8
Lug
2015

Il mondo secondo V.—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Il libro di Yanis Varoufakis che si intitola “L’economia che cambia il mondo” (Rizzoli, 2015) vuole essere semplice perché si rivolge alla figlia, ai non addetti ai lavori. In realtà è con la storia, anche la filosofia, ma soprattutto con il sano e vecchio buon senso che non si può che sorriderne, l’economia c’entra poco.
V. è greco, anche europeo. Ma è pure australiano. La domanda-tormentone del libro è la seguente: “Perché i guerrieri aborigeni australiani non sono sbarcati a Londra ma è successo il contrario?” Read More

8
Lug
2015

Grecia: comunque finirà, finirà male?—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

In questi giorni si parla molto Grexit: uno scenario preoccupante che, dopo il referendum, diventa sempre più probabile. Della scadenza del 30 giugno si è parlato molto: il governo greco non ha onorato la maxi rata di 1,6 miliardi di euro del Fmi ed è quindi, tecnicamente, in default nei confronti dell’organismo internazionale. Meno nota è una seconda scadenza, di fatto ancora più importante: il prossimo 20 luglio scade un’altra rata da 3,5 miliardi dovuta alla Bce. Che la Grecia non onori anche questo debito è quasi certo: vuoi perché i soldi non ci sono, vuoi perché per il governo Tsipras sarebbe come accettare un “ricatto” (in Grecia i prestiti a tasso agevolato li considerano così), quindi un suicidio politico. Read More

8
Lug
2015

Una, nessuna e centomila austerity

C’è una cosa, nell’intricato risiko economico in cui si è andata a cacciare l’Europa, su cui sono (quasi) tutti d’accordo, a maggior ragione dopo il referendum greco: l’austerity ha fallito. L’abbiamo sentito ripetere tante volte, con assoluta nonchalance, come un concetto dato per scontato. Una di quelle frasi ad effetto che l’applauso degli studi televisivi lo fanno scattare a prescindere. E che, tuttavia, tanto scontato forse non è. La parola austerity deriva dal latino austerus, che significa duro, severo, rigido, aspro, crudele. L’esegesi non fa sconti: l’arrivo dell’austerity non promette nulla di buono. In passato, si usava questo termine soprattutto per descrivere politiche contraddistinte da gravi restrizioni, ad esempio i razionamenti di cibo durante periodi bellici. Situazioni alle quali sono oggi paragonate le manovre di politica fiscale volte a correggere gli squilibri macroeconomici dell’Eurozona; cioè, di fatto, a rimettere i conti in ordine a quegli Stati che, in passato, hanno speso ben più di quanto “guadagnassero”. E che spesso continuano a farlo.

Come ha spiegato perfettamente Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore qualche giorno fa, c’è austerity e austerity. Un conto è alzare le tasse, un altro è diminuire la spesa pubblica. Sono scelte macroeconomiche diverse, anche se non incompatibili. Viceversa, un recente paper di alcuni economisti, tra cui Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, ha dimostrato come aumentare la spesa e le tasse contemporaneamente sia controproducente, perché il deficit rimane tale e quale, mentre il tessuto produttivo continua a sfibrarsi. Eppure, è proprio ciò che è stato fatto per diversi anni in molti Paesi dell’eurozona, Italia compresa. È vero che gli aumenti di spesa, nei periodi di crisi e anche in questa circostanza, sono riconducibili anche al calo del PIL e all’incremento degli interessi sul debito pubblico. Ma non per questo la classe politica degli ultimi anni detiene meno responsabilità. Sia perché in molti Paesi, tra cui l’Italia, la spesa è aumentata anche al netto degli interessi, sia perché comunque tali circostanze non giustificano in ogni caso la reazione opposta a quella resasi necessaria, vale a dire l’ulteriore allargamento della sfera pubblica nell’economia.

Alcuni fra i Paesi che hanno adottato “l’altra austerity”, quella che riduce l’estensione e l’influenza della sfera pubblica, hanno ottenuto risultati straordinari. Ad esempio, scontrandosi con un calo del PIL del 4% nel 2008 e del 14% nell’anno seguente, l’Estonia, invece di aumentare la spesa pubblica, la ridusse notevolmente (tagliando del 10% gli stipendi pubblici) e nel frattempo riformò il mercato del lavoro e il sistema pensionistico. Risultato: il PIL è cresciuto del 3.4% nel 2010, dell’8.3% nel 2011 e del 4.7% nel 2013, di fatto riportando l’economia del Paese ai livelli pre-crisi, con un debito pubblico e una disoccupazione inferiori al 10%.

Quello estone non è un caso isolato. Nel 1990, a seguito di un lungo e doloroso periodo di stagnazione (scaturito da una grave crisi bancaria), la Svezia avviò una serie di riforme senza precedenti, perseguendo, nel frattempo, una rigorosa politica fiscale. Sia i socialdemocratici che i partiti di centrodestra contribuirono a ridurre le aliquote fiscali marginali; mercati finanziari, energia, telecomunicazioni e media furono deregolamentati; il sistema pensionistico venne completamente riformato; fu ammesso l’intervento dei privati in materia di salute, cura e assistenza degli anziani; fu introdotto un sistema di voucher scolastici sul modello ideato da Milton Friedman. Erano altri tempi, ma nel Paese scandinavo l’insegnamento non è andato dimenticato. Di fronte all’incombere della recessione, nel 2009, l’allora ministro delle finanze, Anders Borg, ha ridotto la pressione fiscale con decisione (dal 52 al 44% del PIL), abolendo le tasse sulle donazioni, sulle eredità, sul patrimonio e sulle abitazioni. Negli anni successivi, la Svezia ha registrato una crescita superiore a quella di qualunque altro paese europeo e ha ridotto il debito pubblico a circa il 30% del PIL.

La cura alla crisi sono le riforme che rendano competitiva l’economia di un Paese, ma una politica fiscale restrittiva può costituire una premessa necessaria a metterle in atto. Negli ultimi anni, in Spagna, contemporaneamente a drastici tagli di spesa, è stato reso decisamente più flessibile il mercato del lavoro (ad esempio riducendo della metà i costi dei licenziamenti per le imprese in difficoltà), è stato rivisto il sistema pensionistico e le banche sono state rifinanziate dalla BCE. Tali misure hanno provocato forti tensioni e proteste, ma nel 2014 la Spagna è cresciuta dell’1.3% e oggi può permettersi di ridurre la pressione fiscale, forte del notevole tasso di crescita previsto per il 2015. Anche Portogallo e Irlanda – dopo essere passate per il severo bisturi della famigerata Troika – hanno ricominciato a crescere (rispettivamente dello 0.6, 0.9 e 3.6% nel 2014).

Che il piano di salvataggio greco abbia funzionato male – e certamente peggio degli altri nell’Eurozona – è verosimile. Ma prendersela con l’austerity, come se questa rappresentasse una politica fiscale precisa, è quantomeno miope. Anche a causa di un argomento per così dire controfattuale: cosa sarebbe successo se, quattro anni fa, non fosse stato intrapreso il piano di risanamento stabilito dalla Troika? Impossibile dirlo. Forse ci sarebbe stata un’improvvisa e miracolosa crescita economica. Più probabilmente, si sarebbe innescata un’austerity ben peggiore di quella contro cui si è scagliato il governo targato Tsipras. Un’austerity molto più vicina alla sua drammatica origine etimologica, che non riguarda tagli al welfare, ma – in una fase iniziale – ulteriori forti aumenti dei tassi d’interesse, prelievi forzosi dai conti correnti dei cittadini e un ulteriore indebolimento del settore bancario. In poche parole: la premessa al default. Vi ricorda nulla?

Twitter: @glmannheimer

7
Lug
2015

Grexit, l’haircut dalla BCE è il vero count-down

In attesa dell’eurogruppo straordinario odierno sulla Grecia e mentre i media romanzano, raccontando storie di vendette necessarie su nibelunghi che pretendono di usare l’abaco invece del cuore, nell’enfasi degli storytelling non si è riflettuto sulla novità venuta ieri dalla BCE: una novità che pochi si aspettavano, e che – diciamolo subito, per tagliare l’erba a ogni possibile polemica – è coerente alle regole alle quali la BCE deve attenersi.

Ieri e oggi, sui mercati, la situazione è di allarme ma sotto controllo. Il Consiglio della Bce ieri ha riesaminato, come fa ormai due o tre volte la settimana, i requisiti e il livello della linea straordinaria di liquidità ELA sin qui concessa alle banche greche, senza della quale esse non potrebbero operare né riaprire tra qualche giorno, visto che secondo fonti dell’associazione bancaria greca venerdì scorso avevano ormai in cassa solo poco più di 1 miliardo di euro e qualche spicciolo. Tutti si aspettavano che la BCE non avrebbe certo elevato ELA sopra il tetto degli 89 miliardi (erano 60 a febbraio, poi saliti progressivamente), sin qui concessi e in larga parte già utilizzati. Aumentare ELA da parte della BCE sarebbe stato improprio e impossibile, il giorno prima che al vertice europeo, oggi, si capisca (?) qualcosa di concreto sui termini possibili, gli esiti immaginabili, e soprattutto sui tempi eventualmente necessari per la ripresa della trattativa con la Grecia. Infatti, la BCE ha confermato gli 89 miliardi, senza accrescerli. Ma la sorpresa è stata quella di aver aumentato gli scarti di garanzia sul collaterale accettato in BCE da parte dele banche greche, per poter usufruire della liquidità d’emergenza. In altre parole, è stato abbattuto ulteriormente il valore dei titoli pubblici greci che costituiscono il residuo capitale in pancia alle banche elleniche. Se ne era rimasto – secondo alcune stime, la BCE ieri non ha dichiarato l’entità dell’haircut – per l’equivalente di 15-17 miliardi di euro, ora l’abbattimento del valore residuo riconosciuto porta il valore reale del capitale spendibile dalle banche in garanzia di liquidità a una cifra ancora inferiore, tale da garantire pochissimi giorni di reale operatività, sia pure limitata dai vincoli di capitale molto stretti che permarrebbero anche quando le banche riaprissero gli sportelli.

Per chi volesse accusare l’Europa, una riflessione: il signor Tsipras, nel marzo scorso, facendo saltare i tempi dell’accordo possibile sul terzo programma di assistenza e facendoli prorogare al 30 giugno, ha automaticamente rinunciato a 10,9 miliardi che erano rimasti a disposizione non utilizzati, dei circa 40 stanziati dall’EFSF europeo nel 2012 per rimettere in piedi le banche greche.  Un atto suicidario, visto quanto quei denari servirebbero oggi. Ma tipico di chi mira a far saltare il banco, rischiando anche e soprattutto quel che non ha…

L’haircut sui collaterali da parte della BCE è il più forte segnale trasmesso alla Grecia dopo il suo referendum. E ha il significato di un allarme che dal trillo continuo diventa campana a martello. Non è sui tempi lunghi e lunghissimi della trattativa politica, che si misura la possibilità greca di evitare l’uscita dall’euro. E’ sui tempi brevissimi di un possibile e sereno ritorno all’operatività del suo sistema bancario e dei pagamenti. Fino a ieri si pensava che il tempo consentito alle banche greche per operare grazie alla BCE era di due settimane, fino al 20 luglio quando scade la rata dovuta dalla Grecia alla BCE, in assenza del cui pagamento la BCE dovrebbe automaticamente considerare le banche greche insolventi e sospendere l’ELA. Ma da ieri il tempo è diventato ancor più limitato. Perché le banche greche si troverebbero non solo senza liquidità ma senza capitale. Perché in assenza di un qualunque accordo non potrebbe ricapitalizzarle l’ESM europeo. Al massimo, si dovrebbe immaginare un intervento straordinario del Fmi, che oggi né i greci né molti in Europa vogliono più intervenga nelle faccende europee. E a quel punto l’uscita dall’euro sarebbe un dato di fatto, al di là di ogni intenzione politica dei greci e dell’euroarea.

Evidentemente, nel Consiglio della Bce tra i 25 membri ieri ha prevalso la necessità di attenersi rigorosamente alle norme cautelari che obbligano la BCE ad evitare perdite. Visto il no al referendum, e considerate le incertezze di tempi lunghi: procedure straordinarie erga omnes di ristrutturazione del debito in permanenza dell’euroarea mancano purtroppo nelle regole europee, per le quali ogni caso implica invece un negoziato a parte (come già avvenuto con la Grecia nel secondo salvataggio del 2012). In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco.

E’ un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune.

7
Lug
2015

Contro la net neutrality

“Politici e commentatori di tutto il mondo sostengono che dobbiamo assicurarci che Internet continui a essere una piattaforma libera, aperta e plurale. Ma allora perché dovremmo modificare il regime giuridico che l’ha regolata così bene e resa – appunto – libera, aperta e plurale sino ad oggi? È un non sequitur.

Risponde così Thomas Hazlett – celebre studioso di economia dell’informazione e professore alla George Mason University School of Law – quando, a margine del seminario che si è tenuto ieri all’Istituto Bruno Leoni, gli chiedo cosa pensa della net neutrality. Un tema tornato alla ribalta dopo l’approvazione da parte della Commissione Europea della bozza di accordo sulle nuove regole delle reti di Internet, secondo cui il traffico del web non dovrebbe potere “subire discriminazioni” o essere soggetto a “corsie preferenziali” disposte dai singoli providers. Tali limitazioni riguarderebbero, ad esempio, gli abbonamenti a determinate applicazioni o servizi, oppure la fornitura a prezzi differenziati di connessioni diverse per caratteristiche di velocità e sicurezza. E non solo sono sempre esistite; secondo Hazlett, sono proprio ciò che ha determinato, sopra ogni altra cosa, il successo di Internet.

“Nel 1993, AOL non era il gigante del media blogging che è oggi. Il loro core business era fondamentalmente un “giardino recintato” (cioè uno spazio virtuale privato) chiamato USENET. Per promuoverlo, AOL iniziò a regalare CD contenenti il loro software. Fu una campagna enorme: dopo qualche mese, secondo alcune indagini, più di metà dei CD di tutto il mondo erano targati AOL. E i servizi wireless, a ben vedere, nascono proprio da lì.”

Il successo di USENET fu strepitoso, tanto che fu coniato un termine – “eternal september” – tuttora molto usato nel gergo del web – per descrivere il massiccio afflusso di utenti sulla piattaforma. “Che era tutto fuorché neutrale!”, sottolinea Hazlett.

“Così come non è neutrale i-mode, una piattaforma lanciata già nel 1999 dalla giapponese NTT DoCoMo che permette di accedere a siti appositamente creati per poter essere utilizzati con successo sugli schermi ridotti dei telefoni cellulari. E che ha costi differenti a seconda della velocità del servizio e del tipo di abbonamento. Risultato: gli utenti di i-mode sono quasi 50 milioni, di cui ben 6 milioni fuori dal Giappone.”

E cosa dire, ad esempio, di Google, che lo scorso settembre ha rimosso l’app di Amazon dal suo Google Play Store? Non è forse anche questo un “ostacolo” alla net neutrality?

“È un esempio emblematico: sostenere che Google non possa farlo significa attentare alla sua libertà d’impresa e alle sue strategie commerciali. La politica commerciale dell’iPhone, del resto, mostra in modo macroscopico come la presunta discriminazione sia spesso proprio ciò che attrae i clienti. Perché in realtà è innovazione. E non c’è proprio nulla di male, perché non obbliga i consumatori ad alcuna scelta: al contrario, ne amplia il ventaglio. E cosa dire del New York Times, che conta un milione di sottoscrizioni alla propria sezione a pagamento?”

Ma net neutrality significa anche molto altro. Per l’utente comune, in particolare, significherebbe non poter bloccare preventivamente flussi di dati indesiderati e rendere prioritari flussi desiderabili sulla base di criteri come le ricerche pregresse e il tipo di abbonamento. In altre parole: significherebbe combattere la personalizzazione e l’innovazione dei servizi su Internet. Cioè prendere la strada opposta a quella che il web sta scegliendo da anni senza imposizioni.

Open Internet significa garantire a consumatori, investitori e fornitori di servizi di poter scegliere, lasciando che siano efficienza e innovazione a guidarli. I regolatori hanno scambiato il processo spontaneo che ha creato il web per una struttura predeterminata, e per questo vogliono imporre nuove regole, con lo scopo di proteggere qualcosa che, al contrario, si è evoluto senza di loro. Ecco cosa dovrebbe essere davvero neutrale: l’atteggiamento dei politici verso la rete.”

Twitter: @glmannheimer

6
Lug
2015

L’Atene di oggi vista da Yale

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 3 luglio scorso, in forma leggermente modificata, su Il Foglio, con il titolo “La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale.

La crisi ellenica è la spia di alcune disfunzioni dell’Eurozona, ma non ne è una conseguenza. La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. Read More

6
Lug
2015

Sei ragioni che portano Grexit in vantaggio

In Grecia Tsipras e Varoufakis hanno vinto. E’ una data storica, comunque la si pensi. Perché nei decenni ci sono stati popoli europei a dire no alla CEE, all’Unione Europea, alla Costituzione europea, e anche all’euro. Ma è la prima volta che il popolo di un paese dell’euro dice no alle proposte Ue, chiedendo insieme di restare nell’euro ma di “cambiare segno” alla condizioni poste agli aiuti di cui continuano ad avere un dannato bisogno.

Oggi i media italiani e quelli di mezza Europa inneggeranno alla grande lezione che la democrazia diretta greca infligge all’Europa dell’austerità a guida tedesca. In realtà, l’abilità greca è stata quella di sommare in un potente cocktail politico-mediatico marxismo anticapitalista e sovranismo nazionalista di destra: sono le due correnti politiche che ci hanno regalato il ‘900 di sangue e autoritarismo alle nostre spalle, ma oggi appaiono unite sotto l’egida della democrazia in marcia trionfante contro la tecnocrazia. Per essere realisti, e al netto dei gravissimi errori Ue più volte richiamati negli scorsi 6 mesi, bisogna però non dimenticare che le ragioni della politica greca non fanno scomparire quelle della maggioranza dei paesi dell’euroarea a guida tedesca. Ricordando bene una cosa: da oggi all’apertura dei mercati, il tempo scorrerà molto in fretta, e le risposte da dare al no dovranno venire molto, molto rapidamente. Ed essere chiare. Altrimenti le conseguenze saranno sempre meno facilmente maneggiabili. Vediamo perché.

 Primo: Grexit sì o no? I greci, come si è sempre detto, non vogliono l’uscita dall’euro, vogliono molti aiuti meno condizionati dall’euroarea. Poiché la maggioranza dei leader dell’euroarea riconosciutisi nella linea tedesca hanno seguito la Merkel sulla linea “il referendum in realtà è sul sì o no sull’euro”, com’è possibile che oggi cambino idea? Accetteranno di fronte ai propri parlamenti e alle proprie opinioni pubbliche l’idea che la democrazia greca da sola vale più di quella di casa propria? L’idea che si erano fatti i governi di Germania, Olanda, Austria, Finlandia, Estonia, Spagna e via continuando, era che con questo governo greco non c’è più niente da fare. C’è da immaginare che lo pensino ancor più oggi, non meno. In questo caso, la trattativa con i greci prenderà tutt’altra linea di quella attesa da Tsipras: sarà sulle modalità che la Grecia e l’euroarea eventualmente concorderanno per far uscire la Grecia dall’euro. Non è un caso che Mosca, ieri sera, abbia detto subito che a proprio giudizio la Grecia è più vicina a uscire dall’euro che a un nuovo accordo europeo. E’ la stessa posizione dichiarata da grandi banche come JpMorgan. Fin qui l’Europa non è sembrata preoccupata, di regalare Atene a Mosca. Lo penserà anche oggi?

 Secondo: chi paga le banche greche? Il governo Tsipras ha già chiesto l’estensione da oggi della linea straordinaria di liquidità ELA della BCE, e l’accesso a un programma biennale dell’ESM per avere 30 miliardi. Senza un nuovo accordo, nel Consiglio della Bce attuale non c’è una maggioranza per alzare l’ELA, al massimo per tenerla bloccata alla cifra dell’ultima settimana. Ma in realtà se i titoli detenuti dalle banche greche non valgono più come collaterali, ed è sui titoli greci che si basa il loro patrimonio residuo oggi, le banche greche non hanno più solo bisogno dell’ELA: devono essere ricapitalizzate. Servono un centinaio di miliardi solo per questo. E le ipotesi sono due: lo può fare l’ESM se c’è rapidamente un accordo europeo, altrimenti lo deve fare il governo greco, nazionalizzandole se si va all’uscita dall’euro. Altri guai sui mercati, rispetto alle incertezze sui tempi.

 Terzo: esiste una terza via? Hollande si è candidato esplicitamente, prima del referendum, a far cambiare questa volta segno alla linea Merkel dell’equilibrio di finanza pubblica. Renzi ha tenuto una posizione allineata alla Germania nella trattativa, ma ha anche detto – vedi l’intervista al Messaggero di ieri – che in caso di vittoria del no sarà anche lui sulla linea di una nuova trattativa aperta alle richieste greche, e contraria all’uscita di Atene dall’euro. Perché questa linea abbia sostanza, significa che deve accogliere l’idea di ristrutturare ulteriormente il debito che i greci devono oggi non a privati, ma ai governi dell’euroarea. Cioè dire ai propri elettori che vale assolutamente la pena rinunciare a 10-20 o 30 miliardi dei 40 che la Grecia deve agli italiani, e darle tantissimo nuovi aiuti fingendo di non vedere che a darglieli siamo noi che paghiamo il 5% di Pil di oneri sul debito mentre loro ce li chiedono insoddisfatti del 2,3% che era stato loro concesso ristrutturano il loro debito nel 2012, con scadenze pluridecennali. Vedremo se avverrà. La Spagna di Rajoy non è su questa linea. E nemmeno coloro che nel nord Europa pensano che un euro più ristretto sia più omogeneo. Il capo dello Stato Mattarella ha detto benissimo ieri sera: “scenari inediti, serve responsabilità”. Torno a dire quel che ho già scritto da tempo: la terza via oggi non si costruisce con fughe in avanti, ma ponendo sul tavolo due opzioni immediate, o la possibilità di un default concordato stando nell’euro (si tratterebbe di “piegare” l’ESM a questo fine, e naturalmente la condizionalità degli aiuti resterebbe fortissima, checché pensino i greci), oppure quella di uscire dall’euro in maniera concordata (anche per questo servono aiuti..) ma restando però nella Ue.

Quarto: l’Europa di domani. E’ anche vero che i tedeschi sono i primi d’accordo con lo sviluppo sovranazionale e federalista indicato per il futuro dell’Ue e dell’euroarea dal “Rapporto dei 5 presidenti”. Qui la politica europea si divide ancor più. Il blocco che si riconosce nelle posizioni tedesche è convinto che l’uscita della Grecia sia un passo non incoerente a sviluppi a breve sovra-nazionali, possibili solo tra paesi che condividano le linee di fondo dell’europatto. Italia e Francia, nelle loro attuali maggioranze politiche, non la pensano affatto così. Ritengono che sviluppi federalisti possano venire solo con quote crescenti di debito pubblico condiviso e grandi programmi di eurobond per gli investimenti, e che gli aiuti vadano condizionati non più solo agli equilibri di bilancio ma alla crescita del PIL e dell’occupazione. I mercati, anche su questo, daranno in fretta un prezzo a ogni rischio sovrano nazionale connesso alle posizioni che verranno assunte. Mentre i tempi per cambiare i trattati sono lunghissimi.

Quinto: oltre l’economia, le conseguenze politiche. Vedremo se i mercati con le loro rapide reazioni avranno il ruolo decisivo, nel piegare le posizioni dei governi ai rischi immediati che prezzeranno. Ma le conseguenze politiche del referendum greco sono in realtà rilevantissime. In Spagna il voto greco è aria nelle vele di Podemos. In Italia, è una potentissima spinta agli argomenti di Grillo, Salvini, Meloni, di tre quarti di Forza Italia, e dell’opposizione Pd. Tutti, ciascuno portando acqua al proprio mulino, seguiranno la linea che finalmente si può dire no alle richieste di finanza pubblica equilibrata che vengono dall’Europa, naturalmente presentate e vissute invece come “macelleria sociale”. A partire dal Pd, le conseguenze rischiano di rendere ancora più complicata la vita del governo. E per questo Renzi da domani tenterà la “terza via” tra Merkel e Tsipras. Ma dalla riforma della Costituzione a quella elettorale, dalla scuola ai prepensionamenti, Fassina, Cofferati, Civati e Landini hanno molte più frecce al loro arco. Quanto agli altri, la Lega del no nel referendum greco è stata la prima ieri sera a dire che non bisogna dare nuovi aiuti ai greci perché l’Italia rischia troppo, altrimenti dobbiamo fare un referendum anche noi e la loro posizione è che non ha più senso l’euro, non che si debba dare più aiuti a greci.

 Sesto: cosa rischiamo noi. Tanto. Ogni incertezza tra eurogruppo e Atene, ogni divisione nel Consiglio della Bce, sulle decisioni che la banca centrale europea dovrà assumere prima che la politica decida e che saranno in ogni caso decisive, ognuno di questi passaggi produrrà effetti sul prezzo dato al rischio sovrano dei paesi più indebitati. Noi siamo molto indebitati e a bassissima crescita. Allacciate le cinture, perché il governo Tsipras e i greci hanno posto all’euro e alla UE più problemi insieme di quanti se ne siano visti negli ultimi 4 anni, da quando nel 2011 esplose la crisi di sostenibilità sui mercati dell’euroarea.

 

6
Lug
2015

Grecia. Gestire il fallimento sovrano—di Nicola Rossi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicola Rossi.

Tre anni sono passati dal secondo salvataggio greco, sei mesi da quando è apparso più che probabile che il problema si sarebbe riproposto. Poche ore da quando la probabilità è diventata certezza (per quanto rimanga da stabilire la forma e l’autore del salvataggio). Eppure in questo lasso di tempo le istituzioni europee non hanno ritenuto di porre all’attenzione dei cittadini e dei governi dei paesi membri il tema delle situazioni di insostenibilità del debito sovrano e delle loro modalità di risoluzione. Read More