2
Set
2015

DDL concorrenza – U turn assicurazioni e fondi pensione

Non sarebbe stata una rivoluzione, ma nella versione del disegno di legge sulla concorrenza approvata a febbraio erano presenti disposizioni che, in materia di assicurazioni e fondi pensione, avrebbero sicuramente migliorato la situazione. Come ha scritto Andrea Varsori su Leoni Blog, tali disposizioni avrebbero quantomeno aiutato il consumatore nei rapporti con le ditte assicurative.

Da allora i lavori in commissione hanno profondamente modificato il disegno originario, purtroppo nella direzione opposta a quella che invece sarebbe stata opportuna.

Una misura che avrebbe avuto un impatto significativo era contenuta nell’art. 3 e riguardava l’RC auto. Le assicurazioni avrebbero dovuto praticare uno sconto in presenza di una tra le seguenti condizioni: sottoposizione del veicolo a ispezione; istallazione della scatola nera; installazione di meccanismi “alcohol interlock”; rinuncia alla cedibilità del credito; scelta di ricevere risarcimenti specifici in caso di danni a sole cose; scelta di ricevere risarcimenti per equivalente con comunicazione dell’autoriparatore. A oggi sono state abrogate le ultime tre condizioni, riducendo sensibilmente l’impatto potenziale della norma sui prezzi pagati dai consumatori. Si aggiunga che è stata introdotta la tariffa unica nazionale, per cui l’IVASS è incaricato di definire una percentuale di sconto minima in favore dei contraenti che risiedono in regioni con tasso di sinistrosità superiore alla media nazionale, che non abbiano fatto incidenti negli ultimi 5 anni e abbiano istallato una scatola nera. Tale percentuale di sconto deve far sì che la tariffa applicata sia commisurata a quella di un assicurato che abbia le stesse caratteristiche di un residente in una regione con tasso di sinistrosità inferiore alla media nazionale. In nome della parità di trattamento, di fatto si penalizzeranno i residenti delle regioni più virtuose, che avranno prezzi più alti di quelli che si applicherebbero senza una norma di questo tipo.

L’art. 7 è stato riscritto. Qui si prevedeva che il Ministero dello Sviluppo Economico, assieme ai Ministeri della Salute, del Lavoro e della Giustizia, avrebbero stilato e pubblicato tramite l’IVASS le tabelle con le menomazioni all’integrità psicofisica comportanti invalidità e il loro valore pecuniario. Sarebbe stato un modo per incrementare la chiarezza e la prevedibilità dei danni da pagare. Gli emendamenti approvati sono andati nella direzione opposta, aprendo la strada a potenziale confusione, a causa dell’introduzione del danno morale valutabile caso per caso dal giudice.

Infine i fondi pensione. L’art. 15 ne prevedeva la piena portabilità. Un lavoratore che avesse desiderato cambiare fondo avrebbe potuto farlo, non essendo più legato da vincoli stabiliti dai contratti di lavoro nazionali. Il datore di lavoro, inoltre, sarebbe stato costretto a seguirlo, versando anche la quota a suo carico. La norma è stata abrogata sotto la pressione delle associazioni dei fondi, a favore di un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”. Un pizzico di libertà in più a favore della domanda avrebbe incrementato la concorrenza tra gli operatori che, lo si ricordi sempre, è lo strumento più efficace nel perseguire l’efficienza di un mercato.

 

@paolobelardinel

1
Set
2015

Rinascono le frontiere nella UE: adottiamo il “mutuo riconoscimento”

Il caos alle frontiere esterne dell’Unione Europea e le divisioni UE fanno tornare prepotentemente d’attualità i confini nazionali, come scrive oggi benissimo Sabino Cassese sul Corriere.  E’ un tema rilevante, e affrontarlo con mere prediche sull’errore della “chiusura” temo serva a poco. E’ un classico riemergente delle reazioni autarchiche alla globalizzazione, ed è un errore smentito dalla storia credere che siano autoevidenti gli effetti positivi dell’apetura delle frontiere a persone, beni, servizi e capitali. Ecco perché bisogna capire bene il problema posto ruvidamente dal Regno Unito. Bisogna capire se l’accusa di Londra ai mifranti euro-scrocconi è fondata, e soprattutto pensare a rimedi comuni. Se non lo si fa, i governi inseguiranno sempre più le reazioni domestiche filo-chiusura. Nella giornata di ieri, il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman chiede l’intervento delle forze armate a difesa dei confini nazionali dai flussi, e lamenta che l’annuncio unilaterale tedesco di garantire asilo ai siriani aumenterà il flusso attraverso il suo paese. Anche l’Austria e la Slovacchia raddoppiano i controlli, ogni giorno annunciando di aver fermato treni e TIR con clandestini diretti in Germania e Scandinavia. Le tensioni tra Grecia e Macedonia e ai confini dell’Ungheria restano alte. Come a Calais tra Francia e Regno Unito. Ed è stata proprio Londra ad aver infranto un altro luogo comune dell’euroretorica, secondo il quale basta rafforzare la vigilanza sulle frontiere esterne dell’Unione per risolvere il problema.

Non è così. Non sono più solo l’Italia e la Grecia, a lamentare la distanza abissale tra la retorica europea e le risorse e i mezzi concreti messi in gioco per affrontare l’esodo biblico in corso da Africa e Asia. Ogni paese europeo non ci crede più, e a furia di rinviare scelte europee davvero adeguate capiterà ciò che Londra ha avuto la malacreanza di minacciare apertamente: limitazioni unilaterali e non concordate alla libera circolazione delle persone “dentro” l’Unione Europea, per gli stessi cittadini europei. Ma la libera circolazione dei cittadini europei entro l’Unione non è cosa che si limiti al trattato di Schengen sui controlli spostati dalle frontiere interne a quelle esterne – intesa alla quale per altro il Regno Unito non aderisce, come Irlanda, Romania, Cipro, Bulgaria e Croazia. La libera circolazione degli europei è uno dei 4 pilastri dei Trattati e dell’idea stessa di Unione. Senza libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, l’Unione europea semplicemente non c’è più.

Il problema posto da Londra è dunque un’altra faccia dell’incompiuta europea. Riguarda i flussi di immigrazione – temporanea o permanente – entro l’Unione europea stessa. Un fenomeno che riguarda soprattutto i paesi che, nella crisi dura post 2008 e post 2011, hanno ottenuto migliori performance economiche. Ricordiamo un po’ di numeri.

Nel 2014 dall’Italia che se la passa maluccio sono emigrate 101 mila persone rispetto alle 94 mila del 2013: 14.270 verso la Germania, 13.338 verso il Regno Unito, 11mila verso la Svizzera. Poi viene la Francia, e gli USA sono solo settimi come destinazione. I due terzi dei 100mila italiani espatriati in un anno sono restati nell’Unione europea. E non pensate che siano soprattutto dal Sud: uno su 5 se n’è andato dalla Lombardia, e nelle prime dieci regioni italiane di neoemigrazione solo tre sono meridionali. Ad andarsene, per un quarto sono giovani sotto i 30 anni. E per metà sono sotto i 40: è chi pensa a n futuro da costruire, ad andarsene. In Germania nel 2014 i neo immigrati hanno raggiunto 519mila unità, record da decenni: e di questi 306mila provenienti da altri paesi dell’Unione, più 125mila dalla sola Romania e Bulgaria, rispetto a 61mila siriani.

Il fenomeno è storicamente ancor più rilevante nel Regno Unito. E va però spiegata bene, l’uscita del ministro degli Interni britannico Theresa May dalle colonne del popolare Sunday Mail, “stop agli europei che vengono qui da noi senza avere già un lavoro, basta ai continentali che si trasferiscono solo per sfruttare il nostro welfare, assegni di disoccupazione, sanità gratis e aiuti alle famiglie”. Da una parte, è una sortita in linea con le promesse elettorali anti-immigrazione di David Cameron, “ridurremo gli immigrati annuali sotto quota 100mila”, che anche la stampa britannica filo-Tories nel maggio scorso giudicò non mantenibili. Dall’altra, in realtà pone un problema reale, figlio delle asimmetrie dell’Unione.

Vediamo i numeri. Nel 2013 e 2014 anche in UK l’immigrazione è aumentata, fino a quota 650mila unità annue nel 2014, a fronte di un’emigrazione annua di circa 300mila britannici. Dei 650 mila immigrati, a fine 2014 83mila erano “britannici di ritorno”, 268 mila cittadini Ue, e 290mila erano di provenienza extra-Ue. Dei 2,3 milioni di europei che a fine 2014 vivevano in Uk, solo a Londra quasi 250mila erano italiani. Sul flusso complessivo 2014, i richiedenti asilo erano – come in media negli ultimi anni – poco più di 20mila, 177mila gli studenti, 71 mila coloro che avevano raggiunto familiari in Uk, 214 mila cercavano lavoro, 63 mila quelli che non dichiaravano nessuna di queste ragioni. I conservatori sono convinti che il più dei 268mila immigrati 2014 provenienti dall’Europa un lavoro non ce l’avessero affatto, e che nelle more della ricerca approfittino del ricco welfare dell’Union Jack.

Peccato che siano le cifre ufficiali dell’equivalente dell’INPS britannico a smentire la convinzione dei “continentali a ufo”. A fine 2014 solo il 5,2% degli europei non britannici in Uk risultava percettore di assegni di disoccupazione e aiuti, il 14% riceveva crediti fiscali per il suo basso reddito, e il 13,6% detrazioni fiscali per i figli. Sono percentuali che si discostano da quelle dei percettori britannici per al massimo uno o due punti percentuali. Di qui le stroncature rimediate da Cameron e dal suo ministro May nella crociata contro gli immigrati europei: per quanto figlie di una strategia elettorale volta a contenere i danni populisti dell’UKIP sull’elettorato conservatore, i numeri dell’allarme britannico sugli immigrati intra-europei non tornano. Il vero rischio, ha scritto anche ieri il filo conservatore Daily Telegraph, è di dare un giro di vite ai giovani che scelgono il Regno Unito per studiare. Respingerli se appena terminati i corsi non hanno subito un lavoro sarebbe per Londra un autogol clamoroso, perché è arcinoto che attrarre i migliori cervelli dal mondo è da sempre uno dei moltiplicatori della crescita britannica.

Tuttavia, il problema esiste. E’ ovvio, che di fronte a un milione di profughi in arrivo nel 2015, tutti i governi si trovino a rispondere alle proprie opinioni pubbliche di analoghi incalzanti attacchi che da noi ogni giorno al governo arrivano da Salvini, e ogni settimana anche da Grillo. Si può credere che duri, alla lunga, un’Unione Europea in teoria basata sulla libera circolazione delle persone, ma in pratica con mercati del lavoro, retribuzioni e prestazioni del welfare tanto divergenti e asimmetriche? La risposta a questa domanda è una sola: no. Negli Stati Uniti gli assegni di disoccupazione e le prestazioni sanitarie di base, Medicare e Medicaid, sono federali e comuni a tutta l’Unione. Con economie statali che restano a diversi tassi di crescita, ma senza che a nessuno in Texas venga in mente di cacciare chi viene dall’Arizona.

Di conseguenza, la provocazione britannica ha due possibili risposte, se l’Unione europea tiene al suo futuro. O la Ue inizia gradualmente a pensare a una forma minima comune di sostegno a disoccupazione, bassi redditi e sanità, da estendere e implementare negli anni, e formulata all’inizio con corrispettivi parametrati ai livelli di reddito, inflazione e crescita dei diversi membri. Oppure la Ue adotta un principio che sarebbe rivoluzionario, quello del “mutuo riconoscimento” che già si applica ai beni, ma non ai servizi – vedi il clamoroso insuccesso della direttiva Bolkenstein, sotto le resistenze nazionaliste scatenatesi in ogni paese europeo – e tanto meno per il welfare. Il mutuo riconoscimento consentirebbe a ogni cittadino europeo di essere libero di spostarsi laddove vi sia più lavoro e crescita del proprio capitale umano, ma “portandosi dietro” regole e prestazioni del proprio welfare. Un meccanismo tanto rivoluzionario, che spingerebbe inevitabilmente e automaticamente gli euromembri a convergere verso un modello comune. Perché in caso di welfare costosi e inefficienti – come quello italiano – i propri cittadini risulterebbero duramente penalizzati, visto che nessun imprenditore britannico assumerebbe a quel punto dipendenti italiani al prezzo del nostro spaventoso cuneo fiscale…

31
Ago
2015

Bibinomics: la lezione di Netanyahu — di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Mentre Maria Elena Boschi ha passato i mesi di Maggio e Giugno a dichiarare che “Spagna e Israele stanno studiando la nuova Legge Elettorale italiana per copiarla” (senza indicare da quale fonte questa certezza proviene visto che il Jerusalem Post, in un articolo del 19 Marzo, considerava l’Italia un’anomalia democratica), nel corso di una cena tenutasi poche sere fa, Netanyahu ha dato una lezione di fiscalità a Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015. Il premier israeliano ha affermato che in Italia si pagano troppe tasse e ha spiegato questa sua affermazione disegnando a penna, sul menu del ristorante nel quale i due sedevano, la curva di Laffer. Read More

26
Ago
2015

La paura ci fa chiedere alla Cina l’opposto di quel che serve

Travolto dalla paura di una crisi finanziaria peggiore di quella del 2008, l’Occidente chiede ai regolatori pubblici della Cina di tagliare i tassi, comprare titoli coi soldi pubblici, pompare liquidità alle banche, fare qualunque cosa purché la caduta di Shanghai s’interrompa e non si trasmetta alle piazze mondiali. E’ quel che la banca centrale cinese ha fatto: ha tagliato i tassi per la quinta volta dal novrembre scorso e per la settima volta da metà 2012, di 25 punti base sui depositi in modo che il valore degli asset finanziari indirettamente si apprezzasse; ha ridotto la riserva che le banche cinesi sono obbligate a detenere presso la banca centrale, in modo che la liquidità complessiva di sistema aumenti; ha venduto dollari per una ventina di miliardi e comprato yuan, per evitare pressioni ribassiste sulla moneta. E le borse occidentali sono rischizzate verso l’alto.

La domanda è: questa è la strada giusta? E’ figlia delle dure lezioni accumulate dal 2008 in avanti? O è pura disperazione? Per rispondere a queste domande, bisogna dichiarare coma la si pensa. Diffidare di chi in economia spaccia verità assiomatiche. Può avere cattedre e Nobel, ma tra i Nobel Krugman e Stiglitz la pensano all’opposto rispetto a Robert Lucas o Edmund Phelps, e non parliamo poi degli anni luce che li separano da Friedman o Hayek. Ergo dichiariamo le premesse in base alle quali le mosse della banca centrale cinese appaiono più figlie della disperazione che della lezione sin qui appresa.

La lunghissima serie positiva della Borsa americana che esplose con il default di Lehman è stata figlia di troppi anni di politiche monetarie accomodanti della FED di Greenspan, dopo la crisi asiatica di fine anni Novanta e quella delle Dot.Com a inizio anni Duemila. L’oceano di liquidità monetaria figlia di politiche monetarie troppo lasche gonfia le bolle finanziarie e immobiliari, perché con le borse che guadagnano a ritmi imparagonabili ai rendimenti del capitale nell’economia reale, è ovvio che il denaro poco caro prenda sempre più la via della finanza facile.

Alla crisi, non si è risposto affatto allo stesso modo dovunque, come ripetono in molti. E’ di gran moda, e piace molto a keynesiani e statalisti, dire che la risposta è stata quella di politiche monetarie ancor più accomodanti, a tassi praticamente negativi, e di acquisto massiccio di asset finanziari da parte delle banche centrali, il cosiddetto quantitative easing effettuato dalla Fed in tre lunghe fasi (oggi siamo alla fine della terza, sempre più ridotta, e il mondo attende che la FED alzi i tassi).

Questa è stata per così dire la condizione di emergenza garantita da una politica monetaria che, di fronte a una crisi americana cioè mondiale, si è inoltrata in acque sino allora ignote. Ma sotto questa cornice – a cui si è aggiunto molto dopo il QE della BCE, dall’inizio di quest’anno a settembre del 2016, volto a sostenere più che altro i titoli pubblici abbassandone l’onere, mentre i governi dovrebbero fare riforme per ridare equilibrio alle loro finanze pubbliche– in realtà ciascuno si è comportato in modo diverso, per affrontare i guai reali, cioè l’esistenza di debiti non sostenibili.

Gli USA hanno salvato alcuni giganti finanziari coi solidi pubblici, per vederseli poi in larga parte restituire, e hanno fatto la stessa cosa con due giganti dell’auto, GM e Chrysler, ma nel frattempo hanno fatto fallire centinaia di banche minori, addossandone le perdite ad azionisti e obbligazionisti. Il Regno Unito ha fatto la stessa cosa degli Usa con alcuni grandi banche, ma non con le imprese. In Europa sulle banche ciascuno si è comportato a modo suo, ma qui la parola d’ordine è “nessun fallimento” – vedi il caso MPS – e solo ora faticosamente siamo ai primi passi di una vera Unione bancaria.

Altri paesi, come l Svezia in crisi negli anni Novanta, hanno concentrato in mano pubblica debiti insostenibili da gestire, per attenuarne l’effetto sull’economia reale. Altri, come il Giappone, da 20 anni tengono i tassi bassissimi e sostengono pubblicamente in tutti i modi l’economia, ma non separando debiti buoni dai debiti cattivi anche l’attuale premer Abe si trova nei guai dopo 2 decenni di crescita asfittica.

Mettiamola così. Per chi è scettico sul fatto che banche centrali e finanza pubblica possano evitare che i mercati abbassino i prezzi per far svaporare le bolle, e per tornare finalmente a far orientare i capitali verso l’economia reale, le risposte alle mega crisi finanziarie possono avere al massimo come risposta immediata politiche monetarie interventiste. Ma l’essenziale è metter rapidamente mano a riforme profonde, lasciando ai mercati il diritto-dovere di fare i prezzi. Per tornare il più rapidamente possibile a politiche monetarie meno discrezionali possibili: l’esatto opposto di quel che oggi s’invoca dai banchieri centrali. Anche perché altrimenti più durano le politiche monetarie lasche, meno i governi riformano, e più la liquidità torna a gonfiare nuove bolle. Questa è la ragione per cui negli USA i Krugman sono perché la FED non rialzi i tassi, e per cui in Europa gli statalisti contano sul fatto che il QE di Draghi duri in eterno, invece di pensare a unificare davvero i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi europei in nome di una maggiore produttività.

Torniamo alla Cina. Il partito comunista cinese guidato da Xi Jinping nel suo ultimo congresso ha indicato la strada di aprire l’economia cinese a forme sempre più vicine al mercato. Chi ieri ha brindato all’intervento della banca centrale cinese preferisce forse dimenticare che gli squilibri di cui vive la bolla finanziaria e immobiliare cinese sono tutti figli dell’eccesso d’interventismo pubblico, non del suo contrario. Da anni e anni la banca centrale cinese aumenta l’offerta monetaria tra i 3 e i 5 punti più di quanto non cresca nelle innattendibili statistiche ufficiali il PIL. Da decenni, l’economia è cresciuta investimenti pubblico che erano quasi la metà del PIL, e la montagna d’investimenti pubblici senza rendimento economico ha generato sovraccapacità gigantesca.

Fino all’altro ieri l’Occidente ha chiesto alla Cina di lasciare lo yuan libero di fluttuare sul mercato invece che regolato nel cambio dalla banca centrale. Di dissodare le banche pubbliche i cui libri sono pieni di asset ipervalutati e in realtà oggi senza prezzo, a cominciare dall’immobiliare. Di chiudere gradualmente il marginal lending, e cioè che società finanziarie non soggette ad alcuna valutazione spingessero oltre centomila cinesi senza risparmi a credere freneticamente nella Borsa anticipando loro i liquidi per investirvi (tutta gente che oggi rischia ovviamente il disastro). Che senso può avere oggi chiedere alla Cina l’esatto opposto, e cioè che Stato e banca centrale continuino a pompare soldi pubblici?

Direte voi: problemi loro, l’essenziale è che non diffondano crisi e instabilità nei mercati di tutto il mondo. Risposta sbagliata. Perché l’economia reale si prende le sue rivincite. Se la banca centrale cinese ha aspettato, prima di assumere le decisioni di ieri, è perché sa per prima che intervenire l’avrebbe costretta a dei controsensi. Quando si svaluta una moneta è perché i flussi di capitale escono dal paese, e di conseguenza per contenere il fenomeno occorre alzare i tassi e non abbassarli, come l’Occidente ieri ha invece caldamente spinto la Cina a fare. Se l’obiettivo è di pompare più liquidità attraverso le banche – e a questo serve abbassare la riserva obbligatoria – è un controsenso comprare al contempo yuan, perché significa diminuire la liquidità che si vorrebbe crescesse. In più, da quel che sappiamo la banca centrale cinese non è proprio l’esempio di un istituto liberista: detiene già asset nei suoi libri pari al 60% del valore del Pil cinese. Il doppio, in percentuale, di quanto abbia la Fed rispetto al PIL USA, dopo tre lunghe fasi di quantitative easing.

In conclusione: no, la riposta di ieri cinese non è quella più adeguata alle ormai gravi contraddizioni dell’economia cinese, è solo un pezza a colori. Chiesta dall’Occidente per bloccare la paura. Sarebbe meglio – e molto più stabilizzante per i mercati mondiali – che l’Occidente offrisse alla Cina una finestra spalancata per fare dello yuan una valuta di riserva visto il peso che la Cina ha nel mondo, a patto di sapere entro quanto verrà lasciato al prezzo di mercato, perché ciò consentirebbe a Pechino di contare sugli acquisti di molte altre banche centrali. Chiedendo alla Cina nel frattempo di fare in grande scala quanto fece la Svezia negli anni Novanta, cioè avviare un enorme processo di scouting sui troppi debiti insostenibili e sui troppi asset dichiarati a un valore che non esiste. Che lo Stato cinese si concentri su quello, mentre attua una vera vigilanza sulle sue banche e chiude nel tempo alla possibilità che oltre un terzo della sua intermediazione finanziaria sia operata da chi non è soggetto ad alcuna regolazione.

Un enorme programma pluriennale cinese di stabilità e pulizia finanziaria, da assumere come priorità inernazionalmente condivisa perché la Cina resti una locomotiva mondiale, continui ad assorbire sempre più esportazioni mondiali ad alto valore aggiunto per le sue centinaia di milioni di nuovi consumatori, e dipenda sempre meno da un proprio export forte per un basso costo della manodopera destinato comunque ad alzarsi.

In larghissima misura, è il compito del nuovo presidente degli Stati Uniti che succederà ad Obama, sempre che sia interessato a un mondo stabile. L’Europa ha giù i suoi enormi guai da risolvere. Al massimo possiamo essere una media potenza cooperante. Ma dovremmo per primi chiedere all’America in questi giorni di non commettere l’errore di chiedere ai cinesi solo misure figlie della disperazione a breve termine.

 

25
Ago
2015

Spiaggia bene comune nel mare dei luoghi comuni—di Gemma Mantovani

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gemma Mantovani.

Una nota attrice comica italiana è tornata, lo scorso week end, alla ribalda della cronaca per essersi recata in uno stabilimento balneare ligure, aver rivendicato animatamente il diritto di poter stazionare sulla battigia ed essere stata allontanata dal gestore del bagno perché, secondo lui, il preteso diritto, l’attrice comica romana, non ce l’aveva. Chi ama il mare, prendere il sole e fare i bagni, sarà in cuor suo certamente un po’ solidale con la comica che dalla sua pagina facebook ha inveito contro le canaglie che ci vogliono togliere il diritto di andare al mare e contro i politici corrotti che hanno permesso questo. E qual è la parolina magica che associata a una cosa bella come la spiaggia accende la passione, ancor più se siamo nella calura di agosto? Ma ovvio, spiaggia… benecomune! La retorica benecomunista, ancora una volta, scalda i cuori ma rischia di raggelarci le meningi. Per citare una frase della divertentissima parodia di un santone televisivo, Quelo, fatta dal fratello comico della nota comica: “La risposta è dentro di te, ma è sbagliata”. Read More

25
Ago
2015

Integrazione ed egualitarismo—di Pietro Barabaschi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Pietro Barabaschi.

Attenzione. L’integrazione non dev’essere “ugualitarismo”. Spesso si sostiene che due popoli che hanno una ”cultura” totalmente differente per poter convivere non possano fare altro che “integrarsi”. Ovvero che le convinzioni, le abitudini, gli usi degli uni e degli altri debbano in qualche modo incontrarsi a metà strada, pareggiarsi, per produrre così una specie di “ugualitarismo”.
In barba alle sirene del relativismo, l’auspicio che si può, si “deve” fare, è il seguente: non si tenda a costringere i più “colti”, quelli la cui storia è un tessuto più elaborato e complesso, a rinunciare alla propria superiorità (sì, superiorità), neanche col pretesto di non “offendere” i meno colti.
Le culture superiori sono divenute tali in millenni di storia: una storia, come diceva Indro Montanelli, scritta col sangue. La loro eredità in termini di diritto e di libertà, di stili di vita, di usi, va preservata gelosamente. E’ dopotutto grazie a uno di questi prodotti culturali – il capitalismo – che talune società sono divenute tanto attrattive, anche per chi proviene da culture diversissime.
Il relativismo è parente stretto di certo “veterosindacalismo”. Che, per dirla con una metafora per nulla relativista, invece di spingere i somari a diventare cavalli costringeva i cavalli a diventare somari.

25
Ago
2015

Perché ridurre le accise può salvare la faccia a Stato e BRE-BE-MI—di Lukas Dvorak

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lukas Dvorak.

Sono da poco tornato da una vacanza ad Ibiza e non posso risparmiarmi dal commentare il costo della benzina: rientrava in cifre comprese fra i 1,420 e i 1,450 al litro. In Italia il prezzo alla pompa medio è di 1,597 (dati Sole 24 Ore aggiornati a data 15/08) dopo aver raggiunto la punta di 1,718 a Febbraio dell’anno scorso (dati CGIA Mestre) mentre in Spagna, nello stesso periodo, si aggirava intorno ai 1,410.
Il prezzo al consumo della benzina in Sicilia, spesso più alto rispetto che in altre regioni italiane, ci dice che il valore finale, quello da pagare alla pompa, è anche influenzato da costi di trasporto più elevati: se tanto dà tanto, essendo Ibiza un’isola delle Baleari, possiamo affermare che in Spagna la benzina non è mai aumentata a causa di balzelli. E, in effetti, la Spagna figura fra i paesi dove statisticamente la carbon tax influisce meno sul prezzo finale. Read More

23
Ago
2015

Cina: l’eterna illusione dei regolatori centrali, e il costo per voi tutti

La crisi della Cina colpisce in profondità 5 convinzioni diverse: la fiducia nel controllo totale esercitato dai comunisti cinesi sulla propria economia; la fiducia che l’intera area del Pacifico fosse un eldorado ancora per decenni; quella sulla sostenibilità di molti cambi monetari dei paesi emergenti; quella sul lungo ciclo positivo delle borse mondiali; e infine quella sull’onnipotenza non solo in Cina dei banchieri e regolatori centrali. E’ una colossale rivincita dell’economia reale – in questo caso, dei suoi maxi squilibri cinesi – rispetto ai regolatori pubblici. Ai quali, dal 2008 in poi, tutti si sono rivolti chiedendo loro di fare miracoli, naturalmente coi soldi pubblici. Dietro questo enorme processo che si è messo in moto, la domanda è: che cosa può venirne all’Italia. Purtroppo niente di buono: ma, al contempo, mali molto minori di quelli che invece minacciano grandi potenze economiche mondiali, e molti paesi emergenti.

Alcuni dati. Dopo il crollo delle borse cinesi a inizio agosto – Shanghai da giugno ha perso il 47% della sua capitalizzazione – e dopo la svalutazione del 3,7% dello yuan-renminbi, ecco nell’ultima settimana alcuni dati veri dell’economia reale cinese. Gli ordini di acquisto delle imprese manifatturiere scesi di molto sotto la soglia che indica contrazione, il peggior dato in 6 anni. La produzione industriale che mentre nel 2010 cresceva del 23% annuo ora stenta poco sopra la soglia del 5%. I consumi elettrici passato in 5 anni da +25% al +0,5%. Da anni è noto che la Cina non poteva continuare a crescere del 10% annuo contando su investimenti pubblici di poco sotto il 50% del PIl annuo, e su un export in crescita a doppia cifra fino a un quarto delle intere esportazioni mondiali. Il problema dell’economia reale cinese era e resta quello di dare ai cinesi più reddito per orientarlo ai consumi interni. E la difficoltà enorme è realizzare tale transizione in maniera equilibrata. Peccato che le vendite al dettaglio in Cina crescano di anno in anno meno, non di più: nelle statistiche ufficiali, aumentavano del 22% nel 2010, e in questo 2015 invece poco più del 10%. Piccolo problema aggiuntivo: tutti sanno che le statistiche ufficiali cinesi non sono affidabili. Nessuno crede che la crescita del Pil cinese sia davvero del 7% annuo in questo 2015, invece del 10% di anni fa: la stima vera del consensus internazionale sta tra il 4 e il 5%. Eppure, in presenza di un tasso di crescita dimezzato, la stima ufficiale dei disoccupati cinesi è assolutamente ferma da anni, a meno metà di quella Ue. Miracoli delle statistiche comuniste.

Chi ci rimette. Oltre metà del pianeta, grazie al fortissimo espansionismo cinese dall’Asia all’Africa al SudAmerica, è esposto a gravi conseguenze se la transizione cinese sfugge di mano. Se volete consolarvi, pensate che nella sola ultima settimana di cali delle borse mondiali i 400 supermiliardari più forti investitori del mondo hanno perso 182 miliardi di dollari di valore azionario, sul totale dei 3300 miliardi persi in dollari dalle borse. Non li hanno persi sui mercati cinesi, ma nei settori esposti alla Cina quotati a New York, a Londra e nel mondo avanzato. Il mitico indice S&P500 ha registrato la peggior perdita in una settimana dal 2011, ed è sceso sotto quota 2000 in perdita da inizio anno: il che per gli Usa significa interrompere la serie positiva che dura da 4 anni. E i settori colpiti sono tanti: tecnologie, energia, commodity come minerali e materie prime. Viste le attese di esplosione di consumi digitali cinesi, i 5 giganti internet USA –Netflix, Facebook, Amazon, Googl, Apple – hanno perso 100 miliardi di capitalizzazione in soli 2 giorni. Il petrolio è sceso sotto i 40 dollari al barile per la prima volta in 6 anni., mentre gli USA a luglio hanno estratto petrolio nella maggior quantità mensile dal 1920. Il Vietnam e il Kazakistan hanno fatto saltare i loro cambi fissi. In una sola settimana le valute della Russia, Bielorussia, di molti paesi africani, della Turchia, del Messico e della Colombia hanno perso tra il 3 e i 5%. Per i paesi asiatici che esportano in Cina tra un quinto e un quarto del loro export, dal Vietnam alla Thailandia alla Nuova Zelanda all’Australia, pessime notizie in arrivo.

Il debito pubblico Ue e ITA. Se in termini di export la frenata cinese e la possibile perdita di controllo da parte del governo di Pechino sono un danno maggiore soprattutto per i maggiori esportatori in Cina, a cominciare dalla Germania – noi siamo solo il 25° paese fornitore della Cina nelle graduatorie internazionali, con soli 10 miliardi di export nel 2014 – i danni sono invece anche e soprattutto nostri sul costo del debito pubblico. L’enorme fuga del rischio in atto sui mercati mondiali, l’attesa spasmodica e temuta di un rialzo dei tassi da parte della FED americana in autunno, e in piccolo anche la nuova instabilità creata dalle elezioni greche a settembre, ha portato in una sola settimana i rendimenti percentuali dei titoli di stato decennali italiani a salire del 2%, mentre quelli tedeschi scendevano del 12% e quelli francesi del 3% (malgrado i pessimi dati dell’economia reale e della finanza pubblica d’Oltralpe). Gli Stati Uniti perdono nelle borse, ma l’attesa del rialzo dei tassi riporta flussi finanziari verso i titoli pubblici americani, che hanno visto scendere il rendimento del 7%. In poche parole: gli italiani possono rimetterci dai guai cinesi molto più in tasse aggiuntive per consentire allo Stato di continuare a spendere troppo, che per minor export.

Il rimedio. A questo proposito, il mondo si spacca in due. O meglio, c’è una parte larghissimamente maggioritaria, e una di assoluta minoranza. Il più degli osservatori continua a non vedere che il mondo non può risolvere i suoi guai continuando a pompare montagne di liquidità da parte delle banche centrali che finanziano bolle finanziarie, e tifando perché i comunisti cinesi continuino a destinare migliaia di miliardi in investimenti superflui, e a credere che la borsa di Shangahi per ordine del partito possa solo salire, invece che ridurre valori e prezzi in linea con una bolla immobiliare nascosta per centinaia di miliardi negli attivi di banche di Stato opache. Per questo, i più tifano in realtà perché la Cina continui ad avere falsi mercati finanziari e dei cambi, non riformi le sue banche, non privatizzi e non liberalizzi. Tifano naturalmente perché la Fed da tutto questo deduca che i tassi americani non vanno alzati, perché sarebbe un pessimo segnale dato a tutto il mondo, volto a interrompere politiche monetarie troppo favorevoli alla sola finanza.

Chi scrive qui pensa invece che la Cina debba affrontare la realtà: statistiche non truccate, una valuta che fluttui e il cui prezzo lo faccia il mercato, mercati finanziari mondiali meno drogati dagli Stati. Questo significa tornare alla supremazia dell’economia reale su quella della pura finanza. E aprire la porta a libertà divili e politiche: la fine del potere comunista.

Gli italiani si facciano due conti. Malgrado il petrolio a 40 dollari è grazie al 60% che si frega lo Stato alla pompa in tasse, che il prezzo del carburante non scende. E malgrado il quantitative easing della BCE, come vedete il sovrapprezzo al rischio del debito pubblico italiano torna ad alzarsi, perché nessun artificio del banchiere centrale può nascondere ai mercati che in Italia la spesa pubblica corrente continua a salire, e insieme a lei il gettito fiscale sottratto all’economia pure.

Cari lettori pensateci: la crisi cinese è la moltiplicazione per mille su scala planetaria di ciò che l’eccesso di statalismo provoca sull’economia reale. Direte voi: ma senza Draghi che ci aiuta, pagheremmo ancor di più. Attenti: i politici e la finanza mondiale pensano che scudi come quelli di Draghi non siano emergenze temporanee per fare riforme, ma cuscinetti eterni destinati a nascondere i debiti pubblici, i quali poi, se davvero eccedono la misura, tanto si tagliano con un bell’haircut: mica succede come ai privati che falliscono. Senza scudi, gli indebitati pubblici e finanziari devono tagliare le spese. Con gli scudi, continuano a indebitarsi perché tanto sanno che il costo lo pagate voi e i vostri figli: come contribuenti italiani, come risparmiatori e come consumatori.

18
Ago
2015

Proprio sicuri che debba cambiare la Merkel, e non noi?

Come si è capito dalla visita a EXPO ieri della Merkel e dall’incontro con Renzi, l’Italia di oggi non è un problema prioritario per la Germania, che tifa per le riforme di Renzi. Il voto del Bundestag domani sulla Grecia, il rallentamento della Cina, i migranti, la testa del premier germanico è su quello. Ma, al contrario, il dibattito pubblico italiano vede la Germania come il problema numero uno. Berlino viene considerata come il freno deliberato all’economia nostrana ed europea, attuando un disegno che ci avrebbe reso schiavi delle sue convenienze. Nelle difficoltà, ci si rifugia nei paradossi. I paradossi hanno qualche elemento di verità. Ma li forzano all’estremo, fino a renderli inconseguenti. Forse è il caso di riflettere su quattro punti.

Più Europa o sovranismo? La Germania della Merkel viene considerata ostacolo insormontabile a un’Europa politica solidale. Al parlamento greco, Varoufakis ha attaccato frontalmente le 47 “azioni prioritarie” contenute nelle 30 pagine del memorandum firmato dalla Grecia per ottenere i primi 26 miliardi aiuti, sostenendo che è “un’abdicazione totale alla sovranità greca”. E’ la stessa accusa che da noi alimentano sinistre e destre anti euro. Delle due l’una, però. Non è affatto detto che l’idea di Europa con vigilanza comune su banche e bilanci d’impronta tedesca sia quella giusta, ma Berlino – e nelle ultime settimane, proprio Schaueble – ne avanzano con forza nuove proposte e sviluppi. Criticabilissimi, perché vogliono smontare la Commissione Europea e chiedono che i bilanci siano sorvegliati da un’autorità tecnica, distinta dal Consiglio Europeo che prende le decisioni politiche, perché in realtà stufi di vedere Francia e Italia che ogni anno chiedono eccezioni e rinviano gli impegni. Questa idea di Europa tedesca è interstatale, cioè difende l’idea che i passi in avanti debbano avvenire, ma senza che un solo euro venga trasferito a meno che i parlamenti nazionali dei paesi più forti votino ogni volta. In questo, fanno a mio modesto avviso meglio di noi che su questioni europee il parlamento non lo facciamo votare mai, e tanto meno convochiamo referendum. Se tale idea non ci piace, dobbiamo contrapporre un’altra idea di Europa, con proposte concrete di strumenti comuni sovrannazionali. Non l’abbiamo fatto. Anche perché se logica europea interstatale tedesca ha il difetto di frenare su strumenti comuni federali, in realtà è la francia da sempre a difendere l’idea sovranista nazionalitaria. Se però l’obiezione alla Germania è quella di voler difendere le sovranità nazionali, allora è più coerente chi dice di esser pronto a uscire dall’euro, cosa che viene meglio alle destre antieuro sovraniste (anche a casa nostra) che ai critici dell’euro da sinistra. Ma in ogni caso allora siamo noi, a non credere in una qualunque sfera sovranazionale che dia solidità all’euro, non la Germania che ha comunque un’idea sua, per criticabile che sia.

Concessioni, la strateghi dei pitocchi. Anche in questo pre –autunno 2015, l’Italia chiede alla Germania e alla Ue sforamenti degli impegni già assunti. Poiché sommando i diversi annunci del governo sulla scena nazionale – tra clausole fiscali da far saltare, decontribuzione dei contratti, abolizione dell’IMU, nuovi contratti al pubblico impiego, recupero delle pensioni prima stoppate, misure per le imprese, per la scuola, prepensionamenti e interventi a favore della povertà – la manovra in legge di stabilità supera i 30 miliardi di euro, ma la spending review se va bene è di 10 miliardi. Ecco che ancora una volta chiediamo che non valga l’impegno a contenere il deficit 2016 all’1,8% del PIl, che già l’anno scorso Bruxelles ci ha consentito di accrescere rispetto al deficit all’1,4% che avrebbe dovuto essere obiettivo per il 2016. C’è chi dice che Renzi punti nel 2016 al 2,2% di deficit, chi al 2,5%, chi addirittura al 2,9%. Ma è sempre la stessa storia. Noi i tagli alle spese pubbliche per recuperare copertura a tagli di imposte li rinviamo sempre. La spesa pubblica è salita dal 2012 al 20124 da 821 a 838 miliardi. Nei primi 6 mesi del 2015, è cresciuta di 18 miliardi rispetto al 2014. E’ colpa dei tedeschi, o nostra?

La frenata generale. I dati del secondo trimestre del PIl europeo hanno deluso tutti. Il nostro +0,2% ha però fatto compiacere molti, comparato al +0,4% tedesco invece del +0,5% atteso, e allo 0% francese. L’Europa cresce poco rispetto a USA e Uk, malgrado l’euro in calo, il petrolio sotto i 50 dollari, e il quantitative easing della BCE. La colpa è dei tedeschi, dicono in molti. Ne siete sicuri? O siamo vittime di un’ubriacatura generale nell’interpretazione dei dati? Il punto non è che la Germania crescerà – nelle stime – dell’1,5% nel 2015 rispetto al nostro, forse, stentato +0,7%. Il punto è che gli andamenti annuali vanno parametrati rispetto a quello che ciascuno ha perso o guadagnato negli anni alle nostre spalle. Anche se la Germania perderà di più di noi dalla frenata cinese, l’Italia è l’unico paese che si è impoverito da quando è entrato nella moneta unica: dal 1999 ad oggi il PIL pro capite italiano è sceso di 3 punti percentuali. Nello stesso periodo il PIL pro capite medio dell’area euro è cresciuto di oltre 10 punti, quello della Spagna di 9, quello della Grecia comunque di 3 punti, nonostante la terribile voragine registrata dalla crisi. Negli stessi anni, il PIL pro capite tedesco è salito del 21%, quello americano e britannico del 17%, quello giapponese del 15%. L’export italiano ha fatto miracoli, passando a prezzi correnti dai 440 miliardi di euro del 2008 ai 475 del 2014. Mentre quello tedesco è passato da 1113 a 1325 miliardi. Ma il debito pubblico italiano è passato dal 102% del 2008 al 132%. Su questo, potete pensare che la colpa è dei tedeschi solo se non guardate che nel frattempo abbiamo sempre alzato la spesa corrente pubblica con una spremuta di tasse per non tagliarla, e realizzare comunque possenti e positivi avanzi primari. Siamo il paese record per avanzi primari pubblici nell’euroarea, per ben 591 miliardi in 15 anni a fine 2014 rispetto ai 428 della Germania (la Francia negli stessi anni ha accumulato deficit primari per 338 miliardi). Ma i tedeschi nel frattempo hanno tagliato spesa e tasse, entrambe per più del 5% di Pil, noi le abbiamo fatte crescere. E’ colpa nostra, o tedesca?

La produttività. Ancora una cosa. Tutti guardano alla finanza pubblica, chiedono più deficit e teorizzano che il debito non è un problema, tanto alla peggio basta cancellarlo. Ma in realtà nel nostro paese dovremmo tenere prioritariamente lo sguardo fisso soprattutto a un altro dato, visto che il basso debito estero complessivo e l’elevata patrimonializzazione delle famiglie rende il debito pubblico comunque solvibile. Dovremmo maniacalmente tenere lo sguardo fisso sulla competitività. Da quando siamo entrati nell‘euro a inizio anni Duemila, il nostro CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) nel manifatturiero è aumentato del 37% rispetto a quello tedesco, e se contiamo gli interventi sin qui realizzati dal governo Renzi il gap scende nel 2015 da 37 punti a 35. I tedeschi dal 2002 al 2005 hanno cambiato welfare, puntato ancor più sulla contrattazione aziendale, realizzato in moltissimo grandi gruppi un grande patto tra stop all’aumento dei salari reali e anzi loro diminuzione per la difesa dell’occupazione e più produttività. Da noi i sindacati sono ancora contrari a lavorare a ferragosto all’Electrolux di Susegana per smaltire gli ordini, e sono stati smentiti dai lavoratori che invece hanno lavorato. Sono i tedeschi, a dover cambiar testa, oppure noi? Non dovremmo esser noi per primi a cambiare molto in casa nostra, proprio per aver titoli migliori per eventualmente controproporre una diversa strategia per l’Europa, rispetto a quella interstatale che la Germania persegue?