4
Set
2015

Il “diritto di avere diritti”—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Sul principale quotidiano nazionale Sabino Cassese scrive sul dramma dei migranti in modo del tutto condivisibile. Si parla del “diritto di avere diritti”, un motto di grande forza di Hannah Arendt, presente nella sua opera “Le origini del totalitarismo”. Ma spesso i motti, le singole frasi, per quanto potenti ed evocative, vanno spiegate. Si spiega, in questo caso, molto bene, che “il diritto di avere diritti deriva dall’appartenenza ad una comunità e quando il migrante esce dalla sua comunità la chiusura delle frontiere lo precipita in un limbo giuridico”. Penso che oggi il problema, la causa delle incomprensioni, stia in cosa si intende per diritti ai quali i migranti hanno, appunto, diritto, quando invece le frontiere si aprono e che sono, come viene ben chiarito, gli stessi diritti di noi europei. Read More

3
Set
2015

Costruisci la tua autolinea—di Vito Foschi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Vito Foschi.

Il sistema dei trasporti, nonostante la continua evoluzione tecnologica, complice anche l’ingombrante presenza dello stato, rimane ancorato a vecchie logiche. Da ciò nasce l’esigenza di ripensare il sistema dei trasporti, da un sistema centralizzato e producer-driven, in cui è il produttore a dettare tempi e modi di erogazione del servizio, ad un sistema decentralizzato e client-driven, in cui sono le esigenze dell’utente a guidare il produttore nella creazione e fornitura di servizi efficaci. Una struttura tecnologica quale Internet potrebbe fungere da collettore delle esigenze di trasporto degli utenti, che una volta raccolte, possono servire per la creazione ed erogazione di servizi di trasporto. In questo articolo descriveremo alcune idee che si spera possano essere di stimolo a migliorare il trasporto pendolare delle grandi città. Read More

3
Set
2015

Un altro buco nell’acqua—di Carlo Amenta e Luciano Lavecchia

Questo articolo, a firma di Luciano Lavecchia e Carlo Amenta, è stato originariamente pubblicato su Livesicilia.

Ad appena due anni dall’ultimo intervento normativo l’Assemblea regionale siciliana (legge reg. 2/2013) ha deciso di intervenire nuovamente, ed in maniera molto intrusiva, nella regolamentazione del sistema idrico integrato. Se, per un verso, l’interesse per un settore tanto delicato, gravato da problemi notevoli, è apprezzabile, dall’altro ci sembra che le scelte fatte dal legislatore regionale difficilmente possano essere risolutive. Partiamo da alcuni osservazioni preliminari: a dispetto delle dichiarazioni di apertura della legge in cui la risorsa idrica si definisce come “bene essenziale ed insostituibile per la vita”, la realtà del sistema idrico in Sicilia è fatta di reti colabrodo: secondo i dati Istat aggiornati all’anno 2013 circa la metà dell’acqua immessa in Sicilia si perde.

Al termine del suo utilizzo, l’acqua ritorna spesso in mare senza prima essere stata debitamente trattata contribuendo così ad inquinare considerevoli parti delle coste siciliane, poiché la metà dei comuni siciliani non ha mai adeguato i propri impianti di depurazione. Queste criticità sono il risultato di anni di mala gestione, spesso di natura pubblica, oltre che di un quadro non certo di regole che ha gettato nel caos il sistema idrico siciliano: la precedente riforma è rimasta un’incompiuta, con alcuni degli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) che non hanno mai scelto il soggetto a cui affidare la gestione del servizio, con comuni che non hanno mai consegnato le reti idriche ed un soggetto pubblico, l’Ente Acquedotti Siciliani (EAS), con centinaia  di milioni di debiti. A completare questo desolante quadro è intervenuto anche il curioso esperimento di Siciliacque, la società con capitale misto Regione e privati che ha sostituito l’EAS nella gestione del c.d. “sovra-ambito”. Read More

2
Set
2015

La crescita riprende in Italia, ma….

Le tre serie di dati rilasciati dall’Istat significano in sostanza quattro cose. Primo: la ripresa italiana inizia a prendere corpo, con tanti “ma..” da rilevare. Secondo: oltre ai “ma..”, dal mondo vengono segnali di rallentamento. Terzo: sulle due premesse, il governo deve imperniare la legge di stabilità. Quarto: le priorità devono essere chiare.

Che la ripresa assuma qualche decimale di punto in più e non in meno è ovviamente solo positivo. Non c’è niente di più sciocco di una divisione politica sui miglioramenti del Pil stimato nel primo e secondo trimestre del 2015. Se c’è qualcosa di intollerabile e malsano, è l’eccesso di propagande opposte fiorite sotto questo governo nell’interpretazione dei dati congiunturali, alimentata e aggravata dal caos ingeerato pubblicamente dalla stessa proliferazione di dati (vedi le comunicazioni obbligatorie sui contratti da parte del ministero del Lavoro). L’occupazione aumenta di 180 mila unità a fine giugno 2015 sull’anno precedente, e di 235 mila unità a fine luglio. E’ ancora presto per stimare quanto si debba alla decontribuzione per tutti i nuovi contratti, e quanto al Jobs Act. Piuttosto, il fatto è che gli occupati nei primi due trimestri dell’anno diminuiscono sul 2014 tra i 15 e i 34 anni di oltre il 2%, e di oltre l’1% tra i 25 e i 49 anni, mentre aumentano quasi del 6% sopra i 50 anni. Molti useranno questo dato a sostegno della necessità di abbassare l’età pensionabile, innalzata dalla legge Fornero, per far spazio ai giovani. Il ministro Poletti, vaste aree della maggioranza e dell’opposizione, la pensano tutti così. Al contrario, è un bene che l’occupabilità salga sopra i 50 anni, e il punto è attivare il Jobs Act anche per le politiche attive del lavoro – la parte sinora mancante, completamente dimenticata – per i giovani. I rapporti di lavoro a tempo salgono in percentuale più di quelli a tempo pieno: segno che le imprese ancora non ci credono troppo, alla ripresa. In sintesi: bene i più occupati, ma i dati stessi disaggregati dicono che ancora non ci siamo. Quanto al PIL, è un bene che vi sia una ripresa della domanda interna e un buon andamento dei servizi, cioè delle componenti che più soffrivano nel 2013 e 2014. Ma di qui a inneggiare alla stasi della manifattura come segno di riequilibrio delle componenti interne del PIL, ce ne corre. Gli investimenti dell’industria tra metà 2015 e metà 2014 – al netto di quelli dell’auto, in crescita a doppia cifra – continuano a languire.

Secondo: tuttavia, non bisogna illudersi. Non solo al pensiero dell’abisso da recuperare di prodotto, reddito e occupati persi dal 2008. Basti pensare che la disoccupazione italiana, scesa a poco più del 12% a luglio, va comparata al 4,7% della Germania, al 5,8% dell’Austria, al 6,8% Olanda, o 7,4% della Svezia. Ma perché i dati stessi di luglio ci dicono che dal mondo si riverberano sull’Italia segni di frenata. Nel mercato del lavoro, solo a luglio gli inattivi sono aumentati di oltre 90 mila unità,  cioè di un terzo di tutti quelli che erano diminuiti a fine giugno 2015 rispetto a un anno prima. L’indice degli acquisti del manifatturiero italiano a luglio è il secondo europeo dopo quello olandese a quota 53,8 (sopra 50 è crescita, sotto contrazione), ma è il più basso in 4 mesi, e l’indice è al ribasso praticamente in tutte le economie dell’euroarea, tranne che per la Germania. Vanno aggiunto gli effetti – oggi ancora imperscrutabili – delle conseguenze sul Pil italiano della frenata e dell’instabiità cinese, delle ripercussioni sul commercio mondiale e della crisi dei paesi emergenti, tutti fattori che colpiscono componenti del nostro export. E le attese al rialzo dei tassi d’interesse americani da parte della Fed. L’instabilità resta sovrana, e bisogna tenerne conto soprattutto quando è al ribasso.

Terzo: di queste lezioni, il governo deve tenere conto nella sua prossima legge di stabilità e manovra pluriennale. Gli incentivi agli investimenti e alla ricerca delle imprese vanno potenziati. Nel primo semestre 2015 l’aumento della domanda interna viene soddisfatto più da aumento dell’import che dall’accresciuta offerta delle imprese italiane, perché hanno perso competitività in questi anni non pareggiata certo dal deprezzamento dell’euro dell’ultimo anno. Ciò significa che occorre incentivare i contratti aziendali di produttività, sempre che non si voglia pensare a una vera legge di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione sui diritti ma anche finalmente sui doveri del sindacato. La decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro – che nel 2016 e 2017 varrebbe 5 miliardi di euro l’anno – va concentrate sull’occupazione aggiuntiva rispetto agli organici 2015, non a tutti nuovi contratti. Il tutto andrebbe inquadrato in una manovra triennale organica, in cui le diminuzioni di pressione fiscale sui diversi cespiti – valutati per rispettivo maggior apporto all’aumento dell’output potenziale italiano – trovassero una quadra rispetto ai tagli di spesa necessari a un saldo di bilancio capace di ottenere l’ok europeo, perché appunto coerente a un quadro di riforme volte a credibili aumenti della crescita.

Quarto: con l’Europa, la partita è aperta. Il governo sicuramente presenterà la nota di aggiornamento al DEF – base per la prossima legge di stabilità – prima che siano noti i dati del terzo trimestre 2015. E dunque alzerà le stime di crescita 2015 e 2016, magari per l’anno prossimo prevedendo anche un più 1,6-1,7%, con entrate fiscali e miglior saldo conseguente. Ma c’è un rischio, a comportarsi così sull’onda dell’ottimismo. Nessuno può sapere davvero quanto, nel prossimo futuro, dalle debolezze mondiali potrebbe aggiungersi a quelle italiane. Meglio restare prudenti sulle stime – come, gli va dato atto a questo punto, è stato il governo sul 2015 – e presentare in parlamento e in Europa una manovra triennale con tre caratteristiche. Veri e rilevanti tagli di spesa (su questo: enorme delusione sin qui dall’attuale governo). Poi, se del caso, dichiarati e CREDIBILI aumenti del deficit rispetto a quanto l’anno scorso concessoci nel 2016 e 2017, e cioè l’1,8% del PIL: sinora si capisce solo che Renzi punterebbe addirittura al 2,9% di deficit, e a quel punto è scontato lo scontro con l’Europa. Ma – terzo anche se bisognerebbe dire primo – ferrea credibilità nel programma triennale della diminuzione complessiva della pressione fiscale per più crescita. Che è quel che più conta, per accelerare la crescita, e che ha effetti maggiori quanto più non è finanziato in deficit.

A questo proposito, ieri le agenzie hanno rilanciato fonti ufficiose di Bruxelles contrarie all’abbattimento di IMU-TASI annunciata da Renzi. La Commissione ha già più volte dato indirizzi chiari, sulla priorità della detassazione a capitale e lavoro. Ma la manovra non è ancora scritta. L’aumento della tassazione sulla casa ha prodotto aumenti della propensione al risparmio invece che ai consumi, deflazione dei valori immobiliari, crollo dell’edilizia, strage di imprese e occupati del settore. Il governo ha detto di avere un piano complessivo che parte dalla tassazione sulla casa, per investire e comprendere triennalmente IRES, IRAP e IRPEF. Prima di dire no – io per primo che partirei da meno tasse su imprese e lavoro, e convinto come sono che il più degli effetti devastanti sull’economia reale sia stato dovuto all’auento verticale della tassazione su doppie e terze case, più che sulla prima –  aspettiamo di vedere che cosa davvero il governo italiano propone. Gli immobili A1 già paiono esclusi dalla detassazione prima casa annunciata da Renzi. Ma è molto più importante che il governo non faccia recuperare con altre tasse ai Comuni  la sbandierata detassazione immobiliare anunciata, che dire no di principio prima di aver letto che cosa il governo davvero propone.

2
Set
2015

DDL concorrenza – U turn assicurazioni e fondi pensione

Non sarebbe stata una rivoluzione, ma nella versione del disegno di legge sulla concorrenza approvata a febbraio erano presenti disposizioni che, in materia di assicurazioni e fondi pensione, avrebbero sicuramente migliorato la situazione. Come ha scritto Andrea Varsori su Leoni Blog, tali disposizioni avrebbero quantomeno aiutato il consumatore nei rapporti con le ditte assicurative.

Da allora i lavori in commissione hanno profondamente modificato il disegno originario, purtroppo nella direzione opposta a quella che invece sarebbe stata opportuna.

Una misura che avrebbe avuto un impatto significativo era contenuta nell’art. 3 e riguardava l’RC auto. Le assicurazioni avrebbero dovuto praticare uno sconto in presenza di una tra le seguenti condizioni: sottoposizione del veicolo a ispezione; istallazione della scatola nera; installazione di meccanismi “alcohol interlock”; rinuncia alla cedibilità del credito; scelta di ricevere risarcimenti specifici in caso di danni a sole cose; scelta di ricevere risarcimenti per equivalente con comunicazione dell’autoriparatore. A oggi sono state abrogate le ultime tre condizioni, riducendo sensibilmente l’impatto potenziale della norma sui prezzi pagati dai consumatori. Si aggiunga che è stata introdotta la tariffa unica nazionale, per cui l’IVASS è incaricato di definire una percentuale di sconto minima in favore dei contraenti che risiedono in regioni con tasso di sinistrosità superiore alla media nazionale, che non abbiano fatto incidenti negli ultimi 5 anni e abbiano istallato una scatola nera. Tale percentuale di sconto deve far sì che la tariffa applicata sia commisurata a quella di un assicurato che abbia le stesse caratteristiche di un residente in una regione con tasso di sinistrosità inferiore alla media nazionale. In nome della parità di trattamento, di fatto si penalizzeranno i residenti delle regioni più virtuose, che avranno prezzi più alti di quelli che si applicherebbero senza una norma di questo tipo.

L’art. 7 è stato riscritto. Qui si prevedeva che il Ministero dello Sviluppo Economico, assieme ai Ministeri della Salute, del Lavoro e della Giustizia, avrebbero stilato e pubblicato tramite l’IVASS le tabelle con le menomazioni all’integrità psicofisica comportanti invalidità e il loro valore pecuniario. Sarebbe stato un modo per incrementare la chiarezza e la prevedibilità dei danni da pagare. Gli emendamenti approvati sono andati nella direzione opposta, aprendo la strada a potenziale confusione, a causa dell’introduzione del danno morale valutabile caso per caso dal giudice.

Infine i fondi pensione. L’art. 15 ne prevedeva la piena portabilità. Un lavoratore che avesse desiderato cambiare fondo avrebbe potuto farlo, non essendo più legato da vincoli stabiliti dai contratti di lavoro nazionali. Il datore di lavoro, inoltre, sarebbe stato costretto a seguirlo, versando anche la quota a suo carico. La norma è stata abrogata sotto la pressione delle associazioni dei fondi, a favore di un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”. Un pizzico di libertà in più a favore della domanda avrebbe incrementato la concorrenza tra gli operatori che, lo si ricordi sempre, è lo strumento più efficace nel perseguire l’efficienza di un mercato.

 

@paolobelardinel

1
Set
2015

Rinascono le frontiere nella UE: adottiamo il “mutuo riconoscimento”

Il caos alle frontiere esterne dell’Unione Europea e le divisioni UE fanno tornare prepotentemente d’attualità i confini nazionali, come scrive oggi benissimo Sabino Cassese sul Corriere.  E’ un tema rilevante, e affrontarlo con mere prediche sull’errore della “chiusura” temo serva a poco. E’ un classico riemergente delle reazioni autarchiche alla globalizzazione, ed è un errore smentito dalla storia credere che siano autoevidenti gli effetti positivi dell’apetura delle frontiere a persone, beni, servizi e capitali. Ecco perché bisogna capire bene il problema posto ruvidamente dal Regno Unito. Bisogna capire se l’accusa di Londra ai mifranti euro-scrocconi è fondata, e soprattutto pensare a rimedi comuni. Se non lo si fa, i governi inseguiranno sempre più le reazioni domestiche filo-chiusura. Nella giornata di ieri, il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman chiede l’intervento delle forze armate a difesa dei confini nazionali dai flussi, e lamenta che l’annuncio unilaterale tedesco di garantire asilo ai siriani aumenterà il flusso attraverso il suo paese. Anche l’Austria e la Slovacchia raddoppiano i controlli, ogni giorno annunciando di aver fermato treni e TIR con clandestini diretti in Germania e Scandinavia. Le tensioni tra Grecia e Macedonia e ai confini dell’Ungheria restano alte. Come a Calais tra Francia e Regno Unito. Ed è stata proprio Londra ad aver infranto un altro luogo comune dell’euroretorica, secondo il quale basta rafforzare la vigilanza sulle frontiere esterne dell’Unione per risolvere il problema.

Non è così. Non sono più solo l’Italia e la Grecia, a lamentare la distanza abissale tra la retorica europea e le risorse e i mezzi concreti messi in gioco per affrontare l’esodo biblico in corso da Africa e Asia. Ogni paese europeo non ci crede più, e a furia di rinviare scelte europee davvero adeguate capiterà ciò che Londra ha avuto la malacreanza di minacciare apertamente: limitazioni unilaterali e non concordate alla libera circolazione delle persone “dentro” l’Unione Europea, per gli stessi cittadini europei. Ma la libera circolazione dei cittadini europei entro l’Unione non è cosa che si limiti al trattato di Schengen sui controlli spostati dalle frontiere interne a quelle esterne – intesa alla quale per altro il Regno Unito non aderisce, come Irlanda, Romania, Cipro, Bulgaria e Croazia. La libera circolazione degli europei è uno dei 4 pilastri dei Trattati e dell’idea stessa di Unione. Senza libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, l’Unione europea semplicemente non c’è più.

Il problema posto da Londra è dunque un’altra faccia dell’incompiuta europea. Riguarda i flussi di immigrazione – temporanea o permanente – entro l’Unione europea stessa. Un fenomeno che riguarda soprattutto i paesi che, nella crisi dura post 2008 e post 2011, hanno ottenuto migliori performance economiche. Ricordiamo un po’ di numeri.

Nel 2014 dall’Italia che se la passa maluccio sono emigrate 101 mila persone rispetto alle 94 mila del 2013: 14.270 verso la Germania, 13.338 verso il Regno Unito, 11mila verso la Svizzera. Poi viene la Francia, e gli USA sono solo settimi come destinazione. I due terzi dei 100mila italiani espatriati in un anno sono restati nell’Unione europea. E non pensate che siano soprattutto dal Sud: uno su 5 se n’è andato dalla Lombardia, e nelle prime dieci regioni italiane di neoemigrazione solo tre sono meridionali. Ad andarsene, per un quarto sono giovani sotto i 30 anni. E per metà sono sotto i 40: è chi pensa a n futuro da costruire, ad andarsene. In Germania nel 2014 i neo immigrati hanno raggiunto 519mila unità, record da decenni: e di questi 306mila provenienti da altri paesi dell’Unione, più 125mila dalla sola Romania e Bulgaria, rispetto a 61mila siriani.

Il fenomeno è storicamente ancor più rilevante nel Regno Unito. E va però spiegata bene, l’uscita del ministro degli Interni britannico Theresa May dalle colonne del popolare Sunday Mail, “stop agli europei che vengono qui da noi senza avere già un lavoro, basta ai continentali che si trasferiscono solo per sfruttare il nostro welfare, assegni di disoccupazione, sanità gratis e aiuti alle famiglie”. Da una parte, è una sortita in linea con le promesse elettorali anti-immigrazione di David Cameron, “ridurremo gli immigrati annuali sotto quota 100mila”, che anche la stampa britannica filo-Tories nel maggio scorso giudicò non mantenibili. Dall’altra, in realtà pone un problema reale, figlio delle asimmetrie dell’Unione.

Vediamo i numeri. Nel 2013 e 2014 anche in UK l’immigrazione è aumentata, fino a quota 650mila unità annue nel 2014, a fronte di un’emigrazione annua di circa 300mila britannici. Dei 650 mila immigrati, a fine 2014 83mila erano “britannici di ritorno”, 268 mila cittadini Ue, e 290mila erano di provenienza extra-Ue. Dei 2,3 milioni di europei che a fine 2014 vivevano in Uk, solo a Londra quasi 250mila erano italiani. Sul flusso complessivo 2014, i richiedenti asilo erano – come in media negli ultimi anni – poco più di 20mila, 177mila gli studenti, 71 mila coloro che avevano raggiunto familiari in Uk, 214 mila cercavano lavoro, 63 mila quelli che non dichiaravano nessuna di queste ragioni. I conservatori sono convinti che il più dei 268mila immigrati 2014 provenienti dall’Europa un lavoro non ce l’avessero affatto, e che nelle more della ricerca approfittino del ricco welfare dell’Union Jack.

Peccato che siano le cifre ufficiali dell’equivalente dell’INPS britannico a smentire la convinzione dei “continentali a ufo”. A fine 2014 solo il 5,2% degli europei non britannici in Uk risultava percettore di assegni di disoccupazione e aiuti, il 14% riceveva crediti fiscali per il suo basso reddito, e il 13,6% detrazioni fiscali per i figli. Sono percentuali che si discostano da quelle dei percettori britannici per al massimo uno o due punti percentuali. Di qui le stroncature rimediate da Cameron e dal suo ministro May nella crociata contro gli immigrati europei: per quanto figlie di una strategia elettorale volta a contenere i danni populisti dell’UKIP sull’elettorato conservatore, i numeri dell’allarme britannico sugli immigrati intra-europei non tornano. Il vero rischio, ha scritto anche ieri il filo conservatore Daily Telegraph, è di dare un giro di vite ai giovani che scelgono il Regno Unito per studiare. Respingerli se appena terminati i corsi non hanno subito un lavoro sarebbe per Londra un autogol clamoroso, perché è arcinoto che attrarre i migliori cervelli dal mondo è da sempre uno dei moltiplicatori della crescita britannica.

Tuttavia, il problema esiste. E’ ovvio, che di fronte a un milione di profughi in arrivo nel 2015, tutti i governi si trovino a rispondere alle proprie opinioni pubbliche di analoghi incalzanti attacchi che da noi ogni giorno al governo arrivano da Salvini, e ogni settimana anche da Grillo. Si può credere che duri, alla lunga, un’Unione Europea in teoria basata sulla libera circolazione delle persone, ma in pratica con mercati del lavoro, retribuzioni e prestazioni del welfare tanto divergenti e asimmetriche? La risposta a questa domanda è una sola: no. Negli Stati Uniti gli assegni di disoccupazione e le prestazioni sanitarie di base, Medicare e Medicaid, sono federali e comuni a tutta l’Unione. Con economie statali che restano a diversi tassi di crescita, ma senza che a nessuno in Texas venga in mente di cacciare chi viene dall’Arizona.

Di conseguenza, la provocazione britannica ha due possibili risposte, se l’Unione europea tiene al suo futuro. O la Ue inizia gradualmente a pensare a una forma minima comune di sostegno a disoccupazione, bassi redditi e sanità, da estendere e implementare negli anni, e formulata all’inizio con corrispettivi parametrati ai livelli di reddito, inflazione e crescita dei diversi membri. Oppure la Ue adotta un principio che sarebbe rivoluzionario, quello del “mutuo riconoscimento” che già si applica ai beni, ma non ai servizi – vedi il clamoroso insuccesso della direttiva Bolkenstein, sotto le resistenze nazionaliste scatenatesi in ogni paese europeo – e tanto meno per il welfare. Il mutuo riconoscimento consentirebbe a ogni cittadino europeo di essere libero di spostarsi laddove vi sia più lavoro e crescita del proprio capitale umano, ma “portandosi dietro” regole e prestazioni del proprio welfare. Un meccanismo tanto rivoluzionario, che spingerebbe inevitabilmente e automaticamente gli euromembri a convergere verso un modello comune. Perché in caso di welfare costosi e inefficienti – come quello italiano – i propri cittadini risulterebbero duramente penalizzati, visto che nessun imprenditore britannico assumerebbe a quel punto dipendenti italiani al prezzo del nostro spaventoso cuneo fiscale…

31
Ago
2015

Bibinomics: la lezione di Netanyahu — di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Mentre Maria Elena Boschi ha passato i mesi di Maggio e Giugno a dichiarare che “Spagna e Israele stanno studiando la nuova Legge Elettorale italiana per copiarla” (senza indicare da quale fonte questa certezza proviene visto che il Jerusalem Post, in un articolo del 19 Marzo, considerava l’Italia un’anomalia democratica), nel corso di una cena tenutasi poche sere fa, Netanyahu ha dato una lezione di fiscalità a Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015. Il premier israeliano ha affermato che in Italia si pagano troppe tasse e ha spiegato questa sua affermazione disegnando a penna, sul menu del ristorante nel quale i due sedevano, la curva di Laffer. Read More

26
Ago
2015

La paura ci fa chiedere alla Cina l’opposto di quel che serve

Travolto dalla paura di una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008, l’Occidente chiede ai regolatori pubblici della Cina di tagliare i tassi, comprare titoli coi soldi pubblici, pompare liquidità alle banche, fare qualunque cosa purché la caduta di Shanghai s’interrompa e non si trasmetta alle piazze mondiali. E’ quel che la banca centrale cinese ha fatto: ha tagliato i tassi per la quinta volta dal novrembre scorso e per la settima volta da metà 2012, di 25 punti base sui depositi in modo che il valore degli asset finanziari indirettamente si apprezzasse; ha ridotto la riserva che le banche cinesi sono obbligate a detenere presso la banca centrale, in modo che la liquidità complessiva di sistema aumenti; ha venduto dollari per una ventina di miliardi e comprato yuan, per evitare pressioni ribassiste sulla moneta. E le borse occidentali sono rischizzate verso l’alto.

La domanda è: questa è la strada giusta? E’ figlia delle dure lezioni accumulate dal 2008 in avanti? O è pura disperazione? Per rispondere a queste domande, bisogna dichiarare coma la si pensa. Diffidare di chi in economia spaccia verità assiomatiche. Può avere cattedre e Nobel, ma tra i Nobel Krugman e Stiglitz la pensano all’opposto rispetto a Robert Lucas o Edmund Phelps, e non parliamo poi degli anni luce che li separano da Friedman o Hayek. Ergo dichiariamo le premesse in base alle quali le mosse della banca centrale cinese appaiono più figlie della disperazione che della lezione sin qui appresa.

La lunghissima serie positiva della Borsa americana che esplose con il default di Lehman è stata figlia di troppi anni di politiche monetarie accomodanti della FED di Greenspan, dopo la crisi asiatica di fine anni Novanta e quella delle Dot.Com a inizio anni Duemila. L’oceano di liquidità monetaria figlia di politiche monetarie troppo lasche gonfia le bolle finanziarie e immobiliari, perché con le borse che guadagnano a ritmi imparagonabili ai rendimenti del capitale nell’economia reale, è ovvio che il denaro poco caro prenda sempre più la via della finanza facile.

Alla crisi, non si è risposto affatto allo stesso modo dovunque, come ripetono in molti. E’ di gran moda, e piace molto a keynesiani e statalisti, dire che la risposta è stata quella di politiche monetarie ancor più accomodanti, a tassi praticamente negativi, e di acquisto massiccio di asset finanziari da parte delle banche centrali, il cosiddetto quantitative easing effettuato dalla Fed in tre lunghe fasi (oggi siamo alla fine della terza, sempre più ridotta, e il mondo attende che la FED alzi i tassi).

Questa è stata per così dire la condizione di emergenza garantita da una politica monetaria che, di fronte a una crisi americana cioè mondiale, si è inoltrata in acque sino allora ignote. Ma sotto questa cornice – a cui si è aggiunto molto dopo il QE della BCE, dall’inizio di quest’anno a settembre del 2016, volto a sostenere più che altro i titoli pubblici abbassandone l’onere, mentre i governi dovrebbero fare riforme per ridare equilibrio alle loro finanze pubbliche– in realtà ciascuno si è comportato in modo diverso, per affrontare i guai reali, cioè l’esistenza di debiti non sostenibili.

Gli USA hanno salvato alcuni giganti finanziari coi solidi pubblici, per vederseli poi in larga parte restituire, e hanno fatto la stessa cosa con due giganti dell’auto, GM e Chrysler, ma nel frattempo hanno fatto fallire centinaia di banche minori, addossandone le perdite ad azionisti e obbligazionisti. Il Regno Unito ha fatto la stessa cosa degli Usa con alcuni grandi banche, ma non con le imprese. In Europa sulle banche ciascuno si è comportato a modo suo, ma qui la parola d’ordine è “nessun fallimento” – vedi il caso MPS – e solo ora faticosamente siamo ai primi passi di una vera Unione bancaria.

Altri paesi, come l Svezia in crisi negli anni Novanta, hanno concentrato in mano pubblica debiti insostenibili da gestire, per attenuarne l’effetto sull’economia reale. Altri, come il Giappone, da 20 anni tengono i tassi bassissimi e sostengono pubblicamente in tutti i modi l’economia, ma non separando debiti buoni dai debiti cattivi anche l’attuale premer Abe si trova nei guai dopo 2 decenni di crescita asfittica.

Mettiamola così. Per chi è scettico sul fatto che banche centrali e finanza pubblica possano evitare che i mercati abbassino i prezzi per far svaporare le bolle, e per tornare finalmente a far orientare i capitali verso l’economia reale, le risposte alle mega crisi finanziarie possono avere al massimo come risposta immediata politiche monetarie interventiste. Ma l’essenziale è metter rapidamente mano a riforme profonde, lasciando ai mercati il diritto-dovere di fare i prezzi. Per tornare il più rapidamente possibile a politiche monetarie meno discrezionali possibili: l’esatto opposto di quel che oggi s’invoca dai banchieri centrali. Anche perché altrimenti più durano le politiche monetarie lasche, meno i governi riformano, e più la liquidità torna a gonfiare nuove bolle. Questa è la ragione per cui negli USA i Krugman sono perché la FED non rialzi i tassi, e per cui in Europa gli statalisti contano sul fatto che il QE di Draghi duri in eterno, invece di pensare a unificare davvero i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi europei in nome di una maggiore produttività.

Torniamo alla Cina. Il partito comunista cinese guidato da Xi Jinping nel suo ultimo congresso ha indicato la strada di aprire l’economia cinese a forme sempre più vicine al mercato. Chi ieri ha brindato all’intervento della banca centrale cinese preferisce forse dimenticare che gli squilibri di cui vive la bolla finanziaria e immobiliare cinese sono tutti figli dell’eccesso d’interventismo pubblico, non del suo contrario. Da anni e anni la banca centrale cinese aumenta l’offerta monetaria tra i 3 e i 5 punti più di quanto non cresca nelle innattendibili statistiche ufficiali il PIL. Da decenni, l’economia è cresciuta investimenti pubblico che erano quasi la metà del PIL, e la montagna d’investimenti pubblici senza rendimento economico ha generato sovraccapacità gigantesca.

Fino all’altro ieri l’Occidente ha chiesto alla Cina di lasciare lo yuan libero di fluttuare sul mercato invece che regolato nel cambio dalla banca centrale. Di dissodare le banche pubbliche i cui libri sono pieni di asset ipervalutati e in realtà oggi senza prezzo, a cominciare dall’immobiliare. Di chiudere gradualmente il marginal lending, e cioè che società finanziarie non soggette ad alcuna valutazione spingessero oltre centomila cinesi senza risparmi a credere freneticamente nella Borsa anticipando loro i liquidi per investirvi (tutta gente che oggi rischia ovviamente il disastro). Che senso può avere oggi chiedere alla Cina l’esatto opposto, e cioè che Stato e banca centrale continuino a pompare soldi pubblici?

Direte voi: problemi loro, l’essenziale è che non diffondano crisi e instabilità nei mercati di tutto il mondo. Risposta sbagliata. Perché l’economia reale si prende le sue rivincite. Se la banca centrale cinese ha aspettato, prima di assumere le decisioni di ieri, è perché sa per prima che intervenire l’avrebbe costretta a dei controsensi. Quando si svaluta una moneta è perché i flussi di capitale escono dal paese, e di conseguenza per contenere il fenomeno occorre alzare i tassi e non abbassarli, come l’Occidente ieri ha invece caldamente spinto la Cina a fare. Se l’obiettivo è di pompare più liquidità attraverso le banche – e a questo serve abbassare la riserva obbligatoria – è un controsenso comprare al contempo yuan, perché significa diminuire la liquidità che si vorrebbe crescesse. In più, da quel che sappiamo la banca centrale cinese non è proprio l’esempio di un istituto liberista: detiene già asset nei suoi libri pari al 60% del valore del Pil cinese. Il doppio, in percentuale, di quanto abbia la Fed rispetto al PIL USA, dopo tre lunghe fasi di quantitative easing.

In conclusione: no, la riposta di ieri cinese non è quella più adeguata alle ormai gravi contraddizioni dell’economia cinese, è solo un pezza a colori. Chiesta dall’Occidente per bloccare la paura. Sarebbe meglio – e molto più stabilizzante per i mercati mondiali – che l’Occidente offrisse alla Cina una finestra spalancata per fare dello yuan una valuta di riserva visto il peso che la Cina ha nel mondo, a patto di sapere entro quanto verrà lasciato al prezzo di mercato, perché ciò consentirebbe a Pechino di contare sugli acquisti di molte altre banche centrali. Chiedendo alla Cina nel frattempo di fare in grande scala quanto fece la Svezia negli anni Novanta, cioè avviare un enorme processo di scouting sui troppi debiti insostenibili e sui troppi asset dichiarati a un valore che non esiste. Che lo Stato cinese si concentri su quello, mentre attua una vera vigilanza sulle sue banche e chiude nel tempo alla possibilità che oltre un terzo della sua intermediazione finanziaria sia operata da chi non è soggetto ad alcuna regolazione.

Un enorme programma pluriennale cinese di stabilità e pulizia finanziaria, da assumere come priorità inernazionalmente condivisa perché la Cina resti una locomotiva mondiale, continui ad assorbire sempre più esportazioni mondiali ad alto valore aggiunto per le sue centinaia di milioni di nuovi consumatori, e dipenda sempre meno da un proprio export forte per un basso costo della manodopera destinato comunque ad alzarsi.

In larghissima misura, è il compito del nuovo presidente degli Stati Uniti che succederà ad Obama, sempre che sia interessato a un mondo stabile. L’Europa ha giù i suoi enormi guai da risolvere. Al massimo possiamo essere una media potenza cooperante. Ma dovremmo per primi chiedere all’America in questi giorni di non commettere l’errore di chiedere ai cinesi solo misure figlie della disperazione a breve termine.

 

25
Ago
2015

Spiaggia bene comune nel mare dei luoghi comuni—di Gemma Mantovani

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gemma Mantovani.

Una nota attrice comica italiana è tornata, lo scorso week end, alla ribalda della cronaca per essersi recata in uno stabilimento balneare ligure, aver rivendicato animatamente il diritto di poter stazionare sulla battigia ed essere stata allontanata dal gestore del bagno perché, secondo lui, il preteso diritto, l’attrice comica romana, non ce l’aveva. Chi ama il mare, prendere il sole e fare i bagni, sarà in cuor suo certamente un po’ solidale con la comica che dalla sua pagina facebook ha inveito contro le canaglie che ci vogliono togliere il diritto di andare al mare e contro i politici corrotti che hanno permesso questo. E qual è la parolina magica che associata a una cosa bella come la spiaggia accende la passione, ancor più se siamo nella calura di agosto? Ma ovvio, spiaggia… benecomune! La retorica benecomunista, ancora una volta, scalda i cuori ma rischia di raggelarci le meningi. Per citare una frase della divertentissima parodia di un santone televisivo, Quelo, fatta dal fratello comico della nota comica: “La risposta è dentro di te, ma è sbagliata”. Read More