30
Lug
2015

Stessa spiaggia, stesso mare… stesso concessionario?

C’è una regola universale nella storia della legislazione: le misure controverse, quei piccoli dettagli che assicurano rendite e prebende a questo o a quel gruppo di pressione, vengono approvate nottetempo, oppure d’estate. Ecco che allora, con perfetta coerenza, mentre l’Italia sbadiglia sotto l’ombrellone, tra un bagno e un ghiacciolo, poco più in là il gestore dello stabilimento ride sotto i baffi.

Come riporta Public Policy, un emendamento approvato in commissione Bilancio al Senato ha appena prorogato “le utilizzazioni delle aree di demanio marittimo per finalità diverse da quelle di cantieristica navale, pesca e acquacoltura, in essere al 31 dicembre 2013″. Una formula – come spesso accade – piuttosto oscura, ma che nasconde tra le sue pieghe un tema discusso fino alla noia, e che però resta più vivo che mai: quello delle concessioni balneari.

È una storia, dicevamo, che ha radici lontane. Il codice civile stabilisce che le spiagge appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico. Di conseguenza, per essere utilizzate a fini economici, gli stabilimenti devono essere assegnati tramite concessione demaniale. Cioè – mi perdoneranno i puristi – non possono essere acquistate da privati, ma solamente “prese in affitto”. Peccato che in Italia, per decenni, si sia andati avanti a rinnovare automaticamente le concessioni ai gestori, garantendo loro una rendita di posizione praticamente immutabile e così discriminando tutti coloro che avessero voluto competere con gli incumbent per la gestione dello stabilimento.

Una privatizzazione di fatto che non ha favorito i consumatori né lo Stato, ma viceversa ha soltanto accordato palesi rendite di posizione ai concessionari, impermeabili a qualunque procedura concorsuale competitiva che potesse far aumentare le entrate per lo Stato e migliorare i servizi per i cittadini, tramite migliorie e investimenti. Tale pratica non è solo antieconomica di per sé, ma è anche costata all’Italia una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea per contrarietà a quanto stabilito dalla cosiddetta Direttiva Bolkestein. Anche la Corte costituzionale, peraltro, ha dichiarato in più occasioni illegittime le norme regionali che prevedevano il diritto di proroga in favore del soggetto già possessore della concessione, in quanto contrastanti con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza.

La data di scadenza delle concessioni balneari era stata stabilita al 31 dicembre 2015. A quanto pare però, come ha riassunto perfettamente già nel 2012 Serena Sileoni, in un paper per l’Istituto Bruno Leoni, anche per quest’anno gli italiani non cambieranno, godendosi stessa spiaggia, stesso mare… E stesso concessionario.

Twitter: @glmannheimer

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su www.ilgiornale.it.

28
Lug
2015

Equo Canone: una vecchia legge contro la più banale logica del libero scambio—di Giovanni Caccavello

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Caccavello.

Il 27 Luglio 1978, l’allora «IV Governo Andreotti» approvava la Legge sull’Equo Canone (Legge 27/7/1978 N°392) al fine di disciplinare – tra gli altri – i contratti di locazione ad uso non abitativo.
Con l’introduzione di questa legge, il Governo regolamentava il rapporto tra il locatore ed il conduttore, bloccando la libera contrattazione tra le parti.

Oggi, a 37 anni di distanza dall’introduzione, dopo la crisi dell’edilizia degli anni ’80, un trend di stallo pluri-decennale nel settore delle locazioni private, una forte riduzione degli investimenti in costruzioni, un notevole incremento dei prezzi degli affitti e numerosi richiami alla liberalizzazione del settore delle locazioni ad uso commerciale, i contratti degli immobili urbani adibiti ad uso diverso rispetto a quello abitativo continuano ad essere regolamentati dalla «Legge sull’Equo Canone» e l’attuale Governo Renzi (in linea con il «modus operandi» assunto dagli esecutivi precedenti), ha semplicemente rimandato, per l’ennesima volta, l’abrogazione di questo bizzarro, vecchio e limitante ordinamento. Read More

28
Lug
2015

Uno Sherman Act per la scuola pubblica

Lo Sherman Act, da cui deriva la legislazione antitrust di tutto il mondo, fu adottato allo scopo di impedire la formazione di monopoli, da cui sarebbe potuto derivare un aumento dei prezzi, dannoso per i consumatori. Una definizione e dei criteri certi e verificabili per stabilire cosa distingua un monopolio da un business model efficiente (al netto di illeciti diversi), tuttavia, non esiste, nel diritto della concorrenza né altrove.

Primo e leggendario bersaglio dello Sherman Act fu la Standard Oil, che sul finire degli anni ’80 controllava buona parte della nascente industria petrolifera americana grazie, appunto, al sistema dei trust. E che per questa ragione, qualche anno più tardi, fu smembrata in 34 società distinte per garantire maggiore concorrenzialità al settore. Nel momento di maggior “potere di mercato” della Standard Oil, il prezzo del petrolio raffinato raggiunse il livello più basso della storia dell’industria petrolifera (e salì dopo la sentenza di smembramento). Difficile dire, quindi, quale fosse il danno subito dai consumatori dal suo monopolio. Ma non è questo il punto. Il punto è che, in teoria, le democrazie liberali ripudiano i monopoli soprattutto perché potrebbero falsare il mercato, generando servizi inefficienti e prezzi elevati.

Nei giochi, non c’è nulla di più odioso di chi stabilisce le regole e poi non le rispetta. Così nelle democrazie; eppure di monopoli che falsano il mercato, generando servizi inefficienti e prezzi elevati, nel settore pubblico ce n’è in abbondanza. Un caso emblematico è quello della scuola: certo, la riforma di Renzi sta muovendo un primo passo, correlando (almeno in linea di principio) la valutazione dei dirigenti scolastici a quella dei docenti e dei risultati degli istituti. Ma si può e si dovrà fare molto di più. Più di 50 miliardi delle nostre tasse vanno a finanziare ogni anno un sistema scolastico largamente inefficiente: lo suggerisce l’intuito, lo confermano i risultati. Probabilmente nella scuola bisognerebbe davvero investire di più (l’Italia è agli ultimi posti in Europa per spesa relativa alla formazione rispetto al Pil); sicuramente bisognerebbe investire decisamente meglio.

Chi sostiene lo status quo, oggi, è chi crede che l’alternativa sia la “privatizzazione” dell’istruzione. Ma è un’osservazione facilmente replicabile: sono passati ormai 60 anni da quando Milton Friedman ideava il sistema dei buoni-scuola, grazie al quale il finanziamento dell’istruzione passerebbe per le mani delle famiglie, invece che andare direttamente agli istituti. Mantenendo così l’impianto all’interno della sfera pubblica, ma al contempo premiando la scelta dei singoli e incentivando le scuole a migliorare la propria offerta.

Si potrebbe prendere spunto, in questo senso, dalle free schools americane e anglosassoni, come proposto di recente dall’Istituto Bruno Leoni. Il rischio insito nei monopoli, del resto, è che i prezzi pagati dai consumatori siano eccessivi rispetto al “vero” valore del bene o del servizio prodotto. Ma permettendo alle famiglie di selezionare gli istituti in cui mandare i propri figli, e stabilendo alcuni parametri di efficienza minima al di sotto dei quali gli istituti possano fallire, il giusto “prezzo” potrebbero deciderlo tutti, non più il solo Ministero dell’Istruzione. La democrazia rappresentativa è uno strumento utile, ma non deve contrastare col più elementare dei rasoi di Occam.

A ciò dovrebbe accompagnarsi una flessibilità radicalmente superiore nella scelta dell’offerta formativa da parte dei singoli istituti. Si può discutere sull’esistenza di un nucleo di nozioni e valori che lo Stato sia obbligato ad assicurare, ma al di fuori di questo perimetro dovrebbe essere concessa agli istituti la possibilità di stabilire autonomamente non solo il proprio personale, ma anche orari, modalità e soprattutto contenuti dell’offerta didattica. Lasciamo che domanda e offerta s’incontrino, anche sui programmi. Qualcuno smetterà di studiare Manzoni? Peggio per lui: se farlo è così importante, ne subirà le conseguenze e costringerà suo figlio a farlo. E le scuole che non lo insegneranno, o lo insegneranno male, falliranno.

Si dirà: ma le scuole non sono aziende. Falso. Come ha spiegato ottimamente Francesco Daveri, non solo la scuola è un’azienda (seppure non a scopo di lucro), ma l’output che produce è uno dei servizi più preziosi (e potenzialmente redditizi) che lo Stato offre ai suoi consociati. Per questo, a maggior ragione, i “consumatori” vanno protetti. Sul come si può discutere. Il modello dei buoni-scuola può essere un punto di partenza, ma se ne possono trovare certamente molti altri. Ciò che conta è trovare strategie che premino l’efficienza – non invece i gruppi di pressione… –  e rendano l’offerta concorrenziale.

Può darsi che la Standard Oil fosse un monopolio, qualunque cosa ciò significhi, ma era certamente un’impresa efficiente. La nostra istruzione no: ecco perché ci vorrebbe uno Sherman Act della scuola pubblica. E da qui la mia domanda, neanche troppo provocatoria: perché l’Agcm non dice la sua? Anche se non lo percepiamo, il Leviatano è un monopolista ben più potente e dannoso di qualunque Rockefeller.

Twitter: @glmannheimer

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su www.ilgiornale.it.

27
Lug
2015

Sciopero nei servizi pubblici: serve il sì del 51% dei lavoratori

L’Italia non era maglia nera europea negli scioperi, finché ha fornito dati comparabili. In questo silenzio dal 2009, pesa il fatto che nel frattempo abbiamo invece strappato il record degli scioperi nei servizi pubblici. Se consultate le tabelle regolarmente aggiornate ed elaborate dall’ETUI, l’European Trade Union Institute che essendo espressione della confederazione europea dei sindacati non è sospettabile di essere fonte “padronale”, troverete che negli anni 2000-2008 Francia, Spagna e Danimarca battevano l’Italia, con oltre 100 giorni di sciopero l’anno per mille dipendenti pubblici e privati rispetto a una media europea di 53, e l’Italia che da quota 300 del 2002 era scesa verso la media europea. Dal 2009, l’Italia svanisce nei dati comparati. Sappiamo che nel 2008-2013 la media europea è scesa fino a 32 giorni per mille dipendenti l’anno, e che la Francia è ancora in testa con il doppio di giornate perse rispetto alla media nel 2013. Ma il dato italiano non è comparabile ufficialmente, perché dal 2009 l’Italia non fornisce più i dati nella versione standard europea, e lo stesso istituto europeo sindacale se ne rammarica. Quel che però sappiamo, mettendo insieme le relazioni ufficiali nazionali delle diverse istituzioni che si occupano di scioperi nei servizi pubblici essenziali, è che in questo campo abbiamo un triste record. Nel 2014 sono state proclamati nei diversi servizi pubblici essenziali 2.084 scioperi. Con 17 scioperi generali nazionali, contro i 7 del 2013. Sono stati 331 gli scioperi proclamati nel solo trasporto pubblico locale, 182 nel trasporto aereo, 143 in quello ferroviario.

Che cosa fare? La risposta è nota, si tratta di farlo. Aggiornare radicalmente su un paio di punti essenziali la legge 146 del 1990, che continua a costituire la cornice legislativa di fondo in materia di garanzia del diritto di sciopero stesso, contemperandola con procedure di raffreddamento, mediazione, e dall’altra parte diritti dei cittadini. Come più volte abbiamo scritto, la legge rinvia in realtà a decine di atti autoregolatori per specifico settore e a intese aziendali in materia, come sempre avviene nel nostro ordinamento, in cui la politica ha deciso di non dare mai attuazione all’articolo 39 della Costituzione con una legge quadro su diritti e doveri dei sindacati. Come ormai è evidente, però, dalla quotidiana realtà dell’esperienza di grandi città italiane a cominciare da Roma, non è dalla sussidiarietà, cioè dal libero accordo tra sindacati e parti, che può venire la risposta normativa di garanzia sui due punti che vanno cambiati.

Prima però vediamo quali analogie e anomalie ci sono nel diritto di sciopero tra Italia e altri paesi. In Italia lo sciopero è un diritto attribuito direttamente ai lavoratori, non ai sindacati. Non è così altrove, in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, dove è un diritto dei sindacati. Dalla differenza, discendono obblighi e procedure diverse: più facili a stabilirsi quando si tratta di un corpus di diritti-doveri delle organizzazioni, assai più scivolose come nel caso italiano, quando bisogna riferirsi alla collettività di lavoratori però intesi come individui.

Anche questo spiega la difformità dei divieti in Europa, in materia di sciopero. L’Italia per esempio consente lo sciopero “politico” – di qui gli scioperi generali e di categoria contro il governo – ma in realtà i paesi a consentirlo sono pochissimi, solo gli scandinavi (meno la Svezia però) e l’Irlanda. Il picchettaggio – solo verbale, cioè senza violenza – non è comunque consentito in Austria, Spagna, Svezia, Paesi baltici, Olanda e Polonia. Lo sciopero di solidarietà verso altri lavoratori o categorie è consentito in Italia, ma non in Olanda, Regno Unito, Lussemburgo e Lettonia. In teoria, è norma generale – tranne che in Francia, questo spiega la sua elevata quota di scioperi – il cosiddetto “principio di pace”, per il quale non si sciopera durante la vigenza di un contratto sottoscritto. Dovrebbe valere anche in Italia ma in realtà non vale per nulla, perché da noi gli scioperi li proclamano a raffica le organizzazioni sindacali – grandi in alcuni casi come la FIOM nel settore meccanico, o autonome piccole e piccolissime nei servizi pubblici locali – che le intese non le sottoscrivono. E il problema diventa allora quello delle sanzioni. In teoria, in nessun Paese Ue è consentito sostituire gli scioperanti – se lo sciopero è legale – con lavoratori i somministrazione: in realtà in Uk e Finlandia e in altri paesi dove non c’è risconoscimento costituzionale esplicito del diritto di sciopero è successo, con grandi contese legali. Molto diversa è la regolazione del preavviso: in Europa si va dalle sole 24 ore ai 14 giorni prima dell’inizio dell’azione.

In Germania, la libertà di diritto di sciopero è basata sulla giurisprudenza, non sulla Grundgesetz, l’equivalente della nostra Costituzione. Ma poiché lo sciopero è un diritto sindacale, può essere indetto solio dai sindacati che hanno il requisito numerico per poter sottoscrivere il contratto relativo. Si è appena modificata la norma nazionale che, per esempio nel trasporto ferroviario, limita il diritto a sottoscrivere il contratto a sindacati che abbiano la maggioranza assoluta degli iscritti. La protesta di un sindacato minoritario che non ha tali numeri ha portato al blocco del trasporto ferroviario nazionale per giorni e giorni. In Italia non sarebbe possibile, perché le norme di autoregolazione nei protocolli sottoscritti dai sindacati del trasporto ferroviario escludono esplicitamente sciopero protratti generali di quel tipo. Da noi deve essere garantita un’offerta minima di servizio per fasce, che cambia dal trasporto ferroviario nazionale a locale. Ecco perché i giornali tedeschi mentre Deutsche Bahn era ferma invidiavano l’Italia. Ma in Germania i sindacati sono anche responsabili direttamente in caso di scioperi che fossero giudicati illegali, e in quel caso devono pagare i danni: molto più salati dei 320 mila euro irrogati l’anno scorso in totale alla nostra asfittica Autorità Garante del diritto di sciopero…

In Francia il diritto di sciopero nel pubblico impiego è garantito da una legge ad hoc del 1963, mentre quello nel settore privato si basa su casistica giurisprudenziale. Ciò spiega la bassissima sindacalizzazione del settore privato Oltralpe, e quella invece altissima nel settore pubblico. Il “favore” francese verso i dipendenti pubblici non ha posto in legge garanzie ai cittadini e a chi usufruisce dei servizi pubblici- come accade nel caso italiano sia pur in fonti normative di livello inferiore come i codici di autoregolamentazione e le intsese aziendali. Il governo francese ha “facoltà” di opporre dei limiti agli scioperi pubblici ma caso per caso con propri decreti: e naturalmente quando le piazze si riempiono per i governi diventa difficile farlo, e questo spiega gli scioperi pubblici a oltranza oltralpe al sostegno delle sinistre che, in Italia, almeno in quelle forme non sarebbero possibili.

Qual è allora il problema Italiano? Dal punto di vista dei requisiti minimi dei servizi da offrire in caso di sciopero legale, in realtà nei sevizi pubblici siamo più tutelati in Italia che in Germania e Francia. Da noi il problema, riguarda i criteri attraverso i quali si fissa la rappresentanza dei sindacati nel settore pubblico, e le procedure attraverso le quali indire gli scioperi.

Quanto alla rappresentanza, nel settore privato Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori. E’ al settore pubblico che va esteso questo meccanismo, raffinandolo per le specifiche di settore.

Quanto alle procedure per proclamare lo sciopero, va introdotto un criterio che oggi vige in 17 paesi su 28 europei: cioè il voto dei lavoratori. Certo, non c’è in Francia né Spagna, ma c’è in Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio – nei servizi pubblici – di un voto preventivo favorevole del 51% dei lavoratori, e non dei delegati che rappresentano la maggioranza sindacale – verremo a capo di situazioni impazzite come quella dell’ATAC a Roma, dove a bloccare la Capitale sono le 9 sigle su 13  che non firmano a differenza dei confederali il nuovo piano industriale, per poi fare propaganda scioperante a spese dei cittadini e dell’economia nazionale ( in questo, hanno ragione i sindacati confederali che protestano contro Renzi che non puntualizza la responsabilità del sindacalismo autonomo). E per chi non rispetta le regole, sanzioni in solido pesantissime. Il governo Renzi promette da inizio anno di muoversi in tale direzione. Vedere per credere, nel frattempo italiani e turisti continuano a subire danni intollerabili.

27
Lug
2015

Braccianti sfruttati e rivoluzione verde—di Massimo Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Del Papa.

“Oportet ut scandala eveniant”, per dire, alla latina, meglio che le cose si sappiano per quanto sgradevoli, almeno possiamo vederle per quelle che sono e tentare un rimedio. Non c’è dubbio che la situazione dei braccianti abusivi, vale a dire sfruttati, in Puglia come in qualsiasi altra campagna di qualsiasi latitudine, sia scandalosa, e non c’è dubbio che i servizi giornalistici siano necessari a gridare la condizione di schiavitù, di impossibile sopportazione alla quale i più poveri tra i poveri vengono costretti, fino a stroncarsi sotto al sole. Però anche la indignazione deve tenere conto di una coerenza, e, in particolare, della provenienza: se a denunciare la brutalità del sistema sono i nostalgici dello stato di natura, i fan(atici) di Vandana Shiva che equipara la ricerca sugli OGM alla licenza di stupro, i danarosi snob che vorrebbero reintrodurre la coltivazione “naturale”, niente trattori, solo bestie e uomini da stroncare sotto al sole (come faceva vedere un servizio agiografico, ma demenziale, del Tg2 Rai), allora non ci siamo. Tutti questi rettopensanti nutrono la fandonia della natura naturale, di nostalgie collettiviste, in odio al capitalismo, alla ricerca, all’industria e, in definitiva, alla scienza: bene, le condizioni che tutti questi rimpiangono è precisamente quella degli immigrati schiavizzati in Puglia e ovunque. Read More

24
Lug
2015

ILVA: la lotta tra poteri di Stato sinora ha bruciato 20 miliardi

I 47 rinvii a giudizio per la vicenda ILVA, cominciata nel luglio 2012, non sono solo il primo passo formale di un maxi-processo ormai atteso. Sono in realtà una sconfitta per lo Stato. Perché l’ILVA ormai da tempo è un’azienda tornata di Stato, espropriata ai suoi proprietari senza indennizzo ben prima di un rinvio a giudizio. E siccome l’azienda è di Stato, e i magistrati sono un organo dello Stato, allora il risultato di tre anni in cui lo Stato ha deciso di trattare l‘ILVA come un banco di prova della deindustrializzazione per via giudiziaria è solo una sconfitta dello Stato.

Di questi tempi, dall’ILVA a Fincantieri ad altri casi, i magistrati ripetono che non spetta a loro occuparsi delle conseguenze economiche dei loro atti. Fiat iustitia, pereat mundus. Con l’ILVA espropriata e atterrata, poiché da cinque altoforni il rischio oggi è che ne resti a malapena in attività uno, il mondo finito è quello di un campione della siderurgia europea. Oltre tre milioni di tonnellate di acciaio l’anno in meno – il frutto della tenace azione dei magistrati, contro ogni tentativo di ogni governo di continuare nella produzione, distinguendo indagini da paralisi produttiva – significano non solo la fine del campione europeo, quando era gestito dai Riva. Significa un aumento netto del 32% nel primo semestre 2015 delle importazioni d’acciaio dai paesi extra europei cioè dai giganti asiatici, e del 50% da quando la vicenda giudiziaria è cominciata. Nel solo comparto dei laminati piani, ormai importiamo dall’Asia al ritmo di 4 milioni di tonnellate l’anno, prima degli interventi dei magistrati la quota era del 75% inferiore. Chiunque abbia a che fare con la siderurgia sa che per la manifattura italiana ed europea comprare dall’ILVA è diventata una scommessa, perché dipende dai giudici se tra tre settimane garantirà 6 mila tonnellate di ghisa al giorno o 8mila, visto che i magistrati hanno in corso un altro sequestro al penultimo altoforno attivo.

Molti, oggi, daranno spazio al rinvio a giudizio di Vendola. La destra gongolerà, i titoli saranno su di lui. Nel dibattimento si accerteranno le sue responsabilità. Ma i titoli cubitali dovrebbero essere riservati al danno economico nazionale: per almeno 1,5 punti di PIL – sissignore, oltre 20 miliardi di euro- che sin qui l’economia italiana mette a segno tra diminuzione della produzione e dell’export, aggravio della bilancia commerciale, meno occupati, meno tasse incassate, miliardi di valore bruciato negli impianti ( che da 3 anni, a gestione commissariale, non sono più in grado di produrre un bilancio degno di questo nome, l’ultimo è quello approvato dai Riva..), e perdita ieri oggi e domani dei clienti in Italia ed Europa.

Un disastro assoluto. Che non ha precedenti in Europa. Dove pure, per esempio in Germania e Polonia, esistono eccome impianti simili all’ILVA, nelle vicinanze dei centri abitati. Ma da nessuna parte sono stati sequestrati e bloccati dalla magistratura. Come in nessun altro paese i giudici hanno bloccato conti delle imprese e patrimoni dei soci, materie prime e prodotti finiti, aree di stoccaggio e parchi minerari. Né si sono sognati di decretare lo stop della lavorazione a ciclo continuo.

Possiamo credere che siamo improvvisamente diventati lo Stato europeo e nell’area OCSE più ferreamente intransigente in materia di rispetto dei vincoli ambientali. O piuttosto è uno Stato incapace di far rispettare in precedenza ragionevoli vincoli ambientali, che diventa poi feroce persecutore non di reati compiuti da manager, soci e regolatori pubblici– ottima cosa – ma dell’idea stessa che possa esistere un impianto tanto importante, che è cosa del tutto diversa? Uno Stato incapace prima, e punitivo ed espropriatore poi, disse due anni fa Gianfelice Rocca al suo esordio come presidente di Assolombarda: aveva ragione. Ed è andata ancor peggio.

La politica ci ha provato, diamogliene atto, a limitare i danni. A distinguere tra giuste prerogative della magistratura nel perseguire ipotesi di reato, e necessità della continuità produttiva del sito. Era il 26 luglio 2012, quando Emilio e Nicola Riva e 6 dirigenti dell’ILVA di Taranto furono arrestati. A ottobre, il governo Monti rilasciò una nuova e più accurata Autorizzazione Integrata Ambientale, perché le emissioni e le polveri a Taranto fossero messe in regola con opportuni investimenti. Era novembre, quanto i magistrati tarantini disposero altri arresti. A dicembre il governo Monti intervenne con un decreto ad hoc, la legge 231 del 2012 che venne chiamata “salva-Ilva”, perché nasceva proprio dalla necessità di non interrompere la continuità dell’acciaeria di Taranto, per effetto dei sequestri degli impianti disposti dai magistrati. Ma i magistrati la considerarono incostituzionale. E la Corte costituzionale invece la confermò, nell’aprile 2013. A maggio, contro il parere della Procura, il Riesame dissequestrò i semilavorati e le materie prime dell’acciaeria, garantendole l’operatività, sia pure ridotta a meno della metà. Una settimana dopo, la Procura sequestra ad Adriano ed Emilio Riva 1,2 miliardi. Due giorni dopo, i magistrati dispongono il sequestro di ben 8,1 miliardi di euro, intervenendo su tutto il perimetro delle società controllate in Italia dalla holding, non sull’acciaeria di Taranto.

E nel frattempo il governo Letta interviene il 4 giugno 2013 con un altro decreto. Ma è costretto ad arrendersi. Si stabiliscono, come vuole la magistratura, norme di commissariamento per tutte le eventuali imprese sopra i 200 dipendenti la cui attività produttiva comporti pericoli per ambiente e salute. Il commissariamento pubblico può così sostituirsi agli organi di amministrazione, con contestuale sospensione dell’assemblea dei soci. E assumere su di sé, tramite un commissario, tutti i poteri e le funzioni per un massimo di ben 3 anni, senza rispondere di eventuali diseconomie. Col governo Renzi, la politica tenta di nuovo interventi per garantire la continuità della produzione. Ma i magistrati Impugnano di nuovo alla Corte costituzionale, reiterando malgrado il decreto la chiusura del penultimo altoforno rimasto in funzione.

Perde la faccia lo Stato, perdono i lavoratori, perde l’Italia, perdiamo tutti. Ci si dimentica che l’ILVA a Tarato è stata decisa e realizzata così com’è dallo Stato, non dai privati subentrati quando lo Stato perdeva nell’acciaio pubblico cifre pazzesche. La FINSIDER, che realizzò l’attuale ILVA di Taranto, bruciò in perdite oltre 20mila miliardi di lire nei soli 15 anni pre-privatizzazione. Ma nei 15 anni di proprietà privata, a fronte dei decenni di quella pubblica, gli investimenti in protezione ambientale furono una quota importante degli investimenti totali, e furono superiori agli utili riservati ai soci: queste sono cifre ufficiali, che si leggono nei bilanci privati, mentre i commissari pubblici di bilanci non ne producono.

Si dirà: meglio uno Sato vendicatore di salute e ambiente piuttosto che imbelle. Con tutto il rispetto: è una sciocchezza. Lavoro e ambiente sono due beni fondamentali e costituzionali, quindi necessariamente bilanciati tra loro; bilanciati anche nel diritto fallimentare, là dove si tratta di mantenere la continuità aziendale. Dopo che per oltre mezzo secolo si sono protratti consumo di ambiente e produzione di lavoro, i problemi che sorgono sono collettivi, riguardano l’intera comunità, e vanno risolti con il coinvolgimento di tutti, autorità locali, poteri centrali e proprietà . Espropriata e ripubblicizzata, dell’ILVA doveva occuparsene il parlamento, per la sua eccezionale importanza sull’economia nazionale. Averla ridotta al solo maxi processo dopo averla messa in ginocchio, aver eliminato dal panorama mondiale il secondo gruppo siderurgico in Europa e l’undicesimo planetario – tale era il gruppo Riva – è solo la prova di un paese inconsapevole di come, nella lotta tra suoi poteri pubblici, accelera il suo declino.

 

23
Lug
2015

Addio certezza della legge: anche da prefetti e magistrati

Nella storia, dello Stato si sono date tante definizioni. Nel secondo dopoguerra, l’avvento anche in Europa della democrazia ci ha fatto lasciare alle spalle enunciati estremi come Der Staat ist Macht, lo Stato è potenza, che piaceva all’hegelismo tedesco e produsse i totalitarismi. Ai tempi nostri, lo Stato dovrebbe essere di conseguenza innanzitutto certezza del diritto. Ma nella nostra Italia per moltissimi versi non è affatto così. E ciò spiega una bella fetta del distacco che gli italiani esprimono verso le istituzioni. Non si deve solo alla concezione che politica e partiti hanno dello Stato, come di uno strumento spesso al proprio discrezionale servizio. Ormai la crisi dello Stato investe anche quelli che dovrebbero essere i pilastri di garanzia dell’autonomia dello Stato dalla politica, per fondarsi solo sulle leggi: cioè prefetti e i magistrati. E’ esattamente ciò che viene riproposto da alcune delicatissime vicende in corso.

Cominciamo da Roma. Nel nostro ordinamento, spetta al prefetto ordinare la precettazione – cioè l’obbligo alla prestazione e all’offerta di un servizio – nei confronti di astensioni lavorative che avvengano in violazione delle norme vigenti, a tutela dei diritto dei cittadini. E’ una materia di cui già molte volte ci siamo occupati, sottolineando la necessità di nuove norme rispetto ai codici di autoregolazione per categoria e azienda oggi vigenti. Il premier Renzi e il ministro dei Trasporti Delrio più volte hanno promesso interventi in tal senso. Che non si sono visti. Sta di fatto che Roma vive da più di settimane l’enorme disagio di servizi di trasporto annullati e ritardati a raffica e senza preavviso, dovuti allo sciopero bianco del personale ATAC, che rifiuta i badge adottati dall’azienda per il controllo dell’orario di lavoro effettivamente prestato. La protesta avviene in totale spregio delle norme previste a tutela dei passeggeri. Si è giunti a contingentare i passeggeri per stazione, per evitare proteste di massa. Ma quando si contingentano i passeggeri che pagano e non si interviene su chi viola la legge, lo Stato innalza bandiera bianca sulle sue stesse leggi.

L’Autorità garante dei Trasporti ha chiesto giustamente al prefetto di Roma di non tergiversare oltre, e di precettare visto che lunedì è annunciato un nuovo sciopero. Ma ecco che scatta la malattia pubblica italiana numero uno: la discrezionalità al posto della certezza della norma. La tensione aperta tra sindaco di Roma, presidenza del Consiglio e Pd, produce appelli riservati al prefetto perché si astenga dal precettare, e convinca piuttosto i sindacati con le buone. Ieri, il primo incontro è andato puntualmente a vuoto. E poi, come si fa a precettare i dipendenti dell’ATAC, quando venerdì il suo cda dovrà adottare un bilancio consuntivo 2016 con perdite di altri 60 milioni? Quando cioè le perdite cumulate dall’ATAC saranno di 1,3 miliardi dal 2007 e 1,55 miliardi nel decennio, perdite che sommate al debito esistente di 1,6 miliardi obbligheranno all’ennesima ricapitalizzazione d’urgenza visto quella di 3 anni fa per 1 miliardo è svanita? Ricapitalizzazione che dovrà essere autorizzata e compiuta dal governo, visto che il Campidoglio non ha certo i 200 milioni necessari, ancora una volta dunque dal governo nazionale dopo 2 interventi straordinari salva-debito a favore di Roma per oltre 14 miliardi, adottati sotto il sindaco Alemanno e attuale?

Sono cifre devastanti, l’ATAC e l’AMA di Roma sono oggi il vertice del disastro nazionale delle società pubbliche locali. Ma in nessun caso tutto ciò dovrebbe consentire allo Stato di chiudere un occhio sull’oltraggio quotidiano portato a centinaia di migliaia di romani. Eppure, il prefetto non precetta. E lo Stato muore, di fronte ai cittadini.

Secondo esempio. Che riguarda sempre i prefetti, ma questa volta per le loro prerogative nella delicatissima materia dell’assegnazione degli immigrati ai Comuni. Dopo la sostituzione disposta dal governo del prefetto di Treviso, a seguito della sollevazione della popolazione di Quinto contro dei rifugiati in case di edilizia privata e delle roventi polemiche scatenatesi con il presidente del veneto Zaia, il sindacato dei prefetti ha levato la voce. “Basta considerarci capri espiatori”, ha detto. A parte la singolarità che anche i prefetti in Italia siano sindacalizzati, la questione riguarda ancora una volta l’imparzialità della legge, visto che nel nostro ordinamento napoleonico il prefetto rappresenta lo Stato centrale nei territori. Tra assegnazioni delle quote di rifugiati da parte del Viminale agli Enti Locali, e concreta scelta delle strutture pubbliche o private alle quali assegnarle, è il prefetto a dover esercitare scelte molto rognose. Come insegna la maxi indagine su Roma Capitale, sono scelte pericolose per il rischio di evitare bandi di gara e procedure trasparenti, e ardue poiché al prefetto si chiede insieme di mediare con la politica locale, e di valutare possibili tensioni da parte dei residenti. Anche sugli immigrati, la politica tira per la giacchetta i prefetti, che diventano non più garanti dell’esecutività di una norma, ma mediatori politico-culturali. E lo Stato muore un’altra volta, perché agli occhi dei cittadini, che non capiscono e protestano, il prefetto appare come il terminale ultimo di un grande scarica-barile istituzionale. E se i prefetti credono di rimediare a propria volta protestando pubblicamente contro lo Stato, ecco che il bailamme diventa generale.

Terzo esempio. Questa volta riguarda i magistrati. Si moltiplicano le ordinanze attraverso le quali pm e gip dispongono sequestri di beni strumentali produttivi, input e ouput della produzione. Dall’Ilva di Taranto a Fincantieri a Muggia, l’estensione delle facoltà di misure cautelari di sequestro disposte dalla magistratura in fase d’indagine preliminare – cioè inaudita altera parte – ha compreso nel tempo elementi sempre più vasti rispetto a quelli essenziali indicati nei codici: i conti dell’impresa, il patrimonio personale dei suoi soci, gli impianti produttivi, le materie prime necessarie a produrre, i depositi delle medesime e degli scarti di produzione, il prodotto finale. Se e quando la politica ha deciso d’intervenire con decreti ad hoc – visto che, ripetiamolo, si tratta di un’estensione autoevolutiva delle facoltà del magistrato – la magistratura ribatte sconfessando i decreti legge, appellandosi alla Corte Costituzionale ma intanto reiterando le proprie misure. I vertici nazionali dell’Associazione Nazionale Magistrati rilasciano interviste nelle quali affermano che non spetta al magistrato valutare le conseguenze economiche e occupazionali delle proprie decisioni. Restano isolate voci come quelle di Sabino Cassese, ex giudice costituzionale che da queste colonne ha ribadito che un giudice non può far spallucce a una norma di legge per il solo fatto di non condividerla. E come quella di Nello Rossi, per otto anni coordinatore del pool economico alla procura di Roma, per il quale al contrario l’esame delle conseguenze economiche rilevanti non può che costituire dovere imprescindibile da parte di un magistrato all’atto di emanare un provvedimento, in nome della proporzionalità e della congruità degli interessi pubblici da tutelare.

Può il giudice sostituirsi alla legge? Può il prefetto disapplicarla? Possono entrambi anteporre convinzioni proprie e interessi da mediare, a ciò che lo Stato deve essere a apparire, cioè imparziale e non discrezionale? La risposta è una sola: no. Ma in Italia è sempre più: invece sì. Non lamentiamoci, poi, se allo Stato credono in pochi.

22
Lug
2015

Obiezioni liberal-libertarie al caos di Stato sulle unioni civili

In teoria, un liberal-libertario non può che essere soddisfatto della sentenza della Corte europea dei diritti umani. In pratica, non è proprio così. Cercherò di spiegare perché, sapendo che la materia divide e alimenta polemiche.

I giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per la violazione dei diritti di tre coppie omosessuali, e in particolare per l’articolo 8 della Convenzione europea: il diritto al rispetto per la vita privata e familiare. Ora tutti i 47 Stati del Consiglio d’Europa facenti capo alla Cedu dovrebbero in teoria legalizzare l’unione tra persone dello stesso sesso, ma non per forza il matrimonio.

Che cosa significa, in concreto? Se guardiamo ai diversi paesi, la scelta è variegatissima. L’Italia, insieme a Grecia, Turchia, Cipro, Polonia, Bulgaria, Romania, Russia e Slovacchia, costituisce il gruppo dei paesi a minori tutele. Nei 4 paesi scandinavi, BeNeLux, Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo è previsto il matrimonio di coppie dello stesso sesso. In Irlanda, Germania, Austria, Cechia, Croazia, Slovenia, Ungheria, Svizzera e Malta, gli ordinamenti prevedono la tutela di “unioni civili” di diverse forme, distinte dall’equiparazione al matrimonio. Quanto ai diritti connessi, anche su questo l’Europa è un mosaico a colori. C’è chi garantisce adozione congiunta, riconoscimento dei figli del partner e fecondazione assistita nei matrimoni gay – Scandinavia, Islanda, Regno Unito, e Spagna – mentre nel blocco delle unioni civili i più avanzati sono Croazia, Slovenia e Malta, che prevedono sia l’adozione congiunta sia il riconoscimento dei figli del partner a chi è legato da una sola unione civile. La Francia ha sia unioni civili sia matrimonio gay, ma come il Portogallo non prevede adozioni, riconoscimenti e fecondazione assistita.

Chi qui scrive è un liberale libertario, di conseguenza evita lo scontro frontale che da anni divide il nostro Paese in due blocchi ideologici contrapposti. Dal mio punto di vista, iper-minoritario come si vedrà non seguendo bandiere di partito, le conseguenze della decisione di Strasburgo investono tre questioni fondamentali, che a questo punto la politica dovrà sciogliere in parlamento senza i rodei che hanno condotto a rinvii continui.

La prima questione riguarda il rapporto tra lo Stato e le persone. La seconda: i diritti. La terza: i costi.

Primo paradosso: per un libertario-liberista, è sacro il rispetto delle preferenze, identità, nature e gusti di genere, e delle convenienze economiche di ogni singolo individuo. Ma l’esito del processo che è in corso non è affatto una privatizzazione del matrimonio – per così dire – o dei rapporti di ogni altro tipo che gli individui vogliano liberamente porre in essere. E’ l’esatto opposto. Lo Stato diventa regolatore “a schiovere” di una panoplia di rapporti distinti e diversi, pretendendo per ciascuno di fissare regole e parametri, durate e rescissioni, tutele economiche sia reddituali sia patrimoniali, criteri di assegnazioni dei servizi sociali e via continuando. E’ l’esatto opposto della libertà individuale sognata dalla rivoluzione del costume incarnata dal movimento che rivendica parità e rispetto per ogni identità e scelta di genere. Ogni singolo tipo di scelta sarà infeudata a una griglia di definizioni statali. Direte voi: non c’è alternativa, nello Stato moderno. Non è affatto vero: basta anteporre la libertà di scelte contrattuali private, a cui riconoscere alcuni diritti fondamentali senza pretendere di dettare le regole per ciascuna di esse, si tratti di unioni di tipo amoroso, o di coabitazioni stabili per ragioni economiche. Se c’è un limite evidente nella battaglia pluridecennale per i diritti ai gay, è questa insistenza assoluta per la statualizzazione del loro riconoscimento. Sarebbe stato cento volte meglio approfittare del fatto che lo stesso matrimonio civile nel nostro ordinamento vede riforme che ne attenuano la tutela man mano che si va al divorzio express, per capire che la strada migliore era quella opposta: quella di meno e non più Stato per tutti. I privati stabiliscano contrattualmente quanti beni e redditi intendano condividere, quali strumenti finanziari a copertura o beneficio reciproco individuino, e lo Stato asssicuri il pieno rispetto “pubblico” delle libere intese. Solo la destatualizzazione del vincolo è libertà.  A me, lo Stato che ficca il naso in camera da letto non piace (e nemmeno nei conti della spesa, ma su questo so che scattano reazioni immediate di altro tipo).

Secondo paradosso: i diritti. Ora sarà giocoforza decidere iparlamentarmente un labirinto definitorio, sommando le istanze partitiche più diverse invece di compiere una scelta semplice e netta. Se esaminiamo lo stato attuale di elaborazione del disegno di legge Cirinnà, osserviamo che si dichiara di dover portare chiarezza nel riconoscimento di relazioni tra conviventi diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio. Ma poi si ricalca proprio la struttura delle disposizioni previste per il matrimonio, a cui segue la disciplina della convivenza di fatto, come legame a propria volta significativamente più debole rispetto a quello dell’unione civile. La convivenza di fatto è indicata più genericamente come persone unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, ma viene individuata rinviando alla “famiglia anagrafica”, includendo perciò anche rapporti non esclusivi ma carichi di implicazioni quanto a “diritti concreti” economici perché afferenti ad anziani soli, separati, disoccupati, sottoccupati, e via continuando. Oltre a questo, l’attenzione prioritaria data però alle unioni tra persone di sesso uguale determina gli espliciti rinvii normativi alla filiazione (in caso di morte del genitore naturale o adottivo unito civilmente con la persona dello stesso sesso), e si indica l’equivalenza, nell’applicazione delle disposizioni normative, tra “coniugi” e “unione civile”. Com’è evidente, o almeno a me pare così, in questo modo di procedere per giustapposizione normativa il rischio è quello di un’enciclopedia di Stato sui limiti e non sulla titela di ogni forma di libertà. E sorge un problema che, per me personalmente, non è questione religiosa, bensì civile ed economica: un paese a demografia negativa deve assolutamente tutelare i diritti delle libere unioni di ciascuno, ma non può e non deve dimenticare che la natalità nella famiglia naturale dovrebbe essere un patrimonio da riconoscere, tutelare e – oggi – da incentivare fiscalmente, invece di ostacolarlo come riesce selvaggiamente a fare il nostro fisco. Per questo resto curioso di capire come l’enciclopedia di Stato in arrivo comprenderà nelle sue fattispecie la famiglia “naturale” ex art.29 della Costituzione.

Terzo paradosso: chi paga? Qui entriamo in una terra incognita. Già mi è capitato di scrivere in presenza del divorzio express, che per conseguenza occorreva rivedere tutte le norme previste in precedenza per esempio sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, ammontate nel 2014 alla bellezza di circa 38 miliardi di euro. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo cinque anni, almeno tre dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. E, in percentuali diverse, la pensione di reversibilità è ammessa per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento. Che vogliamo fare, estendere tali norme alle nuovi unioni una volta che ne prevediamo esistenza e tutela nell’ordinamento? Sommiamo alla reversibilità il diritto ai servizi sociali, alla sanità attraverso contributi individuali a copertura estesa ai componenti il nucleo riconosciuto, alle graduatorie per l’edilizia popolare e ai nidi e scuole materne? Si prevederà l’estensione dell’ISEE a unioni civili e convivenze anche meno forti? Un paese che da metà anni Settanta, per una sentenza della Corte costituzionale, ha abolito la famiglia naturale come unità di riferimento fiscale lasciando il contribuente individuale come unico soggetto d’imposta, farà convivere tale demenziale impostazione con un’estensione orizzontale e verticale di diritti economici incardinati su unioni diverse, ciascuna definita dallo Stato entro rigidi confini? A me sembrerebbe quanto meno molto discutibile.

Naturalmente, alla politica spetta risolvere al meglio ciascuno di questi problemi. Nessuno di essi è insolubile. Basta però adottare criteri chiari, perché sommando pezze a colori a scopi elettorali ne può uscire un caos che, oltre a essere discutibile per principio, è pure scassa-conti.

 

 

20
Lug
2015

Sulle tasse, prendiamo Renzi sul serio: incalziamolo su come tagliarle (con meno spesa)

Ieri, la stragrande maggioranza dell’informazione italiana non è riuscita a prendere troppo sul serio l’annuncio in materia fiscale fatto da Renzi all’assemblea del Pd. Pesano vent’anni di delusione cocente dei contribuenti italiani, visto che agli annunci simili fatti da governi di destra e sinistra è sempre invariabilmente seguito un aumento di pressione fiscale, e oggi in Europa solo Francia e Belgio ci battono (la stessa Svezia, solo per un soffio). Eppure, proprio per questo la reazione più adeguata dovrebbe essere opposta. L’annuncio del presidente del Consiglio, da 18 mesi a questa parte, deve essere assunto letteralmente come il più importante degli impegni sinora assunti dall’attuale governo. Tra i 40 e i 50 miliardi di euro di meno imposte entro 3-4 anni da oggi, e cioè con una verifica elettorale nazionale di mezzo, rappresentano il dimezzamento abbondante dei 5 punti di PIL di maggior pressione fiscale di cui oggi l’Italia soffre rispetto alla Germania. Sarebbe una svolta, in termini di liberazione di risorse da volgere alla ripresa dei consumi, e al ritorno sopra lo zero a cui langue il margine netto delle imprese italiane sul valore aggiunto.

Com’è ovvio, nell’annuncio pesano le difficoltà interne al Pd sulle riforme, la discesa del governo nei sondaggi, il risultato delle ultime amministrative, i mille falò accesi a sinistra dalle vicende calabresi, siciliane, romane, liguri, venete e milanesi. Tutto verissimo, lo sappiamo. Ma l’informazione (e le opposizioni) commetterebbero un grave errore, a disconoscere l’importanza che occorra una vera e propria rivoluzione fiscale, per ridare all’Italia gambe e fiato. Al contrario: bisogna prendere Renzi sul serio, inchiodarlo a quel che ha detto, e d’ora in poi chiedergli incessantemente di dare risposte concrete a tutti i cento dubbi e le mille insidie che obbligano allo scetticismo, di fronte a un obiettivo tanto impegnativo alla luce dei clamorosi fallimenti sin qui visti. Neanche Berlusconi, in realtà, aveva annunciato una rivoluzione tanto profonda che investisse sia la tassazione patrimoniale, sia quella sui redditi delle persone fisiche e delle imprese. Il Libro Bianco Berlusconi-Tremonti annunciava due sole aliquote IRPEF per le perone fisiche, al 22 e al 33%, ma toccava meno il resto. Qui invece siamo all’annuncio della scomparsa della tassazione patrimoniale sulla prima casa e di altro che entra sull’IMU-TASI, alla scomparsa dell’IRAP residua, a un taglio significativo dell’IRES alle imprese, e a una ristrutturazione profonda dell’IRPEF su 3 sole aliquote.

Vediamo in sintesi le prime più rilevanti difficoltà, in ordine temporale. Abolire l’IMU-TASI prima casa, l’IMU agricola e quella sui macchinari “imbullonati” nei capannoni delle imprese, vale poco meno di 5 miliardi. Ci sono due maxi complicazioni. La prima è l’annuncio di Renzi viene quando da 6 mesi è già deciso che l’IMU-TASI entrasse nella cosiddetta local tax di pertinenza comunale, a partire dalla prossima legge di stabilità nel 2016. L’ANCI non ha mai fatto mistero che concepiva la local tax per recuperare parte dei pesanti trasferimenti subiti da Roma in questi anni, tanto che si pensava di passare per IMU-TASi dai 25 miliardi e rotti incassati complessivamente nel 2014 (la tassazione patrimoniale degli immobili era pari a 10 miliardi nel 2011, per avere un’idea dell’aumento determinatori nel frattempo..) verso quota 30 miliardi. Oggi il governo dice che 5 miliardi devono sparire. Come si finanzia il buco? Si fa l’ennesimo scherzetto ai Comuni? Li si lascia liberi di alzare altre imposte e tariffe, col che l’abrogazione sarebbe l’ennesima presa per i fondelli? Oppure il governo taglia lui spese per 5 miliardi, a copertura dei trasferimenti ai Comuni e abolendo quel che ha detto che vuole abolire?

La seconda difficoltà è purtroppo presto detta. La legge di stabilità attesa per settembre deve evitare clausole di salvarguardia fiscale per 16 miliardi, dei quali 6 il governo pensa di ottenerli come bonus di Bruxelles in cambio del procedere delle riforme (ecco perché Renzi ha collegato riforme e rivoluzione fiscale) e 10 devono venire da tagli alla spesa sin qui rinviati da un anno e mezzo, dai tempi di Cottarelli. A questo si aggiunge il finanziamento dei buchi di bilancio creati dal no di Bruxelles alla reverse charge IVA per i fornitori pubblici, a quelli della Corte sulle pensioni e sul necessario rinnovo dei contratti pubblici. Già così, la legge di stabilità doveva ammontare all’incirca sui 20 miliardi di risorse, per continuare a finanziare decontribuzione dei contratti, bonus 80 euro, nonché per far scendere il deficit all’1,8% di PIL nel 2016.

La domanda diventa: aggiungere altri 5 miliardi di tagli di spesa è quel che il governo vuol fare, oppure intende disconoscere l’obiettivo a medio termine sin qui contrattato con Bruxelles, per raggiungere in un triennio l’azzeramento del deficit al netto del ciclo? All’assemblea nazionale del Pd, Renzi ha parlato solo di rispetto con l’Europa dell’impegno di non valicare il tetto di deficit del 3% di PIL. Il che significa rimangiarsi l’impegno sin qui garantito da Padoan: cioè l’azzeramento del deficit.

E’ questa la chiave di lettura della rivoluzione fiscale annunciata? Finanziarla in deficit? Contando su tre anni di deficit al 3% invece di azzerarlo, in effetti, l’equivalente di quanto annunciato da Renzi su Ires, IRAP e Irpef ci sta praticamente quasi tutto. Ma attenzione: anche l’idea di finanziare l’annuinciata rivoluzione fiscale in deficit restando sotto il 3% di PIl NON COPRE PERO’ AFFATTO anche le clausole fiscali di salvaguardia previste negli anni 2017-2018, che ai 16 miliardi previsti nel 2016 ne sommano altri 56 per un totale di 72 miliardi. Significherebbe cambiare radicalmente strada, rispetto a quella sin qui scandita dalle regole europee. Padoan se la sente, dopo il caso greco, di guidare un nuovo assalto, questa volta alla reinterpretazione e anzi alla sospensione del fiscal compact, che già è stato formalmente di molto diluito l’anno scorso in sede europea?

La risposta an questa domanda è centrale. Per essere davvero credibili, gli impegni di abbattimento dell’IRES, dell’IRAP e dell’IRPEF (e di estensione ai pensionati sotto i 26 mila euro annui del bonus 80 euro, Renzi ha detto anche questo), dovrebbero essere accompagnati dalla delineazione di tagli di spesa permanenti di equivalente ammontare, per evitare il finanziamento in deficit o che l’attenuazione di un’imposta sia accompagnata dall’aumento di altre in termini più che proporzionali, com’è sinora avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma il governo deve dirlo ora, come intende procedere.

Personalmente, preferisco la strada difficile dei tagli di spesa. Quanto a individuarli, non ho cambiato idea rispetto all’esercizio previsionale dettagliatissimo di tagli per 5 punti percentuali di PIL in una legislatura, a copertura di altrettanti punti di PIL di minori entrate: proposi insieme agli amici di Fare il come e dove, e lo trovate qui. Ma intendiamoci: se il governo è convinto, come per molti versi potrebbe essere plausibile, che abbattimenti fiscali di queste proporzioni possono nel giro di 2-3 anni accrescere il PIl con effetti positivi permanenti anche di maggior gettito, e cioè di equilibrio di bilancio oltre che di crescita, allora deve argomentarlo con forza e chiarezza, perché dovrà convincerne l’Europa intera. Senza sotterfugi, che significherebbero solo che la promessa di Renzi è fatta per NON essere mantenuta.

Un’ultima osservazione. Renzi ha lasciato l’IRPEF per l’ultimo anno cioè al 2018, rispetto all’IMU – che è una risposta alla destra – nel 2016, e a IRES-IRAP che sarebbero da subito la giusta priorità per l’impresa, e che sono rimandate al 2017. Ma intendiamoci bene. Chi scrive è da 20 anni favorevole alla flat tax (trovate dioversi miei scritti negli anni cercandoli nel sito dell’IBL), anche se nel dettaglio non a quella con aliquota del 15% proposta oggi dalla Lega. Ma se per davvero dobbiamo prendere alla lettera Renzi che parla di un’IRPEF a 3 sole aliquote, allora non ho dubbi. Se l’ipotesi dovesse essere quella lanciata dal sottosegretario al MEF Enrico Zanetti, e cioè del 15% come aliquota come oggi per chi sta tra gli 8mila euro della no tax area e i 15mila euro lordi di reddito annuo, poi del 27% come aliquota unica tra chi sta sopra i 15 mila euro fino a 75 mila (per poi ritornare al 43% come oggi di aliquota per chi ha un reddito superiore ai 75 mila euro: io abbasserei di 2 punti anche questa) beh sarebbe comunque una rivoluzione assoluta. Si abbatterebbe quella falce iper-progressiva che oggi fa scattare l’aliquota del 38% per chiunque stia sopra i 28 mila euro e del 41% per chi supera i 55mila: cioè verrebbe meno la tagliola ammazza ceto medio che in questi anni ha fatto strage di redditi, consumi e crescita.

C’è da sperare dunque che Renzi faccia davvero ul serio. E che tutti lo prendano sul serio. Perché per quanto arduo sia ottenere questi obiettivi, chi dichiara di assumerli se lo fa solo a scopo elettorale non perde solo la faccia lui, ma getta l’Italia intera in un’ulteriore ondata di sfiducia che dopo 20 anni ci va risparmiata.