Integrazione ed egualitarismo—di Pietro Barabaschi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Pietro Barabaschi.
Attenzione. L’integrazione non dev’essere “ugualitarismo”. Spesso si sostiene che due popoli che hanno una ”cultura” totalmente differente per poter convivere non possano fare altro che “integrarsi”. Ovvero che le convinzioni, le abitudini, gli usi degli uni e degli altri debbano in qualche modo incontrarsi a metà strada, pareggiarsi, per produrre così una specie di “ugualitarismo”.
In barba alle sirene del relativismo, l’auspicio che si può, si “deve” fare, è il seguente: non si tenda a costringere i più “colti”, quelli la cui storia è un tessuto più elaborato e complesso, a rinunciare alla propria superiorità (sì, superiorità), neanche col pretesto di non “offendere” i meno colti.
Le culture superiori sono divenute tali in millenni di storia: una storia, come diceva Indro Montanelli, scritta col sangue. La loro eredità in termini di diritto e di libertà, di stili di vita, di usi, va preservata gelosamente. E’ dopotutto grazie a uno di questi prodotti culturali – il capitalismo – che talune società sono divenute tanto attrattive, anche per chi proviene da culture diversissime.
Il relativismo è parente stretto di certo “veterosindacalismo”. Che, per dirla con una metafora per nulla relativista, invece di spingere i somari a diventare cavalli costringeva i cavalli a diventare somari.