7
Lug
2015

Contro la net neutrality

“Politici e commentatori di tutto il mondo sostengono che dobbiamo assicurarci che Internet continui a essere una piattaforma libera, aperta e plurale. Ma allora perché dovremmo modificare il regime giuridico che l’ha regolata così bene e resa – appunto – libera, aperta e plurale sino ad oggi? È un non sequitur.

Risponde così Thomas Hazlett – celebre studioso di economia dell’informazione e professore alla George Mason University School of Law – quando, a margine del seminario che si è tenuto ieri all’Istituto Bruno Leoni, gli chiedo cosa pensa della net neutrality. Un tema tornato alla ribalta dopo l’approvazione da parte della Commissione Europea della bozza di accordo sulle nuove regole delle reti di Internet, secondo cui il traffico del web non dovrebbe potere “subire discriminazioni” o essere soggetto a “corsie preferenziali” disposte dai singoli providers. Tali limitazioni riguarderebbero, ad esempio, gli abbonamenti a determinate applicazioni o servizi, oppure la fornitura a prezzi differenziati di connessioni diverse per caratteristiche di velocità e sicurezza. E non solo sono sempre esistite; secondo Hazlett, sono proprio ciò che ha determinato, sopra ogni altra cosa, il successo di Internet.

“Nel 1993, AOL non era il gigante del media blogging che è oggi. Il loro core business era fondamentalmente un “giardino recintato” (cioè uno spazio virtuale privato) chiamato USENET. Per promuoverlo, AOL iniziò a regalare CD contenenti il loro software. Fu una campagna enorme: dopo qualche mese, secondo alcune indagini, più di metà dei CD di tutto il mondo erano targati AOL. E i servizi wireless, a ben vedere, nascono proprio da lì.”

Il successo di USENET fu strepitoso, tanto che fu coniato un termine – “eternal september” – tuttora molto usato nel gergo del web – per descrivere il massiccio afflusso di utenti sulla piattaforma. “Che era tutto fuorché neutrale!”, sottolinea Hazlett.

“Così come non è neutrale i-mode, una piattaforma lanciata già nel 1999 dalla giapponese NTT DoCoMo che permette di accedere a siti appositamente creati per poter essere utilizzati con successo sugli schermi ridotti dei telefoni cellulari. E che ha costi differenti a seconda della velocità del servizio e del tipo di abbonamento. Risultato: gli utenti di i-mode sono quasi 50 milioni, di cui ben 6 milioni fuori dal Giappone.”

E cosa dire, ad esempio, di Google, che lo scorso settembre ha rimosso l’app di Amazon dal suo Google Play Store? Non è forse anche questo un “ostacolo” alla net neutrality?

“È un esempio emblematico: sostenere che Google non possa farlo significa attentare alla sua libertà d’impresa e alle sue strategie commerciali. La politica commerciale dell’iPhone, del resto, mostra in modo macroscopico come la presunta discriminazione sia spesso proprio ciò che attrae i clienti. Perché in realtà è innovazione. E non c’è proprio nulla di male, perché non obbliga i consumatori ad alcuna scelta: al contrario, ne amplia il ventaglio. E cosa dire del New York Times, che conta un milione di sottoscrizioni alla propria sezione a pagamento?”

Ma net neutrality significa anche molto altro. Per l’utente comune, in particolare, significherebbe non poter bloccare preventivamente flussi di dati indesiderati e rendere prioritari flussi desiderabili sulla base di criteri come le ricerche pregresse e il tipo di abbonamento. In altre parole: significherebbe combattere la personalizzazione e l’innovazione dei servizi su Internet. Cioè prendere la strada opposta a quella che il web sta scegliendo da anni senza imposizioni.

Open Internet significa garantire a consumatori, investitori e fornitori di servizi di poter scegliere, lasciando che siano efficienza e innovazione a guidarli. I regolatori hanno scambiato il processo spontaneo che ha creato il web per una struttura predeterminata, e per questo vogliono imporre nuove regole, con lo scopo di proteggere qualcosa che, al contrario, si è evoluto senza di loro. Ecco cosa dovrebbe essere davvero neutrale: l’atteggiamento dei politici verso la rete.”

Twitter: @glmannheimer

6
Lug
2015

L’Atene di oggi vista da Yale

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 3 luglio scorso, in forma leggermente modificata, su Il Foglio, con il titolo “La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale.

La crisi ellenica è la spia di alcune disfunzioni dell’Eurozona, ma non ne è una conseguenza. La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. Read More

6
Lug
2015

Sei ragioni che portano Grexit in vantaggio

In Grecia Tsipras e Varoufakis hanno vinto. E’ una data storica, comunque la si pensi. Perché nei decenni ci sono stati popoli europei a dire no alla CEE, all’Unione Europea, alla Costituzione europea, e anche all’euro. Ma è la prima volta che il popolo di un paese dell’euro dice no alle proposte Ue, chiedendo insieme di restare nell’euro ma di “cambiare segno” alla condizioni poste agli aiuti di cui continuano ad avere un dannato bisogno.

Oggi i media italiani e quelli di mezza Europa inneggeranno alla grande lezione che la democrazia diretta greca infligge all’Europa dell’austerità a guida tedesca. In realtà, l’abilità greca è stata quella di sommare in un potente cocktail politico-mediatico marxismo anticapitalista e sovranismo nazionalista di destra: sono le due correnti politiche che ci hanno regalato il ‘900 di sangue e autoritarismo alle nostre spalle, ma oggi appaiono unite sotto l’egida della democrazia in marcia trionfante contro la tecnocrazia. Per essere realisti, e al netto dei gravissimi errori Ue più volte richiamati negli scorsi 6 mesi, bisogna però non dimenticare che le ragioni della politica greca non fanno scomparire quelle della maggioranza dei paesi dell’euroarea a guida tedesca. Ricordando bene una cosa: da oggi all’apertura dei mercati, il tempo scorrerà molto in fretta, e le risposte da dare al no dovranno venire molto, molto rapidamente. Ed essere chiare. Altrimenti le conseguenze saranno sempre meno facilmente maneggiabili. Vediamo perché.

 Primo: Grexit sì o no? I greci, come si è sempre detto, non vogliono l’uscita dall’euro, vogliono molti aiuti meno condizionati dall’euroarea. Poiché la maggioranza dei leader dell’euroarea riconosciutisi nella linea tedesca hanno seguito la Merkel sulla linea “il referendum in realtà è sul sì o no sull’euro”, com’è possibile che oggi cambino idea? Accetteranno di fronte ai propri parlamenti e alle proprie opinioni pubbliche l’idea che la democrazia greca da sola vale più di quella di casa propria? L’idea che si erano fatti i governi di Germania, Olanda, Austria, Finlandia, Estonia, Spagna e via continuando, era che con questo governo greco non c’è più niente da fare. C’è da immaginare che lo pensino ancor più oggi, non meno. In questo caso, la trattativa con i greci prenderà tutt’altra linea di quella attesa da Tsipras: sarà sulle modalità che la Grecia e l’euroarea eventualmente concorderanno per far uscire la Grecia dall’euro. Non è un caso che Mosca, ieri sera, abbia detto subito che a proprio giudizio la Grecia è più vicina a uscire dall’euro che a un nuovo accordo europeo. E’ la stessa posizione dichiarata da grandi banche come JpMorgan. Fin qui l’Europa non è sembrata preoccupata, di regalare Atene a Mosca. Lo penserà anche oggi?

 Secondo: chi paga le banche greche? Il governo Tsipras ha già chiesto l’estensione da oggi della linea straordinaria di liquidità ELA della BCE, e l’accesso a un programma biennale dell’ESM per avere 30 miliardi. Senza un nuovo accordo, nel Consiglio della Bce attuale non c’è una maggioranza per alzare l’ELA, al massimo per tenerla bloccata alla cifra dell’ultima settimana. Ma in realtà se i titoli detenuti dalle banche greche non valgono più come collaterali, ed è sui titoli greci che si basa il loro patrimonio residuo oggi, le banche greche non hanno più solo bisogno dell’ELA: devono essere ricapitalizzate. Servono un centinaio di miliardi solo per questo. E le ipotesi sono due: lo può fare l’ESM se c’è rapidamente un accordo europeo, altrimenti lo deve fare il governo greco, nazionalizzandole se si va all’uscita dall’euro. Altri guai sui mercati, rispetto alle incertezze sui tempi.

 Terzo: esiste una terza via? Hollande si è candidato esplicitamente, prima del referendum, a far cambiare questa volta segno alla linea Merkel dell’equilibrio di finanza pubblica. Renzi ha tenuto una posizione allineata alla Germania nella trattativa, ma ha anche detto – vedi l’intervista al Messaggero di ieri – che in caso di vittoria del no sarà anche lui sulla linea di una nuova trattativa aperta alle richieste greche, e contraria all’uscita di Atene dall’euro. Perché questa linea abbia sostanza, significa che deve accogliere l’idea di ristrutturare ulteriormente il debito che i greci devono oggi non a privati, ma ai governi dell’euroarea. Cioè dire ai propri elettori che vale assolutamente la pena rinunciare a 10-20 o 30 miliardi dei 40 che la Grecia deve agli italiani, e darle tantissimo nuovi aiuti fingendo di non vedere che a darglieli siamo noi che paghiamo il 5% di Pil di oneri sul debito mentre loro ce li chiedono insoddisfatti del 2,3% che era stato loro concesso ristrutturano il loro debito nel 2012, con scadenze pluridecennali. Vedremo se avverrà. La Spagna di Rajoy non è su questa linea. E nemmeno coloro che nel nord Europa pensano che un euro più ristretto sia più omogeneo. Il capo dello Stato Mattarella ha detto benissimo ieri sera: “scenari inediti, serve responsabilità”. Torno a dire quel che ho già scritto da tempo: la terza via oggi non si costruisce con fughe in avanti, ma ponendo sul tavolo due opzioni immediate, o la possibilità di un default concordato stando nell’euro (si tratterebbe di “piegare” l’ESM a questo fine, e naturalmente la condizionalità degli aiuti resterebbe fortissima, checché pensino i greci), oppure quella di uscire dall’euro in maniera concordata (anche per questo servono aiuti..) ma restando però nella Ue.

Quarto: l’Europa di domani. E’ anche vero che i tedeschi sono i primi d’accordo con lo sviluppo sovranazionale e federalista indicato per il futuro dell’Ue e dell’euroarea dal “Rapporto dei 5 presidenti”. Qui la politica europea si divide ancor più. Il blocco che si riconosce nelle posizioni tedesche è convinto che l’uscita della Grecia sia un passo non incoerente a sviluppi a breve sovra-nazionali, possibili solo tra paesi che condividano le linee di fondo dell’europatto. Italia e Francia, nelle loro attuali maggioranze politiche, non la pensano affatto così. Ritengono che sviluppi federalisti possano venire solo con quote crescenti di debito pubblico condiviso e grandi programmi di eurobond per gli investimenti, e che gli aiuti vadano condizionati non più solo agli equilibri di bilancio ma alla crescita del PIL e dell’occupazione. I mercati, anche su questo, daranno in fretta un prezzo a ogni rischio sovrano nazionale connesso alle posizioni che verranno assunte. Mentre i tempi per cambiare i trattati sono lunghissimi.

Quinto: oltre l’economia, le conseguenze politiche. Vedremo se i mercati con le loro rapide reazioni avranno il ruolo decisivo, nel piegare le posizioni dei governi ai rischi immediati che prezzeranno. Ma le conseguenze politiche del referendum greco sono in realtà rilevantissime. In Spagna il voto greco è aria nelle vele di Podemos. In Italia, è una potentissima spinta agli argomenti di Grillo, Salvini, Meloni, di tre quarti di Forza Italia, e dell’opposizione Pd. Tutti, ciascuno portando acqua al proprio mulino, seguiranno la linea che finalmente si può dire no alle richieste di finanza pubblica equilibrata che vengono dall’Europa, naturalmente presentate e vissute invece come “macelleria sociale”. A partire dal Pd, le conseguenze rischiano di rendere ancora più complicata la vita del governo. E per questo Renzi da domani tenterà la “terza via” tra Merkel e Tsipras. Ma dalla riforma della Costituzione a quella elettorale, dalla scuola ai prepensionamenti, Fassina, Cofferati, Civati e Landini hanno molte più frecce al loro arco. Quanto agli altri, la Lega del no nel referendum greco è stata la prima ieri sera a dire che non bisogna dare nuovi aiuti ai greci perché l’Italia rischia troppo, altrimenti dobbiamo fare un referendum anche noi e la loro posizione è che non ha più senso l’euro, non che si debba dare più aiuti a greci.

 Sesto: cosa rischiamo noi. Tanto. Ogni incertezza tra eurogruppo e Atene, ogni divisione nel Consiglio della Bce, sulle decisioni che la banca centrale europea dovrà assumere prima che la politica decida e che saranno in ogni caso decisive, ognuno di questi passaggi produrrà effetti sul prezzo dato al rischio sovrano dei paesi più indebitati. Noi siamo molto indebitati e a bassissima crescita. Allacciate le cinture, perché il governo Tsipras e i greci hanno posto all’euro e alla UE più problemi insieme di quanti se ne siano visti negli ultimi 4 anni, da quando nel 2011 esplose la crisi di sostenibilità sui mercati dell’euroarea.

 

6
Lug
2015

Grecia. Gestire il fallimento sovrano—di Nicola Rossi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicola Rossi.

Tre anni sono passati dal secondo salvataggio greco, sei mesi da quando è apparso più che probabile che il problema si sarebbe riproposto. Poche ore da quando la probabilità è diventata certezza (per quanto rimanga da stabilire la forma e l’autore del salvataggio). Eppure in questo lasso di tempo le istituzioni europee non hanno ritenuto di porre all’attenzione dei cittadini e dei governi dei paesi membri il tema delle situazioni di insostenibilità del debito sovrano e delle loro modalità di risoluzione. Read More

3
Lug
2015

Il neoliberismo salverà le edicole?

Fa meno rumore di quella dei taxi, ma la crisi delle edicole italiane non è meno profonda. E a ben vedere ha una storia molto simile: anche le edicole sono state accompagnate nei decenni da una razionale pianificazione territoriale disposta dagli illuminati governanti che si sono succeduti, che ne ha contingentato il numero e inquadrato la funzione economica nella “vendita di riviste e quotidiani”. Generando, in questo modo, un piacevole clima di assenza di competitività che ha permesso ai commercianti delle nostre città di fare amicizia senza litigare per conquistare clienti nonché agli edicolanti di godere di ottimi stipendi, senza dover necessariamente piegarsi a pratiche commerciali poco dignitose come sconti o innovazioni del servizio.

Poi, però, il turbocapitalismo finanziario ha distrutto il clima di pace che si era venuto a creare, schiacciando gli edicolanti nella morsa della tecnologia, della competizione, dell’innovazione: in una parola, dell’egoismo. Spinte in questo vortice di perdizione, le persone hanno iniziato a leggere i giornali online. Mandando così in crisi le nostre edicole.

Per cercare di salvarle, poche settimane fa la Regione Lombardia ha proposto un riordino delle norme regionali che permetta alle edicole di vendere bibite, caramelle e merendine, trasformandosi all’occorrenza anche in infopoint turistici. Cioè, in poche parole, di piegarsi alla legge del pensiero unico neoliberista. Perché è vero che le edicole probabilmente aumenteranno il proprio giro d’affari. Ma non è tutto oro quel che luccica: per ogni lattina venduta da un’edicola ci sarà una lattina in meno venduta da un bar. Così come per ogni servizio turistico offerto ci perderanno le agenzie e gli altri operatori del settore.

Del resto, il neoliberismo oramai obnubila completamente le nostre menti. Le persone che hanno iniziato a leggere i giornali online, senza pensare al futuro degli edicolanti, sono le stesse che oggi potrebbero iniziare ad ignorare le esigenze dei baristi e finire per comprare bibite nelle edicole. E che domani, chi lo sa, potrebbero arrivare a voler comprare quotidiani e riviste al bar, generando un clima di vera e propria minaccia alla pace sociale nelle nostre città.

Sino ad ora, la minaccia è stata scongiurata. Già nel 2012 il Governo Monti aveva annunciato la liberalizzazione della vendita di quotidiani e periodici (d.l. 24 gennaio 2012 n. 1), ma nella legge di conversione l’articolo che la prevedeva (il 39) finì per prevedere solamente che le attuali rivendite possano trattare anche tutti gli altri prodotti e non solo i giornali, tutelando in questo modo le competenze e la professionalità degli edicolanti.

A ben vedere, il medesimo decreto disponeva che, che, dal 1 gennaio 2013, fossero abrogate le norme “che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla-osta, o preventivi atti d’assenso dell’amministrazione per l’avvio di un’attività economica, non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità”. Una previsione solo apparentemente incompatibile con i piani comunali per individuare le zone d’insediamento delle edicole, basate sulla valutazione della densità di popolazione, del numero di famiglie, delle caratteristiche urbanistiche e sociali di ogni zona o quartiere, nonché dell’esistenza di altri punti di vendita non esclusivi.

Insomma, a parte qualche concessione a supermercati e ipermercati, sinora l’esclusiva sulla vendita di quotidiani e riviste è salva. Il dogma liberista non è riuscito a smontare questo presidio a tutela della collettività, e anche nel documento della Regione Lombardia, per fortuna, è previsto che, in ogni caso, per le edicole “la funzione commerciale prevalente dell’esercizio resti la vendita di riviste e quotidiani”. Speriamo che sia sufficiente a scoraggiare gli edicolanti dal vendere troppe lattine di Coca-Cola.

Twitter: @glmannheimer

30
Giu
2015

Ma a nome di chi parla Juncker? Due proposte sin qui taciute

L’ultima offerta prima della mezzanotte in cui si sospendono gli aiuti alla Grecia è l’ennesima conferma della follia che ha dominato 6 mesi di trattativa con la Grecia. Si legge che Juncker avrebbe offerto a Tsipras, in cambio di un sì di massima al documento Ue-Fmi con riserva di trattarlo ulteriormente fino all’autunno, e di un sì nel referendum di domenica, la disponibilità anche a trattare sulla ristrutturazione del debito greco. A nome di chi parla Juncker, visto che Merkel a fine mattinata ha detto di non vedere nuovi spiragli? E poi: tanto bisognava aspettare, per affrontare il toro per le corna?

Vedremo nelle prossime ore. Intanto, è ancora il caso di fare qualche riflessione fuori dal coro sulla tumultuosa serie di eventi che, sfuggendo di mano alla Ue come alla Grecia, sono in corso. “Fuori dal coro” signfica fuori dagli opposti estremismi scatenatisi, non solo in Grecia ma anche a casa nostra – basta dare un’occhiata ai toni sui social networks –, su chi ha ragione e chi ha torto, sui presunti “servi della Germania” contrapposti a chi “vuole i pasti gratis”. Il veleno del nazionalismo e dell’odio impedisce ogni seria riflessione: ai greci, nei giorni decisivi in cui dovranno decidere cosa votare il 5 luglio, ma anche a casa nostra e in tutta Europa.

Primo: in mare senza sapere dove sono le secche. Ieri sera il MEF ha messo una nota importante. “Un’eventuale evoluzione negativa della crisi greca – si legge – potrebbe avere conseguenze su altri soggetti finanziari ai quali l’Italia partecipa, ma la quantificazione dell’impatto diretto sull’Italia di una tale evoluzione non è praticabile con le informazioni attualmente disponibili”. E’ proprio così. Nessuno può davvero sapere che cosa avverrà se i greci votassero no, né può avere la pretesa di calcolarne le conseguenze, sull’Italia e non solo sull’Italia. Il MEF prosegue dicendo che “anche negli scenari meno favorevoli, è dubbio che vi siano effetti diretti sull’Italia”, ma è ovvio che tale conclusione smentisce la premessa e fa parte del dovere elementare di rassicurazione che un governo deve sempre esercitare. Nessuno può sapere cosa avverrà, ci siamo inoltrati in un mare di cui non abbiamo carte e portolani. Conosciamo molti esempi di paesi che sono usciti da unioni monetarie o cambi fissi, ma le conseguenze per ciascuno di essi sono state diverse nel tempo a seconda della propria diversa economia, export, e bilancia dei pagamenti. Ora una cosa è certa: se siamo in mare senza rotta prestabilita è perché in sei mesi di trattativa gli errori sono stati dei greci, ma non solo dei greci.

Secondo: il precipitare delle reazioni. L’Unione Europea, a cominciare dalla Germania, doveva sapere che Tsipras non sarebbe diventato al tavolo della trattativa un Giano bifronte, rispetto alla promessa su cui ha vinto le elezioni. Ergo: bisognava dare un tempo ristretto al negoziato, diciamo un paio di mesi, invece di aspettare proposte da Atene immaginando potessero essere diverse d quelle arrivate in extremis, costruite al 93% su assai poco credibili aumenti di trasse e contributi in un paese che fiscalmente è fallito (80 miliardi di tasse a ruolo non riscosse, su un PIl di 180miliardi). Se in un tempo breve non si fosse raggiunto un accordo tra Atene , Ue, Bce e Fmi, ragionevolezza avrebbe dovuto consigliare di metter mano a trattive su procedure diverse, per evitare nella misura del possibile i danni sia per la Grecia sia per noi tutti in caso di mancato accordo. Per capirci, due esempi. O procedure per consentire semi-default a paesi membri – molto più parziale di quello chiesto dai greci, che già ne hanno ottenuto uno mastodontico pari al 60% del debito detenuto da privati, nel 2012: ma ora il problema è che il debito è soprattutto nelle mani dei governi dell’eurozona e dei loro veicoli finanziari condivisi) – ma restando nell’euro. Oppure, ancora più radicalmente, procedure per un’uscita dall’euro di membri che non ne condividano più le regole, ma offrendo loro la facoltà di restare nell’Unione Europea. Simmetricamente consentendo a chi esce dall’euro ciò che i Trattati consentono a chi non è mai entrato nell’euro o ha cambiato idea per strada, come la Polonia. Perché dovrebbe essere irragionevole? Per difendere il mito dell’irreversibilità dell’euro? E’ meglio perdere un pezzo di Occidente mediterraneo e regalarlo a Putin? Nella storia non esistono le monete-prigione, nei cambi fissi si entra o si esce a seconda di scelte o, quasi sempre quando si esce, per dura necessità, quando gli squilibri di bilancia dei pagamenti e di finanza pubblica non sono affrontabili in termini di aumento della produttività. Dice: ma i trattati europei non lo prevedono. E allora vanno cambiati: è più stupido rinunciare a un’idea buona, che difendere un trattato che non la prevede.

Terzo: il gioco del terrore. Al contrario, dopo sei mesi l’euroarea ha detto ai greci quel che per molti versi si spiega eccome, ma che oggi certo non aiuta. In parole povere: ci avete scocciato, Tsipras e i suoi credono di poterci ricattare e di ottenere ancora denaro in cambio di parole e ora basta, sbattete il muso e vi leviamo anche gli aiuti. La convinzione dietro questa strategia dell’ira è che la paura di greci, a banche chiuse per una settimana, li porti domenica prossima a sconfessare Tsipras, obbligato a quel punto o a dimettersi o a rimangiarsi tutto. E’ una strategia molto rischiosa. Insieme a turchi e polacchi, i greci sono i più nazionalisti tra gli europei. Il terrore potrebbe sortire l’effetto esattamente opposto, e in ogni caso nell’Europa latina ha scatenato contro l’euro proprio coloro che, da destra e da sinistra, la pensano come Tsipras, si tratti di Podemos, di Grillo, Salvini e Forza Italia da noi (su quest’ultimo aspetto ci sarebbe da dire, visto che i seguaci di Berlusconi sono in totale dissonanza col loro gruppo europeo, ma tant’è). Mettiamola giù dura: le istituzioni europee hanno commesso l’errore – ieri, con le parole di Juncker, dioverse da quelle odierne – di apparire superiori e diffidenti rispetto all’espressione della sovranità popolare che avverrà col referendum greco. E’ un altro errore capitale. L’Unione europea e l’euro possono vivere e crescere se hanno capacità di esercitare fiducia e di ottenere consenso, non sulla paura. La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo fosse ancora capito. Che Tsipras sia stato un demagogo a ricorrere al referendum chiedendo la fiducia dei greci a lui, non dovevamo scoprirlo certo all’ultimo momento. I populisti demagoghi fanno così, e se chi non lo è non sa mettere in conto le loro mosse perderà.

Quarto: l’Italia muta. Vedremo che cosa sceglieranno ora i greci, e come e se l’Europa sarà capace di gestire il seguito, qualunque esso sia. L’Italia ha dato una delega per sei mesi a chi teneva il pallino in Europa, cioè alla cancelliera tedesca. E ieri dopo 2 ore che la Merkel aveva parlato, Renzi ha twittato in inglese le sue stesse parole, e cioè che i greci il 5 luglio devono scegliere tra l’euro o la dracma. Non è una buona scelta. Primo, perché come detto si dovrebbe prevedere ai greci di restare comunque nella Ue, se lo vogliono, anche senza euro. Secondo e soprattutto, perché in questa partita l’Italia non rischia quel che rischia la Germania. Ma molto, molto di più. L’ammontare dei debiti greci è superiore verso la Germania, visto che il più del debito si distribuisce (tranne che per le tranche bilaterali, che per noi valgono10 miliardi) per le rispettive quote parte nel capitale della BCE e dell’ESM. Ma se le cose girano storte l’Italia, oltre a rinunciare ai crediti che vantiamo verso i greci, rischia un imprevedibile – torniamo alla nota del MEF da cui siamo partiti – aggravio del costo del debito pubblico sui mercati. Un aggravio capace di fare molto ma molto male alla nostra sin qui stentatissima ripresa economica. Levare una voce italiana di ragionevolezza non significa rompere il fronte europeo, bensì offrire a Ue e Grecia almeno qualcuna delle prospettive concertate indicate in precedenza, per gestire al meglio gli esiti decisi dalla sovranità popolare – che va rispettata – ma senza scatenare i cavalli irosi della follia collettiva. Come invece, per tante ragioni e tra tanti nitriti di battaglia, sembra oggi.  Almeno: a quest’ora, perché fino alla mezzanotte e vedrete, anche oltre, il copione delle follie pare lungi dall’esser concluso.

28
Giu
2015

I greci hanno torti enormi, ma sospendere gli aiuti prima che votino è un errore

C’era da temerlo. Dopo 6 mesi di folle braccio di ferro tra Grecia ed euroarea, la trattativa è del tutto sfuggita di mano. E oggi si rischia – tutti, non solo la Grecia – di finire contro un muro.

Tre settimane fa, era la Germania a ventilare l’ipotesi che Tsipras chiedesse ai greci il giudizio diretto, attraverso un referendum, se accettare o meno un accordo per restare nell’euro. Nella tarda serata di venerdì, di fronte al fatto che le richieste dell’eurogruppo, Fmi e Bce a fronte della proposta greca – per il 93% fatta di aumenti fiscali e contributivi – risultavano indigeste a Syriza, o meglio a rischio di non essere accettate al parlamento greco dall’ala sinistra del partito, è stato Tsipras a sorprendere tutti, convocando per domenica 5 luglio un referendum sull’accordo.

A quel punto si è aperto un bivio, per l’eurozona. O puntare sul fatto che i greci, fedeli all’80% che nei sondaggi dichiarano a favore della permanenza nell’euro, votassero in coerenza nel referendum, tacitando l’ala oltranzista di Syriza e spingendo Tsipras a firmare. Oppure scommettere sul terrore, visto che intanto i greci hanno ulteriormente accelerato il ritiro di tutti i loro risparmi dalle banche. Puntare sul terrore significa chiudere la porta in faccia a Tsipras e dichiarare che, a questo punto, automaticamente dalla mezzanotte del 30 giugno verranno sospesi tutti gli aiuti alla Grecia.

L’eurogruppo ha ieri scelto questa seconda strada, all’unanimità. Penso e scrivo da tempo che le responsabilità greche siano evidenti e gravissime, visto che il paese per decenni anni ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, comprovato dal fatto che in 13 anni su 30 addirittura la spesa pubblica nell’anno superava di 10 punti di Pil il totale delle entrate pubbliche. Credere di continuare a poter vivere al di sopra delle proprie possibilità non è lotta alle banche o al capitalismo, è solo una sfida alla legge di gravità: si finisce col sedere per terra.

Ma ribadito questo, è un grave errore che tutti gli altri governi dell’euroarea reagiscano come bimbi indispettiti al ricorso, in Grecia, della diretta sovranità popolare per via referendaria. Decidere di sospendere gli aiuti prima del referendum è un autogol. Significa far scatenare in Grecia, nei giorni precedenti alla consultazione popolare, il caos della chiusura bancaria obbligata, se alla sospensione del programma Ue-Fmi si aggiunge quella della linea straordinaria di liquidità ELA, fin qui garantita alle banche greche da parte della BCE. Mantenuta e anzi alzata (ogni due giorni, negli ultimi 10) dalla Bce al costo di sempre più pesanti obiezioni interne da parte della Bundesbank, e di altre banche centrali dell’eurosistema. Significa obbligare le autorità greche all’immediata adozione di misure draconiane sulla libertà dei capitali contro la loro uscita dal paese, contro il ritiro dei depositi bancari, contro l’utilizzo dell’e-banking per spostare asset. Significa anche, per l’eurozona, dire addio a molti dei confidati effetti del QE, che ora dovrà diventare ancor più manipolatorio concentrandosi sui paesi più esposti come l’Italia, che vedrà aggravate le sue conseguenze di condizionalità sulla finanza pubblica, non allentate come sperano i più in Italia, probabilmente a cominciare dal governo.

Politicamente, sospendere immediatamente gli aiuti è un favore fatto a chi punta a una rottura dell’euro in nome del ritorno all’autarchia monetaria e al nazionalismo come ideologia, al protezionismo doganale e alla ricerca di nuove alleanze economiche, diplomatiche e militari rispetto a quelle occidentali Ue-Nato, visto che Russia e Cina sarebbero sveltissime ad approfittarne mentre sul Mediterraneo è sempre più cupo il disegno perpetrato da ISIS.

Ieri il presidente della CSU tedesca, Horst Seehofer, ha dichiarato: “il governo greco in queste settimane ci ha offerto uno spettacolo da circo. Dobbiamo finire col circo il più presto possibile”. Sono parole che sottoscriverei: ma in privato. Se e quanto più i politici dell’euroarea useranno in questi giorni espressioni simili, tanto più il confronto politico diventerà automaticamente intossicato da nazionalismi sempre più accesi. E’ vero, Tsipras e Varoufakis hanno tirato la corda all’inverosimile. Ma è altrettanto vero che anche la controproposta Ue-Fmi non rende la Grecia solvibile nel 2016. Com’è vero che il FMI – che in questi ultimi due mesi ha riconosciuto che i greci hanno ragione nel chiedere un’ulteriore ristrutturazione del loro debito – ritenga però che la riduzione debba riguardare solo il debito detenuto dall’euroarea, non quello del FMI. Così son buoni tutti a cambiare idea: sui soldi degli altri.

La lista dei torti e delle incongruenze è lunga e non è solo greca, in questi sei mesi. Perché i greci, in realtà, hanno sempre continuato a dire ciò sulla cui base Syriza ha vinto le elezioni, e cioè che nelle condizioni in cui si trova il paese doveva essere consentito un ulteriore default parziale come quello del 2012 – che ha tagliato del 60% il debito detenuto da privati – ma restando nell’euro.

Non è troppo tardi, per evitare che la spirale ora tumultuosamente avviata continui a bruciare ogni residuo di fiducia reciproca. Basta non obbligare la BCE a sospendere la linea di emergenza alle banche greche, almeno sinché i cittadini di quel paese si esprimano nelle urne. Dando un’altra prova che siamo oggettivamente interessati a evitare che la Grecia si avviti in un’ulteriore recessione. C’è da scommettere che avvenga il contrario.

Non si tratta solo della Grecia, ma del significato stesso dell’euro. Che è pieno di difetti, a cominciare dal non prevedere l’uscita da chi non vuole condividerne le regole. Se i greci scegliessero di abbandonarlo – perché è su questo ormai il referendum, poche storie – non è vero né che tutto resterebbe come prima, né che non saremmo esposti a danni peggiori di quelli che avremmo subito rinunciando a una parte di ciò che i greci ci devono, ma instaurando in quel caso una trattativa molto più seria dello scontro di lotta libera al quale abbiamo assistito.

Credere che non si parli anche dell’Italia, nelle scelte che faranno i greci, credere che non ne deriverà un ulteriore impulso a Podemos in Spagna, a Grillo e Salvini da noi, significa credere alle favole. O meglio, significa scommettere sulla paura, non sulla fiducia. Sarà dura replicare ai no euro che l’euro val comunque la pena, se non riesce a trovare soluzioni cooperative neanche per il 2% dell’euroarea.

25
Giu
2015

La danza della Corte sull’art.81, i soldi da trovare per la PA

La Corte Costituzionale ha ieri fatto tirare un sospiro di sollievo al governo. Il blocco della contrattazione nel pubblico impiego deciso dal decreto legge 78 del 2010, e sin qui prorogato da tutti i governi successivi, è stato definito dalla Corte illegittimo, ma solo se perdura. In altre parole è un’“illegittimità sopravvenuta”, come si dice in gergo giuridico. Vale per oggi e domani, non per gli anni atrascorsi. Per il governo e per noi contribuenti significa non dover mettere mano a 35 miliardi di euro a cui sarebbe ammontato, secondo le stime del MEF esposte alla Corte dall’Avvocatura dello Stato, il recupero integrale dei contratti pubblici non rinnovati. Una buona notizia, dunque? Un sì con molti “ma”, è la risposta da dare.

Innanzitutto, appare sempre più ondivaga la linea dell’attuale Corte Costituzionale in merito alla valutazione degli effetti sulla finanza pubblica delle sue decisioni, e cioè del rispetto dell’articolo 81 della Costituzione. Pochi mesi fa, la Corte cassò come illegittima la Robin Tax, una tassa ad aziendam sui profitti energetici inventata da Tremonti: ma stabilì che i quasi 10 miliardi di euro incassati dallo Stato in 3 anni non andavano restituiti alle imprese. L’irretroattività è stata però abbandonata e capovolta nella recente sentenza sulla mancata perequazione negli anni 2012 e 2013 delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo INPS, e di conseguenza il governo ha dovuto metter mano a un rimborso del pregresso, sia pur parziale in linea al dispositivo della Corte. Ora torniamo invece all’irretroattivià. Che sarabanda. Serve un oscilloscopio, per orientarsi nella mutevolezza d’indirizzo di questa Corte.

Leggeremo il dispositivo della sentenza, ma fuor dai tecnicismi va detto: a legge immutata, definire un atto legittimo ieri e illegittimo domani è qualcosa che dovrebbe appartenere alle scelte del legislatore, non di una Corte costituzionale. E’ vero che il diritto abbonda di categorie interpretative per definire l’illegittimità sopravvenuta di un atto: la congruità, proporzionalità e il sommarsi nel tempo dei suoi effetti. Ma sono appunto categorie “politiche”, di valutazione discrezionale, non discendono dalla Costituzione. Solo il Parlamento, in virtù dell’articolo 81 della Costituzione, può assumere decisioni in ordine alla copertura dei costi del pubblico impiego, scriveva Luigi Einaudi il 19 luglio 1949. Altri tempi, direte voi. Ma era Luigi Einaudi, e Dio solo sa quanti guai ci saremmo risparmiati nei decenni se gli avessimo dato più retta.

Detto questo, cerchiamo di capire a che cosa il governo è obbligato ora, a seguito della sentenza. A una sola cosa, che però gli cambia i conti. E’ tenuto a risedersi al tavolo coi sindacati, per rinnovare i contratti pubblici. L’ultimo rinnovo è del 2005, governo Berlusconi con Domenico Siniscalco al MEF. Allora il contratto era quadriennale per la parte economica, biennale per quella normativa. Il contratto concesse aumenti medi retributivi del 5,1%. Poi venne la riforma Brunetta del 2009 con durata triennale del contratto pubblico per la parte economica. Ma nel 2010 intervenne il blocco. Un blocco che anche la legge di stabilità del governo Renzi, a dicembre scorso, ha prorogato per un anno (non impedisce variazioni retributive di singoli dipendenti, né si riferisce al trattamento accessorio relativo all’ammontare erogato nel 2010, e a eventuali aggiunte votate dal Parlamento). Il DEF di aprile presentato dal governo Renzi prevedeva che il blocco continuasse anche nel 2016. La sentenza della Corte obbliga dunque a trovare la copertura per i nuovi contratti, se comporteranno aumenti di spesa.

Per capire di quanti miliardi può trattarsi diamo un occhio agli effetti che il blocco contrattuale – insieme a quello del turn over del personale – ha esercitato sulla spesa pubblica. Dai 172 miliardi del 2010, la spesa in retribuzioni pubbliche è scesa a 164 miliardi dal 2013, stabilizzandosi da allora. Diminuendo in termini reali mentre il resto della spesa corrente, sia pur a tassi inferiori del passato, è continuata a salire, è in realtà l’unica grande voce di spesa ad aver dato un tale contributo positivo ai saldi pubblici (l’altro comparto riguarda la spesa per investimenti pubblici, scesa del 27% rispetto al pre-crisi). La deflazione e comunque le basse prospettive attuali d’inflazione impediscono di pensare a chissà quali aumenti per recuperare il costo della vita. Ma in 6 anni la botta c’è stata, i prezzi al consumo sono aumentati dell’1,8% nel 2010, del 3,2% nel 2011, del 2,3% nel 2012, dello 0,6% nel 2013 prima di quota 0 nel 2014. I sindacati non accetteranno mai di non chiedere parte del pregresso, a cui bisognerà aggiungere dell’altro per gli anni a venire. Se ci fermassimo ad aumenti del 4% medi retributivi nel prossimo contratto recuperando anche parte del passato, rispetto a 164 miliardi di monte-salari gli aggravi per la finanza pubblica da coprire in legge di stabilità sarebbero pari a 8 miliardi in 3 anni. Tenete conto che nel DEF di aprile, SENZA PREVEDERE RINNOVI CONTRATTUALI, per effetto del freno al blocco del turn over COMUNQUE già sui prevdevano aumenti di spesa sul monte salari pubblici da 164 miliardi a +1,6mld in 2016, +4,1 nel 2017 e +6,6 nel 2018. Se sommate le cifre, aggioungete la clausola fiscale da 16 miliardi che il governo deve evitare nel 2016, la reversecharghe bocciata dalla ue che obbliga ad altri 8-900 milòioni da coprire etc etc, la prossima legge di stabilità è un’equazione a moltissime incognite. Forse al MEF la vera speranza – tanto per cambiare – è che alla luce della vicenda greca Bruxelles non ci rompa le scatole, se restiamo ancora una volta allegramente sopra il 3% di deficit a differenza di quanto promesso…

Certo, il governo ha l’obbligo di contrattare, non di concedere aumenti. O meglio, potrebbe graduali in modo da non aggravare la finanza pubblica. Uno degli effetti del blocco è stato quello di aver diminuito il vantaggio delle retribuzioni pubbliche rispetto a quelle private: la proporzione aveva toccato un massimo di 1,35 a favore del pubblico nel 2005, e grazie al blocco è scesa a 1,22 nel 2014. Ma il vantaggio pubblico resta rispetto ai dipendenti privati: in media la retribuzione pubblica lorda 2014 è stata di poco superiore ai 32 mila euro, rispetto ai 30mila del dipendente privato. Ma poiché stiamo parlando di medie, non dimentichiamo un particolare essenziale. L’abnormità delle retribuzioni pubbliche – che fa salire la media – è rappresentata dai compensi dei dirigenti. Le slides di Cottarelli, ad aprile 2014, puntavano il dito contro il fatto che i dirigenti apicali pubblici italiani hanno una retribuzione pari a 12,6 volte il reddito procapite medio degli italiani, rispetto a un multiplo pari a 4,9 in Germania e a 6,4 in Francia. Quelli di prima fascia, hanno una retribuzione pari a 10,1 volte il reddito procapite degli italiani, rispetto a 4,2 volte in Germania e 5,2 in Francia. E’ sicuramente un punto sul quale il governo può intervenire, rispetto alla gran numero di dipendenti pubblici che stanno invece sotto la linea della parità rispetto ai privati.

Ma, al di là delle considerazioni sugli effetti di finanza pubblica, la sentenza della Corte offre una grande occasione al governo. In realtà, l’intero impianto della riforma della PA del governo Renzi, appena arrivata tre settimane fa alla Camera dopo un lunghissimo parto in Senato, non è concepibile se non viene incardinato in nuovi contratti pubblici. A cominciare proprio dalla dirigenza pubblica, visto che abbiamo 65.666 dirigenti statali con 8 contratti diversi, e ancor oggi con retribuzioni di risultato date a pioggia ed egualmente (esempio: centinaia di dirigenti di IIa fascia al MEF prendono tutti 6.879 euro di retribuzione di risultato, tutti uguali: ma perché mai?). Idem dicasi per la mobilità dei dipendenti pubblici non dirigenti, e per la valutazione del loro merito e dei relativi premi retributivi. O per i 55mila incarichi nelle sole controllate pubbliche in capo ai Comuni italiani.

La riforma Madia tocca ciascuno di questi aspetti: ma per entrare concretamente nell’ordinamento italiano, al di là della raffica di decreti attuativi che saranno necessari quando il Parlamento riuscirà ad approvarla, servono appunto contratti pubblici disegnati per dare gambe concrete a una PA in linea coi tempi. Se questo sarà l’intento riformatore, i nuovi contratti pubblici a cui la Corte obbliga non saranno solo un confronto retributivo e su come evitare che appesantisca ulteriormente il contribuente. Saranno il cantiere vero di una PA meno ostile alla crescita, più trasparente ed efficiente. Il governo ora è costretto a provarci.