21
Set
2015

#PropertyIsFreedom: perché difendere la proprietà privata

La nostra Costituzione stabilisce che la proprietà privata “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Si tratta, come noto, di una definizione radicalmente diversa da quella di origine napoleonica (che individuava nella proprietà un diritto assoluto, circoscrivibile soltanto dal rispetto del principio di legalità e del rule of law).

Se la previsione di limiti determinati dalla legge determina già di per sé una compressione del diritto di proprietà, è tuttavia il riferimento alla funzione sociale a costituire la base della maggior parte degli ostacoli che si frappongono al suo pieno esercizio. Ciò, se non altro, nella misura in cui la dottrina maggioritaria interpreta la funzione sociale come “la ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito a un certo soggetto” e intravede di conseguenza nella funzionalizzazione della proprietà un principio generale della materia, che deve operare sempre, anche in assenza di espliciti richiami legislativi.

Nell’impossibilità di discernere nettamente cause e conseguenze, è evidente che a tale filone dottrinale si accompagni, nel nostro Paese, una tendenza culturale a diffidare dell’importanza – economica, ma non solo – della certezza del diritto che una piena tutela della proprietà privata assicurerebbe. Non è un caso, in questo senso, che due fra i più importanti indicatori di libertà economica al mondo (Economic Freedom of the World Report e Index of Economic Freedom) assegnino all’Italia punteggi molto bassi per quanto concerne tutela della proprietà e rispetto del principio di legalità.

Negli ultimi anni, in questo senso, è emerso nel dibattito pubblico un nuovo diritto sociale, denominato “diritto alla casa”, che secondo diverse pronunce giurisprudenziali dovrebbe essere considerato alla stregua di un diritto costituzionale, pur non essendovi menzionato espressamente. Tale dibattito, alimentato dal riemergere di una nuova “questione abitativa”, ha condotto la giurisprudenza a configurare il “diritto alla casa” sullo stesso piano del diritto di proprietà, facendo leva sulla funzionalizzazione di quest’ultimo per arrivare a interrogarsi su quale fosse il corretto bilanciamento fra i due.

Non può sorprendere che oggi, in Italia, il diritto di proprietà sia minacciato da più parti. Le ragioni sono scritte nella Costituzione e nei giornali scientifici recenti e meno recenti, ma si trovano anche nelle chiacchiere al bar e nei dibattiti sui blog. Purtroppo, questa pericolosa tendenza comporta altrettanto notevoli conseguenze sul piano applicativo. Il governo in carica, pochi mesi fa, ha depenalizzato il reato di occupazione abusiva e i tribunali non perdono occasione per convalidare espropri sine titulo e occupazioni in nome del “diritto alla casa”.

L’argomento economico/utilitaristico dovrebbe essere sufficiente per difendere la proprietà, ma non basta. Bisogna tornare a interessarsi delle ragioni sociali, e quindi giuridiche, e di quelle etiche che rendono la difesa del diritto di proprietà una questione prioritaria e mai scontata.

Twitter: @glmannheimer

20
Set
2015

Musei e servizi pubblici, serve una riforma vera dei diritti sindacali

E’ risolutivo ed evitarà nuove chiusure del Colosseo e di Pompei, disporre che i musei siano servizi pubblici essenziali come ha deciso il governo venerdì? La risposta è : dopo anni di polemiche a vuoto la decisione di Renzi e Franceschini  governo è apprezzabile, anche per tempestività come a dire che la misura è colma; ma onestamente bisogna dire che no, la decisione non eviterà il problema. Sindacati a Camusso, che si oppongono a muso duro, restano con molte frecce al loro arco. Perché diciamolo chiaro: da anni queste cose avvengono, perché da anni che non si adottano le misure necessarie. Ora che i musei diventano servizi pubblici essenziali, è bene non dimenticare che molte volte interruzioni disastrose avvengono proprio a cominciare da uno dei più essenziali servizi, il trasporto pubblico locale.

A Roma, nello scorso luglio, 24 giorni consecutivi di sciopero bianco di un paio di sindacatini dell’ATAC hanno messo in ginocchio la metro, con disagi pazzeschi per complessivamente milioni di cittadini e turisti, prima che il prefetto decidesse la precettazione. Ed è rarissimo che ci siano procure come quella di Torre Annunziata che, a fronte della chiusura per assemblea sindacale degli scavi di Pompei a fine luglio, ha aperto un fascicolo per interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale, riservandosi inoltre anche l’ipotesi di reati diversi, come il danno erariale. E’ rarissimo perché in Italia, in materia di diritti sindacali, la giurisprudenza cumulata è molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo, ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni.

Se esaminiamo quanto è avvenuto ieri al Colosseo alla luce delle norme vigenti, l’assemblea sindacale era legittima, richiesta e autorizzata nei tempi dovuti. Ecco perché la Camusso può rispondere a brutto muso a Renzi che non sta né in cielo né in terra tacciare il sindacato di essere nemico dell’Italia. Temo di dovervi dire che non cambietà molto con l’intervento preventivo dell’Autorità garante agli scioperi, che dovrà ora essere investita anche delle assemblee sindacali nei musei dopo il decreto governativo di venerdì. Sta già oggi ai dirigenti pubblici responsabili, a fronte di una richiesta d’assemblea, esaminare se l’assemblea configuri l’interruzione del servizio oppure no. Ma il dirigente pubblico – bneanche l’Autorità garante – non può chiedere preventivamente quanti custodi partecipino all’assemblea, per disporre eventualmente un servizio di vigilanza sostitutivo e temporaneo al fine di consentire l’accesso ai visitatori: perché sarebbe un comportamento antisindacale. La chiusura di Pompei, a luglio, e la decisione del soprintendente di aprire lui personalmente i cancelli ai turisti, avvenne proprio perché il soprintendente era convinto di aver raggiunto coi sindacatini convocatori dell’assemblea un impegno a evitare la chiusura, ma l’impegbnio poteva essere solo verbale e senza conseguenze, perché di fatto poi se all’assemblea va un certo numero di custodi chiudere bidogna.

Ed eccoci dunque alla già nota conclusione che ripetiamo, invano, da anni. In materia di esercizio dei diritti sindacali nei servizi pubblici, come in materia di sciopero nello stesso ambito, serve una vera e propri riforma di sistema, a modifica della legge 146 del 1990 e dei relativi annessi codici di autoregolamentazione, di settore e aziendali. Come si propongono di fare disegni di legge depositati in Senato: tra i più significativi uno di Pietro Ichino del Pd, l’altro di Maurizio Sacconi di Ncd.

Serve scrivere in legge alcune cose fondamentali.

In materia di assemblee sindacali, occorre prevedere che se esse si tengono in orario di lavoro non possano configurare l’interruzione del servizio pubblico. Finché non sarà tassativamente così, quand’anche ci fosse un pm che voglia, come a Torre Annunziata, procedere per interruzione di pubblico servizio a fronte di chiusure come quelle del Colosseo e di Pompei, dovrebbe dimostrare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. E dovrebbe provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione. Resterà così anche dopo il decreto di venerdì.

Quanto allo sciopero, nei servizi pubblici essenziali occorre adottare un criterio rigoroso della rappresentanza minima sindacale di chi li può proclamare – Ichino propone il 50% dei lavoratori del settore, il sindacato naturalmente è contrario – e un referendum preventivo tra i lavoratori, che approvino la proposta come condizione perché lo sciopero si possa tenere. E perché il sì eventuale sia valido la percentuale minima dei favorevoli non deve essere troppo bassa, per capirlo basta dare un’occhiata ai 17 paesi europei su 28 in cui il voto dei lavoratori è previsto.

Ecco, di questo c’è bisogno. Non di meno. I partiti – la destra per non essere accusata di antisindacalismo, la sinistra perché col sindacalismo era intrecciata – hanno sempre esitato a toccare queste materie, né hanno mai attuato la Costituzione con una legge che preveda democrazia interna e piena trasparenza economico-finanziaria dei sindacati. E’ venuto da tempo il momento di farlo. Renzi non si tira indietro dallo scontro coi sindacati. Bene, ora per favore, la politica lo faccia davvero. Basta polemiche frontali a cui seguono misure non risolutive, perché altrimenti servono solo a salire nei sondaggi ma il problema resta e le figuracce internazionali continuano.

19
Set
2015

La burocrate e le lavandaie—di Uliva Foà

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uliva Foà.

Me la immagino la funzionaria della provincia che ha riesumato dal Medio Evo, l’inverosimile balzello. Dopo il sacrificio di una vita sprecata, fra noia e scartoffie, a fare un lavoro il cui scopo è procurarsi abbastanza gettito fiscale da garantirsi uno stipendio, viene gettata via, senza un minimo di riconoscenza, senza una festa con i colleghi, un orologio da far vedere ai nipotini. Fra pochi giorni diventerà una qualsiasi, fra i tanti dipendenti della Regione. Tutto da rifare, in un ambiente nuovo, in cerca, da capo, dei contatti “giusti”. Read More

18
Set
2015

#PropertyIsFreedom: a cosa serve la proprietà privata

C’è una bellissima foto, di metà ‘900 o giù di lì, che ritrae il muro che separa il Messico dagli Stati Uniti. Da una parte c’é Nogales (Sonora, Messico); dall’altra la gemella Nogales (Arizona, USA). Da una parte ci sono perlopiù baracche malandate; dall’altra signorili edifici in mattoni. Da una parte un carretto che trasporta legname; dall’altra ordinate fila di automobili. Cos’ha reso Nogales (Arizona, USA) così diversa da Nogales (Sonora, Messico)?

È questa la domanda da cui prende le mosse un grandioso saggio di due economisti, Daron Acemoglu e James Robinson, significativamente intitolato “Why Nations Fail”. Perché alcune società hanno successo e altre no? L’esempio delle due Nogales è indicativo (come lo sarebbe quello delle due Coree) perché nessuno potrebbe tirare in ballo ragioni legate alla geografia, alle risorse naturali o ai tratti culturali dei loro abitanti (se non in senso molto lato).

Secondo Acemoglu e Robinson, ciò che distingue le società e determina la loro evoluzione sono invece le istituzioni. Verso il successo, se sono istituzioni inclusive, cioè se premiano innovazione, imprenditorialità e pluralità politica; verso l’insuccesso, se sono istituzioni estrattive, cioè se il loro obiettivo primario è il mantenimento del potere, e quindi si rinchiudono in politiche protezioniste o illiberali, caricando di tasse e vincoli i propri cittadini e spremendone le migliori energie per fini personali o destinati al benessere di una ristretta élite. Nogales (Arizona, USA) ha avuto la fortuna di dipendere da istituzioni che le hanno permesso di prosperare; Nogales (Sonora, Messico), viceversa, è stata preda di istituzioni estrattive, che le hanno impedito di farlo, per molto tempo.

Si può essere d’accordo o meno con la tesi di Acemoglu e Robinson, ma un dato merita di essere sottolineato. In tutti gli esempi storici di società che hanno abbracciato istituzioni inclusive, a partire dalla Glorious Revolution sino ad oggi, c’è un elemento costante: la tutela della proprietà privata, intesa sia in senso negativo (cioè come astensione dei poteri pubblici da interventi diretti sulla proprietà) sia in senso positivo (intesa come tutela dello Stato dalle aggressioni alla proprietà commesse da privati verso altri privati).

Senza una tutela rigorosa della proprietà, il sistema dei prezzi, la migliore spia possibile per comprendere le esigenze e i bisogni delle persone, viene modificato unilateralmente dai poteri pubblici e finisce per andare in tilt, dando luogo a bolle finanziarie, espropriazioni di massa e rapine fiscali. Non solo. Senza una tutela rigorosa della proprietà, diviene impossibile valutare correttamente gli incentivi e i disincentivi, i premi e le punizioni che offrono le diverse opportunità economiche. A Nogales (Sonora, Messico), fino a non molto tempo fa, più dell’80% dei guadagni di ciascuno finiva nelle casse dello Stato. Né vi era alcun tipo di tutela contro espropriazioni e occupazioni abusive. Sostanzialmente, vigeva la legge del più forte. Che incentivo poteva avere un imprenditore a innovare o investire? O un lavoratore a migliorare la propria produttività?

Un grande liberale del diciannovesimo secolo, Antonio Rosmini, descrisse la proprietà come una “sfera attorno alla persona”: un fortino di libertà sottratto al potere, da difendere dinanzi ad ogni pretesa di dominio. In fondo, la proprietà non è altro che la forma più efficace di tutela delle minoranze: la “sfera” protegge la più piccola minoranza che ci sia, cioè l’individuo, dall’invadenza (talvolta tirannica) della maggioranza, perlomeno nei suoi affari privati. E non è forse la tutela delle minoranze ciò che rende tanto speciali le nostre democrazie? Ecco perché la proprietà privata non è soltanto l’ingrediente basilare del progresso economico, ma soprattutto il cardine di qualunque società che voglia definirsi libera.

Twitter: @glmannheimer

15
Set
2015

A che punto è il Ddl Concorrenza

Non certo indenne – anzi, piuttosto malandata – ma la legge annuale sulla concorrenza è stata approvata in commissione alla Camera e il prossimo 21 settembre sbarcherà in Aula. Qualche mese fa, avevamo analizzato la bozza del provvedimento presentata dal Governo al Parlamento. Oggi, al termine del passaggio in commissione, ci sembra opportuno rifarlo, limitandoci, come allora, a un’analisi delle disposizioni di maggior rilievo presenti.

Avvocati

È stata confermata la disposizione secondo cui gli studi legali potranno essere (parzialmente) aperti a soci di capitale, che potranno detenere fino al 30% della compagine sociale. Due terzi della società dovranno comunque essere composti da professionisti. E nonostante alcuni rappresentanti delle associazioni di categoria e degli ordini non abbiano perso tempo per evocare lo spauracchio dei “poteri forti” che si appropriano della libertà dei professionisti, si tratta di una novità che, ampliando le possibilità e le scelte (anche di management) degli avvocati, è senz’altro positiva.

È saltata, invece, l’apertura alla possibilità di validare i passaggi di proprietà di immobili non residenziali (box, negozi, ecc.) sotto i centomila Euro, che resta esclusiva dei notai.

Notai

Lo stop al divieto di pubblicità e al riferimento al reddito minimo di 50.000 euro triennali è una buona notizia, ma il fortino resta praticamente inespugnabile. Scompare, in primo luogo, la già accennata conferma dell’esclusiva sulle compravendite di immobili non residenziali sotto i centomila euro, che era più un’estensione dell’esclusiva agli avvocati che non una vera liberalizzazione. D’altra parte, l’emendamento con cui i relatori hanno stabilito il passaggio dei notai da uno ogni 7mila abitanti a uno ogni 5mila, pur costituendo un aumento quantitativo, non va a intaccare il numero chiuso. Parlare di “liberalizzazione”, in questo senso, ha un suono beffardo: un aumento “indotto” di concorrenzialità è certamente positivo, ma ogni nuovo provvedimento che non abroghi il numero chiuso (previsto da una legge del 1913!) è pur sempre una conferma formale che a giudizio del Parlamento il settore abbia bisogno di ritocchi e non di rottamazioni.

Trasporti

Per quanto riguarda i servizi di linea su gomma, rotaia o via mare, è stata prevista una “carta unica dei servizi” e “misure a tutela degli utenti”, tra cui l’obbligo di rendere note ai passeggeri, entro la conclusione del singolo servizio di trasporto usufruito, le modalità per accedere alla carta dei servizi, in particolare le ipotesi che danno loro diritto a rimborsi o indennizzi. Poco, anzi nulla, a che vedere con le liberalizzazioni.

Farmacie

Le farmacie sono state aperte alle società di capitali, pertanto anche chi non è farmacista potrà finalmente acquistare o investire in una farmacia. L’emendamento approvato in commissione Finanze prevede però che, per evitare conflitti d’interesse, non possano comparire tra i soci medici, produttori di farmaci e informatori scientifici. Eliminato anche il tetto che impediva di essere titolari di più di quattro farmacie. Confermato, invece, il divieto di vendita dei farmaci di fascia C nelle parafarmacie e nei corner della GDO: una delle assenze più dibattute del provvedimento, non tanto per il suo peso economico quanto per il valore simbolico di un limite che appare vetusto e immotivato.

Assicurazioni e fondi pensione 

Riprendendo quanto già previsto dal decreto Destinazione Italia di fine 2013, il governo aveva previsto l’obbligo per le compagnie di praticare sconti significativi a chi accettasse una serie di condizioni. Tuttavia, il testo è uscito ridimensionato dal passaggio in commissione (sul punto si rimanda al puntuale intervento di Paolo Belardinelli). Stralciata dalla bozza, invece, la condizione di far riparare l’auto in carrozzerie convenzionate, dopo le molte proteste dei carrozzieri.

Passo indietro per i fondi pensione. La bozza originaria prevedeva la fine dei vincoli dettati dai contratti di lavoro nazionali, stabilendo la piena portabilità dei fondi. Il testo uscito dalla commissione, tuttavia, ha stralciato questa parte del provvedimento, facendo leva su un non meglio precisato obiettivo di “aumentare l’efficienza delle forme pensionistiche complementari collettive”. Dal punto di vista della concorrenza nel settore, lo ribadiamo, è un passo indietro.

Energia 

La tanto attesa piena liberalizzazione dei prezzi dell’energia è posta sub judice. L’addio definitivo al mercato tutelato, previsto per il 2018, è stato subordinato a un rapporto che l’Authority dell’energia dovrà consegnare al MISE entro l’aprile del 2017. E basterà il mancato rispetto solamente di una delle cinque condizioni imposte dal provvedimento (che comunque rispecchiano obblighi previsti dalle direttive Ue) per il passaggio da un operatore all’altro perché la fine della “maggior tutela” slitti di altri sei mesi a partire dal gennaio 2018. Verrà adottato già da subito, tuttavia, un sistema di confronto dei prezzi che possa agevolare i consumatori nei prossimi due anni, mentre le principali società attive nel mercato dell’energia elettrica e del gas dovranno prevedere almeno un’offerta a prezzo fisso e una a prezzo variabile, così da consentire la confrontabilità dei propri servizi agli utenti.

Banche 

Il provvedimento è rimasto pressoché invariato rispetto al testo presentato a suo tempo dal governo, perciò si rimanda all’analisi di Pietro Monsurrò.

Comunicazioni

Rispetto al testo licenziato dal governo, non è cambiato molto: rimangono pertanto del tutto attuali le criticità individuate a suo tempo da Massimiliano Trovato. Fra le novità, le spese da sostenere per cambiare operatore telefonico e recedere dal contratto dovranno essere note al consumatore già al momento dell’offerta e non solo alla conclusione del contratto. Anche qui, poco a che vedere con le liberalizzazioni, se non per l’apertura alla possibilità che i biglietti di mostre, spettacoli ed eventi sportivi siano pagati con credito telefonico, in ottemperanza a una direttiva europea di prossimo recepimento: un piccolissimo passo in avanti verso la disintermediazione delle banche.

Servizi postali

Il Ddl liberalizza il servizio di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari e delle violazioni al Codice della strada. In questo senso, pertanto, la novità è da accogliere certamente con favore: un privilegio – piccolo, ma non insignificante – è stato rimosso.

Twitter: @glmannheimer

14
Set
2015

Profughi: la Germania non aveva capito, ora è lei a dire che i profughi son troppi

Le ultime convulse giornate sul fronte europeo dei profughi offrono una lezione chiara. Non è un fenomeno gestibile con le svolte unilaterali germaniche. E Berlino infatti è stata costretta alla retromarcia, annunciando controlli alle frontiere e blocco dei flussi. Troppi profughi, dice Berlino. Che punta il dito contro Bruxelles. Tanto che il presidente della Commissione Europea Juncker ha dovuto subito, allarmato, chiamare la Merkel. Ma il punto è un altro. Di colpe europee, indifferenze e ritardi nel comprendere il fenomeno e adottare misure e mezzi adeguate, l’Italia ne sa qualcosa da anni. Ma è evidente che Berlino ha potentemente sottovalutato quello che sarebbe stata l’inevitabile conseguenza immediata, all’annuncio della svolta unilaterale tedesca pro profughi.

Alla luce di quanto sta accadendo, oggi al Consiglio Europeo dei ministri dell’Interno la partita non è quella di recepire la ripartizione nazionale dei 120mila profughi aggiuntivi ai primi 32 mila decisi a fine giugno. Ma di verificare immediatamente la disponibilità a una decisione nuova e diversa. Senza un accordo su di una struttura comune e concordata, volta ad affrontare il fenomeno nella sua intera complessità, dalle frontiere esterne europee per i paesi che le hanno come l’Italia, per poi assicurare flussi ordinati attraverso i paesi europei di transito fino a quelli destinatari, non risulta semplicemente possibile gestire ordinatamente un flusso di queste proporzioni: un milione di persone verso la sola Germania, ha detto il vicepremier tedesco Gabriel stamane.

Nel breve volgere di due settimane dall’annuncio unilaterale tedesco, la Germania si è trovata con l’esplosione di un grande problema a Oriente – non solo con l’Ungheria ma con tutti e quattro i paesi del blocco di Visegrad –, al Nord con la Danimarca, e a Sud con l’Austria. Sono state disposte interruzioni del traffico ferroviario con diversi paesi confinanti. Presidenti dei Laender tedeschi hanno dichiarato, come in Renania-Palatinato, di non essere in grado di affrontare i flussi. Inoltre, ministri federali tedeschi hanno fatto altri pesanti annunci unilaterali. A cominciare dal ministro dell’Interno de Maiziere, che ha dichiarato la necessità di “zone d’attesa” per i migranti in Italia, Grecia e Ungheria, quasi come se l’Italia non se ne sobbarcasse l’onere crescente da anni. Francamente, de Maziere poteva risparmiarsi le parole che ha aggiunto, ammonendo gli altri paesi europei a “non approfittare” della disponibilità tedesca. Più comprensione va riservata al ministro dei Trasporti Dobrindt, perché ha testualmente parlato di “fallimento completo della Ue nel proteggere i suoi confini esterni”: cioè, appunto, e innanzitutto, quelli dell’Italia e della Grecia, visto che la Germania non ha frontiere esterne europee.

Molti media europei ieri, di fronte alla degenerazione in scontri di piazza delle manifestazioni inizialmente pro profughi ad Amburgo e Brema, affermavano che la cancelliera Merkel a questo punto si gioca una partita decisiva. Se dovesse tornare indietro e smentirsi, se la Germania in due settimane dovesse dichiarare di non farcela dopo che per anni paesi come l’Italia hanno dovuto gestire l’emergenza commettendo certo molti errori, ma senza mai ottenere il pieno sostegno europeo che serviva, ebbene le conseguenze negative non sarebbero solo per la popolarità interna della Merkel in Germania. Sarebbe un disastro complessivo, che lascerebbe Italia e Grecia ancor più esposte.

Scrivemmo l’indomani stesso della svolta unilaterale tedesca, che essa avrebbe comportato problemi enormi aggiuntivi sia per i paesi di sbarco come l’Italia, sia per quelli di transito. Aggiungemmo di sperare che una svolta di tale portata fosse stata soppesata con cura, e cioè che preludesse alla piena commisurazione di un progetto comune di gestione del fenomeno, e di risorse adeguate. I fatti di questi ultimi giorni dicono con grande chiarezza che non è stato così. Ora è il momento perché i tanti entusiasmi che si sono sprecati cedano il posto a valutazioni fredde e serie. Un’Europa che ha un Fondo speciale per i disastri naturali – il FSUE, creato guarda caso quando la germania nel 2002 fu alluvionata – ma non adotta uno strumento analogo per i disastri umanitari, non è degna delle ambizioni che dichiara. Se il paese economicamente leader di questa Europa  dichiara da un giorno all’altro di esser pronto ad accogliere per anni a venire oltre 500mila profughi l’anno non avendo frontiere esterne europee, non può credere che arrivino in Germania paracadutati sul suo territorio.

Per tutte queste ragioni, l’appello è ad evitare ora un nuovo rimbalzo di responsabilità verso l’Italia. O i leader europei adottano un progetto davvero comune per gestire il fenomeno dovunque in Europa, oppure tra veti nazionali contrapposti e frontiere interne all’Europa chiuse il bilancio da trarre sarà molto amaro. Nell’imperfezione oggettiva in tanti anni delle sue politiche di accoglienza, l’Italia non ha mai esposto l’Europa al danno molto grave che rischiamo nei prossimi giorni e settimane. Le aree di attesa per i profughi servono in Libia, in Egitto, in Tunisia, ma alle richieste italiane sinora non è venuta neanche l’autorizzazione alla terza fase di EurNavFormed, in modo da poterla far intervenire nelle acque libiche e non solo internazionali. Che in queste ore decisive la saggezza aiuti dunque i politici tedeschi. Altrimenti non solo l’esodo non cesserà. Ma, politicamente nei diversi paesi europei sarà il miglior regalo fatto a tutti coloro che cavalcano nazionalismi e razzismi: in molti paesi – va detto, a questo punto – con toni molto più oltranzisti che a casa nostra.

14
Set
2015

La prelazione c.d. artistica: questione di coerenza

Il legislatore nazionale si contraddistingue per una caratteristica peculiare: la carenza di una preventiva ponderazione comparativa degli interessi rilevanti nell’ambito cui indirizza il proprio intervento, basata su un’esaustiva analisi costi/benefici, gli impedisce di valutare quali debbano essere sacrificati in vista del perseguimento di quello reputato prevalente. Conseguentemente, in mancanza di un’adeguata graduazione di istanze tra loro contrapposte, egli tenta di soddisfarle tutte al contempo, elaborando marchingegni normativi la cui complicazione strutturale e procedimentale dà di solito luogo a corto circuiti operativi. Alcuni profili della disciplina inerente ai beni culturali ne rappresentano un palese esempio. Read More

11
Set
2015

Il Giubileo fa già miracoli: l’acqua sarà gratis!

Sarà stato il successo che hanno avuto a Expo, o forse il bisogno della giunta romana di qualche colpo a effetto che placasse le roventi polemiche degli ultimi mesi. Fatto sta che anche Roma sta per essere invasa dalle “case dell’acqua”, come ha dichiarato con orgoglio qualche giorno fa l’ad di Acea (la municipalizzata del Comune di Roma che si occupa di energia e acqua), Alberto Irace: “oggi sono 10, tutte in periferia, ma entro il 2016 saranno almeno 100”. La notizia, di per sé, va salutata con favore: indubbiamente queste “fontanelle 2.0” ampliano l’offerta di acqua nelle nostre città, rendendo i cittadini più liberi di scegliere. Ma è il dietro le quinte a sollevare qualche dubbio, per almeno tre motivi.

Primo. Nonostante la campagna mediatica che ormai da anni proclama la gratuità dell’acqua che sgorga dalle casette (lo stesso Irace ha dichiarato che “si tratta di distributori gratuiti”), queste ultime costano e non poco. Innanzitutto perché l’acqua “alla spina” proviene dagli acquedotti comunali: il fatto di pagarli con le imposte e non direttamente non ne abbatte il costo, anzi, semmai lo nasconde. Quindi, no, non è gratis: la pagano i contribuenti, esattamente come quella che sgorga dai loro rubinetti (essendo la stessa, identica acqua). Ma non solo: i costi d’installazione delle casette, nel progetto di Acea, ammontano a 3 milioni di Euro, senza contare la futura manutenzione. Tutto, nuovamente, pagato dai contribuenti. Altro che gratis!

Secondo. Ammesso e non concesso che taluni contribuenti siano felici che le proprie tasse finanzino le casette dell’acqua, siamo certi che queste rientrino nel perimetro del servizio idrico essenziale, atteso che la medesima acqua che da esse viene somministrata finisce già sulle case di tutti i residenti romani, attraverso i rubinetti? Oppure il vantaggio fornito alle casette dell’acqua – rispetto, che so, all’acqua in bottiglia – è un sostegno ingiustificato a un particolare settore di mercato? C’è davvero bisogno di un intervento pubblico che finanzi le casette dell’acqua, o è un’attività che potrebbe essere lasciata in mano ai privati eventualmente interessati? E siamo certi che quei soldi non potessero essere usati per fini più nobili di fontanelle 2.0 che distribuiscano l’acqua potabile che già sgorga dai rubinetti di tutte le case romane?

Terzo. La stessa campagna mediatica che fa leva sulla gratuità delle case dell’acqua invoca spesso i benefici ambientali e i risparmi di plastica generati dal loro utilizzo. Ma questo messaggio è ingannevole, quando non addirittura discriminatorio. Sostenere che le famiglie possano diminuire il costo dell’acqua imparando a bere quella dell’acquedotto invece di quella in bottiglia, infatti, mette in concorrenza fra loro due prodotti che non sono equivalenti. E che dire di chi è costretto a bere acqua minerale per ragioni di salute?

Probabilmente, durante il Giubileo, i pellegrini saranno ben contenti di godere del miracolo dell’acqua gratis; i contribuenti romani dovrebbero esserlo un po’ di meno.

Twitter: @glmannheimer

8
Set
2015

Tra profughi e migranti, due rischi per l’Italia

Su profughi e migranti può essere, speriamolo davvero, che in Europa sia in corso una vera accelerazione storica, da tardiva presa di consapevolezza. Gli antitedeschi per pregiudizio masticano amaro, perché è la Merkel ad aver svoltato. Il punto ora è cercare di ragionare, senza farsi travolgere dall’entusiasmo. Dopo anni, come Italia, trascorsi a misurare la testarda sottovalutazione altrui di un fenomeno che sembrava colpire solo noi. Domani al parlamento europeo il presidente della Commissione, Juncker, terrà il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Si dovrebbero finalmente capire i dettagli delle proposte su cui sta lavorando Bruxelles. Si capirà davvero come funionerebbe il piano di ripartizione comune dei profughi passato da 32mila a 160mila richiedenti asilo. E in che cosa consista l’eventuale opting out a pagamento, per chi rifiuta le quote. Già sapendo che Madrid ieri ha detto no ai 15 mila che gli spetterebbero. Che i paesi centro europei del blocco di Visegrad mantengono le loro obiezioni (e muri). E che i bavaresi della Csu obiettano alla Cdu della Merkel sui 31 mila che spetterebbero alla Germania, in aggiunta alle centinaia di migliaia di siriani che la Germania a questo punto si attende, avendo dichiarato la politica della porta aperta a chi è in fuga da quel paese.

Come italiani, è il caso di fare due riflessioni fuori dai denti. Prima che sia troppo tardi, e cioè che il precipitato europeo assuma la conclusione di regole nuove formalizzate, al posto di quelle di Dublino. C’è un primo aspetto, che riguarda i soggetti destinati al meccanismo delle quote. E ce n’è un secondo, che investe le iniziative che – anch’esse sul tamburo – si annunciano da parte di capitali europee nei confronti di paesi da cui originano i flussi.

La Germania sotto la guida della Merkel ha compiuto una scelta che cambia l’atmosfera in Europa. E lo ha fatto con assoluta fedeltà allo spirito tedesco. Cioè tutelando in maniera rigorosa i propri interessi nazionali economici. Le porte spalancate ai profughi dalla Siria identificano la comunità nazionale – tra tutte quelle impegnate nell’esodo biblico in corso – meglio formata come capitale umano e più dotata di proprie risorse, anche finanziarie. La Siria è stata per decenni una tirannia, ma laica e ben scolarizzata. Di conseguenza non è solo un atto di grande generosità, fronteggiare il declino demografico in presenza della bassa disoccupazione tedesca con centinaia di migliaia di nuovi potenziali lavoratori, dotati di una formazione tra le meno lontane dai nostri standard europei. E’ una mossa economicamente intelligente e vantaggiosa. Si tratta di manodopera pronta a consumi crescenti, e di integrazione assai meno ardua di praticamente tutti gli altri profughi e migranti che si orientano verso l’Europa. Marine Le Pen ha usato un linguaggio becero, parlando di Germania che recluta nuovi schiavi. Ma che il governo tedesco abbia tenuto ben presente anche la propria convenienza economica, è un fatto. I 6 miliardi stanziati avranno un ritorno incomparabilmente superiore negli anni a quelli spesi in altri paesi, alle prese con flussi di ben altro tipo.

Che cosa implica per noi, la decisione tedesca di scegliersi i profughi, e di dare per questo una spallata alle ipocrite norme europee precedenti? Inutile girarci intorno. Se l’Italia non agisce, si profila un rischio evidente. Verranno riallocate verso altri paesi europei alcune decine di migliaia di richiedenti asilo, oggi in Italia. Ma resteremo noi a fronteggiare centinaia di migliaia di migranti economici, non provenienti da Siria o Afghanistan, cioè Stati falliti e in preda a devastanti guerre etnico-religiose, ma da paesi che non ricadono nella categoria che origina lo status di profugo, ma in cui miseria e violenza spingono comunque verso i nostri lidi. Migranti che non appartengono alla bassa e media ex borghesia siriana, ma che nella generalità sono poco scolarizzati, privi di ogni risorsa, di più difficile integrazione. Anche per l’Economist, anche adottando i più estesi criteri di concessione dello status di profughi, oltre la metà degli sbarchi in ITA NON può essere compresa in tale categoria (Nigeria, Gambia, BanglaDesh etc..).

Di fronte a tale rischio, delle due l’una. O l’Italia si impegna perché al tavolo delle nuove norme europee non ci siano solo regole nuove e condivise sul diritto d’asilo ma anche sulla materia dei migranti economici: lasciando aperta la possibilità a chi ne voglia ospitare di più perché crede che le frontiere aperte siano economicamente un bene – ma a pensarlo a in termini così liberal-liberisti siamo in pochissimi, inutile illudersi – ma anche prevedendo l’ipotesi di quote estese anche ai migranti economici, in relazione per esempio al reddito medio pro capite dei diversi paesi, e non più lasciandoli dunque per indifferenza preferenziale a chi ha più frontiere esterne alla Ue e a Schengen, siano esse marittime o terrestri. Oppure, molto semplicemente, è venuto il momento per l’Italia di darsi un criterio sui migranti economici del tutto diverso da quelli delle quote della Bossi-Fini, e cioè “scegliendo” anche noi capitale umano e qualifiche, come da tempo hanno fatto altre grandi nazioni occidentali come l’Australia. Non sono affatto scelte in controtendenza rispetto alla “svolta umanitaria” tedesco-europea. Si tratta di rendere l’integrazione economicamente sostenibile: in un paese come l’Italia, che da una parte ha perso un quarto della produzione industriale e dei suoi investimenti in 7 anni e ha una bassissima partecipazione al mercato del lavoro, e dall’altra ha un rilevante problema demografico, è comunque fisiologico ragionare così.

La seconda considerazione riguarda i tamburi di guerra che Francia e Gran Bretagna hanno improvvisamente preso a suonare sulla Siria. Anche su questo, parliamo chiaro. Anni di indifferenza e idee confuse americane e occidentali sulla tragedia siriana hanno prodotto un genocidio e l’Isis. Ma guardiamoci da un rischio. Cioè che avvenga un bis dell’improvvisazione franco-britannica che condusse alla fine di Gheddafi. Se potenze europee hanno deciso d’impegnarsi sui cieli e sul terreno siriano, auguri. nel senso che c’è da sperare abbiano chiaro in mente “dopo” che Siria costruire. Ma oltre il 90% dei flussi che si scaricano sull’Italia provengono dalla Libia. Abbiamo bisogno che al più presto la Ue si decida a impegnarsi all’ONU per autorizzare la terza fase del dispositivo aero-navale EurNavForMed, cioè per poter colpire scafisti e trafficanti anche nelle acque e sulle coste libiche, e non solo nelle acque internazionali mediterranee. Dobbiamo ottenerlo perché il nostro primo problema si chiama Libia. Non è alternativo alla Siria. Ma se non leviamo una voce forte la nostra ferita resta aperta, e non è affatto detto che in Siria i franco-britannici-americani facciano meglio del disastro al quale hanno spalancato le porte in Libia.