere salari di cittadinanza, cerchiamo di capire quanti milioni di italiani incassano trattamenti che, a tutti gli effetti, sono già una negative income tax, cioè una franchigia positiva sulle tasse che pagano, con un costo a carico di altri cittadini meno fortunati.