Contro la net neutrality
“Politici e commentatori di tutto il mondo sostengono che dobbiamo assicurarci che Internet continui a essere una piattaforma libera, aperta e plurale. Ma allora perché dovremmo modificare il regime giuridico che l’ha regolata così bene e resa – appunto – libera, aperta e plurale sino ad oggi? È un non sequitur.“
Risponde così Thomas Hazlett – celebre studioso di economia dell’informazione e professore alla George Mason University School of Law – quando, a margine del seminario che si è tenuto ieri all’Istituto Bruno Leoni, gli chiedo cosa pensa della net neutrality. Un tema tornato alla ribalta dopo l’approvazione da parte della Commissione Europea della bozza di accordo sulle nuove regole delle reti di Internet, secondo cui il traffico del web non dovrebbe potere “subire discriminazioni” o essere soggetto a “corsie preferenziali” disposte dai singoli providers. Tali limitazioni riguarderebbero, ad esempio, gli abbonamenti a determinate applicazioni o servizi, oppure la fornitura a prezzi differenziati di connessioni diverse per caratteristiche di velocità e sicurezza. E non solo sono sempre esistite; secondo Hazlett, sono proprio ciò che ha determinato, sopra ogni altra cosa, il successo di Internet.
“Nel 1993, AOL non era il gigante del media blogging che è oggi. Il loro core business era fondamentalmente un “giardino recintato” (cioè uno spazio virtuale privato) chiamato USENET. Per promuoverlo, AOL iniziò a regalare CD contenenti il loro software. Fu una campagna enorme: dopo qualche mese, secondo alcune indagini, più di metà dei CD di tutto il mondo erano targati AOL. E i servizi wireless, a ben vedere, nascono proprio da lì.”
Il successo di USENET fu strepitoso, tanto che fu coniato un termine – “eternal september” – tuttora molto usato nel gergo del web – per descrivere il massiccio afflusso di utenti sulla piattaforma. “Che era tutto fuorché neutrale!”, sottolinea Hazlett.
“Così come non è neutrale i-mode, una piattaforma lanciata già nel 1999 dalla giapponese NTT DoCoMo che permette di accedere a siti appositamente creati per poter essere utilizzati con successo sugli schermi ridotti dei telefoni cellulari. E che ha costi differenti a seconda della velocità del servizio e del tipo di abbonamento. Risultato: gli utenti di i-mode sono quasi 50 milioni, di cui ben 6 milioni fuori dal Giappone.”
E cosa dire, ad esempio, di Google, che lo scorso settembre ha rimosso l’app di Amazon dal suo Google Play Store? Non è forse anche questo un “ostacolo” alla net neutrality?
“È un esempio emblematico: sostenere che Google non possa farlo significa attentare alla sua libertà d’impresa e alle sue strategie commerciali. La politica commerciale dell’iPhone, del resto, mostra in modo macroscopico come la presunta discriminazione sia spesso proprio ciò che attrae i clienti. Perché in realtà è innovazione. E non c’è proprio nulla di male, perché non obbliga i consumatori ad alcuna scelta: al contrario, ne amplia il ventaglio. E cosa dire del New York Times, che conta un milione di sottoscrizioni alla propria sezione a pagamento?”
Ma net neutrality significa anche molto altro. Per l’utente comune, in particolare, significherebbe non poter bloccare preventivamente flussi di dati indesiderati e rendere prioritari flussi desiderabili sulla base di criteri come le ricerche pregresse e il tipo di abbonamento. In altre parole: significherebbe combattere la personalizzazione e l’innovazione dei servizi su Internet. Cioè prendere la strada opposta a quella che il web sta scegliendo da anni senza imposizioni.
“Open Internet significa garantire a consumatori, investitori e fornitori di servizi di poter scegliere, lasciando che siano efficienza e innovazione a guidarli. I regolatori hanno scambiato il processo spontaneo che ha creato il web per una struttura predeterminata, e per questo vogliono imporre nuove regole, con lo scopo di proteggere qualcosa che, al contrario, si è evoluto senza di loro. Ecco cosa dovrebbe essere davvero neutrale: l’atteggiamento dei politici verso la rete.”
Twitter: @glmannheimer