24
Lug
2015

ILVA: la lotta tra poteri di Stato sinora ha bruciato 20 miliardi

I 47 rinvii a giudizio per la vicenda ILVA, cominciata nel luglio 2012, non sono solo il primo passo formale di un maxi-processo ormai atteso. Sono in realtà una sconfitta per lo Stato. Perché l’ILVA ormai da tempo è un’azienda tornata di Stato, espropriata ai suoi proprietari senza indennizzo ben prima di un rinvio a giudizio. E siccome l’azienda è di Stato, e i magistrati sono un organo dello Stato, allora il risultato di tre anni in cui lo Stato ha deciso di trattare l‘ILVA come un banco di prova della deindustrializzazione per via giudiziaria è solo una sconfitta dello Stato.

Di questi tempi, dall’ILVA a Fincantieri ad altri casi, i magistrati ripetono che non spetta a loro occuparsi delle conseguenze economiche dei loro atti. Fiat iustitia, pereat mundus. Con l’ILVA espropriata e atterrata, poiché da cinque altoforni il rischio oggi è che ne resti a malapena in attività uno, il mondo finito è quello di un campione della siderurgia europea. Oltre tre milioni di tonnellate di acciaio l’anno in meno – il frutto della tenace azione dei magistrati, contro ogni tentativo di ogni governo di continuare nella produzione, distinguendo indagini da paralisi produttiva – significano non solo la fine del campione europeo, quando era gestito dai Riva. Significa un aumento netto del 32% nel primo semestre 2015 delle importazioni d’acciaio dai paesi extra europei cioè dai giganti asiatici, e del 50% da quando la vicenda giudiziaria è cominciata. Nel solo comparto dei laminati piani, ormai importiamo dall’Asia al ritmo di 4 milioni di tonnellate l’anno, prima degli interventi dei magistrati la quota era del 75% inferiore. Chiunque abbia a che fare con la siderurgia sa che per la manifattura italiana ed europea comprare dall’ILVA è diventata una scommessa, perché dipende dai giudici se tra tre settimane garantirà 6 mila tonnellate di ghisa al giorno o 8mila, visto che i magistrati hanno in corso un altro sequestro al penultimo altoforno attivo.

Molti, oggi, daranno spazio al rinvio a giudizio di Vendola. La destra gongolerà, i titoli saranno su di lui. Nel dibattimento si accerteranno le sue responsabilità. Ma i titoli cubitali dovrebbero essere riservati al danno economico nazionale: per almeno 1,5 punti di PIL – sissignore, oltre 20 miliardi di euro- che sin qui l’economia italiana mette a segno tra diminuzione della produzione e dell’export, aggravio della bilancia commerciale, meno occupati, meno tasse incassate, miliardi di valore bruciato negli impianti ( che da 3 anni, a gestione commissariale, non sono più in grado di produrre un bilancio degno di questo nome, l’ultimo è quello approvato dai Riva..), e perdita ieri oggi e domani dei clienti in Italia ed Europa.

Un disastro assoluto. Che non ha precedenti in Europa. Dove pure, per esempio in Germania e Polonia, esistono eccome impianti simili all’ILVA, nelle vicinanze dei centri abitati. Ma da nessuna parte sono stati sequestrati e bloccati dalla magistratura. Come in nessun altro paese i giudici hanno bloccato conti delle imprese e patrimoni dei soci, materie prime e prodotti finiti, aree di stoccaggio e parchi minerari. Né si sono sognati di decretare lo stop della lavorazione a ciclo continuo.

Possiamo credere che siamo improvvisamente diventati lo Stato europeo e nell’area OCSE più ferreamente intransigente in materia di rispetto dei vincoli ambientali. O piuttosto è uno Stato incapace di far rispettare in precedenza ragionevoli vincoli ambientali, che diventa poi feroce persecutore non di reati compiuti da manager, soci e regolatori pubblici– ottima cosa – ma dell’idea stessa che possa esistere un impianto tanto importante, che è cosa del tutto diversa? Uno Stato incapace prima, e punitivo ed espropriatore poi, disse due anni fa Gianfelice Rocca al suo esordio come presidente di Assolombarda: aveva ragione. Ed è andata ancor peggio.

La politica ci ha provato, diamogliene atto, a limitare i danni. A distinguere tra giuste prerogative della magistratura nel perseguire ipotesi di reato, e necessità della continuità produttiva del sito. Era il 26 luglio 2012, quando Emilio e Nicola Riva e 6 dirigenti dell’ILVA di Taranto furono arrestati. A ottobre, il governo Monti rilasciò una nuova e più accurata Autorizzazione Integrata Ambientale, perché le emissioni e le polveri a Taranto fossero messe in regola con opportuni investimenti. Era novembre, quanto i magistrati tarantini disposero altri arresti. A dicembre il governo Monti intervenne con un decreto ad hoc, la legge 231 del 2012 che venne chiamata “salva-Ilva”, perché nasceva proprio dalla necessità di non interrompere la continuità dell’acciaeria di Taranto, per effetto dei sequestri degli impianti disposti dai magistrati. Ma i magistrati la considerarono incostituzionale. E la Corte costituzionale invece la confermò, nell’aprile 2013. A maggio, contro il parere della Procura, il Riesame dissequestrò i semilavorati e le materie prime dell’acciaeria, garantendole l’operatività, sia pure ridotta a meno della metà. Una settimana dopo, la Procura sequestra ad Adriano ed Emilio Riva 1,2 miliardi. Due giorni dopo, i magistrati dispongono il sequestro di ben 8,1 miliardi di euro, intervenendo su tutto il perimetro delle società controllate in Italia dalla holding, non sull’acciaeria di Taranto.

E nel frattempo il governo Letta interviene il 4 giugno 2013 con un altro decreto. Ma è costretto ad arrendersi. Si stabiliscono, come vuole la magistratura, norme di commissariamento per tutte le eventuali imprese sopra i 200 dipendenti la cui attività produttiva comporti pericoli per ambiente e salute. Il commissariamento pubblico può così sostituirsi agli organi di amministrazione, con contestuale sospensione dell’assemblea dei soci. E assumere su di sé, tramite un commissario, tutti i poteri e le funzioni per un massimo di ben 3 anni, senza rispondere di eventuali diseconomie. Col governo Renzi, la politica tenta di nuovo interventi per garantire la continuità della produzione. Ma i magistrati Impugnano di nuovo alla Corte costituzionale, reiterando malgrado il decreto la chiusura del penultimo altoforno rimasto in funzione.

Perde la faccia lo Stato, perdono i lavoratori, perde l’Italia, perdiamo tutti. Ci si dimentica che l’ILVA a Tarato è stata decisa e realizzata così com’è dallo Stato, non dai privati subentrati quando lo Stato perdeva nell’acciaio pubblico cifre pazzesche. La FINSIDER, che realizzò l’attuale ILVA di Taranto, bruciò in perdite oltre 20mila miliardi di lire nei soli 15 anni pre-privatizzazione. Ma nei 15 anni di proprietà privata, a fronte dei decenni di quella pubblica, gli investimenti in protezione ambientale furono una quota importante degli investimenti totali, e furono superiori agli utili riservati ai soci: queste sono cifre ufficiali, che si leggono nei bilanci privati, mentre i commissari pubblici di bilanci non ne producono.

Si dirà: meglio uno Sato vendicatore di salute e ambiente piuttosto che imbelle. Con tutto il rispetto: è una sciocchezza. Lavoro e ambiente sono due beni fondamentali e costituzionali, quindi necessariamente bilanciati tra loro; bilanciati anche nel diritto fallimentare, là dove si tratta di mantenere la continuità aziendale. Dopo che per oltre mezzo secolo si sono protratti consumo di ambiente e produzione di lavoro, i problemi che sorgono sono collettivi, riguardano l’intera comunità, e vanno risolti con il coinvolgimento di tutti, autorità locali, poteri centrali e proprietà . Espropriata e ripubblicizzata, dell’ILVA doveva occuparsene il parlamento, per la sua eccezionale importanza sull’economia nazionale. Averla ridotta al solo maxi processo dopo averla messa in ginocchio, aver eliminato dal panorama mondiale il secondo gruppo siderurgico in Europa e l’undicesimo planetario – tale era il gruppo Riva – è solo la prova di un paese inconsapevole di come, nella lotta tra suoi poteri pubblici, accelera il suo declino.

 

23
Lug
2015

Addio certezza della legge: anche da prefetti e magistrati

Nella storia, dello Stato si sono date tante definizioni. Nel secondo dopoguerra, l’avvento anche in Europa della democrazia ci ha fatto lasciare alle spalle enunciati estremi come Der Staat ist Macht, lo Stato è potenza, che piaceva all’hegelismo tedesco e produsse i totalitarismi. Ai tempi nostri, lo Stato dovrebbe essere di conseguenza innanzitutto certezza del diritto. Ma nella nostra Italia per moltissimi versi non è affatto così. E ciò spiega una bella fetta del distacco che gli italiani esprimono verso le istituzioni. Non si deve solo alla concezione che politica e partiti hanno dello Stato, come di uno strumento spesso al proprio discrezionale servizio. Ormai la crisi dello Stato investe anche quelli che dovrebbero essere i pilastri di garanzia dell’autonomia dello Stato dalla politica, per fondarsi solo sulle leggi: cioè prefetti e i magistrati. E’ esattamente ciò che viene riproposto da alcune delicatissime vicende in corso.

Cominciamo da Roma. Nel nostro ordinamento, spetta al prefetto ordinare la precettazione – cioè l’obbligo alla prestazione e all’offerta di un servizio – nei confronti di astensioni lavorative che avvengano in violazione delle norme vigenti, a tutela dei diritto dei cittadini. E’ una materia di cui già molte volte ci siamo occupati, sottolineando la necessità di nuove norme rispetto ai codici di autoregolazione per categoria e azienda oggi vigenti. Il premier Renzi e il ministro dei Trasporti Delrio più volte hanno promesso interventi in tal senso. Che non si sono visti. Sta di fatto che Roma vive da più di settimane l’enorme disagio di servizi di trasporto annullati e ritardati a raffica e senza preavviso, dovuti allo sciopero bianco del personale ATAC, che rifiuta i badge adottati dall’azienda per il controllo dell’orario di lavoro effettivamente prestato. La protesta avviene in totale spregio delle norme previste a tutela dei passeggeri. Si è giunti a contingentare i passeggeri per stazione, per evitare proteste di massa. Ma quando si contingentano i passeggeri che pagano e non si interviene su chi viola la legge, lo Stato innalza bandiera bianca sulle sue stesse leggi.

L’Autorità garante dei Trasporti ha chiesto giustamente al prefetto di Roma di non tergiversare oltre, e di precettare visto che lunedì è annunciato un nuovo sciopero. Ma ecco che scatta la malattia pubblica italiana numero uno: la discrezionalità al posto della certezza della norma. La tensione aperta tra sindaco di Roma, presidenza del Consiglio e Pd, produce appelli riservati al prefetto perché si astenga dal precettare, e convinca piuttosto i sindacati con le buone. Ieri, il primo incontro è andato puntualmente a vuoto. E poi, come si fa a precettare i dipendenti dell’ATAC, quando venerdì il suo cda dovrà adottare un bilancio consuntivo 2016 con perdite di altri 60 milioni? Quando cioè le perdite cumulate dall’ATAC saranno di 1,3 miliardi dal 2007 e 1,55 miliardi nel decennio, perdite che sommate al debito esistente di 1,6 miliardi obbligheranno all’ennesima ricapitalizzazione d’urgenza visto quella di 3 anni fa per 1 miliardo è svanita? Ricapitalizzazione che dovrà essere autorizzata e compiuta dal governo, visto che il Campidoglio non ha certo i 200 milioni necessari, ancora una volta dunque dal governo nazionale dopo 2 interventi straordinari salva-debito a favore di Roma per oltre 14 miliardi, adottati sotto il sindaco Alemanno e attuale?

Sono cifre devastanti, l’ATAC e l’AMA di Roma sono oggi il vertice del disastro nazionale delle società pubbliche locali. Ma in nessun caso tutto ciò dovrebbe consentire allo Stato di chiudere un occhio sull’oltraggio quotidiano portato a centinaia di migliaia di romani. Eppure, il prefetto non precetta. E lo Stato muore, di fronte ai cittadini.

Secondo esempio. Che riguarda sempre i prefetti, ma questa volta per le loro prerogative nella delicatissima materia dell’assegnazione degli immigrati ai Comuni. Dopo la sostituzione disposta dal governo del prefetto di Treviso, a seguito della sollevazione della popolazione di Quinto contro dei rifugiati in case di edilizia privata e delle roventi polemiche scatenatesi con il presidente del veneto Zaia, il sindacato dei prefetti ha levato la voce. “Basta considerarci capri espiatori”, ha detto. A parte la singolarità che anche i prefetti in Italia siano sindacalizzati, la questione riguarda ancora una volta l’imparzialità della legge, visto che nel nostro ordinamento napoleonico il prefetto rappresenta lo Stato centrale nei territori. Tra assegnazioni delle quote di rifugiati da parte del Viminale agli Enti Locali, e concreta scelta delle strutture pubbliche o private alle quali assegnarle, è il prefetto a dover esercitare scelte molto rognose. Come insegna la maxi indagine su Roma Capitale, sono scelte pericolose per il rischio di evitare bandi di gara e procedure trasparenti, e ardue poiché al prefetto si chiede insieme di mediare con la politica locale, e di valutare possibili tensioni da parte dei residenti. Anche sugli immigrati, la politica tira per la giacchetta i prefetti, che diventano non più garanti dell’esecutività di una norma, ma mediatori politico-culturali. E lo Stato muore un’altra volta, perché agli occhi dei cittadini, che non capiscono e protestano, il prefetto appare come il terminale ultimo di un grande scarica-barile istituzionale. E se i prefetti credono di rimediare a propria volta protestando pubblicamente contro lo Stato, ecco che il bailamme diventa generale.

Terzo esempio. Questa volta riguarda i magistrati. Si moltiplicano le ordinanze attraverso le quali pm e gip dispongono sequestri di beni strumentali produttivi, input e ouput della produzione. Dall’Ilva di Taranto a Fincantieri a Muggia, l’estensione delle facoltà di misure cautelari di sequestro disposte dalla magistratura in fase d’indagine preliminare – cioè inaudita altera parte – ha compreso nel tempo elementi sempre più vasti rispetto a quelli essenziali indicati nei codici: i conti dell’impresa, il patrimonio personale dei suoi soci, gli impianti produttivi, le materie prime necessarie a produrre, i depositi delle medesime e degli scarti di produzione, il prodotto finale. Se e quando la politica ha deciso d’intervenire con decreti ad hoc – visto che, ripetiamolo, si tratta di un’estensione autoevolutiva delle facoltà del magistrato – la magistratura ribatte sconfessando i decreti legge, appellandosi alla Corte Costituzionale ma intanto reiterando le proprie misure. I vertici nazionali dell’Associazione Nazionale Magistrati rilasciano interviste nelle quali affermano che non spetta al magistrato valutare le conseguenze economiche e occupazionali delle proprie decisioni. Restano isolate voci come quelle di Sabino Cassese, ex giudice costituzionale che da queste colonne ha ribadito che un giudice non può far spallucce a una norma di legge per il solo fatto di non condividerla. E come quella di Nello Rossi, per otto anni coordinatore del pool economico alla procura di Roma, per il quale al contrario l’esame delle conseguenze economiche rilevanti non può che costituire dovere imprescindibile da parte di un magistrato all’atto di emanare un provvedimento, in nome della proporzionalità e della congruità degli interessi pubblici da tutelare.

Può il giudice sostituirsi alla legge? Può il prefetto disapplicarla? Possono entrambi anteporre convinzioni proprie e interessi da mediare, a ciò che lo Stato deve essere a apparire, cioè imparziale e non discrezionale? La risposta è una sola: no. Ma in Italia è sempre più: invece sì. Non lamentiamoci, poi, se allo Stato credono in pochi.

22
Lug
2015

Obiezioni liberal-libertarie al caos di Stato sulle unioni civili

In teoria, un liberal-libertario non può che essere soddisfatto della sentenza della Corte europea dei diritti umani. In pratica, non è proprio così. Cercherò di spiegare perché, sapendo che la materia divide e alimenta polemiche.

I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per la violazione dei diritti di tre coppie omosessuali, e in particolare per l’articolo 8 della Convenzione europea: il diritto al rispetto per la vita privata e familiare. Ora tutti i 47 Stati del Consiglio d’Europa facenti capo alla Cedu dovrebbero in teoria legalizzare l’unione tra persone dello stesso sesso, ma non per forza il matrimonio.

Che cosa significa, in concreto? Se guardiamo ai diversi paesi, la scelta è variegatissima. L’Italia, insieme a Grecia, Turchia, Cipro, Polonia, Bulgaria, Romania, Russia e Slovacchia, costituisce il gruppo dei paesi a minori tutele. Nei 4 paesi scandinavi, BeNeLux, Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo è previsto il matrimonio di coppie dello stesso sesso. In Irlanda, Germania, Austria, Cechia, Croazia, Slovenia, Ungheria, Svizzera e Malta, gli ordinamenti prevedono la tutela di “unioni civili” di diverse forme, distinte dall’equiparazione al matrimonio. Quanto ai diritti connessi, anche su questo l’Europa è un mosaico a colori. C’è chi garantisce adozione congiunta, riconoscimento dei figli del partner e fecondazione assistita nei matrimoni gay – Scandinavia, Islanda, Regno Unito, e Spagna – mentre nel blocco delle unioni civili i più avanzati sono Croazia, Slovenia e Malta, che prevedono sia l’adozione congiunta sia il riconoscimento dei figli del partner a chi è legato da una sola unione civile. La Francia ha sia unioni civili sia matrimonio gay, ma come il Portogallo non prevede adozioni, riconoscimenti e fecondazione assistita.

Chi qui scrive è un liberale libertario, di conseguenza evita lo scontro frontale che da anni divide il nostro Paese in due blocchi ideologici contrapposti. Dal mio punto di vista, iper-minoritario come si vedrà non seguendo bandiere di partito, le conseguenze della decisione di Strasburgo investono tre questioni fondamentali, che a questo punto la politica dovrà sciogliere in parlamento senza i rodei che hanno condotto a rinvii continui.

La prima questione riguarda il rapporto tra lo Stato e le persone. La seconda: i diritti. La terza: i costi.

Primo paradosso: per un libertario-liberista, è sacro il rispetto delle preferenze, identità, nature e gusti di genere, e delle convenienze economiche di ogni singolo individuo. Ma l’esito del processo che è in corso non è affatto una privatizzazione del matrimonio – per così dire – o dei rapporti di ogni altro tipo che gli individui vogliano liberamente porre in essere. E’ l’esatto opposto. Lo Stato diventa regolatore “a schiovere” di una panoplia di rapporti distinti e diversi, pretendendo per ciascuno di fissare regole e parametri, durate e rescissioni, tutele economiche sia reddituali sia patrimoniali, criteri di assegnazioni dei servizi sociali e via continuando. E’ l’esatto opposto della libertà individuale sognata dalla rivoluzione del costume incarnata dal movimento che rivendica parità e rispetto per ogni identità e scelta di genere. Ogni singolo tipo di scelta sarà infeudata a una griglia di definizioni statali. Direte voi: non c’è alternativa, nello Stato moderno. Non è affatto vero: basta anteporre la libertà di scelte contrattuali private, a cui riconoscere alcuni diritti fondamentali senza pretendere di dettare le regole per ciascuna di esse, si tratti di unioni di tipo amoroso, o di coabitazioni stabili per ragioni economiche. Se c’è un limite evidente nella battaglia pluridecennale per i diritti ai gay, è questa insistenza assoluta per la statualizzazione del loro riconoscimento. Sarebbe stato cento volte meglio approfittare del fatto che lo stesso matrimonio civile nel nostro ordinamento vede riforme che ne attenuano la tutela man mano che si va al divorzio express, per capire che la strada migliore era quella opposta: quella di meno e non più Stato per tutti. I privati stabiliscano contrattualmente quanti beni e redditi intendano condividere, quali strumenti finanziari a copertura o beneficio reciproco individuino, e lo Stato asssicuri il pieno rispetto “pubblico” delle libere intese. Solo la destatualizzazione del vincolo è libertà.  A me, lo Stato che ficca il naso in camera da letto non piace (e nemmeno nei conti della spesa, ma su questo so che scattano reazioni immediate di altro tipo).

Secondo paradosso: i diritti. Ora sarà giocoforza decidere iparlamentarmente un labirinto definitorio, sommando le istanze partitiche più diverse invece di compiere una scelta semplice e netta. Se esaminiamo lo stato attuale di elaborazione del disegno di legge Cirinnà, osserviamo che si dichiara di dover portare chiarezza nel riconoscimento di relazioni tra conviventi diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio. Ma poi si ricalca proprio la struttura delle disposizioni previste per il matrimonio, a cui segue la disciplina della convivenza di fatto, come legame a propria volta significativamente più debole rispetto a quello dell’unione civile. La convivenza di fatto è indicata più genericamente come persone unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, ma viene individuata rinviando alla “famiglia anagrafica”, includendo perciò anche rapporti non esclusivi ma carichi di implicazioni quanto a “diritti concreti” economici perché afferenti ad anziani soli, separati, disoccupati, sottoccupati, e via continuando. Oltre a questo, l’attenzione prioritaria data però alle unioni tra persone di sesso uguale determina gli espliciti rinvii normativi alla filiazione (in caso di morte del genitore naturale o adottivo unito civilmente con la persona dello stesso sesso), e si indica l’equivalenza, nell’applicazione delle disposizioni normative, tra “coniugi” e “unione civile”. Com’è evidente, o almeno a me pare così, in questo modo di procedere per giustapposizione normativa il rischio è quello di un’enciclopedia di Stato sui limiti e non sulla titela di ogni forma di libertà. E sorge un problema che, per me personalmente, non è questione religiosa, bensì civile ed economica: un paese a demografia negativa deve assolutamente tutelare i diritti delle libere unioni di ciascuno, ma non può e non deve dimenticare che la natalità nella famiglia naturale dovrebbe essere un patrimonio da riconoscere, tutelare e – oggi – da incentivare fiscalmente, invece di ostacolarlo come riesce selvaggiamente a fare il nostro fisco. Per questo resto curioso di capire come l’enciclopedia di Stato in arrivo comprenderà nelle sue fattispecie la famiglia “naturale” ex art.29 della Costituzione.

Terzo paradosso: chi paga? Qui entriamo in una terra incognita. Già mi è capitato di scrivere in presenza del divorzio express, che per conseguenza occorreva rivedere tutte le norme previste in precedenza per esempio sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, ammontate nel 2014 alla bellezza di circa 38 miliardi di euro. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo cinque anni, almeno tre dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. E, in percentuali diverse, la pensione di reversibilità è ammessa per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento. Che vogliamo fare, estendere tali norme alle nuovi unioni una volta che ne prevediamo esistenza e tutela nell’ordinamento? Sommiamo alla reversibilità il diritto ai servizi sociali, alla sanità attraverso contributi individuali a copertura estesa ai componenti il nucleo riconosciuto, alle graduatorie per l’edilizia popolare e ai nidi e scuole materne? Si prevederà l’estensione dell’ISEE a unioni civili e convivenze anche meno forti? Un paese che da metà anni Settanta, per una sentenza della Corte costituzionale, ha abolito la famiglia naturale come unità di riferimento fiscale lasciando il contribuente individuale come unico soggetto d’imposta, farà convivere tale demenziale impostazione con un’estensione orizzontale e verticale di diritti economici incardinati su unioni diverse, ciascuna definita dallo Stato entro rigidi confini? A me sembrerebbe quanto meno molto discutibile.

Naturalmente, alla politica spetta risolvere al meglio ciascuno di questi problemi. Nessuno di essi è insolubile. Basta però adottare criteri chiari, perché sommando pezze a colori a scopi elettorali ne può uscire un caos che, oltre a essere discutibile per principio, è pure scassa-conti.

 

 

20
Lug
2015

Sulle tasse, prendiamo Renzi sul serio: incalziamolo su come tagliarle (con meno spesa)

Ieri, la stragrande maggioranza dell’informazione italiana non è riuscita a prendere troppo sul serio l’annuncio in materia fiscale fatto da Renzi all’assemblea del Pd. Pesano vent’anni di delusione cocente dei contribuenti italiani, visto che agli annunci simili fatti da governi di destra e sinistra è sempre invariabilmente seguito un aumento di pressione fiscale, e oggi in Europa solo Francia e Belgio ci battono (la stessa Svezia, solo per un soffio). Eppure, proprio per questo la reazione più adeguata dovrebbe essere opposta. L’annuncio del presidente del Consiglio, da 18 mesi a questa parte, deve essere assunto letteralmente come il più importante degli impegni sinora assunti dall’attuale governo. Tra i 40 e i 50 miliardi di euro di meno imposte entro 3-4 anni da oggi, e cioè con una verifica elettorale nazionale di mezzo, rappresentano il dimezzamento abbondante dei 5 punti di PIL di maggior pressione fiscale di cui oggi l’Italia soffre rispetto alla Germania. Sarebbe una svolta, in termini di liberazione di risorse da volgere alla ripresa dei consumi, e al ritorno sopra lo zero a cui langue il margine netto delle imprese italiane sul valore aggiunto.

Com’è ovvio, nell’annuncio pesano le difficoltà interne al Pd sulle riforme, la discesa del governo nei sondaggi, il risultato delle ultime amministrative, i mille falò accesi a sinistra dalle vicende calabresi, siciliane, romane, liguri, venete e milanesi. Tutto verissimo, lo sappiamo. Ma l’informazione (e le opposizioni) commetterebbero un grave errore, a disconoscere l’importanza che occorra una vera e propria rivoluzione fiscale, per ridare all’Italia gambe e fiato. Al contrario: bisogna prendere Renzi sul serio, inchiodarlo a quel che ha detto, e d’ora in poi chiedergli incessantemente di dare risposte concrete a tutti i cento dubbi e le mille insidie che obbligano allo scetticismo, di fronte a un obiettivo tanto impegnativo alla luce dei clamorosi fallimenti sin qui visti. Neanche Berlusconi, in realtà, aveva annunciato una rivoluzione tanto profonda che investisse sia la tassazione patrimoniale, sia quella sui redditi delle persone fisiche e delle imprese. Il Libro Bianco Berlusconi-Tremonti annunciava due sole aliquote IRPEF per le perone fisiche, al 22 e al 33%, ma toccava meno il resto. Qui invece siamo all’annuncio della scomparsa della tassazione patrimoniale sulla prima casa e di altro che entra sull’IMU-TASI, alla scomparsa dell’IRAP residua, a un taglio significativo dell’IRES alle imprese, e a una ristrutturazione profonda dell’IRPEF su 3 sole aliquote.

Vediamo in sintesi le prime più rilevanti difficoltà, in ordine temporale. Abolire l’IMU-TASI prima casa, l’IMU agricola e quella sui macchinari “imbullonati” nei capannoni delle imprese, vale poco meno di 5 miliardi. Ci sono due maxi complicazioni. La prima è l’annuncio di Renzi viene quando da 6 mesi è già deciso che l’IMU-TASI entrasse nella cosiddetta local tax di pertinenza comunale, a partire dalla prossima legge di stabilità nel 2016. L’ANCI non ha mai fatto mistero che concepiva la local tax per recuperare parte dei pesanti trasferimenti subiti da Roma in questi anni, tanto che si pensava di passare per IMU-TASi dai 25 miliardi e rotti incassati complessivamente nel 2014 (la tassazione patrimoniale degli immobili era pari a 10 miliardi nel 2011, per avere un’idea dell’aumento determinatori nel frattempo..) verso quota 30 miliardi. Oggi il governo dice che 5 miliardi devono sparire. Come si finanzia il buco? Si fa l’ennesimo scherzetto ai Comuni? Li si lascia liberi di alzare altre imposte e tariffe, col che l’abrogazione sarebbe l’ennesima presa per i fondelli? Oppure il governo taglia lui spese per 5 miliardi, a copertura dei trasferimenti ai Comuni e abolendo quel che ha detto che vuole abolire?

La seconda difficoltà è purtroppo presto detta. La legge di stabilità attesa per settembre deve evitare clausole di salvarguardia fiscale per 16 miliardi, dei quali 6 il governo pensa di ottenerli come bonus di Bruxelles in cambio del procedere delle riforme (ecco perché Renzi ha collegato riforme e rivoluzione fiscale) e 10 devono venire da tagli alla spesa sin qui rinviati da un anno e mezzo, dai tempi di Cottarelli. A questo si aggiunge il finanziamento dei buchi di bilancio creati dal no di Bruxelles alla reverse charge IVA per i fornitori pubblici, a quelli della Corte sulle pensioni e sul necessario rinnovo dei contratti pubblici. Già così, la legge di stabilità doveva ammontare all’incirca sui 20 miliardi di risorse, per continuare a finanziare decontribuzione dei contratti, bonus 80 euro, nonché per far scendere il deficit all’1,8% di PIL nel 2016.

La domanda diventa: aggiungere altri 5 miliardi di tagli di spesa è quel che il governo vuol fare, oppure intende disconoscere l’obiettivo a medio termine sin qui contrattato con Bruxelles, per raggiungere in un triennio l’azzeramento del deficit al netto del ciclo? All’assemblea nazionale del Pd, Renzi ha parlato solo di rispetto con l’Europa dell’impegno di non valicare il tetto di deficit del 3% di PIL. Il che significa rimangiarsi l’impegno sin qui garantito da Padoan: cioè l’azzeramento del deficit.

E’ questa la chiave di lettura della rivoluzione fiscale annunciata? Finanziarla in deficit? Contando su tre anni di deficit al 3% invece di azzerarlo, in effetti, l’equivalente di quanto annunciato da Renzi su Ires, IRAP e Irpef ci sta praticamente quasi tutto. Ma attenzione: anche l’idea di finanziare l’annuinciata rivoluzione fiscale in deficit restando sotto il 3% di PIl NON COPRE PERO’ AFFATTO anche le clausole fiscali di salvaguardia previste negli anni 2017-2018, che ai 16 miliardi previsti nel 2016 ne sommano altri 56 per un totale di 72 miliardi. Significherebbe cambiare radicalmente strada, rispetto a quella sin qui scandita dalle regole europee. Padoan se la sente, dopo il caso greco, di guidare un nuovo assalto, questa volta alla reinterpretazione e anzi alla sospensione del fiscal compact, che già è stato formalmente di molto diluito l’anno scorso in sede europea?

La risposta an questa domanda è centrale. Per essere davvero credibili, gli impegni di abbattimento dell’IRES, dell’IRAP e dell’IRPEF (e di estensione ai pensionati sotto i 26 mila euro annui del bonus 80 euro, Renzi ha detto anche questo), dovrebbero essere accompagnati dalla delineazione di tagli di spesa permanenti di equivalente ammontare, per evitare il finanziamento in deficit o che l’attenuazione di un’imposta sia accompagnata dall’aumento di altre in termini più che proporzionali, com’è sinora avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma il governo deve dirlo ora, come intende procedere.

Personalmente, preferisco la strada difficile dei tagli di spesa. Quanto a individuarli, non ho cambiato idea rispetto all’esercizio previsionale dettagliatissimo di tagli per 5 punti percentuali di PIL in una legislatura, a copertura di altrettanti punti di PIL di minori entrate: proposi insieme agli amici di Fare il come e dove, e lo trovate qui. Ma intendiamoci: se il governo è convinto, come per molti versi potrebbe essere plausibile, che abbattimenti fiscali di queste proporzioni possono nel giro di 2-3 anni accrescere il PIl con effetti positivi permanenti anche di maggior gettito, e cioè di equilibrio di bilancio oltre che di crescita, allora deve argomentarlo con forza e chiarezza, perché dovrà convincerne l’Europa intera. Senza sotterfugi, che significherebbero solo che la promessa di Renzi è fatta per NON essere mantenuta.

Un’ultima osservazione. Renzi ha lasciato l’IRPEF per l’ultimo anno cioè al 2018, rispetto all’IMU – che è una risposta alla destra – nel 2016, e a IRES-IRAP che sarebbero da subito la giusta priorità per l’impresa, e che sono rimandate al 2017. Ma intendiamoci bene. Chi scrive è da 20 anni favorevole alla flat tax (trovate dioversi miei scritti negli anni cercandoli nel sito dell’IBL), anche se nel dettaglio non a quella con aliquota del 15% proposta oggi dalla Lega. Ma se per davvero dobbiamo prendere alla lettera Renzi che parla di un’IRPEF a 3 sole aliquote, allora non ho dubbi. Se l’ipotesi dovesse essere quella lanciata dal sottosegretario al MEF Enrico Zanetti, e cioè del 15% come aliquota come oggi per chi sta tra gli 8mila euro della no tax area e i 15mila euro lordi di reddito annuo, poi del 27% come aliquota unica tra chi sta sopra i 15 mila euro fino a 75 mila (per poi ritornare al 43% come oggi di aliquota per chi ha un reddito superiore ai 75 mila euro: io abbasserei di 2 punti anche questa) beh sarebbe comunque una rivoluzione assoluta. Si abbatterebbe quella falce iper-progressiva che oggi fa scattare l’aliquota del 38% per chiunque stia sopra i 28 mila euro e del 41% per chi supera i 55mila: cioè verrebbe meno la tagliola ammazza ceto medio che in questi anni ha fatto strage di redditi, consumi e crescita.

C’è da sperare dunque che Renzi faccia davvero ul serio. E che tutti lo prendano sul serio. Perché per quanto arduo sia ottenere questi obiettivi, chi dichiara di assumerli se lo fa solo a scopo elettorale non perde solo la faccia lui, ma getta l’Italia intera in un’ulteriore ondata di sfiducia che dopo 20 anni ci va risparmiata.

13
Lug
2015

Accordo Grecia: prime osservazioni (critiche)

Se qualcosa avrebbero dovuto insegnarci i sei mesi che abbiamo alle spalle, è evitare le ondate di ottimismo nelle ore successive a ogni ipotesi di accordo con la Grecia (a leggere gli entusiasmi nelle ore successive al referendum sembrano passati 7 mesi, non 7 giorni). Mi limito dunque qui a 6 osservazioni critiche partendo dal testo partorito stamane, che trovate qui.

Il metodo. Per considerare la possibilità che il governo greco faccia formale richiesta all’ESM e al FMI (il cui ruolo è considerato imprescindibile, come si legge nel preambolo) per un programma di assistenza finanziaria pluriennale di consistenza stimata tra €82 e €86 miliardi, a cui si sommano 35 miliardi di fondi Ue ordinari (fondi coesione, PAC, etc..), si chiede al parlamento greco di votare in 48 ore da oggi la riforma dell’IVA senza le esenzioni care al governo, l’anticipo della piena attuazione della riforme previdenziale votata nel 2012 e che Syriza voleva rinviare prima al 2035 e poi al 2022, la piena autonomia della politica dell’ISTAT nazionale per evitare nuove sorprese sui conti pubblici, nonché un meccanismo automatico taglia-spese a ogni eventuale discostamento dagli obiettivi di finanza pubblica. Quest’ultimo punto da solo significa per il parlamento greco l’abdicazione alla sovranità di bilancio. Mentre su IVA e pensioni, smentire quanto la polòitica greca sin qui ha promesso. Entro il 22 luglio, la riforma del codice di procedura civile. Per carità, può essere pure  che il parlamento greco improvvisamente ora si limita a prendere atto del commissariamento, smentisca il programma su cui Syriza ha vinto le elezioni, smentisca il referendum della settimana scorsa, dica a tutti i greci “scusate abbiamo scherzato ma ora basta”.  Da osservatore, a me pare altamente improbabile. Syriza ha perso 17 voti sabato sera, altri 15 parlamentari ieri sui giornali ellenici hanno preannunciatro che non voterebbero intese così, persino 5 deputati socialisti dei 13 residui del Pasok hanno detto la stessa cosa. Tsipras dovrebbe non solo ottenere l’abdicazione del parlamento, ma sostituire la sua maggioranza imbarcando i 17 di To Potami e di fatto i voti della destra moderata di Nea Demokratia. Se non lo fa e si dimette, con la convocazione di nuove elezioni mercoledì sera risaremo di nuovo  nelle condizioni fattuali obbligate di una Grexit alla cieca. Perché a quel punto col deliberato odierno la BCE non può continuare a offrire ELA, le banche greche non riaprono, le scadenze di luglio la Grecia non le onora e va dritta al default incontrollato. Succederà questo, oppure il prestito ponte va avanti comunque anche in quel caso? Ed eventualmente, su che basi?

Le regole. Neanche il testo odierno mi fa cambiare idea. Per gli eurottimisti, c’è poco da festeggiare. Quando a marzo saltò per la prima volta il tavolo con la Grecia e Tsipras ribadì che voleva il secondo abbattimwentod el debito dopo il 2012 altrimenti non firmava alcunché, allora bisognava capire che era proprio venuto il momento di regole generali che l’eurocostruzione ha il difetto di non avere costitutivamente: e cioè regole generali su quali ipotesi consentano bail out a euromembri restando nell’euro e a quali condizionalità; regole generali  su quali altre ipotesi invece consentano minori aiuti e condizionalità ma restando per un certo periodo di tempo vincolanti a una fascia di oscillazione del cambio rispetto all’euro; e quali altre ancora consentano invece che tipo di assistenza per un’uscita dall’euro ma restando nell’Unione Europea.  L’assenza di criteri generali ha trasformato la vicenda greca in una fonte di pulsioni e odi nazionalistici incrociati senza precedenti. Stamane, persino FAZ e Suddeutsche Zeitung da punti di vista diversi si pongono il problema di come può la Germania esercitare in futuro il suo ruolo di paese leader mentre le opinioni pubbliche europee ormai tornano a considerarla con l’elmo chiodato guglielmino, se non al passo dell’oca. Se avessimo adottato criteri di “raffreddamento” generale delle trattative,  mercoledì non rischeremmo di trovarci di nuovo a una Grexit di fatto.  Quelle regole servono per disarmare la minaccia incrociata di cui vive l’eurocrisi: da una parte chi pensa “se uscite, vi fate malissimo”, dall’altra chi oppone “se ci fate uscire, a voi capita di peggio”.

La discrezionalità.  Trattative sui casi nazionali con memorandum ad hoc, senza criteri generali a cui attenersi, offrono inevitabilmente spazio a vastissime discrezionalità politiche. Se per esempio paragonate il testo delle richieste dell’eurogruppo respinte da Syriza a fine giugno e dal referendum convocato apposta il 5 luglio, e le paragonate al testo odierno, le condizioni esposte cambiano di molto. E’ ovvio, c’è di mezzo la ferita profonda rappresentata dai membri del governo greco che hanno dato ai creditori dei “terroristi” e “torturatori”. E si sono aggiunti i punti di PIL – nessuno può oggi quantificarli – persi dalla Grecia grazie a Tsipras da marzo in poi (nel primo trimestre la Grecia cresceva più dell’Italia..), nonché la paralisi totale del sistema bancario, dei pagamenti e fiscale. Ma resta il fatto che questi elementi c’erano già tutti prima, per giudicare le prospettive di sostenibilità del debito pubblico greco. E a proposito di questo, leggete incidentalmente qui come in realtà il caso greco dimostri  che i modelli econo-statistici attuali per giudicare la sostenibilità dei debiti sovrani vengano messi duramente in crisi dal caso greco (l’ESM dovrà dotarsene prima che mai di uno proprio, diverso dal datatissimo modello FMI..). Invece, neanche nel testo odierno si chiarisce il punto della ristrutturazione del debito greco, anche se Tsipras, Francia e Italia lo danno per scontato, tutto è rinviato alle trattative post accogliemnto eventuale del memorandum da parte dell’ESM. Viva la chiarezza che manca ancora eh, dopo sei mesi, esattamente sul punto centrale delle richieste greche….

Privatizzazioni: il fondo di garanzia. Molti si scandalizzano del trust a cui affidare imprese e beni pubblici greci per 50 miliardi da privatizzare, indipedente dal governo e sottoposto a vigilanza congiunta, greca e dei creditori Ue-Bce-Fmi.  Personalmente la cosa mi stupisce assai poco, la proposi tal quale nella campagna elettorale 2013  per l’ingente patrimonio immobiliare pubblico italiano ( parlavo allora della necessità di costituire un fondo gestito per gara dai maggiori players mondiali di settore, da incardinare giuridicamente in un paese di common law, privilegiando la lex mercatoria mondiale alle mille eccezioni del nostro ordinamento civile-amministrativo-erariale-penale). Tsipras ha ottenuto che metà dei 50 eventuali milardi incassati  vadano a sostenere liquidità e capitalizzazione delle banche elleniche, e della restante parte una metà vada ad abbattimento del debito (ripagandolo, NON cancellandolo) e metà a investimenti per la crescita. E’ un metodo che sancisce l’irreversibilità delle decisioni relative agli asset da privatizzare, e la forma giuridica del trust è uno scudo rispetto alla mutevolezza degli orientamenti politici pro tempore, cioè un attestato di credibilità rispetto ai mercati. Due anni fa, contro un meccanismo da me proposto per i soli mattoni pubblici, sono insorti tra insulti vari praticamente tutti. Resto curioso di vedere cosa deciderà il parlamento greco.

Le altre richieste. Nel testo odierno ce ne sono tante. Alcune, dalla privatizzazione dell’equivalente della nostra TERNA, alla liberalizzazione degli orari commerciali, delle professioni e del trasporto locale, dovrebbero far fischiare le orecchie all’ITALIA. Che invece sta adottando misure nazionali per la chiusura degli esercizi commerciali, e ha appena cambiato anzitempo i vertici della CDP perché convinta della necessità di estendere ulteriormente la presenza diretta della mano pubblica tra le imprese e nell’economia italiana….

Aiuti bilaterali. A latere del negoziato di stanotte, alcuni euromembri tra cui l’Italia hanno dichiarato la propria disponibilità anche a ulteriori linee di credito bilaterali alla Grecia. E’ troppo volerne sapere di più? Non solo quantitativamente, ma sulla condizionalità a cui sarebbero sottoposte. Varrebbero anche se la Grecia nelle prossime 48 ore non onora gli impegni? Estranee come sembrano al corpo e alle norme degli interventi dell’euroarea, disegnerebbero un primo abbozzo di strumenti cooperativi tra eurodeboli, cioè un primo passo verso l’euroarea a più velocità? O sarebbero poco più che simbolici?

Mi fermo qui, ce n’è abbastanza. Lascio ad altri l’esercizio su chi perda più la faccia. Politicamente ed economicamente, l’euroarea e il disegno europeo hanno ferite che restano sanguinanti. Comunque.

 

 

 

11
Lug
2015

Un check-up completo per rendere più snella ed efficiente la Pa

Ieri la commissione Affari Costituzionali ha dato il via libera alla riforma della pubblica amministrazione, che ora passerà al vaglio dell’aula di Montecitorio. Tra gli ultimi emendamenti approvati dalla commissione, vale la pena segnalare quello proposto da Andrea Mazziotti, deputato di Scelta civica, per «semplificare l’esercizio delle funzioni pubbliche, secondo criteri di trasparenza, efficienza e non duplicazione». L’emendamento riprende una proposta di legge elaborata qualche mese fa dall’associazione “Giardino dei semplici” (e di cui avevamo già parlato qui), che parte da un presupposto molto semplice, eppure quasi mai tenuto in considerazione durante questi mesi di discussioni sul decreto-Madia: qualunque riorganizzazione della pubblica amministrazione non può prescindere dalla revisione della spesa corrente. E viceversa.

L’emendamento interviene sull’articolo 7 del disegno di legge presentato dal governo, imponendo a tutte le amministrazioni pubbliche (statali e locali, enti accessori e società partecipate incluse) di inviare una relazione al Parlamento contenente l’elenco dettagliato di tutte le competenze, le funzioni esercitate e le procedure gestite. Inoltre, in tale relazione ogni amministrazione dovrebbe descrivere l’entità e le funzioni dei propri uffici, indicare i dirigenti responsabili e fornire i dati statistici relativi a tutte le attività istituzionali svolte. Così facendo, l’emendamento punta a effettuare una ricognizione completa del vastissimo apparato pubblico italiano e delle sue funzioni, secondo benchmark standard e, di conseguenza, dati comparabili.

Secondo l’obiettivo che si propone di raggiungere l’emendamento, la ricognizione vincolante della pubblica amministrazione nel suo complesso potrebbe condurre, in primo luogo, a migliorare la produttività nell’erogazione dei servizi, l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa. Ma il punto fondamentale è il secondo: una ricognizione complessiva della pubblica amministrazione potrebbe consentire di eliminare procedimenti inutili e duplicazioni di funzioni e competenze, che – inutile dirlo – sono purtroppo molto comuni.

L’emendamento richiede alle stesse amministrazioni di proporre piani di ristrutturazione, sul modello della proposta di legge elaborata dal “Giardino dei semplici”. Questi possono riguardare, a titolo esemplificativo, l’indicazione delle funzioni da mantenere e di quelle ritenute superflue ai fini della propria operatività, dei livelli qualitativi da raggiungere, dell’ottimizzazione del numero di centri decisionali e dei risparmi di spesa che potrebbero interessare l’ente di riferimento. Tali piani dovrebbero poi essere valutati da una commissione parlamentare istituita appositamente con lo scopo di pervenire alla riorganizzazione globale della macchina amministrativa.

Si tratta, com’è ovvio, di un progetto assai ambizioso. In un Paese dove nessuno conosce con certezza il numero delle pubbliche amministrazioni esistenti, pensare di procedere alla loro ricognizione sembra arduo. Per non parlare del tentativo di convincerle a proporre dei piani di ristrutturazione che coinvolga i loro stessi uffici o quelli appartenenti agli enti dello stesso organismo territoriale. Definire folle un’idea simile è un eufemismo. Tuttavia, prima o poi bisognerà provarci. A maggior ragione in un Paese dove la spending review o l’introduzione di criteri di meritocrazia all’interno degli apparati pubblici vengono visti come attacchi frontali al welfare state o al principio di uguaglianza, cercare di coinvolgere le singole amministrazioni in un processo globale di ristrutturazione che abbia come centro il parlamento – invece che il governo o, ancora peggio, un commissario esterno – potrebbe costituire un primo passo verso una pubblica amministrazione più snella ed efficiente. Certo, un impianto istituzionale federale strutturato correttamente (cioè in cui alle spese sostenute all’interno delle regioni corrispondessero pari responsabilità finanziarie in capo a queste ultime) avrebbe potuto rivelarsi decisivo in un progetto di ricognizione di enti e spese correlate. Ma chissà che, con un sistema di controllo credibile e la previsione di sanzioni adeguate in caso di inadempimento, il meccanismo – se mai vedrà la luce – possa funzionare.

Twitter: @glmannheimer

10
Lug
2015

Grecia: Salvataggio in Extremis?—di Matteo Borghi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Borghi.

Nella crisi greca siamo forse, finalmente, arrivati a una svolta. Più o meno la milionesima da quando la “troika” (oggi più correttamente “Brussels Group”) ha iniziato ad avere a che fare col governo di Alexis Tsipras. Un esecutivo che, al contrario dei precedenti, si è di fatto sempre opposto in maniera sistematica alle proposte di Bruxelles nel nome della lotta all’austerity europea che, a suo giudizio, avrebbe fiaccato l’economia greca fin dalle sue fondamenta. Read More

9
Lug
2015

Ora l’Occidente tifa che i comunisti cinesi non facciano funzionare la borsa

Stanotte sul mercato azionario cinese è avvenuto puntualmente ciò che il resto del mondo spera. Cioè che le autorità cinesi, per un bel po’ e con tutti i mezzi che l’autocrazia mette a disposizione, NON facciano più funzionare il mercato. Ordine del partito: il mercato può solo risalire. E infatti dopo il terrore di due notti fa, Shanghai a chiuso con un +5,8%. La cosa più pazzesca è che sono ormai stranote le ragioni della maxi-bolla cinese. Credere di risolverla sospendendo il mercato è un errore. E che l’Occidente applauda, dà una perfetta idea dei tempi che viviamo.

Premessa: cosa è successo due notti fa. Tutti a lambiccarsi per il debito greco da 320 miliardi di euro, ed ecco che nella nostra notte tra martedì e mercoledì alla borsa di Shanghai finiscono sospesi dalla quotazione titoli per la bellezza di 2700 miliardi di dollari. Anzi per oltre 3500 miliardi, se al 51% di titoli di borsa sospesi per eccesso di perdite sommiamo il 38% di azioni riammesse alla sola condizione che salissero. Un allarme rosso al cui confronto il problema greco è un sasso nello stagno, non solo perché parliamo di valori azionari pari a 18 volte il PIl della Grecia. Ma perché la Cina è la Cina, cioè in termini finanziari la maggior detentrice di debito USA e riserve in dollari al mondo. E per questo fu ammessa di corsa nel WTO nel 2001, perché gli USA avevano bisogno per piazzare proprio debito dell’eccesso di rispamio cinese dovuto al suo export travolgente. Il panico ieri si è immediatamente diffuso sulle piazze asiatiche, con Hong Kong che ha perso fino all’8% – peggio del 2008 – prima di chiudere a -5,9%, Tokyo ha perso il 3,1% e lo stesso Taiwan. E sarà caso sarà necessità, il panico poche ore dopo in America è rimbalzato con le contrattazioni sospese al NYSE per “problemi tecnici”, mentre era bloccato il sito del Wall Street Journal e quello della United Airlines.

Chi segue i mercati se lo aspettava: anche se non nelle proporzioni di oltre il 70% del listino cinese bloccato. Dal 14 giugno, la borsa di Shanghai aveva perso il 30%, dopo una fantastica ascesa del 150% in 12 mesi. Ma era bolla, bolla conclamata. Tanto che le autorità cinesi avevano assunto ventre a terra una serie di misure senza precedenti. Rivelatesi però incapaci di sconfiggere il panico. Fino al punto, ieri, di vietare per i prossimi sei mesi a chiunque detenga quote superiori al 5% delle quotate di alleggerire la propria quota, di vietare le vendite ai manager e alle parti correlate delle società, di proibire ogni forma di short selling agli intermediari cinesi, e di consentirlo solo in presenza di sottostanti reali a quelli esteri abilitati ad operare sul mercato cinese. Misure di guerra, misure da 1929. Misure che sono a un passo dalla chiusura dei mercati: perché proibire di vendere significa chiuderlo, il mercato.

Le domande sono tre. Da dove viene, la bolla cinese? Come la affronterà Pechino? Quali conseguenze potrebbe avere?

La prima questione è chiara da tempo. Le ragioni della bolla sono sostanzialmente tre. Man mano che i fondamentali della crescita cinese hanno rallentato, passando da tassi annuali a doppia cifra a un +7% a cui pochi credono, gonfiate come appaiono le statistiche cinesi che non trovano corrispondenza ad esempio nei flussi mensili commerciali, le autorità di Pechino hanno dovuto fare i conti col problema di come soddisfare l’attesa di redditi crescenti di centinaia di milioni di cinesi, ormai lontani dai livelli di pura sussistenza. A questo fine, la banca centrale ha continuato a inondare di liquidità il mercato domestico a tassi stracciati, e il più della liquidità ha preso la via degli investimenti finanziari. Più di quelli immobiliari, a propria volta in bolla già da un paio d’anni. Secondo: ancor più verso la finanza si è indirizzata l’azione dell’amplissimo settore-ombra bancario cinese, non regolamentato e figlio delle vecchie tradizioni di piccoli commercianti che raccoglievano denaro da investire. Si calcola – ma nessuno lo sa – che lo shadow banking valga fino al 25% del credito cinese: naturalmente, tutto al di fuori del controllo di vigilanza, ispettivo, e di minimi coefficienti patrimoniali. Terzo: i broker “informali” hanno ancor più invogliato milioni di cinesi, anche a basso o bassissimo reddito, a investire nel bengodi della borsa attraverso quel che si chiama il marginal lending, cioè anticipando i denari agli investitori, con promessa poi di scalarglielo nel tempo dando loro solo la differenza sui guadagni realizzati. Tanto, guadagnando il 150% in un anno, trattenendo 100 di capitale iniziale non versato e un 25% di commissione al broker, l’investitore indebitato comunque aveva un 25% di ciò che non aveva mai versato… Siamo tra le catene di sant’Antonio e lo schema Ponzi: macchine infernali destinate a esplodere appena il mercato scende tanto da indurre molti a volerne contemporaneamente uscire.

Da metà giugno, le autorità cinesi le hanno provate tutte. La banca centrale ha pompato altra liquidità per miliardi, decine dei maggiori broker controllati dallo Stato hanno lanciato un fondo miliardario per sostenere quelli in difficoltà, è stato consentito agli investitori indebitati di liquidare i margin calls pagando direttamente in case e beni strumentali delle microimprese, in assenza di liquidità. Sono state bloccate le nuove quotazioni e le vendite allo scoperto, si sono ampliati i collaterali per finanziare il trading, si è costituito un fondo per investire in blue chips, cioè nei titoli leader che “fanno” il mercato per peso di capitalizzazione. Ma più questi provvedimenti si sono moltiplicati, più il panico ha preso piede. Sino al botto di ieri notte.

Ora Xiao Gang, il capo della Consob cinese, ha dovuto assumere misure da pre-chiusura dei mercati. Il 12 giugno, solo 48 ore prima dell’avvio del precipizio, aveva tenuto una conferenza ai quadri del partito vantando la borsa cinese come “il toro che continua a trainare la nostra crescita”. Ma il toro ha incornato il torero. Ora il presidente cinese e capo del partito Xi Jingping sarà su tutte le furie. Cento milioni di cinesi sul lastrico – a tanto sono arrivati in 2 anni i piccoli risparmiatori impegnati sul mercato finanziario – sono semplicemente qualcosa che il partito non può permettersi. Ma la soluzione non è facile. Significa ridurre a regole lo shadow-banking, e soprattutto ricapitalizzare almeno le maggiori del 95% delle banche cinesi che sono controllate dallo Stato, e che hanno asset di pessima qualità a cominciare da un vastissimo immobilizzo in mattoni svalutati e crediti deteriorati.

Se questo si possa fare solo stampando moneta virtuale o se servano soldi “veri”, per così dire, farà la differenza per il mondo. Nel caso in cui la Cina fosse costretta a mettere mano, per ricapitalizzare il sistema degli intermediari, ai 2 trilioni abbondanti di riserve in dollari che detiene, allora sarebbero cavoli amari. Perché l’effetto sul cambio yuan-dollaro sarebbe opposto a quello voluto dall’America, perché la Fed dovrebbe alzare i tassi d’interesse per contenere gli effetti sgraditi a fronte della vendita massiccia di propri titoli, e perché a quel punto tutti i mercati ne risentirebbero.

Siamo a questo: anche se non lo ammetterà mai, oggi il mondo avanzato spera esattamente che avvenga quel che è successo stanotte, quando Shanghai, dopo aver aperto di nuovo in caduta libera, ha chiuso la seduta con un +5,8%% salmodiato dall’agenzia ufficiale del governo come riprova – eccome no – che non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’Occidente spera cioè che le baionette e l’autoritarismo del regime cinese possano impedire al mercato finanziario di funzionare, tornando a prezzi che abbiano un senso. Perché se funzionasse il mercato cinese e cioè correggese rapidamente i propri eccessi con catene di fallimenti cinesi, gli effetti al mondo arriverebbero eccome. Ormai sembra il mondo a rovescio, quello delle democrazie indebitate: tra di loro non si danno una gran mano predicando virtù, ma sperano che i loro creditori autoritari impediscano armi alla mano ai propri risparmiatori di rientrare dalla sbornia della finanza a debito. Allegria.

9
Lug
2015

Il “giusto prezzo” dell’energia—di Stephen Littlechild

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Daily Telegraph del 7 luglio 2015 con il titolo “‘Goldilocks’ energy price limit doesn’t bear scrutiny.

Due urrà per i risultati preliminari dell’indagine dell’Autorità Concorrenza e Mercati britannica (CMA) sul mercato dell’energia. Il primo per la sua esauriente valutazione degli aspetti problematici di questo mercato, il secondo per aver riconosciuto che le regole imposte dall’autorità di regolazione Ofgem (Office of Gas and Electricity Markets) sul mercato retail dell’energia ai consumatori finali hanno indebolito la concorrenza tra fornitori. Ma il fatto che la CMA abbia consigliato, con una decisione incredibilmente retrograda, l’introduzione di controlli sui prezzi dell’energia merita nient’altro che una sonora pernacchia. Read More