23
Giu
2015

Grecia: un accordicchio anti-paura

I messaggi ieri da Bruxelles sulla vicenda greca sono essenzialmente quattro. E, come capita quasi sempre con questa Europa dissonante, sono tra loro molto diversi. Il messaggio ai mercati è che il pessimismo è finito, si arriverà a un accordo vero entro fine settimana. Quello che proviene dai governi “euro ortodossi” invece non è cambiato: del nascondino di Tsipras e Varoufakis ne hanno le tasche piene. Quello che manda la Merkel, agli elettori tedeschi e ai parlamentari della sua maggioranza CDU-CSU-SPD (che dovranno votare l’accordo al Bundestag), è che ai greci abbiamo comunque fatto vedere i sorci verdi, ma ora basta, bisogna fare l’accordo e pensare alla nuova Ue del documento dei 5 presidenti, che tutti sanno essere improbabile visto che postula ulteriori cessioni di sovranità che governi ed elettorati respingono, ma è pur sempre una bandiera da sventolare per non ammettere che la Ue è bloccata e impotente. L’ultimo messaggio è quello che Tsipras rivolge ai partiti (dovranno votare in parlamento anche loro) e agli elettori greci: le proposte Ue-Fmi-Bce sono state finalmente abbattute, si resta nell’euro ma alle condizioni di Atene.

Tutti scriveranno della gran virtù della Merkel, che all’ultimo momento mette la mordacchia ai cani del rigore. Ma nel merito a me sembra avere più ragione Tsipras della Merkel. E’ vero, nell’accordo non si parlerebbe di abbattere quote di debito greco detenute da BCE ed euromembri, traslandole avanti nel tempo e attribuendole all’EFSF. Ma in realtà, se entro fine settimana al Consiglio Europeo dovesse passare l’accordo presentato ieri dai greci, per come è stato descritto è un accordicchio. Non rende assolutamente solvibile la Grecia rispetto alle rate in scadenza nel 2016. Gli concede altri 7 miliardi e rotti per pagare quanto deve ora a FMI e BCE e poco più, gli alza ulteriormente la linea di liquidità straordinaria ELA della BCE per tenere in piedi le banche greche. Ma dopo le elezioni spagnole a novembre saremmo daccapo, e i greci ripresenterebbero l’inevitabilità della ristrutturazione del loro debito.

Da quel che si è capito sarebbe accolto l’impegno greco di ottenere al più un avanzo primario dell’1% di PIL nel 2015 e del 2% nel 2016, al posto del 3% e del 4,5% dell’ultima richiesta ufficiale della Trojika. Cioè ci sarebbero 10 miliardi di euro di minor miglioramento della finanza pubblica in 2 anni, pari al 5,5% del PIL greco attuale. Salterebbe il no a riassumere 15mila dipendenti pubblici. Non si alzerebbe l’IVA su elettricità e farmaci (e questo è un bene, la richiesta era demenziale), ma la si rimodulerebbero su 3 aliquote rispetto alle attuali. L’avanzo si genererebbe attraverso una sovrattassa alle persone fisiche sopra i 30mila euro di reddito (470 milioni di gettito aggiuntivo in 2 anni) e alle imprese sui profitti oltre 500mila euro ( da cui 1,35 miliardi in 2 anni), e con maggior gettito contributivo dalle aziende per 800 milioni nel 2016 e 350 quest’anno. Tutto da verificare, in un paese in cui anche a maggio il fisco ha raccolto un miliardo in meno del previsto, e la somma delle tasse a ruolo non pagate ha raggiunto l’astronomica cifra di 78 miliardi, pari al 44% del PIL greco attuale. Per dare credibilità a tali proposte, Tsipras ha aggiunto due impegni. Il primo è ad anticipare a gennaio 2016 un’asticella più elevata per i prepensionamenti, ancora consentiti dal lunghissimo regime di attuazione della riforma previdenziale varata nel 2012 dopo quella del 2010. Il secondo è un meccanismo automatico di tagli aggiuntivi qualora l’accordo non funzionasse. Beato chi ci crede, vien da dire.

Come dare allora torto agli esponenti di governo irlandesi, austriaci, finlandesi e lituani che ieri sbuffavano alle agenzie che si erano letteralmente stufati, di far pagare ai loro governi tre volte a settimana i biglietti per aerei e alberghi per meeting straordinari inutili, visto che tanto la Grecia sta ottenendo quel che voleva?  La Grecia ha sfidato per 6 mesi l’euroarea: se non ci date retta l’euro si rompe una volta per tutte, la colpa è vostra e molti eurodeboli saranno colpiti dalla speculazione e l’eurocrescita rallenterà. Questa, la loro minaccia. Se l’accordo si fa su queste basi, hanno sostanzialmente vinto. Il che non sarebbe un male, se l’accordo comprendesse almeno una tra due alternative. O rendesse davvero la Grecia solvibile per il futuro: ma non è così. Oppure se l’accordo rimediasse davvero a qualcuno degli errori di fondo dell’euro. Cioè se prevedesse una ristrutturazione del debito greco entro l’euro, e con meccanismi cooperativi. O se contemplasse un primo superamento dell’errore di fondo dell’euro: credere che impegni di finanza pubblica più equilibrata servano da soli a rendere convergente la produttività, in assenza di mercati del lavoro, dei beni e dei servizi realmente comunicanti per equilibrare le differenze di costo e salari.

L’accordino sul quale si è detto ai mercati di sperare, mentre i due terzi dei governi dell’euroarea lo considerano una schifezza, non ha nessuna di queste caratteristiche. Non lascia la Grecia libera di non modernizzarsi e di riabbracciare svalutazione e deficit, come aveva scritto Francesco Giavazzi la settimana scorsa. Né dà all’euroarea una solida pietra su cui costruire nuove convergenze. Guadagna sei mesi, come la UE ci ha abituato dal 2008 in avanti. In attesa di tempi migliori.  E piegandosi ai calendari elettorali dei governi in carica, a cominciare oggi da quello spagnolo. Non apre nemmeno alla possibilità di un’uscita temporanea dall’euro, entro una fascia di oscillazione del cambio mentre il paese si ristruttura. Dite che è una gran vittoria della Merkel? Io credo invece apra la porta al fatto che di regole condivise non ce ne sono e che di migliori si è incapaci di farne, ergo vince chi ricatta di più.

Se passa così, spagnoli, portoghesi e irlandesi hanno di che arrabbiarsi come belve. I sacrifici che hanno subito si dimostrano eccessivi, perché non hanno usato l’arma finale della minaccia brandita da Atene. Del resto, ad Atene è nata la civiltà occidentale. Che è costruita non su onore inflessibile agli impegni, ma sull’astuzia di Ulisse. I greci dall’inizio dell’anno hanno portato nell’euroarea, al riparo di ogni uscita dall’euro, circa 25 miliardi delle proprie ricchezze (il calcolo è possibile disaggregando le diverse voci dei flussi tra banche centrali dell’euroarea, registrato dalla piattaforma Target2), cioè il 15% del PIL greco. Non valeva la pena di perdere 6 mesi, per un accordicchio simile. Con un paese che, negli ultimi 30 anni, quasi un anno su due (13 anni, per la precisione) ha avuto spesa pubblica superiore di oltre 10 punti di PIL rispetto alle entrate pubbliche.  Con un paese che prima decide di privatizzare l’aeroporto di Atene potendo incassare lo 0,5% del PIL, e poi per bloccare tutto s’inventa ex post un impianto di trattamento dei rifiuti. Un paese che aggiudica per gara alla società che gestisce l’aeroporto di Francoforte la gestione e modernizzazione di 14 aeroporti regionali greci, incassa 1,2 miliardi, e dopo averli incassati blocca tutto inventandosi che ogni aeroporto dovrà avere un Cda con i sindaci delle città in posizione di controllo e veto. Nulla di tutto ciò è colpa dell’austerity, del FMI, della BCE o della Merkel.  In Grecia il parassitismo statalista resta il modello di sviluppo, tutto qui. E in Europa piace ad alcuni, tra i quali l’Italia che nella vicenda greca è stata muta.

22
Giu
2015

Contro l’enciclica Laudato si’—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi.

L’enciclica di papa Francesco si presenta come un caloroso invito a curare la terra e custodirla, e a far un uso responsabile dei beni che essa offre all’uomo, coerentemente con quanto prescritto almeno a partire dal libro della Genesi. Ben presto lo scritto del pontefice si rivela un attacco sferzato contro l’economia liberale di mercato, che sarebbe responsabile del degrado ambientale del pianeta e della povertà di tanti suoi abitanti. La lettura del testo permette di affermare che Bergoglio non fa altro che proporre come soluzione dei problemi una teoria della decrescita alla Serge Latouche[1e l’applicazione di un principio di responsabilità come quello suggerito dal filosofo Hans Jonas ormai più di trent’anni fa.[2] Sembrerebbe che trasformare di meno, produrre di meno, consumare di meno possa aiutare ad aumentare il benessere del mondo, a ridurre la povertà e la disuguaglianza. In realtà, mostreremo come, oltre ad essere del tutto discutibili alcuni presupposti del discorso del pontefice, la direzione additata rischierebbe di condurre ad esiti del tutto opposti a quelli desiderati.

Molti sono i riferimenti alla necessità di sfruttare di meno la terra e le sue risorse. Un primo riferimento di tal genere si trova quando Francesco riporta un’indicazione del santo di Assisi che invitava a lasciare una parte dell’orto non coltivata [12]. Sembrerebbe che per affrontare il problema della povertà nel mondo non sia opportuno coltivare più terra, ma lasciarne una parte incolta! Qui emerge una contraddizione che accompagna tutta l’enciclica: da un lato l’invito a custodire la terra, ad accogliere ed apprezzare tutti gli esseri del creato, erbacce comprese, riducendo le attività di sfruttamento del suolo, dall’altro il grido contro la povertà. Basti ricordare come la rivoluzione neolitica, con l’introduzione dell’agricoltura, abbia potuto comportare un aumento della popolazione mondiale dagli 8-15 milioni di abitanti di 10.000 anni fa ai 250 milioni nel I secolo dopo Cristo; un aumento di 30 volte! Ciò dimostra quanti individui in più possa sfamare ogni metro coltivato di terra, altro che lasciare una parte dell’orto incolta.

Uno dei capitoli più rilevanti è quello dedicato ai cambiamenti climatici.  Diciamo subito che il papa scrive qui:

Esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico […] numerosi studi scientifici indicano che la maggior parte del riscaldamento globale degli ultimi decenni è dovuta alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana. [23].

Va detto innanzitutto che i dati a disposizione indicano che nell’ultimo decennio la temperatura media del globo si è pressoché stabilizzata, inoltre che la causa del cosiddetto global warming sia l’azione umana è tesi controversa. Qui Bergoglio appare ideologico o poco informato sul dibattio più recente. Sappiamo che nel Medioevo le temperature erano circa quelle attuali, attorno al 1600 si è assistito a quella che i geologi chiamano una “piccola era glaciale” e negli ultimi centocinquant’anni le temperature stanno semplicemente ritornando ai valori precedenti al 1600. Al di là della constatazione che si potrebbe ritenere positivo un aumento della temperatura media del pianeta (perché no?), e quindi bisognerebbe appena dimostrare la desiderabilità del mantenimento di una temperatura costante, è completamente opinabile che la causa del riscaldamento sia antropica, di conseguenza non meriterebbero di essere nemmeno presi in considerazione gli argomenti a favore della riduzione di emissioni e quindi di consumi. Se proprio vogliamo trattare anche gli argomenti concernenti la presunta necessità di ridurre le emissioni, potrebbero valere le considerazioni portate da Francesco Ramella in un articolo de La nuova bussola quotidiana:[3] al contrario di quanto sostiene Francesco [51], non sono tanto i paesi ricchi a contribuire al riscaldamento globale con abbondanti emissioni di gas, ma i paesi in via di sviluppo. La sola Cina ogni anno aumenta la quantità di emissioni di una cifra pari al totale di quelle del Regno Unito. Nuovamente il conflitto tra ambiente e lotta alla povertà: la salvaguardia dell’ambiente comporterebbe la necessità di ridurre la crescita dei paesi emergenti.

Altri errori compaiono quando Bergoglio scrive di

effetti occupazionali delle innovazioni tecnologiche [], aumento della violenza” e che “l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro se stesso [46], [128].

Che le macchine portino via occupazione è un’idea sbagliata che già il grande economista francese Frédéric Bastiat aveva brillantemente confutato:[4] in seguito all’invenzione, la produzione al capitalista costa di meno, ci sono meno operai occupati, ma anche più soldi risparmiati (dal capitalista se il prezzo del prodotto rimane  inalterato, dai consumatori se il prezzo viene ridotto), che verranno impiegati in altri settori creando altri posti di lavoro. Inoltre costando di meno il prodotto ai consumatori, probabilmente aumenterà la sua domanda e quindi la sua produzione e quindi il numero di operai richiesti. La diminuzione dei costi di produzione è un’azione che va sempre a vantaggio di tutti i consumatori. Anche per quanto riguarda l’aumento della violenza si può facilmente argomentare contro: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il tasso di omicidi è diminuito negli ultimi 15 anni circa di almeno il 16%; non si fatica a pensare che nel 1600 o 1700 la violenza fosse molto più diffusa e pervasiva.

Il papa continua a sostenere che “la crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita” [46]: egli specifica “non in tutti i suoi aspetti”, ma se guardiamo perlomeno alla ricchezza, tema che pare gli stia molto a cuore, i dati della Banca mondiale indicano che dal 1980 al 2010 la popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà assoluta è diminuita dal 52% al 21%. Inoltre, ormai sono molti anche i dati che indicano una diminuzione della diseguaglianza economica su scala globale.[5] Nonostante ciò i paesi più ricchi sono accusati di essere responsabili della povertà di altre regioni del mondo:

una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare […] i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le risorse più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro […] un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere [50], [52], [95].

Come già accennato, ad essere presi di mira sono i modelli di produzione e di consumo, oltre che in generale la tecnologia (per la quale l’enciclica parla addirittura di paradigma tecnocratico dominante) e la finanza. Il papa pare non capire che proprio la tecnologia rappresenta ciò che può permettere di aumentare il numero di bocche che possono essere sfamate e di intervenire a tutela dell’ambiente. Si pensi all’energia nucleare e agli organismi geneticamente modificati, per i quali Francesco stesso mostra un certo interesse, seppur mescolato a diffidenza, specie per il loro controllo da parte di oligopoli.

Per quanto concerne i modelli di produzione e consumo, Bergoglio pare far sua la teoria della decrescita di Latouche: “è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita” [193]. Non è accettabile sostenere che diminire la produzione ed il consumo possano migliorare le condizioni di vita di chi oggi è povero. In molte parti del mondo le condizioni di vita sono migliorate proprio perché noi utilizziamo materie prime che provengono da quelle regioni, proprio perché produciamo delocalizzando dove la manodopera costa meno, proprio perché consumiamo velocemente e chiediamo di produrre di nuovo. La ricchezza, come i socialisti ancora non riescono a capire, non è una torta sempre delle medesime dimensioni, per cui se il soggetto X mangia una fetta più piccola, il soggetto Y può mangiarne una più grande; ma è qualcosa le cui dimensioni possono aumentare e nella storia sono aumentate già di varie volte. A questo riguardo abbiamo già citato l’aumento demografico reso possibile dall’introduzione dell’agricoltura; la rivoluzione industriale ha permesso un’ulteriore moltiplicazione della popolazione, tale per cui a partire dai 250 milioni del I secolo dopo Cristo, ormai abbiamo raggiunto i 7 miliardi, a fronte, come già indicato sopra, di una diminuzione della povertà assoluta e della disuguaglianza. Certo, si può sempre pensare, che questa volta abbiamo veramente raggiunto il plateau, e le risorse a disposizione non basteranno; nel migliore dei casi infatti l’enciclica Laudato si’ si riduce ad un’etica della responsabilità come quella auspicata dal Jonas, ossia un invito prudente ad attuare scelte che permettano la continuazione della vita del genere umano nel futuro. Tale invito però trascura l’effetto delle imprevedibili innovazioni e trasformazioni che accadono nei secoli. L’applicazione della teoria della decrescita, così come quella del principio di responsabilità di Jonas, richiedendo un rallentamento della crescita di chi più sta crescendo, danneggerebe proprio i paesi in via di sviluppo.

La diffidenza del papa per l’economia liberale di mercato, additata di fatto come la responsabile dei mali in cui incorrerebbe il pianeta, diventa evidente quando scrive:

La cultura del relativismo è la stessa patologia che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto, obbligandola a lavori forzati, o riducendola in schiavitù a causa di un debito. È la stessa logica che porta a sfruttare sessualmente i bambini, o ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi. È anche la logica interna di chi afferma: lasciamo che le forze invisibili del mercato regolino l’economia… [123].

Insomma chi crede nell’economia liberale di mercato adotterebbe la medesima logica di chi sfrutta sessualmente i bambini o abbandona gli anziani.

Tale critica al capitalismo si accompagna ad una notevole fiducia riposta nel ruolo dello stato: “Tutta la società – e in essa specialmente lo stato – ha l’obbligo di difendere e promuovere il bene comune” [157]. Qua esce alla luce il volto più statalista di Bergoglio, che si aspetta che sia l’istituzione statale ad occuparsi di difendere e promuovere il bene comune. Per risolvere i problemi che affliggono il pianeta viene auspicata da Bergoglio, sulle orme di suoi predecessori, un’Autorità politica mondiale [175], la quale dovrebbe evidentemente essere dotata di sufficiente potere coercitivo sulle altre istituzioni pubbliche. Se il dibattito politico liberale riflette sempre più sull’opportunità di dissolvere gli stati centralisti in entità statuali più piccole che possano trovarsi in una condizione di virtuosa concorrenza istituzionali, il Vaticano immagina nuove autorità politiche planetarie che possano governare l’economia mondiale, promuovere la sicurezza alimentare e la pace, garantire la salvaguardia dell’ambiente… Secondo papa Francesco il diritto pubblico dovrebbe occuparsi di “previsione e precauzione, regolamenti adeguati, vigilanza sull’applicazione delle norme, contrasto alla corruzione, azioni di controllo operativo sull’emergere di effetti non desiderati dei processi produttivi, e intervento opportuno di fronte a rischi indeterminati o potenziali” [177]. Soffermiamoci soltanto sull’opportunità che lo stato di occupi di controllare l’emergere di effetti indesiderati dei processi produttivi: chi giudica se e quanto certi effetti sono indesiderati? Quanta coercizione è necessaria per limitare tali eventuali effetti? Si considera la possibilità che effetti indesiderati possano essere prodotti proprio dall’intervento pubblico? Il discorso di Bergoglio cozza contro quanto prodotto dalla riflessione politico liberale di Hayeck, di Nozick, di Rothbard, per citare i principali autori.

Abbiamo visto come papa Francesco, partendo dal presupposto che il mondo stia andando incontro ad un gravissimo degrado ambientale, non risolvibile mantenendo i medesimi modelli di produzione e consumo, ritenendo che la parte ricca del pianeta stia esaurendo le risorse disponibili rendendo impossibile la futura generalizzazione della ricchezza, proponga una teoria della decrescita accompagnata da un approccio socialista e statalista all’interpretazione dell’economia del mercato. Con l’enciclica Laudato si’ il pensiero liberale, e aggiungerei quello scientifico, hanno un nuovo agguerritissimo avversario.

Note

  1. Latouche S. Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
  2. Jonas H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1990.
  3. Francesco Ramella scrive un efficacissimo articolo rinvenibile qui.
  4. Bastiat F., Ciò che si vede, ciò che non si vede, a cura di Nicola Iannello, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005.
  5. In particolare, la disuguaglianza internazionale, intesa come divario tra i redditi pro capite dei diversi paesi del mondo considerando la numerosità della popolazione, è sempre scesa negli ultimi 60 anni. Si veda per esempio Milanovic B. (2012), Global Income Inequality by the Numbers: in History and Now, An Overview, World Bank Policy Research Working Paper 6259, November.
16
Giu
2015

Così stati e banche centrali hanno distorto il mercato—Intervista a Enrico Colombatto

Intervista di Antonluca Cuoco, originariamente pubblicata su www.ildenaro.it.

Il debito pubblico italiano è l’emergenza della nostra epoca: la sua presenza è una minaccia costante per il nostro futuro, per i nostri sogni e progetti. Creatura quasi mitologica per le giovani generazioni, condiziona e condizionerà la nostra vita personale, riducendo la nostra capacità decisionale, incidendo direttamente nella vita di ogni giorno. Read More

16
Giu
2015

Biotecnologie: nuove opportunità e vecchi pregiudizi

Si sta svolgendo in questi giorni a Philadelphia la BIO International Convention, il più grande e prestigioso evento al mondo sul tema delle biotecnologie. Per l’occasione è stata presentata un’edizione speciale di Scientific American Magazine, popolare rivista scientifica americana, ideata con l’obiettivo di valutare le capacità d’innovazione scientifica dei Paesi di tutto il mondo nel campo delle biotecnologie, secondo sette categorie fondamentali. Read More

15
Giu
2015

Perché il governo tarda sui dirigenti tributari illegittimi

Da mesi ormai il governo non affronta le conseguenze della sacrosanta sentenza della Corte costituzionale, che accogliendo chi come noi protestava da anni, ha riconosciuto l’illegittimità di quasi mille dirigenti delle diverse agenzie tributarie, di cui quasi 800 all’Agenzia delle Entrate. E’ un problema molto serio, perché inevitabilmente “ingrippa” l’ordinaria e straordinaria amministrazione dell’apparato tributario, e, tanto per fare un esempio, sta potentemente rallentando l’attuabilità della voluntary disclosure, le cui procedure prevedono un ruolo molto rilevante dei dirigenti tributari a fronte della procedibilità stessa e della valutazione delle istanze.
Oggi, per la prima volta, viene lanciato un segnale molto preoccupante. L’editoriale di prima pagina di Repubblica Affari&Finanza lancia esplicitamente l’ipotesi che la mancata soluzione al problema da parte del governo dipenda da una manina nascosta, che sarebbe poi quella degli amici degli evasori. Da parte mia non c’è alcuna polemica con i giornalisti di Repubblica, che hanno fatto il loro mestiere. Cioè hanno raccolto la tesi che rilanciano all’interno dell’Agenzia delle Entrate e dell’apparato tributario pubblico. però è esattamente questa la cosa grave,  che vale la pena di una riflessione.
Se il governo finora non ha emanato un provvedimento, come si è visto più volte da quanto facevano trasparire sui media, si deve al fatto che i vertici e il più dei dirigenti illegittimi di AgEntrate contavano e contano su una sanatoria: che lasci tutti allo stesso posto d prima, come se la Corte non fosse intervenuta. Al più, tra le ipotesi caldeggiate dall’apparato tributario emerse sui giornali, si aspettano un finto concorso ad personas, al quale partecipino solo i dirigenti illegittimi, e che sani l’effetto della sentenza della Corte attraverso una solenne presa in giro: innanzitutto di milioni di contribuenti itaiani.
Non è questa la sede per una disquisizione tecnica sulla teoria amministrativa funzionale dei dirigenti, secondo la quale molti hanno invocato che gli atti esecutivi da loro emessi e firmati, e anche quelli ricadenti nei termini ordinari d’impugnazione, fossero comunque e restassero validi e non impugnabili. Ci hanno pensato una raffica di decisioni in senso opposto assunte dalle Commissioni Tributarie Provinciali a favore delle impugnative, a smentire le prime, precipitose e inavvedute dichiarazioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate che, all’indomani della pronunzia della Corte aveva invitato con toni spicci i contribuenti a non perdere tempo e soldi impugnando gli atti firmati dai dirigenti illegittimi.
Voglio solo affermare un principio. L’organizzazione delle agenzie con incarichi dirigenziali a tempo e in deroga al principio del concorso pubblico è stata funzionale a un principio dell’uniformità a cordate interne, collegate ai vertici di AgEntrate. Mentre la stessa Agenzia diventava sempre più impropriamente titolare della facoltà di scrivere riservatamente i provvedimenti tributari, oltre che di monopolista della loro interpretazione.
La sentenza della Corte apre alla necessità di una svolta.  Occorrono rapidamente concorsi veri, aperti a tutti i 40mila finzionari, moltissimi dei quali – ce ne sono a bizzeffe di ottimi, preparati e indipendenti dalla politica – hanno vissuto le “cordate” come una cocente penalizzazione della loro professionalità. Interroghiamoci piuttosto sui dirigenti a capo del personale delle Agenzie, che negli anni hanno bandito concorsi che sono finiti tutti annullati,  a maggior giustificazione della prassi illegittima invalsa nelle Agenzie, e che oggi restano tutti in carica ai loro posti. Quando dovrebbero essere i primi a saltare, vita la sentenza della Corte.
Questa è la vera manina in azione che impedisce il provvedimento “giusto” che il governo deve emanare. Evocare lo spettro degli evasori per confermare la macroscopica illegittmità perpetrata nell’apparato tributario è un artificio penoso. Perché in nome della lotta al presnto interesse innominabile dei furbetti del fisco, persegue invece l’intesse evidente dei furbi di Stato.

13
Giu
2015

Grexit: meglio una fascia di oscillazione su €, piantatela di dire che ITA non rischia nulla

Lo Zimbawbe, paese fallito da 28 anni sotto il regime del presidente Robert Mugabe, ieri si è arreso. Travolto da un’inflazione a 9 cifre cifre, ha deliberato che da lunedì la moneta locale inizierà a sparire, cosa che avverrà definitivamente entro settembre. E sarà trasformata in dollari americani. Al cambio di 1 dollaro USA per 35 quadrilioni della moneta locale. Un quadrilione sono 1 milione di miliardi, 35 quadrilioni sono dunque 35 milioni di miliardi: per un dollaro USA. L’ultima banconota della banca centrale dello Zimbawbe aveva un valore facciale di 100 trilioni, cioè 100mila miliardi. La domanda che si ponevano ieri alcuni giornali europei, annunciando la notizia africana, era scontata: la Grecia come lo Zimbawbe?

La settimana prossima è decisiva, dicono. Ma scappa da ridere a pensarlo, a 6 mesi dalle elezioni greche e di inconcludente balletto tra Alexis Tsipras con i vertici della Ue, della Bce e del Fondo Monetario Internazionale. In ogni caso, lunedì Draghi ha un’audizione al parlamento europeo, martedì si riuniscono gli sherpa che preparano l’eurogruppo di giovedì, e infine venerdì c’è l’Ecofin. Se non si trova l’accordo con Atene, l’ultima istanza è il Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno. Dopodiché, senza accordo la Grecia non paga il miliardo e 600 milioni di dollari che deve al FMI, né a luglio e agosto i 6,8 miliardi di euro che deve alla BCE. E la Grecia va in default, fallisce. Detta così significa però poco o nulla: tutto dipende da “come” fallisce. Ma prima di arrivare a quello, verifichiamo le ipotesi.

Washington. Obama non si capacita che gli europei siano così tonti dal non risolvere il problema dell’eccesso di debito di un membro che vale meno del 2% del Pil dell’euroarea. Putin si precipiterebbe a spalancare le braccia a Tsipras. Per la Casa Bianca è inaccettabile Indebolire il fianco sud della NATO mentre l’UE nicchia sulle sanzioni a Putin, e il caos mediorientale tra Siria, Iraq ed espansione dell’Isis non è minimamente sotto controllo da parte dell’arrabbattata coalizione “aerea” (nel senso che agisce solo bombardando sporadicamente dal cielo) messa in piedi da Obama. Ma è anche vero che sin qui Washington ha fatto mille appelli, ma non ha tirato fuori in dollaro.

FMI. Si è rotto le scatole dell’inconcludenza della Ue. Da almeno tre mesi ha capito che Atene non cede affatto alle richieste di rigore, e che in queste condizioni è inutile perder tempo: l’istituzione multilaterale guidata da Christine Lagarde altri soldi non li mette. Il messaggio è alla cancelleria tedesca: Berlino si prenda la responsabilità di una scelta.

Merkel. Dicono che vorrebbe un accordo anche, ormai, assai poco rigoroso, per concedere ad Atene una prima tranche di 7,2 miliardi di euro di aiuti. Ma ha tre problemi. Nei sondaggi sui tabloid popolari germanici, ormai i tedeschi che vogliono Atene fuori dall’euro hanno superato il 50%. Il tosto ministro delle Finanze Schaueble è ormai della stessa idea, non è stato coinvolto dalla Merkel negli ultimi incontri con Tsipras, e si è incupito non poco. In più, nella CSU ma ormai anche nella CDU la fronda anti-greca conta una settantina di parlamentari. E in caso di aiuti, il Bundestag dovrebbe pronunciarsi, perché in Germania non si dà un cent in più all’Europa senza voto parlamentare (santo principio). Ergo la Merkel deve riuscire a piegare Tsipras almeno su qualche punto di fondo, altrimenti rischia schizzi copiosi di fango a casa sua.

Syriza. E’ inchiodata. Quanto più Tsipras è duro nei negoziati, tanto più cresce nei sondaggi. L’ala sinistra del partito ha fatto votare documenti in cui si ribloccano le privatizzazioni, non si toccano le pensioni, si torna alla contrattazione solo nazionale, si riassumono i dipendenti pubblici. Il problema “con quali soldi” pare irrilevante sull’orizzonte politico greco. Ma del resto troppo spesso vale anche nella politica italiana. I greci però vogliono restare nell’euro, oltre il 70% nei sondaggi si esprime così. E ti credo: è grazie all’euro che la Grecia si è permessa di accentuare ulteriormente tutti i suoi squilibri di folle statalismo. E’ un paese con pensioni medie pressoché pari a quelle tedesche, ma in cui in media si va in pensione 6 anni prima che in Germania, e con un PIL procapite meno della metà di quello tedesco. Senza manifattura, con export industriale pressoché assente, solo il turismo a tirare, produttività bassissima malgrado il record annuale di ore lavorate a testa, e armatori- oligarchi che non pagano le tasse per Costituzione.

Referendum o elezioni. In caso di mancato accordo, per la Merkel la via d’uscita sarebbe di negoziare in accordo con Draghi un trimestre di dilazione, consentendo a Tsipras di chiedere ai greci che cosa vogliono fare. Tsipras non ne ha alcuna voglia, però. Fino a 6 mesi fa erano i premier greci a minacciare la UE con ipotesi di referendum. Ora è la Ue a fare il contrario: sperando che i greci cambino idea nelle urne, al timore di vedere i propri residui risparmi in fumo.

Default incontrollato. Molti economisti filo euro ormai pensano quel che ha scritto Francesco Giavazzi: la Grecia non vuole modernizzarsi, non possiamo obbligarla, lasciamola andare. E’ la stessa tesi dei rigoristi tedeschi più duri come Hans-Werner Sinn, che da mesi scrive che gli aiuti alla Grecia hanno consentito ai greci stessi di portare in questi mesi nell’euroarea decine di miliardi che rimarranno denominati i euro, al riparo da ogni restituzione ai creditori europei, e scudati dalla mega inflazione del 40-50% – è la stima convergente di molte grandi banche internazionali – che si scatenerebbe in Grecia. Un default incontrollato farebbe molto male ai greci, quantomeno nel breve-medio termine (attenti a dirlo: i guru antieuro accademici italiani sono pronti a coprirvi di contumelie e a bannarvi con rito social di fronte ai loro adepti, ahah…). Nel senso che i vincoli sui capitali, i fallimenti bancari e delle imprese i cui debiti restassero in euro con attivi in moneta invece svalutata, la svendita di asset deprezzati a compratori internazionali, il valore reale del risparmio abbattuto da svalutazione e inflazione, porterebbero la recessione greca a trimestri durissimi. Con una ripresa, è vero, nell’arco del biennio successivo, se guardiamo a precedenti come l’Argentina del 2002: ma attenti che la Grecia esporta poco, con la svalutazione non è che venda meglio nel mondo automobili o manufatti che non produce. Certo, per la politica greca sarebbe facile puntare sull’orgoglio nazionale, dando la colpa agli europei nuovi nazisti. E russi e cinesi accorrerebbero a far la parte dei salvatori, campioni come sono delle libertà che fondano l’idea stessa della loro sovranità…

Un default controllato. Il punto è che il default incontrollato non farebbe male solo ai greci, ma anche a noi. Alla Ue, che è invece convinta di non averne nulla da temere. Molti economisti e analisti si sono persuasi che la rottura dell’impossibilità dell’uscita dall’euro sarebbe anzi benedetta: deprezzerebbe la moneta comune, che invece da metà marzo ha ripreso a salire sul dollaro, riguadagnando quota 1,15 dalla quasi parità col biglietto verde che aveva raggiunto. E l’euro deprezzato fa bene alla ripresa europea. Padoan è convinto poi che l’ovvio effetto scommessa dei mercati contro l’Italia, uscita la Grecia, sarebbe piegato dalla Bce, costretta a difenderci comprando ancor più nostri titoli pubblici. Chi qui scrive pensa siano illusioni. La storia è piena di banche centrali sconfitte dai mercati. Noi pagheremmo più oneri sul debito pubblico. Già oggi le previsioni del DEF governativo di aprile non stanno in piedi, visto che i rendimenti di mercato dei titoli pubblici decennali si sono alzati da allora di 100 punti base, incorporando quelli del BUND tedesco. Sarebbe dunque molto meglio concordare un default parziale, con procedure condivise, vincolando la Grecia e la sua dracma a una fascia di oscillazione con l’euro anche ampia ma fissa, in cambio di qualche aiuto. Speriamo qualcuno abbia pronto lo schema, a Berlino e a Francoforte. Se la Grecia fa default non rinunciando formalmente all’euro e con IOU in moneta parallela che avrebbe subito nulla, cadrebbe in deflazione devastante prima che in inflazione…. (anche su questo, attenti alle scomuniche degli antieuro…).

L’Italia. Credere che il nostro paese “non abbia vulnerabilità”, come ha detto Padoan, è una rassicurazione vana. Ne abbiamo eccome. Di enormi. E’ meglio che i governi italiano, spagnolo e francese ci pensino bene. Sono anch’io per lasciare liberi i greci, le monete-prigione nella storia non esistono e non reggono. Ma senza tenerli legati in qualche modo all’euro, allora Podemos in Spagna, Grillo e Salvini in Italia, la Le Pen in Francia, avranno una carta oggettivamente potentissima da giocare di fronte ai rispettivi elettorati. E sarà una colpa ulteriore dell’imbelle politica europea, a quel punto.

 

9
Giu
2015

Tagliare la spesa pubblica. Ecco come si risolve (davvero) Mafia Capitale—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

A leggere dello scandalo di Mafia Capitale è fin troppo facile puntare il dito contro la corruttela e l’immoralità della politica, inneggiare alla forca per i disonesti o fare i grillini chiedendo di mandare tutti a casa. Il che, per carità, non è del tutto sbagliato: i politici disonesti (non tutti) vanno puniti severamente e, quando previsto, cacciati dalle istituzioni.

Fermarsi solo all’aspetto “morale” dell’affaire Mafia Capitale rischia però di semplificare radicalmente il problema, lasciando senza risposta un paio di domande importanti. La prima è se i ladri esistano solo a Roma o in ogni parte d’Italia, ma la risposta è tanto scontata da farci passare oltre. La seconda è perché in Italia il fenomeno corruzione sia tanto pungente. Che la corruttela sia particolarmente diffusa nel nostro Paese non è del resto un luogo comune, ma un dato oggettivo. L’Index of economic freedom della Heritage Foundation, alla voce “libertà dalla corruzione”, assegna al nostro Paese un punteggio di 43/100: non è solo un bel 4 ma un risultato che si avvicina più agli Stati africani rispetto a quelli europei.  Read More

5
Giu
2015

Trasporto non di linea: le proposte dell’Authority e il legislatore sordo

L’ordinanza del Tribunale di Milano che, qualche giorno fa, ha bloccato il servizio “UberPop” in tutta Italia (e di cui su questi pixel ci eravamo già occupati qui, soffermandoci sulla necessità di riformare al più presto il settore) ha riacceso l’infuocato dibattito sull’equilibrio tra le nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il trasporto pubblico non di linea e le prerogative del sistema dei taxi, cui ieri si è aggiunto un ulteriore e autorevole parere. L’Autorità di Regolazione dei Trasporti, infatti, ha inviato al Governo e al Parlamento una segnalazione in cui propone la riforma dell’attuale normativa sul trasporto non di linea, con l’obiettivo di adeguare la legislazione alle sostanziali e significative modifiche che hanno interessato il settore negli ultimi anni. Read More

1
Giu
2015

La Grecia è ormai fallita, a rimetterci saranno i più poveri—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

La crisi di liquidità greca e l’ipotesi di un mancato rinnovo dei prestiti internazionali hanno mandato in fibrillazione non solo Atene ma la stessa Unione europea, preoccupata per un possibile default di Atene. Come ha ricordato Oscar Giannino entro il 19 giugno la Grecia deve infatti rimborsare una rata da 1,6 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale: soldi non ci sono e comunque Alexis Tsipras e il ministro dell’Economia Yanis Varoufakis hanno fatto sapere che non intendono pagare per degli impegni di austerity presi dal precedente governo. Anzi rilanciano l’idea di una nuova ristrutturazione del debito pubblico dopo quella che fra il 2011 e il 2012 ha tagliato più del 60% del valore reale dei crediti detenuti dai privati. Read More