25
Ago
2015

Integrazione ed egualitarismo—di Pietro Barabaschi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Pietro Barabaschi.

Attenzione. L’integrazione non dev’essere “ugualitarismo”. Spesso si sostiene che due popoli che hanno una ”cultura” totalmente differente per poter convivere non possano fare altro che “integrarsi”. Ovvero che le convinzioni, le abitudini, gli usi degli uni e degli altri debbano in qualche modo incontrarsi a metà strada, pareggiarsi, per produrre così una specie di “ugualitarismo”.
In barba alle sirene del relativismo, l’auspicio che si può, si “deve” fare, è il seguente: non si tenda a costringere i più “colti”, quelli la cui storia è un tessuto più elaborato e complesso, a rinunciare alla propria superiorità (sì, superiorità), neanche col pretesto di non “offendere” i meno colti.
Le culture superiori sono divenute tali in millenni di storia: una storia, come diceva Indro Montanelli, scritta col sangue. La loro eredità in termini di diritto e di libertà, di stili di vita, di usi, va preservata gelosamente. E’ dopotutto grazie a uno di questi prodotti culturali – il capitalismo – che talune società sono divenute tanto attrattive, anche per chi proviene da culture diversissime.
Il relativismo è parente stretto di certo “veterosindacalismo”. Che, per dirla con una metafora per nulla relativista, invece di spingere i somari a diventare cavalli costringeva i cavalli a diventare somari.

25
Ago
2015

Perché ridurre le accise può salvare la faccia a Stato e BRE-BE-MI—di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Sono da poco tornato da una vacanza ad Ibiza e non posso risparmiarmi dal commentare il costo della benzina: rientrava in cifre comprese fra i 1,420 e i 1,450 al litro. In Italia il prezzo alla pompa medio è di 1,597 (dati Sole 24 Ore aggiornati a data 15/08) dopo aver raggiunto la punta di 1,718 a Febbraio dell’anno scorso (dati CGIA Mestre) mentre in Spagna, nello stesso periodo, si aggirava intorno ai 1,410.
Il prezzo al consumo della benzina in Sicilia, spesso più alto rispetto che in altre regioni italiane, ci dice che il valore finale, quello da pagare alla pompa, è anche influenzato da costi di trasporto più elevati: se tanto dà tanto, essendo Ibiza un’isola delle Baleari, possiamo affermare che in Spagna la benzina non è mai aumentata a causa di balzelli. E, in effetti, la Spagna figura fra i paesi dove statisticamente la carbon tax influisce meno sul prezzo finale. Read More

23
Ago
2015

Cina: l’eterna illusione dei regolatori centrali, e il costo per voi tutti

La crisi della Cina colpisce in profondità 5 convinzioni diverse: la fiducia nel controllo totale esercitato dai comunisti cinesi sulla propria economia; la fiducia che l’intera area del Pacifico fosse un eldorado ancora per decenni; quella sulla sostenibilità di molti cambi monetari dei paesi emergenti; quella sul lungo ciclo positivo delle borse mondiali; e infine quella sull’onnipotenza non solo in Cina dei banchieri e regolatori centrali. E’ una colossale rivincita dell’economia reale – in questo caso, dei suoi maxi squilibri cinesi – rispetto ai regolatori pubblici. Ai quali, dal 2008 in poi, tutti si sono rivolti chiedendo loro di fare miracoli, naturalmente coi soldi pubblici. Dietro questo enorme processo che si è messo in moto, la domanda è: che cosa può venirne all’Italia. Purtroppo niente di buono: ma, al contempo, mali molto minori di quelli che invece minacciano grandi potenze economiche mondiali, e molti paesi emergenti.

Alcuni dati. Dopo il crollo delle borse cinesi a inizio agosto – Shanghai da giugno ha perso il 47% della sua capitalizzazione – e dopo la svalutazione del 3,7% dello yuan-renminbi, ecco nell’ultima settimana alcuni dati veri dell’economia reale cinese. Gli ordini di acquisto delle imprese manifatturiere scesi di molto sotto la soglia che indica contrazione, il peggior dato in 6 anni. La produzione industriale che mentre nel 2010 cresceva del 23% annuo ora stenta poco sopra la soglia del 5%. I consumi elettrici passato in 5 anni da +25% al +0,5%. Da anni è noto che la Cina non poteva continuare a crescere del 10% annuo contando su investimenti pubblici di poco sotto il 50% del PIl annuo, e su un export in crescita a doppia cifra fino a un quarto delle intere esportazioni mondiali. Il problema dell’economia reale cinese era e resta quello di dare ai cinesi più reddito per orientarlo ai consumi interni. E la difficoltà enorme è realizzare tale transizione in maniera equilibrata. Peccato che le vendite al dettaglio in Cina crescano di anno in anno meno, non di più: nelle statistiche ufficiali, aumentavano del 22% nel 2010, e in questo 2015 invece poco più del 10%. Piccolo problema aggiuntivo: tutti sanno che le statistiche ufficiali cinesi non sono affidabili. Nessuno crede che la crescita del Pil cinese sia davvero del 7% annuo in questo 2015, invece del 10% di anni fa: la stima vera del consensus internazionale sta tra il 4 e il 5%. Eppure, in presenza di un tasso di crescita dimezzato, la stima ufficiale dei disoccupati cinesi è assolutamente ferma da anni, a meno metà di quella Ue. Miracoli delle statistiche comuniste.

Chi ci rimette. Oltre metà del pianeta, grazie al fortissimo espansionismo cinese dall’Asia all’Africa al SudAmerica, è esposto a gravi conseguenze se la transizione cinese sfugge di mano. Se volete consolarvi, pensate che nella sola ultima settimana di cali delle borse mondiali i 400 supermiliardari più forti investitori del mondo hanno perso 182 miliardi di dollari di valore azionario, sul totale dei 3300 miliardi persi in dollari dalle borse. Non li hanno persi sui mercati cinesi, ma nei settori esposti alla Cina quotati a New York, a Londra e nel mondo avanzato. Il mitico indice S&P500 ha registrato la peggior perdita in una settimana dal 2011, ed è sceso sotto quota 2000 in perdita da inizio anno: il che per gli Usa significa interrompere la serie positiva che dura da 4 anni. E i settori colpiti sono tanti: tecnologie, energia, commodity come minerali e materie prime. Viste le attese di esplosione di consumi digitali cinesi, i 5 giganti internet USA –Netflix, Facebook, Amazon, Googl, Apple – hanno perso 100 miliardi di capitalizzazione in soli 2 giorni. Il petrolio è sceso sotto i 40 dollari al barile per la prima volta in 6 anni., mentre gli USA a luglio hanno estratto petrolio nella maggior quantità mensile dal 1920. Il Vietnam e il Kazakistan hanno fatto saltare i loro cambi fissi. In una sola settimana le valute della Russia, Bielorussia, di molti paesi africani, della Turchia, del Messico e della Colombia hanno perso tra il 3 e i 5%. Per i paesi asiatici che esportano in Cina tra un quinto e un quarto del loro export, dal Vietnam alla Thailandia alla Nuova Zelanda all’Australia, pessime notizie in arrivo.

Il debito pubblico Ue e ITA. Se in termini di export la frenata cinese e la possibile perdita di controllo da parte del governo di Pechino sono un danno maggiore soprattutto per i maggiori esportatori in Cina, a cominciare dalla Germania – noi siamo solo il 25° paese fornitore della Cina nelle graduatorie internazionali, con soli 10 miliardi di export nel 2014 – i danni sono invece anche e soprattutto nostri sul costo del debito pubblico. L’enorme fuga del rischio in atto sui mercati mondiali, l’attesa spasmodica e temuta di un rialzo dei tassi da parte della FED americana in autunno, e in piccolo anche la nuova instabilità creata dalle elezioni greche a settembre, ha portato in una sola settimana i rendimenti percentuali dei titoli di stato decennali italiani a salire del 2%, mentre quelli tedeschi scendevano del 12% e quelli francesi del 3% (malgrado i pessimi dati dell’economia reale e della finanza pubblica d’Oltralpe). Gli Stati Uniti perdono nelle borse, ma l’attesa del rialzo dei tassi riporta flussi finanziari verso i titoli pubblici americani, che hanno visto scendere il rendimento del 7%. In poche parole: gli italiani possono rimetterci dai guai cinesi molto più in tasse aggiuntive per consentire allo Stato di continuare a spendere troppo, che per minor export.

Il rimedio. A questo proposito, il mondo si spacca in due. O meglio, c’è una parte larghissimamente maggioritaria, e una di assoluta minoranza. Il più degli osservatori continua a non vedere che il mondo non può risolvere i suoi guai continuando a pompare montagne di liquidità da parte delle banche centrali che finanziano bolle finanziarie, e tifando perché i comunisti cinesi continuino a destinare migliaia di miliardi in investimenti superflui, e a credere che la borsa di Shangahi per ordine del partito possa solo salire, invece che ridurre valori e prezzi in linea con una bolla immobiliare nascosta per centinaia di miliardi negli attivi di banche di Stato opache. Per questo, i più tifano in realtà perché la Cina continui ad avere falsi mercati finanziari e dei cambi, non riformi le sue banche, non privatizzi e non liberalizzi. Tifano naturalmente perché la Fed da tutto questo deduca che i tassi americani non vanno alzati, perché sarebbe un pessimo segnale dato a tutto il mondo, volto a interrompere politiche monetarie troppo favorevoli alla sola finanza.

Chi scrive qui pensa invece che la Cina debba affrontare la realtà: statistiche non truccate, una valuta che fluttui e il cui prezzo lo faccia il mercato, mercati finanziari mondiali meno drogati dagli Stati. Questo significa tornare alla supremazia dell’economia reale su quella della pura finanza. E aprire la porta a libertà divili e politiche: la fine del potere comunista.

Gli italiani si facciano due conti. Malgrado il petrolio a 40 dollari è grazie al 60% che si frega lo Stato alla pompa in tasse, che il prezzo del carburante non scende. E malgrado il quantitative easing della BCE, come vedete il sovrapprezzo al rischio del debito pubblico italiano torna ad alzarsi, perché nessun artificio del banchiere centrale può nascondere ai mercati che in Italia la spesa pubblica corrente continua a salire, e insieme a lei il gettito fiscale sottratto all’economia pure.

Cari lettori pensateci: la crisi cinese è la moltiplicazione per mille su scala planetaria di ciò che l’eccesso di statalismo provoca sull’economia reale. Direte voi: ma senza Draghi che ci aiuta, pagheremmo ancor di più. Attenti: i politici e la finanza mondiale pensano che scudi come quelli di Draghi non siano emergenze temporanee per fare riforme, ma cuscinetti eterni destinati a nascondere i debiti pubblici, i quali poi, se davvero eccedono la misura, tanto si tagliano con un bell’haircut: mica succede come ai privati che falliscono. Senza scudi, gli indebitati pubblici e finanziari devono tagliare le spese. Con gli scudi, continuano a indebitarsi perché tanto sanno che il costo lo pagate voi e i vostri figli: come contribuenti italiani, come risparmiatori e come consumatori.

18
Ago
2015

Proprio sicuri che debba cambiare la Merkel, e non noi?

Come si è capito dalla visita a EXPO ieri della Merkel e dall’incontro con Renzi, l’Italia di oggi non è un problema prioritario per la Germania, che tifa per le riforme di Renzi. Il voto del Bundestag domani sulla Grecia, il rallentamento della Cina, i migranti, la testa del premier germanico è su quello. Ma, al contrario, il dibattito pubblico italiano vede la Germania come il problema numero uno. Berlino viene considerata come il freno deliberato all’economia nostrana ed europea, attuando un disegno che ci avrebbe reso schiavi delle sue convenienze. Nelle difficoltà, ci si rifugia nei paradossi. I paradossi hanno qualche elemento di verità. Ma li forzano all’estremo, fino a renderli inconseguenti. Forse è il caso di riflettere su quattro punti.

Più Europa o sovranismo? La Germania della Merkel viene considerata ostacolo insormontabile a un’Europa politica solidale. Al parlamento greco, Varoufakis ha attaccato frontalmente le 47 “azioni prioritarie” contenute nelle 30 pagine del memorandum firmato dalla Grecia per ottenere i primi 26 miliardi aiuti, sostenendo che è “un’abdicazione totale alla sovranità greca”. E’ la stessa accusa che da noi alimentano sinistre e destre anti euro. Delle due l’una, però. Non è affatto detto che l’idea di Europa con vigilanza comune su banche e bilanci d’impronta tedesca sia quella giusta, ma Berlino – e nelle ultime settimane, proprio Schaueble – ne avanzano con forza nuove proposte e sviluppi. Criticabilissimi, perché vogliono smontare la Commissione Europea e chiedono che i bilanci siano sorvegliati da un’autorità tecnica, distinta dal Consiglio Europeo che prende le decisioni politiche, perché in realtà stufi di vedere Francia e Italia che ogni anno chiedono eccezioni e rinviano gli impegni. Questa idea di Europa tedesca è interstatale, cioè difende l’idea che i passi in avanti debbano avvenire, ma senza che un solo euro venga trasferito a meno che i parlamenti nazionali dei paesi più forti votino ogni volta. In questo, fanno a mio modesto avviso meglio di noi che su questioni europee il parlamento non lo facciamo votare mai, e tanto meno convochiamo referendum. Se tale idea non ci piace, dobbiamo contrapporre un’altra idea di Europa, con proposte concrete di strumenti comuni sovrannazionali. Non l’abbiamo fatto. Anche perché se logica europea interstatale tedesca ha il difetto di frenare su strumenti comuni federali, in realtà è la francia da sempre a difendere l’idea sovranista nazionalitaria. Se però l’obiezione alla Germania è quella di voler difendere le sovranità nazionali, allora è più coerente chi dice di esser pronto a uscire dall’euro, cosa che viene meglio alle destre antieuro sovraniste (anche a casa nostra) che ai critici dell’euro da sinistra. Ma in ogni caso allora siamo noi, a non credere in una qualunque sfera sovranazionale che dia solidità all’euro, non la Germania che ha comunque un’idea sua, per criticabile che sia.

Concessioni, la strateghi dei pitocchi. Anche in questo pre –autunno 2015, l’Italia chiede alla Germania e alla Ue sforamenti degli impegni già assunti. Poiché sommando i diversi annunci del governo sulla scena nazionale – tra clausole fiscali da far saltare, decontribuzione dei contratti, abolizione dell’IMU, nuovi contratti al pubblico impiego, recupero delle pensioni prima stoppate, misure per le imprese, per la scuola, prepensionamenti e interventi a favore della povertà – la manovra in legge di stabilità supera i 30 miliardi di euro, ma la spending review se va bene è di 10 miliardi. Ecco che ancora una volta chiediamo che non valga l’impegno a contenere il deficit 2016 all’1,8% del PIl, che già l’anno scorso Bruxelles ci ha consentito di accrescere rispetto al deficit all’1,4% che avrebbe dovuto essere obiettivo per il 2016. C’è chi dice che Renzi punti nel 2016 al 2,2% di deficit, chi al 2,5%, chi addirittura al 2,9%. Ma è sempre la stessa storia. Noi i tagli alle spese pubbliche per recuperare copertura a tagli di imposte li rinviamo sempre. La spesa pubblica è salita dal 2012 al 20124 da 821 a 838 miliardi. Nei primi 6 mesi del 2015, è cresciuta di 18 miliardi rispetto al 2014. E’ colpa dei tedeschi, o nostra?

La frenata generale. I dati del secondo trimestre del PIl europeo hanno deluso tutti. Il nostro +0,2% ha però fatto compiacere molti, comparato al +0,4% tedesco invece del +0,5% atteso, e allo 0% francese. L’Europa cresce poco rispetto a USA e Uk, malgrado l’euro in calo, il petrolio sotto i 50 dollari, e il quantitative easing della BCE. La colpa è dei tedeschi, dicono in molti. Ne siete sicuri? O siamo vittime di un’ubriacatura generale nell’interpretazione dei dati? Il punto non è che la Germania crescerà – nelle stime – dell’1,5% nel 2015 rispetto al nostro, forse, stentato +0,7%. Il punto è che gli andamenti annuali vanno parametrati rispetto a quello che ciascuno ha perso o guadagnato negli anni alle nostre spalle. Anche se la Germania perderà di più di noi dalla frenata cinese, l’Italia è l’unico paese che si è impoverito da quando è entrato nella moneta unica: dal 1999 ad oggi il PIL pro capite italiano è sceso di 3 punti percentuali. Nello stesso periodo il PIL pro capite medio dell’area euro è cresciuto di oltre 10 punti, quello della Spagna di 9, quello della Grecia comunque di 3 punti, nonostante la terribile voragine registrata dalla crisi. Negli stessi anni, il PIL pro capite tedesco è salito del 21%, quello americano e britannico del 17%, quello giapponese del 15%. L’export italiano ha fatto miracoli, passando a prezzi correnti dai 440 miliardi di euro del 2008 ai 475 del 2014. Mentre quello tedesco è passato da 1113 a 1325 miliardi. Ma il debito pubblico italiano è passato dal 102% del 2008 al 132%. Su questo, potete pensare che la colpa è dei tedeschi solo se non guardate che nel frattempo abbiamo sempre alzato la spesa corrente pubblica con una spremuta di tasse per non tagliarla, e realizzare comunque possenti e positivi avanzi primari. Siamo il paese record per avanzi primari pubblici nell’euroarea, per ben 591 miliardi in 15 anni a fine 2014 rispetto ai 428 della Germania (la Francia negli stessi anni ha accumulato deficit primari per 338 miliardi). Ma i tedeschi nel frattempo hanno tagliato spesa e tasse, entrambe per più del 5% di Pil, noi le abbiamo fatte crescere. E’ colpa nostra, o tedesca?

La produttività. Ancora una cosa. Tutti guardano alla finanza pubblica, chiedono più deficit e teorizzano che il debito non è un problema, tanto alla peggio basta cancellarlo. Ma in realtà nel nostro paese dovremmo tenere prioritariamente lo sguardo fisso soprattutto a un altro dato, visto che il basso debito estero complessivo e l’elevata patrimonializzazione delle famiglie rende il debito pubblico comunque solvibile. Dovremmo maniacalmente tenere lo sguardo fisso sulla competitività. Da quando siamo entrati nell‘euro a inizio anni Duemila, il nostro CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) nel manifatturiero è aumentato del 37% rispetto a quello tedesco, e se contiamo gli interventi sin qui realizzati dal governo Renzi il gap scende nel 2015 da 37 punti a 35. I tedeschi dal 2002 al 2005 hanno cambiato welfare, puntato ancor più sulla contrattazione aziendale, realizzato in moltissimo grandi gruppi un grande patto tra stop all’aumento dei salari reali e anzi loro diminuzione per la difesa dell’occupazione e più produttività. Da noi i sindacati sono ancora contrari a lavorare a ferragosto all’Electrolux di Susegana per smaltire gli ordini, e sono stati smentiti dai lavoratori che invece hanno lavorato. Sono i tedeschi, a dover cambiar testa, oppure noi? Non dovremmo esser noi per primi a cambiare molto in casa nostra, proprio per aver titoli migliori per eventualmente controproporre una diversa strategia per l’Europa, rispetto a quella interstatale che la Germania persegue?

17
Ago
2015

Car sharing “bene comune”: non c’è limite ai luoghi comuni!—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Grazie alla lettura del libro I beni comuni oltre i luoghi comuni ci si può accorgere di come la retorica benecomunista pervada la nostra vita di tutti i giorni. La polemica sul car sharing a Milano credo ne sia un esempio. Il comune di Milano nel 2013 decide di selezionare soggetti interessati a svolgere il servizio di car sharing.

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16
Ago
2015

Un lago blu, rosso sangue—di Paolo L. Bernardini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Paolo Bernardini.

Prospettive mediterranee, ovvero sezioni longitudinali e latitudinali di un mare difficile

Una riflessione sul destino del Mediterraneo, o, piuttosto, dei popoli e gli stati che si assiepano intorno alle sue rive, giunge particolarmente necessaria, sia oggettivamente, per gli avvenimenti gravi che stanno interessando questo mare, culla di (quasi) ogni civiltà, sia soggettivamente. Ho terminato infatti un corso di geopolitica liberale all’Insubria interamente dedicato agli stati mediterranei – ovvero tutti quegli stati che si affacciano sul bacino anche solo per pochi chilometri di costa, come la Bosnia e la Slovenia, o per un tratto maggiore, ma che sono fondamentalmente legati alla terraferma, come la Siria – e mi sto dedicando alla stesura di un grosso volume in inglese di storia “globale” del Mediterraneo nell’Ottocento, provvisoriamente intitolato The Modern Sea. A Global History of the Mediterranean from Avignon to Lausanne, 1791-1923. I due termini, post e ante quem, sono dati rispettivamente dal referendum per l’autodeterminazione di Avignone, il 1791, e dal trattato di Losanna del 1923, che pose fine alla questione turca, perfezionando, in senso negativo, quello di Sèvres di tre anni prima.

Ma ben più che le situazioni soggettive, conta l’oggettività della storia, anzi il “banco del macellaio della storia”, come direbbe Hegel, e, in questo caso, a ragione: una strage nei dintorni di Hammamet rivendicata dall’ISIS (stile palestinese: infatti in Israele si entra in spiaggia pubblica passando dal metal detector, e gommoni della sicurezza pattugliano di continuo la costa), movimento legato alla Siria e all’Iraq, e la Grecia in una situazione di crisi estremamente drammatica, che mette in dubbio tutto l’assetto dell’Unione Europea, entità in cui gli stati mediterranei non sono la maggioranza, ma sono tutti importantissimi sotto ogni rispetto.

Queste peraltro sono solo le punte di un universo variegato di instabilità politica che tocca le coste di un mare che “stabile” fu raramente, forse solo nei lunghi secoli di dominio romano, prima repubblicano poi imperiale, che trasformò questo grande lago in un “mare nostrum”, circostanza mai più replicata, non ostante i tentativi di Luigi XIV, di Napoleone, dell’Italia o della Francia imperiali tra Otto e Novecento, ma ancor prima di Filippo II o degli Arabi per tre secoli dopo Maometto. Forse l’unico impero che – con territori strategicamente fondamentali sotto la propria giurisdizione diretta o indiretta, da Gibilterra a Malta a Cipro all’Egitto – sia riuscito nell’impresa di ricostituire un dominio totale del Mediterraneo (ma in modi assai diversi dall’Impero romano che ne controllava tutte le coste) è stato quello inglese, almeno fino al 1945 (poi la decolonizzazione rese de facto indipendenti realtà come Malta, de iure tale solo nel 1964).

Il Mediterraneo è anche la Catalogna (e assai più timidamente e maldestramente) il Veneto che aspirano all’indipendenza, sono anche la Sardegna e la Sicilia sempre più radicalmente vicine l’una all’altra nel progressivo depauperamento della risorse e dell’economia produttiva,, sono la Corsica dove l’indipendentismo non è mai morto, ma non è mai veramente decollato, sono le realtà maghrebine tutte, forse ad eccezione del Marocco, in una situazione di instabilità.

Perfino alcune industrie legate primariamente al mare, se ci trasferiamo al discorso economico, come quella crocieristica, stanno segnando il passo: proprio di questi giorni, a Venezia – dove tra l’altro si rappresenta con somma sorpresa di alcuni alla Fenice la Iuditha Triumphans di Vivaldi, un vero e proprio inno anti-ottomano, una sorta di Persiani di Eschilo di età illuministica, e in musica – si annunciano pesanti tagli e licenziamenti nel settore, che pareva fino a poco tempo fa il nuovo eldorado.

E questo per citare alcuni soli dei “problemi” che affliggono il bacino.

Metto tra virgolette “problemi”, sia perché non credo alla categoria storiografica del “problema” (la storia è tutta un problema, o tutta una soluzione, dipende dai punti di vista) sia perché si tratta un rimando ad un’opera del grande analista dei “problemi”, appunto, coloniali in età fascista E. W. Polson Newman, che pubblicò nel 1927 un’opera eccellente e fondamentale proprio con questo titolo: The Mediterranean and Its Problems, evidenziando le questioni aperte dopo Versailles e il grappolo di trattati successivi, da Rapallo a Sanremo, da Sèvres a Losanna, e la soluzione di “equilibrio” mai veramente raggiunta dal 1927, mentre si stava affermando, prepotentemente, la nuova Turchia, ad oggi.

Occorre dire che gli storici si stanno occupando intensamente, di nuovo, del Mediterraneo, inteso come “oggetto in sé” di ricerca (molto fluido, ovviamente), e non solo occorre citare i noti eredi di Fernand Braudel come David Abulafia, Lincoln Paine, Nick Purcell, ovvero gli autori di grandi opere di sintesi, tra gli altri (ma ci pare giusto citare anche sia le pregevoli opere manualistiche italiane (Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo, Guida 2009, di Francesca Canale Cama, Daniela Casanova, Rosa M. Delli Quadri, sotto la direzione di Luigi Mascilli Migliorini, e i lavori tecnici di storia economica di Emanuele Felice a Barcellona o Maria Sofia Fusaro a Exeter, nonché l’immensa mole di lavoro scientifico e di documenti primari messi a disposizione del pubblico proprio da Mediterranea, il centro studi palermitano che fa capo a Orazio Cancila), oltre al gigantesco lavoro portato avanti dai francesi, in particolare dalla Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme di Aix-Marseilles (un eccezionale partenariato CNRS e università, che si dovrebbe prendere ad esempio in Italia), creata da Robert Ilbert nel 1997; e l’unico centro, forse, a tenere nella giusta considerazione quello che potremmo chiamare l’altra metà del cielo, o piuttosto, l’altra metà del mare, il mondo islamico.

Uno tra i maggiori storici contemporaneisti italiani, inoltre, Nicola Labanca, ha dedicato di recente un importante,, ma problematico, appunto, intervento al Mediterraneo, disponibile in rete: “La decolonizzazione del Mediterraneo. Una chiave per capire il presente” (ringrazio la collega Prof. Paola Villani per avermelo segnalato), ove mette in guardia da soluzioni troppo ottimistiche, come quelle di Danilo Zolo e Franco Cassano, esposto ne L’alternativa mediterranea, seguendo un filone che definirei lirico-buonistico-crepuscolare di posizioni sul Mediterraneo (la lirica finisce sempre nei cimiteri, come quello, appunto, “marino” di un grande amante del Mediterraneo, Paul Valéry, il quale era non solo di Séte, ma anche mezzo genovese da parte di madre, o si pensi al “pescatore” del pessimista mediterraneo de André) da Biamonti a Predrag Matvejević (e infiniti seguaci sull’italiche sponde); e dove giustamente sostiene non solo l’idea di un Mediterraneo “frammentato” più che “unito” (per quello che possono valere tali categorie), ma anche il fatto che senza la comprensione dell’evoluzione degli “stati di terraferma”, dei grandi imperi di terra come quello absburgico, russo, ma anche ottomano, non si comprende nulla di quello che avviene ai loro margini, ovvero nel bacino mediterraneo. Si tratta di un filone molto ancorato ad una visione idilliaca, dalla prospettiva di uno yacht, appunto, del Mediterraneo, propria di una lunga tradizione, da Guy de Maupassant a Emil Ludwig (senza contare gli innumerevoli inglesi come il maggiore Gambier-Parry, di una importantissima famiglia), le cui pagine di Am Mittelmeer, ad esempio, del 1923, racchiudono tutta una serie di mitologie e lirismi mediterranei che si aprono con Genova e i suoi Van Dyck, e si chiudono con Venezia, circolarmente, quasi, e le sue meraviglie.

Ma il discorso tocca anche altri temi.

Naturalmente, io guardo molto criticamente a o quella posizione radicale e foriera di tante sciagure che è propria di Samuel Huntington, ovvero la teoria dello “scontro di civiltà”, teoria che non ho mai personalmente condiviso, per ovvi motivi, essendo le distinzioni sociali ed economiche, per me, molto più forti di quelle religiose. Ed essendo una teoria che giustifica un interventismo americano che si sta dimostrando mostruosamente cieco o quantomeno unilaterale: se è vero che nel giorno del Ramadan 2015 un attacco a spirale del Califfato in tutto il Medio Oriente e la Tunisia si è svolto mentre tutta l’attenzione strategica NATO, ovvero americana, era concentrata sui confini ucraini.

Da un lato dunque consiglio, come alternativa a Huntington, l’altrettanto provocatorio libro di Richard W. Bulliet, La civiltà islamico-cristiana. Una proposta (Laterza, 2005); dall’altro, rifiutando l’idea di un Cassano e di uno Zolo di un “Mediterraneo progressista”, ma anche ponendomi criticamente verso Labanca, proverò, qui e ora, a dare qualche soluzione alternativa di lettura del Mediterraneo di oggi. La Libia, per cominciare, e correggere Labanca, non è ricca, è potenzialmente ricca, per le risorse naturali di una parte sola di un paese “inventato” dall’Italia nel 1911, e composto da tre realtà veramente distinte, di una, il Fezzan (dalla storia veramente inquietante ricostruita perfettamente da Paolo Soave in Il Fezzan. Il deserto conteso 1842-1921, Giuffrè 2001), del tutto distinta dal Mediterraneo eppure capace, a riprova della bontà, in questo, delle tesi di Labanca, di condizionarne potentemente il destino.

Dal punto di vista di uno storico liberale, il Mediterraneo degli anni Duemila appare esattamente il contrario rispetto alla visione rosea di Zolo-Cassano e compagnia, è ben poco progressista, e appare invece progressivamente diviso sia nella sua tradizionale sezione “latitudinale” (Nord-Sud) sia in quella “longitudinale” (Ovest-Est). Della divisone “longitudinale” parlerò meno, ma esiste eccome, si pensi al divario economico tra Liguria e Veneto, per rimanere nella sola Italia settentrionale, ed ha importantissime radici storiche, legate ad esempio all’insana, ma ovvia idea, di privilegiare il Tirreno rispetto all’Adriatico dopo l’unificazione italiana.

La divisione Nord-Sud risale a fattori storici importanti, ad esempio la mancata industrializzazione dell’Impero Ottomano (in Italia fu tardiva, ma ci fu, in Spagna recentissima, ma c’è stata) che rimase troppo a lungo un impero fondato sull’agricoltura, e solo parzialmente sui commerci, come Sevket Pamuk, e numerosi altri storici economici turchi, hanno messo in luce, per il Settecento, secolo peraltro di consolidamento economico e ripresa dell’Impero nonostante le sconfitte inflittegli dai russi, ma anche e soprattutto per l’Ottocento.

La mancata industrializzazione, o la tardiva industrializzazione della sola Turchia ormai sciolta da obblighi e pretese imperiali, ha fatto mancare il passaggio fondamentale al terziario. Può esistere un terziario avanzato senza un retroterra industriale: forse sì, ma solo in peculiari situazioni di ricchezze provenienti da altre fonti (naturali, come negli Emirati), di privilegi storici e di posizione (Montecarlo), o, per rimanere nel Mediterraneo, di compresenza di settore industriale e settore terziario avanzato come in Israele. L’illusione, inoltre, che intere economie si possano reggere sul turismo, è quella che sta condannando alla miseria la Sardegna, per fare un solo esempio.

Se si guardano ai dati macroeconomici, non solo il divario nella sezione latitudinale del Mediterraneo è immenso, ma vi sono ampie porzioni di paesi come l’Italia (tutto il Meridione, industrializzato e molto ma solo prima dell’Unità) ma anche come la Spagna (l’Andalusia, 17 comunità autonome, occorre ricordare), che stanno seguendo il corso della storia al rovescio e che sono sempre più tragicamente attratte nella miseria del Mediterraneo del Sud, verso quel mondo arabo che senz’altro ha conosciuto momenti migliori, in particolare quando l’Andalusia, e la Sicilia, ne facevano in tutto e per tutto parte.

Il reddito pro-capite della Sicilia e della Sardegna sta avvicinandosi paurosamente a quello del Marocco, Tunisia, Libia (la Libia ha circa 11.000 USD pro-capite, la Sicilia si aggira intorno ai 16.000), ben al di sotto di quello francese, catalano, veneto, e meno della metà di quello lombardo. “Alternativa mediterranea, Mediterraneo progressista?”. Non è così. Nella Tunisia esaltata fino a pochi mesi fa come paese tranquillo, ricco, “avanzato”, ove gli italiani negli anni Ottanta (si pensi al caso Craxi) costruivano le proprio sontuose dimore estive, le due stragi di questi ultimi mesi segnalano una situazione contraria, il fondamentalismo islamico sta mettendo inquietanti radici, in un paese, sconvolto da una rivolta estesa, che (come del resto nessun paese al mondo) non può certo prosperare fondando tutta la propria economia sul turismo, ma neanche sulla pesca, con realtà atlantiche tipo Pescanova (Vigo) e multinazionali, che stanno ormai monopolizzando il mercato (globale).

Se poi continuiamo nella disamina dei fattori geopolitici che destabilizzano questo “mare nostrum” che ora è propriamente un “mare nullius”, con flotte sospette che vi si aggirano, abbiamo la denatalità italiana, spagnola, parzialmente anche francese, compensata da una spropositata natalità in paesi come l’Egitto (e anche la Siria). L’Egitto, che all’inizio dell’Ottocento aveva circa 4 milioni di abitanti, e ne contava circa 15 milioni nel 1936, anno in cui venne dichiarata l’indipendenza (molto parziale per Nasser, e aveva ragione), ne ha ora circa 80 milioni, che le proiezioni indicano in 90 milioni nel 2030 (tra quindici anni). Si tratta di una crescita sostenibile? Il liberalismo ha troppo spesso ignorato Malthus, ma si può essere a favore di una crescita limitata della popolazione senza essere maltusiani.

La Siria, che è paese mediterraneo, almeno parzialmente, e storicamente legato ai traffici che portarono ricchezza e peste in Europa (Damasco e Aleppo sono come Fez in Marocco o Firenze e Pisa in Italia o Exeter in Inghilterra: non direttamente sul mare, ma legate al mare e ai commerci in modo vitale), ne conta 25 milioni. Quando, nel 1946, nel “giorno dell’Evacuazione” i francesi lasciarono il paese consegnato loro in mandato, per la precisione il 17 aprile, ne aveva circa 3 milioni. Si tratta, ce lo domandiamo di nuovo, di una crescita sostenibile?

Ma i fattori destabilizzanti sono anche altri, che è bene ricordare. La Turchia, paese in crescita problematica, con una capitale che è una Città del Messico sul Bosforo, in continua, disordinata crescita, con una potente flotta aerea mercantile, le Turkish Airlines, sta riconquistando terreno in tutti i vecchi domini ottomani, compreso il Kazakhstan, ma anche nella vecchia “Turchia d’Europa” balcanica, dal Cossovo alla Bosnia, fino alla Slovenia, esclusa quest’ultima essendo sempre stata nell’orbita asburgica. Si tratta di una penetrazione anche culturale, si pensi a realtà per ora piccole, come la International University di Sarajevo (IUS), di cultura e management turco.

Lo “Index of Economic Freedom”, l’indice della libertà economica messo insieme e pubblicato con aggiornamenti ogni anno dalla Heritage Foundation, dal Wall Street Journal, e dall’Istituto Bruno Leoni per quel che riguarda l’Italia, ci consegna un’immagine pessima del Mediterraneo, altro che progressista o progressivo o modello di sviluppo, integrazione, “dialogo”. Profondamente indietro nell’evoluzione del mondo. Si tratta del materiale che ho utilizzato per il mio corso insubre di “States, Economy, and Global Markets” cui ho fatto cenno all’inizio di questo paper.

Tanto per cominciare, tra gli otto paesi non classificati per grave instabilità politica e dunque mancanza di dati, lista da cui va escluso il ricchissimo Liechtenstein che fa storia a sé e non rilascia dati sul suo grandissimo benessere perché non vuole, due, Siria e Libia, sono mediterranei, l’altro, il Cossovo, non lo è tecnicamente per pochi chilometri ma la sua storia è sempre stata legata all’evoluzione mediterranea, mentre Afghanistan, Iraq, Somalia e Sudan sono stati legati a doppio filo alle potenze mediterranee e alle loro politiche, in grandi e piccoli “giochi”. Se poi invece ci spostiamo al vertice, il primo paese che compare nella classifica è Israele, alla posizione numero 33. I grandi colossi mediterranei, Francia, Italia, Spagna, Turchia, sono molto più in basso. Dopo Israele abbiamo infatti Cipro al 45esimo posto, ma Cipro inevitabilmente soffrirà della crisi greca, paese cui è ovviamente legato sotto molteplici rispetti.

La libertà economica si riflette anche sul reddito pro-capite, vero indicatore di ricchezza? Sì, dal momento che Israele ha un reddito pro-capite inferiore, nell’area mediterranea, solo, e lievemente, alla Francia. Italia e Spagna sono intorno ai 30.000 USD pro-capite, ma i divari interni sono tra i maggiori al mondo, tra Sud e Nord in Italia, tra Catalogna, Paesi Baschi da una parte e Andalusia (e numerose altre realtà) dall’altra, in Spagna.

Il Mediterraneo appare tragicamente diviso, arretrato nel contesto dell’economia mondiale (nonostante il 30% del traffico mercantile mondiale ancora passi per le sue sponde), e le sue differenze possono ammantarsi di coloriture religiose, ma queste coloriture nascondono la drammatica realtà di un divario socio-economico, e di conseguenza culturale, straordinario. Un divario persino maggiore di quello di altri mari che dividono realtà politiche per sezioni latitudinali. Ad esempio il Golfo del Messico, il “Mediterraneo americano” secondo il giornalista del secolo scorso Vico Mantegazza, gran esperto di questioni, appunto, mediterranee (da notare poi che l’American Mediterranean è divenuto nozione geopolitica e geografica ben assestata, includendo poi il mar dei Caraibi). Il reddito pro-capite del Messico è un terzo di quello degli USA, ma è in continua crescita, e si assesta, a PPP, sui 15.000 USD, molto dignitoso. Il reddito pro-capite egiziano, uno stato che avrà presto la popolazione messicana, ovvero oltre 100 milioni di cittadini, è di 6500 USD pro-capite, che è un quinto di quello del tradizionale referente e confinante, ora amico ora più spesso nemico, Israele. O della Francia, legata storicamente a doppio filo con l’Egitto, o ancora dell’Inghilterra, di cui l’Egitto fu colonia, e non per breve tempo, bensì de iure dal 1882 fino al 1936. La situazione mediterranea viene replicata, piuttosto, nei Mar Caraibico, dove abbiamo al nord gli USA, al centro Cuba e Haiti e la Giamaica in situazioni molto problematiche, e al Sud un Venezuela allo sbando.

Che poi dalla prospettiva di una bella spiaggia delle Isole Vergini danesi fino al 1917, St. John, ad esempio, o St. Thomas, ci si compiaccia nell’affermare “Come si sta bene ai Caraibi!”, è attività in cui si sono probabilmente esercitati, magari da Veglia o Palau o Nervi, tutti coloro che dipingono con colori tenui e dolci il Mediterraneo, trasformandolo in un olio rasserenante, alla Sacheri, per i buoni salotti della borghesia ottocentesca.

Ma la situazione non è per niente rosea. E pare, veramente, destinata a peggiorare.

Proprio per questo, con notevolissima intensità, crescono gli studi dedicati a questo mare, poiché si intuisce che l’instabilità che lo caratterizza potrà avere conseguenze a lungo termine per gli equilibri, o piuttosto, la crescita mondiale.

In un tale contesto azzardare prospettive per il futuro è veramente difficile. E tuttavia proprio la storia fornisce la chiave per interpretare il futuro nel modo migliore. Al momento, sono pochissimi i paesi che si affacciano su di esso in crescita economica, forse il solo Israele – paese per altri versi estremamente problematico – è in una tendenza crescente. La recessione, anche grave, tocca quasi tutti gli altri. Per non parlare degli “altri” mediterranei, il Mar Nero, il Mar Caspio, il Mar Rosso, e il Golfo persico. Sembra che la Storia, che è iniziata qui, qui torni potentemente ad agitarsi, con conseguenze difficilmente prevedibili.

Paolo L. Bernardini è docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como.

12
Ago
2015

Migranti e Italia: la Chiesa ora esagera

Nel 2014 in Italia son sbarcati 170 mila migranti, e 120mila nelle sole isole siciliane. Nel 2015, il trend in corso conferma quella cifra, anzi secondo la polizia di frontiera ai ritmi dei salvataggi di questi ultimi giorni si potrà superare la quota di 200 mila.

Queste le ruvide cifre dell’emergenza migranti nel nostro paese. Cifre che rendono pochissima cosa l’accordo europeo di redistribuzione di 32mila unità complessive. Ma anche numeri che dovrebbero far riflettere le persone assennate, prima di prorompere in tirate polemiche francamente stupefacenti. Mi riferisco questa volta non alla politica italiana, ma alla Chiesa cattolica. Al papa Bergoglio, che dall’inizio del suo pontificato rivolge appelli all’Italia ad accogliere tutti i migranti, fino al punto di aver definito pochi giorni fa strage e omicidio volontario non farlo. Ai vescovi italiani, che con monsignor Galantino hanno dato dei “piazzisti da quattro soldi” ai politici italiani che chiedono di distinguere tra rifugiati che hanno i titoli per essere accolti, e vasta maggioranza di migranti che sono da reimpatriare, o da redistribuire secondo criteri paritari con altri paesi Ue.

Per rispetto e convinzione, non applico ai vertici della Chiesa i criteri della polemica che la politica alimenta al suo interno, o che i media riservano giustamente talora alla politica. Stupefatto dunque dall’aspra durezza delle parole usate dal pontefice come dai vertici della Chiesa italiana, ho deciso di capire meglio. Umilmente, ho ripreso in mano il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, ufficialmente elaborato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Per comprendere, dottrina alla mano, la scelta di toni tanto duri, visto che non si tratta certo di procacciarsi voti alle prossime elezioni contro Salvini o contro Grillo.

Al capitolo ottavo, dedicato alla comunità politica, i paragrafi dal 379 al 382 sono chiari e illuminanti. “Gesù rifiuta il potere oppressivo dei capi delle nazioni, ma non contesta mai direttamente le autorità del suo tempo. San Paolo invita ai doveri dei cristiani verso le autorità, demandate al bene comune. San Pietro esorta i cristiani a un’obbedienza responsabile verso le autorità che fanno rispettare la giustizia, assicurando calma e tranquillità. Solo quando la politica si autodivinizza, allora diviene la Bestia dell’Apocalisse, e contro di essa come contro Satana bisogna essere duri fino al martirio”. Sono tutte citazioni testuali.

Quel che mi chiedo è se, di fronte a politici che – con toni diversi, e a volte ricorrendo a parole criticabilissime – chiedono comunque misura e discernimento nell’accogliere 200mila migranti l’anno, i vertici della Chiesa cattolica usino le parole che hanno usato identificandoli ormai nella Bestia dell’Apocalisse. Non so voi, ma la risposta che mi do è che no, non è francamente possibile. I numeri del fenomeno che si abbatte sull’Italia devono indurre anche la Chiesa al rispetto di quel senso della misura e del bene comune che gli apostoli identificavano come il metro vero dell’atteggiamento e del tono dovuti dai cristiani alla politica.

Ieri il responsabile immigrazione della Caritas, Oliviero Forti, polemicanente rintuzzando Salvini, Zaia e altri che chiedono quanti migranti sia disposti a ospitare la Chiesa italiana, egli per primo non ha smentito che la disponibilità nel 2014 a fronte di 170mila sbarcati non era superiore alle 15 mila unità. La lista dei conventi che ospitano migranti messa on line dalla Cei è smilza. E non sono mancati casi come quello della Diocesi di Crema, che ha comunicato la sospensione dell’accoglienza agli immigrati in un convento della città, ”a causa della tenace e strenua opposizione di molti genitori” di un’attigua scuola. Certo, come ha ricordato Forti, in diversi casi sono le caratteristiche architettoniche dei vecchi conventi e seminari a non essere adeguate ai criteri di sicurezza necessari per ospitare i migranti. E ha concluso che occorrerebbe un tavolo istituzionale per risolvere il problema. Ecco, quest’ultimo appello ci sembra più consono alla gravità del tema. La Chiesa cooperi con lo Stato, visto che le 23mila parrocchie italiane possono di sicuro far di più che offrire accoglienza a 15mila migranti.

Le gerarchie cattoliche non possono pensare che milioni di italiani non leggano trascrizioni come quelle pubblicate dalle indagini di Mafia Capitale a Roma, in cui Buzzi dichiara esplicitamente “tu c’hai un’idea di quanto ce guadagnamo co’ gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E anche le cooperative bianche e cattoliche, e politici che a loro facevano rifierimento, sono coinvolti in indagini che mostrano come tra il corrispettivo assicurato dallo Stato e i costi veri sostenuti, il traffico di migranti sia nel nostro Paese occasione di turpe mercimonio. Non meno orrendo di quello degli scafisti in mare. E con tanti saluti alla fede in Cristo e ai doveri di solidarietà che le gerarchie predicano.

Lo Stato italiano, su questa materia, è pieno di pecche. Finisce per demandare a Comuni ed Enti Locali la sistemazione di un numero sempre più elevato di migranti dopo aver assolto ai doveri di salvarli in mare, perché non si è dotato mai di un efficace e trasparente sistema di gestione nazionale del fenomeno. Ma proprio per questo milioni di italiani – al di là delle mire politiche di Salvini e Grillo – sono allarmati per l’impatto di un fenomeno di queste proporzioni. Che ogni sera ai tg diventa più gigantesco.

Non deve sfuggire alla Santa Sede che l’altro megacorridoio europeo di ingressi in Europa paragonabile quantitativamente al nostro, quello centreuropeo sulla frontiera balcanica, vede in atto strategie di paesi di governi e sensibilità diverse, come Ungheria e Germania, volti però a stringere le viti dell’accoglienza, ampliando la rete dei cosiddetti “paesi sicuri” da cui transita il flusso, come Serbia e Macedonia , e dichiarando sin d’ora che i migranti che raggiungono le loro frontiere saranno riaccompagnati a quei paesi di precedente transito. Di conseguenza resta solo la porta sud, spalancata agli arrivi in massa: cioè la porta mediterranea che sbocca sulle coste italiane. Spalancata anche perché le gerarchie cattoliche dichiarano apertamente che uno Stato che si ponga anche solo il problema della sostenibilità del fenomeno, del discernimento di chi possiamo ospitare rispetto a chi no, è uno Stato assassino. Ed è dell’Italia che stanno parlando, non di tutti i paesi europei.

Ecco perché un appello a misurare le parole delle gerarchie cattoliche mi sembra necessario. Tanto più quando si parla a nome di un’autorità che non è di questo mondo, ma che con le concrete possibilità offerte dal nostro dolente paese deve per forza fare i conti. Per non sconfinare in un’utopia che del cristianesimo non è parte, perché la sua dottrina insegna a fare il meglio possibile rispetto alle risorse finite e ai difetti degli umani, ai quali – con tutta la migliore volontà – i miracoli sono impossibili.

11
Ago
2015

Serve il Certification Officer, contro le megaretribuzioni sindacali opache per legge

Il caso di Fausto Scandola, espulso della CISL su richiesta ai probiviri della segreteria nazionale del sindacato, mostra con evidenza perché serva finalmente una legge sui doveri del sindacato: innanzitutto quelli democratici verso i suoi iscritti, e di trasparenza verso tutti i cittadini. Purtroppo, la materia dello scandalo mostra anche perché la legge non ci sarà.

Era fine febbraio 2014, quando a un dibattito alla Bocconi la segretaria generale della Cgil, ironica e polemica verso uno studente che criticava il sindacatone rosso, lo fulminò con una domanda secca: “ma tu lo sai quanto guadagna un lavoratore italiano”? Lo studente rimase interdetto. Eppure la risposta pronta c’era. Sì, noi sappiamo perfettamente dall’Istat qual è il reddito medio procapite degli Italiani, e di come al sud sia poco più della metà che al nord, e per questo la media italiana supera di poco i 20 mila euro lordi. Quel che invece non sappiamo affatto è il reddito dei sindacalisti. L’unico modo di saperne qualcosa è che qualcuno che li conosce davvero si decida a parlarne. Come è avvenuto ora a Fausto Scandola, iscritto alla CISL dal 1968, che ha pubblicamente chiesto alla sua organizzazione come possano davvero dirsi rappresentanti dei lavoratori dei dirigenti sindacali – dei quali ha fatto nomi e cognomi – che, sommando compensi per il proprio ruolo e quelli per incarichi ricoperti grazie al proprio ruolo, arrivano a sfiorare i 300mila euro lordi di reddito annuo. Cioè più del Capo dello Stato italiano, ovviamente più di Obama, nonché più del massimo consentito per legge a qualunque dirigente pubblico. E ben 15 volte tanto, rispetto al reddito medio degli italiani.

Qual è il motivo dell’espulsione di Fausto Scandola? E’ accusato di aver condotto un’indagine riservata su dati personali coperti da privacy, e di ingenerare danno pubblico al sindacato. In un paese dove il sindacato fosse tenuto a obblighi di trasparenza, lo scandalo sarebbe l’espulsione. Perché il problema non è Scandola, che andrebbe anzi nominato alla testa dell’organo di controllo nazionale del suo sindacato. Il problema sono le migliaia di dirigenti delle confederazioni sindacali – ben oltre 20 mila – che queste cose le sanno benissimo, e che tacciono oggi come hanno taciuto ieri per anni. Perché per moltissimi di loro la carriera di dirigente sindacale è stata una pacchia.

Ogni tanto, negli anni, le confederazioni dichiaravano delle cifre di compenso dei vertici apicali. Fino ai tempi di Epifani segretario della Cgil, la sua retribuzione mensile lorda era dichiarata di poco superiore ai 3mila euro (netti, dunque sui 75 mila euro lordi annui), e la dozzina di membri della segreteria nazionale confederale sotto i 3mila euro. Leggermente superiore quella di Angeletti alla Uil, e dei suoi membri della segreteria rispetto a quelli Cgil. Mentre il capo della Fiom, Landini, ancora oggi starebbe sotto i 3mila euro, visto che nel 2013 ne dichiarava 2250 (sempre netti), aggiungendo che era la retribuzione più alta di tutta la FIOM: alla quale va comunque riconosciuto che, sotto la gestione Landini, è diventata la federazione sindacale che pubblica on line la maggior quantità di dati rispetto all’intero universo sindacale italiano, buste paga comprese.

In realtà, eccezion fatta per la FIOM, le cifre fornite dalle confederazioni sono sempre state del tutto non controllabili. La vicenda del predecessore della Furlan, Raffaele Bonanni travolto proprio dall’emergere della sua incredibile crescita di retribuzione negli ultimi 5 anni di guida della CISL, avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta. Che puntualmente non è avvenuta. Bonanni è andato a casa e sparito in silenzio, dopo che dai 118mila euro lordi del 2006 passò vertiginosamente ai 336mila dell’ultimo anno di guida CISL. E naturalmente facendo media piena a fini previdenziali degli ultimi 5 anni di maxi-salari, perché non soggetto alla riforma Dini né Fornero e potendo contare su pensione dunque pienamente retributiva. Della Furlan, l’attuale leader Cisl, conosciamo la retribuzione 2008, che era di 99mila euro lordi, e siamo in attesa di capire ora a quanto è salita: visto che il 9 luglio scorso la CISL ha approvato un nuovo regolamento nazionale, per il quale la retribuzione massima dovrà essere quella del segretario confederale. Quanto alla trasparenza, la Furlan afferma che “verrà messo tutto on line”. Potete stare certi che non sarà così. E non solo perché, come sappiamo oggi grazie a Scandola espulso dalla CISL, Bonanni non era certo solo, a veleggiare intorno a quelle cifre. Il fatto è che anche per le precedenti regole vigenti in Cisl avrebbe dovuto esserci un tetto al cumulo retributivo, che come si vede non era affatto rispettato: tanto, senza obblighi di accountability pubblica, basta la privacy a coprire tutto.

Quindi, ancora una volta i nuovi impegni CISL saranno scritti sull’acqua. Per due ordini di ragioni. La prima è che ridicolmente ci direbbero solo i compensi diretti per gli incarichi sindacali, e non quelli complessivi per gli incarichi in società consorzi e quant’altro ottenuti grazie ai ruoli sindacali: è la privacy all’italiana, bellezza. In nessun paese civile viene riservata a chi svolge ruoli pubblici, ma da noi invece è così. Per questa stessa ragione, non possiamo sapere i nomi dei 17.319 sindacalisti che hanno beneficiato della norma contenuta nel decreto 564 del 1996, sulle cosiddette ‘pensioni d’oro’, norma che ha permesso a dirigenti e dipendenti sindacali di avere una pensione integrativa attraverso il pagamento anche di un solo mese di contributi da parte delle organizzazioni sindacali.

La seconda ragione è che nel nostro paese, come abbiamo detto e ridetto mille volte, la politica si è ben guardata dall’attuale l’articolo 39 della Costituzione, cioè disciplinando per legge i diritti ma anche i doveri dei sindacati , tra cui il rispetto pieno della democrazie interna e gli obblighi di trasparenza finanziaria. Per questo, i sindacati in Italia sono praticamente associazioni private, e non sono affatto tenute a redigere un bilancio consolidato nazionale, né economico né patrimoniale. Non sappiamo nulla del loro reale patrimonio immobiliare, e dobbiamo ogni volta fare noi giornalisti dei conti approssimativi su quanto incassino dai CAF fiscali, e dai patronati.

Nessun obbligo di bilancio consolidato consente di aggirare con enorme facilità il quesito di quanto pesi la retribuzione di dirigenti e quadri sindacali sul totale delle risorse delle confederazioni. Un dato che i loro iscritti dovrebbero considerare di elementare informazione democratica, esattamente come ogni dipendente Fiat sa quanto guadagna Marchionne. La Furlan dice ora che l’impegno diverrà girare alle strutture territoriali e aziendali il 70% delle entrare della CISL: ma di quali entrate, quelle derivanti dagli iscritti, o quelle a cui si perviene sommando CAF, patronati e immobili? Perché se sommiamo la stima di entrate che le tessere di iscritti lavoratori (oltre 6 milioni) e pensionati (di più) producono ai tre sindacati confederali, arriviamo intorno ai 900 milioni dai primi e 300 dai pensionati, circa 1,2 miliardi. Ma la somma si moltiplica, sommando i proventi da CAF, patronati, e redditi dalla gestione di – si stima – oltre 10 mila immobili di Cgil, Cisl e Uil.

Qual è l’alternativa, a questo regime di pazzesca discrezionalità difeso con le unghie proprio dai sindacati che gridano ogni giorno per la mancata trasparenza delle imprese e della pubblica amministrazione? Francamente, ci siamo stufati di aspettare il giorno in cui verrà una legge nazionale dedicata ai doveri sindacali. Quel giorno non ci sarà, perché nessuno a destra né a sinistra – neanche Renzi, al quale va però riconosciuto il merito di aver dimezzato i distacchi sindacali con il decreto PA dello scorso anno – avrà la voglia di beccarsi la protesta che verrebbe scatenata da decine di migliaia di professionisti dell’agitazione. Ripetiamo: dell’agitazione, non della contrattazione.

Ergo, adottiamo almeno il modello britannico. Nel Regno Unito un organo pubblico, il Government Certification Officer, ha il compito di tenere ufficialmente gli elenchi degli iscritti a sindacati e associazioni datoriali, assicurarsi che non agiscano in frode né l’uno verso l’altro né all’interno della loro stessa organizzazione rispetto ai loro iscritti, e infine di esercitare il diritto di accesso ai loro bilanci e conti patrimoniali. Annualmente, grazie al Certification Officer, i lavoratori e i cittadini britannici sanno tutto delle retribuzioni di centinaia di sindacalisti, territoriali e nazionali, di ogni categoria e incarico. Attualmente, alcune decine stanno poco sotto o poco sopra le 100mila sterline annue lorde, la media sta sui 45 mila, moltissimi sotto. Oltre ai compensi sindacali, il Certification Officer ha diritto di conoscere anche bonus e benefit, comprese le macchine di servizio con autista. E come si vede dalla reazione dei media ai dati annuali, l’intero paese ha così elementi per conoscere direttamente i dati e farsi le sue idee, su come e quanto le Trade Unions paghino i propri dirigenti. Fate il paragone con l’Italia, giudicate voi cosa sia meglio.

 

6
Ago
2015

Rai: l’artiglio dei partiti, quando servirebbe una rivoluzione industriale

Peccato, peccato, peccato. Le nuove nomine RAI portano il segno di una scelta conservativa, effettuate a cavallo tra vecchia legge Gasparri e una riformetta che modifica solo i poteri del vecchio dg, rendendolo un ad di nomina governativa. Ma che comunque dovrà fare i conti con un cda scelto dai partiti, e una commissione parlamentare di vigilanza sempre invasiva. Renzi non ha creduto che la scadenza del contratto di servizio pubblico, nel 2016, significasse l’occasione per una duplice rivoluzione. La prima: che cosa sia e debba essere in futuro il cosiddetto servizio pubblico. La seconda: quale piano industriale debba darsi l’azienda RAI – che pubblica è e pubblica resta – noi privatizzatoti non demorderemo, ma siamo minoranza assoluta – ma che comunque potrebbe rompere l’equilibrio di stagnazione che contraddistingue l’offerta multimediale italiana, d’informazione e di intrattenimento.

Il primo punto è autoevidente. A conferma, basta paragonare l’indagine parlamentare britannica avviata un anno e mezzo fa in vista della scadenza della Royal Charter di servizio pubblico assegnata alla BBC. I partiti britannici si sono posti il problema fondamentale: che cosa sia il servizio pubblico e come evitare un’impropria commistione tra informazione di qualità, e logiche e proventi commerciali. Lo hanno fatto a fronte di una BBC che a David Cameron non piace, ma che già da anni ha la sua parte di servizio pubblico, la BBC Public Broadcasting, separata dagli altri servizi d’informazione mondiali e a tema della stessa BBC. Dove per “separata” s’intende che BBC PB non può usare proventi commerciali ma solo il canone, a differenza delle altre società di BBC che non costituiscono oggetto di servizio pubblico. Mentre i 12 trustees che governano la BBC sono presidenti di grandi banche e aziende private, direttori di grandi musei indipendenti, ex presidenti di grandi gruppi editoriali privati come quello del Financial Times, non uomini dei partiti. Sarà anche per questo, che la BBC in 8 anni ha ridotto i suoi costi del 22%.

Dalla parte opposta di un ideale rappresentazione dei diversi modelli di servizio pubblico radio televisivo, ci sono quelli dei paesi che nel tempo hanno deciso di abolire il canone: come Spagna, Olanda, Polonia. Di fatto, ai partiti e alla politica italiana, neanche questa volta è interessato un fico secco approfondire alcunché delle ragioni industriali, economiche e culturali che hanno prodotto in Europa regimi di servizio pubblico tanto diversi dal nostro. Con tanti saluti alla rottamazione e alla fame d’innovazione.

Poiché però è una pessima abitudine italiana ragionare per pregiudizi, venendo alle scelte industriali e di settore non vogliamo commettere l’errore di giudicare prima di averli visti in azione il nuovo cda, la nuova presidente Monica Maggioni e il nuovo dg di cui si resta in attesa come una sorta di “uomo del miracolo”. Senza troppe speranze, aspetteremo i fatti. Ma ciò non ci esime dal richiamare alcuni colli di bottiglia in attesa di essere risolti, e che sono la dannazione del sistema tv italiano.

Il punto non è l’equilibrio di bilancio della RAI. Sotto questo profilo, la gestione uscente Gubitosi-Tarantola ha chiuso il 2013 con un utile proforma di poco più di 5 milioni, e il 2014 addirittura sfiorando i 58 milioni. Naturalmente quest’ultima cifra è stata resa possibile solo da un’operazione straordinaria, non dal raggiunto equilibrio della gestione ordinaria: la quotazione delle torri di trasmissioni di Rai Way, realizzando così un incasso di 280 milioni e una plusvalenza netta di 228. Mentre l’anno prossimo, come tutti gli anni pari, sarà un bilancio difficile per la RAI a causa dei diritti tv dei grandi eventi sportivi, Olimpiadi ed Europei di calcio, che a proiezioni attuali di bilancio e senza scelte incisive riporterebbero la perdita verso i 150 milioni annui.

Ma ripetiamolo: il problema, per quanto importante, non è l’equilibrio di bilancio. In realtà bisogna aspettarsi che la politica giudicherà il neo super direttore generale innanzitutto dalle nomine alla guida delle testate storiche della RAI, attenta a ogni variazione del bilancino di potere tra vecchia destra e neo-vecchia sinistra. Invece, il nuovo super direttore generale dovrebbe invece stupire tutti, a cominciare dal proprio cda, ponendosi per esempio tre domande “di sistema”.

La prima: ha ancora senso considerare frequenze e satellite – le coordinate tecnologiche della triade Rai-Mediaset-Sky – come l’eterno campo di gioco in cui c’è chi incassa più pubblicità (in regresso da anni) e chi compensa col canone?

La seconda: ha davvero ancora significato che il servizio pubblico sia solo RAI, pur essendo implicitamente già fatta la scelta da parte della politica, e non sia invece interesse primario della RAI stessa estenderlo anche ad altri soggetti?

La terza: cosa può fare la RAI, per assecondare un balzo in avanti rispetto al gap digitale italiano, che finora l’ha vista in realtà prosperare ma che danneggia il paese e per l’azienda disegna un’eterna Roncisvalle di retroguardia?

E’ ovvio che per noi le tre domande avrebbero risposte obbligate. Primo: no, non ha più senso ragionare sulla vecchia tavolozza di frequenze e satellite, perché la sfida è quella degli smart device, della banda larga e del “pago per quel che vedo”: nel 2014 per la prima volta in Italia coloro che hanno visto immagini in streaming su multidevice hanno superato in percentuale coloro che restano fedeli alla vecchia tv. Secondo: sì, la RAI guadagnerebbe essa per prima un ruolo di traino civile e culturale se per prima immaginasse un servizio pubblico affidato per esempio anche a emittenti locali in pool, che restassero indipendenti ma con garanzie per rispondere ai criteri di servizio pubblico, e alle quali “offrire” supporti tecnologici da parte della Rai stessa. Non è affatto detto – se la politica non ci arriva – che la RAI non possa per prima immaginare un servizio pubblico più “tedesco”, cioè offerto anche da reti saldamente locali.

Terzo: i politici si riempiono la bocca della necessità di nuove fiction “italiane” per il mercato internazionale, ma con tutto il rispetto le sfide sono altre e innanzitutto tecnologiche. L’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali, dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di apparati ricettivi e decoder. I nuovi formati e linguaggi che sono necessari – nell’informazione e nell’intrattenimento – in un mondo in cui il ricevente pagante ha strumenti capaci di isolare ogni singolo dettaglio dell’immagine. La sfida tecnologica è la più importante. E’ quella battuta dai newcomers: Netflix, Discovery e via proseguendo.

L’anno scorso, abbiamo assistito a una cosa senza senso. La RAI ha quotato le sue torri per raddrizzare il bilancio a cui Renzi aveva inflitto un taglio di 150 milioni. Ma industrialmente l’operazione doveva essere del tutto diversa: mettere assieme le torri Rai, Mediaset e di Telecom Italia, con una ricaduta nazionale di efficientamento industriale e non di effimero beneficio finanziario per ciascuno dei tre sfiancati players, a fatturato calante da anni. Invece, apparentemente il governo ragiona in un modo singolare. Le grandi aziende telcos in Italia sono ansanti, e la politica le considera al guinzaglio – e talora le minaccia, come avviene per Telecom Italia – invece di usare per prima la RAI pubblica in un’ottica di accelerazione nazionale della banda larga e della strategia multi-device.

Naturalmente, speriamo di sbagliarci. Magari è la volta buona, che la RAI di questa nuova stagione ci lasci senza parole. Siamo pronti a metterci tutta la necessaria cenere sul capo e anche sulla lingua, se per buona sorte accadesse davvero. Ma dovessimo scommetterci sopra, allora no, non lo faremmo.