Cina: l’eterna illusione dei regolatori centrali, e il costo per voi tutti
La crisi della Cina colpisce in profondità 5 convinzioni diverse: la fiducia nel controllo totale esercitato dai comunisti cinesi sulla propria economia; la fiducia che l’intera area del Pacifico fosse un eldorado ancora per decenni; quella sulla sostenibilità di molti cambi monetari dei paesi emergenti; quella sul lungo ciclo positivo delle borse mondiali; e infine quella sull’onnipotenza non solo in Cina dei banchieri e regolatori centrali. E’ una colossale rivincita dell’economia reale – in questo caso, dei suoi maxi squilibri cinesi – rispetto ai regolatori pubblici. Ai quali, dal 2008 in poi, tutti si sono rivolti chiedendo loro di fare miracoli, naturalmente coi soldi pubblici. Dietro questo enorme processo che si è messo in moto, la domanda è: che cosa può venirne all’Italia. Purtroppo niente di buono: ma, al contempo, mali molto minori di quelli che invece minacciano grandi potenze economiche mondiali, e molti paesi emergenti.
Alcuni dati. Dopo il crollo delle borse cinesi a inizio agosto – Shanghai da giugno ha perso il 47% della sua capitalizzazione – e dopo la svalutazione del 3,7% dello yuan-renminbi, ecco nell’ultima settimana alcuni dati veri dell’economia reale cinese. Gli ordini di acquisto delle imprese manifatturiere scesi di molto sotto la soglia che indica contrazione, il peggior dato in 6 anni. La produzione industriale che mentre nel 2010 cresceva del 23% annuo ora stenta poco sopra la soglia del 5%. I consumi elettrici passato in 5 anni da +25% al +0,5%. Da anni è noto che la Cina non poteva continuare a crescere del 10% annuo contando su investimenti pubblici di poco sotto il 50% del PIl annuo, e su un export in crescita a doppia cifra fino a un quarto delle intere esportazioni mondiali. Il problema dell’economia reale cinese era e resta quello di dare ai cinesi più reddito per orientarlo ai consumi interni. E la difficoltà enorme è realizzare tale transizione in maniera equilibrata. Peccato che le vendite al dettaglio in Cina crescano di anno in anno meno, non di più: nelle statistiche ufficiali, aumentavano del 22% nel 2010, e in questo 2015 invece poco più del 10%. Piccolo problema aggiuntivo: tutti sanno che le statistiche ufficiali cinesi non sono affidabili. Nessuno crede che la crescita del Pil cinese sia davvero del 7% annuo in questo 2015, invece del 10% di anni fa: la stima vera del consensus internazionale sta tra il 4 e il 5%. Eppure, in presenza di un tasso di crescita dimezzato, la stima ufficiale dei disoccupati cinesi è assolutamente ferma da anni, a meno metà di quella Ue. Miracoli delle statistiche comuniste.
Chi ci rimette. Oltre metà del pianeta, grazie al fortissimo espansionismo cinese dall’Asia all’Africa al SudAmerica, è esposto a gravi conseguenze se la transizione cinese sfugge di mano. Se volete consolarvi, pensate che nella sola ultima settimana di cali delle borse mondiali i 400 supermiliardari più forti investitori del mondo hanno perso 182 miliardi di dollari di valore azionario, sul totale dei 3300 miliardi persi in dollari dalle borse. Non li hanno persi sui mercati cinesi, ma nei settori esposti alla Cina quotati a New York, a Londra e nel mondo avanzato. Il mitico indice S&P500 ha registrato la peggior perdita in una settimana dal 2011, ed è sceso sotto quota 2000 in perdita da inizio anno: il che per gli Usa significa interrompere la serie positiva che dura da 4 anni. E i settori colpiti sono tanti: tecnologie, energia, commodity come minerali e materie prime. Viste le attese di esplosione di consumi digitali cinesi, i 5 giganti internet USA –Netflix, Facebook, Amazon, Googl, Apple – hanno perso 100 miliardi di capitalizzazione in soli 2 giorni. Il petrolio è sceso sotto i 40 dollari al barile per la prima volta in 6 anni., mentre gli USA a luglio hanno estratto petrolio nella maggior quantità mensile dal 1920. Il Vietnam e il Kazakistan hanno fatto saltare i loro cambi fissi. In una sola settimana le valute della Russia, Bielorussia, di molti paesi africani, della Turchia, del Messico e della Colombia hanno perso tra il 3 e i 5%. Per i paesi asiatici che esportano in Cina tra un quinto e un quarto del loro export, dal Vietnam alla Thailandia alla Nuova Zelanda all’Australia, pessime notizie in arrivo.
Il debito pubblico Ue e ITA. Se in termini di export la frenata cinese e la possibile perdita di controllo da parte del governo di Pechino sono un danno maggiore soprattutto per i maggiori esportatori in Cina, a cominciare dalla Germania – noi siamo solo il 25° paese fornitore della Cina nelle graduatorie internazionali, con soli 10 miliardi di export nel 2014 – i danni sono invece anche e soprattutto nostri sul costo del debito pubblico. L’enorme fuga del rischio in atto sui mercati mondiali, l’attesa spasmodica e temuta di un rialzo dei tassi da parte della FED americana in autunno, e in piccolo anche la nuova instabilità creata dalle elezioni greche a settembre, ha portato in una sola settimana i rendimenti percentuali dei titoli di stato decennali italiani a salire del 2%, mentre quelli tedeschi scendevano del 12% e quelli francesi del 3% (malgrado i pessimi dati dell’economia reale e della finanza pubblica d’Oltralpe). Gli Stati Uniti perdono nelle borse, ma l’attesa del rialzo dei tassi riporta flussi finanziari verso i titoli pubblici americani, che hanno visto scendere il rendimento del 7%. In poche parole: gli italiani possono rimetterci dai guai cinesi molto più in tasse aggiuntive per consentire allo Stato di continuare a spendere troppo, che per minor export.
Il rimedio. A questo proposito, il mondo si spacca in due. O meglio, c’è una parte larghissimamente maggioritaria, e una di assoluta minoranza. Il più degli osservatori continua a non vedere che il mondo non può risolvere i suoi guai continuando a pompare montagne di liquidità da parte delle banche centrali che finanziano bolle finanziarie, e tifando perché i comunisti cinesi continuino a destinare migliaia di miliardi in investimenti superflui, e a credere che la borsa di Shangahi per ordine del partito possa solo salire, invece che ridurre valori e prezzi in linea con una bolla immobiliare nascosta per centinaia di miliardi negli attivi di banche di Stato opache. Per questo, i più tifano in realtà perché la Cina continui ad avere falsi mercati finanziari e dei cambi, non riformi le sue banche, non privatizzi e non liberalizzi. Tifano naturalmente perché la Fed da tutto questo deduca che i tassi americani non vanno alzati, perché sarebbe un pessimo segnale dato a tutto il mondo, volto a interrompere politiche monetarie troppo favorevoli alla sola finanza.
Chi scrive qui pensa invece che la Cina debba affrontare la realtà: statistiche non truccate, una valuta che fluttui e il cui prezzo lo faccia il mercato, mercati finanziari mondiali meno drogati dagli Stati. Questo significa tornare alla supremazia dell’economia reale su quella della pura finanza. E aprire la porta a libertà divili e politiche: la fine del potere comunista.
Gli italiani si facciano due conti. Malgrado il petrolio a 40 dollari è grazie al 60% che si frega lo Stato alla pompa in tasse, che il prezzo del carburante non scende. E malgrado il quantitative easing della BCE, come vedete il sovrapprezzo al rischio del debito pubblico italiano torna ad alzarsi, perché nessun artificio del banchiere centrale può nascondere ai mercati che in Italia la spesa pubblica corrente continua a salire, e insieme a lei il gettito fiscale sottratto all’economia pure.
Cari lettori pensateci: la crisi cinese è la moltiplicazione per mille su scala planetaria di ciò che l’eccesso di statalismo provoca sull’economia reale. Direte voi: ma senza Draghi che ci aiuta, pagheremmo ancor di più. Attenti: i politici e la finanza mondiale pensano che scudi come quelli di Draghi non siano emergenze temporanee per fare riforme, ma cuscinetti eterni destinati a nascondere i debiti pubblici, i quali poi, se davvero eccedono la misura, tanto si tagliano con un bell’haircut: mica succede come ai privati che falliscono. Senza scudi, gli indebitati pubblici e finanziari devono tagliare le spese. Con gli scudi, continuano a indebitarsi perché tanto sanno che il costo lo pagate voi e i vostri figli: come contribuenti italiani, come risparmiatori e come consumatori.