I referendum anti-trivelle di 10 Regioni: 3 motivi per dire no
Ieri non sono stati depositati in Cassazione i referendum che erano stati promossi da Pippo Civati, non hanno raggiunto le 500mila firme. Due quesiti erano contro la cosiddetta legge Sblocca-Italia che autorizza le trivellazioni alla ricerca di gas e petrolio. Ma cambia poco, rispetto alla decisa opposizione che in molta parte d’Italia in questi ultimi anni si manifesta contro praticamente ogni ricerca di nuovi fonti energetiche fossili e contro qualsivoglia opera infrastrutturale correlata, si tratti di rigassificatori, gasdotti o quant’altro. Infatti ben 10 Regioni hanno depositato in Cassazione 6 quesiti referendari del tutto analoghi e anzi più estensivi di quelli di Civati, contro l’ultimo Decreto Sviluppo e contro la Sblocca-Italia. Dopo le ultime elezioni regionali, il governatore della Puglia Michele Emiliano aveva subito preso la testa dei referendum anti trivellazioni, e contro la decisione ricentralizzare nazionalmente le decisioni per quanto riguarda le opere energetiche strategiche. E a seguirlo sulla via referendaria, ecco Campania, Basilicata, Calabria, Abruzzo, Molise, Marche, Sardegna: tutte Regioni a guida Pd. Ma anche il Veneto di Zaia, e la Liguria di Toti. Intanto a Brindisi alla fine è saltato il rigassificatore dopo 11 anni di inutile attesa da parte di British Gas. Fortissima l’opposizione al TAP, il gasdotto che doveva unire il Salento all’Azerbajgian via Grecia e Albania, nonché ai cinque tratti che dal Sud al Nord Italia dovevano incanalare miliardi di metri cubi di gas lungo l’asse adriatico verso il NordEuropa.
Il no a nuove fonti energetiche e alle opere infrastrutturali pone in particolare tre problemi molto seri. Il primo riguarda il modello di sviluppo. Il secondo, la catena di rappresentanza politica. Il terzo, quale sia il compito delle classi dirigenti.
Che cosa ha davvero in mente, chi dice no per principio? Non crediamo che la risposta possa essere solo la difesa del modello attuale. La risposta, con ogni probabilità, indicherebbe un modello di forte sostenibilità ambientale, e di energia rinnovabile e pulita.
Per controbattere, non c’è bisogno di scomodare stime complesse della ricaduta economica in termini di crescita aggiuntiva e occupazione di ciascuna delle scelte energetiche a cui si dice no. Stime che, ogni volta che le si avanzi, vengono contestate in radice. Bastano invece due esempi concreti. Chiedere agli scozzesi, fino a pochi anni fa il Nord depresso del Regno Unito com’è il nostro Sud storicamente in Italia, come e perché vogliano l’indipendenza da Londra proprio per beneficiare ancor più del petrolio e del gas del Mare del Nord. Chiedere ai norvegesi, se non sia stato il combustibile fossile estratto dall’Oceano ad alimentare benessere e sviluppo di un paese che ha avuto la saggezza di destinare una quota fissa obbligatoria delle royalties petrolifere a un fondo nazionale d’investimenti, che da molti anni rappresenta un polmone essenziale dello sviluppo economico e sociale norvegese.
Né in Scozia né in Norvegia petrolio, gas e infrastrutture energetiche legate al ciclo dei fossili sono risultati incompatibili con fortissima tutela ambientale e con elevato sviluppo di fonti rinnovabili, a cominciare dall’eolico e dalle correnti marine. Ergo, se in Italia si crede che il no a trivellazioni gasdotti e rigassificatori sia la via per raggiungere l’Eden, quel paradiso in terra sarà ancora destinato al basso sviluppo. In un paese in cui – non dimentichiamolo – la stima dell’ultimo rapporto dell’osservatorio sui Costi del non fare indica che rischiamo di dissipare entro il 2030 124 miliardi di ricchezza, bloccando le scelte energetiche già in cantiere.
E’ evidente che, nel no dei governatori e dei partiti, si manifesta un grande problema di rappresentanza politica. La scelta prevalente è stata sposare l’opposizione dal basso, di comitati locali e movimenti di forte ostilità a scelte vissute come “calate dall’alto”, di incerte ricadute locali, e di temute conseguenze ambientali. Ma una rappresentanza politica che si sdraia sui timori, quelli di chi in un paese a fortissima dipendenza energetica immagina di seguire la via dei “fai da te”, finisce per rinunciare alla propria funzione essenziale, cioè guidare i processi e alimentare visioni di sviluppo all’altezza dei gap accumulati e da recuperare.
Terza riflessione: non è un problema che riguardi però solo la politica. E’ un problema di cultura industriale, e riguarda tutte le classi dirigenti. I timori e le opposizioni che animano il pregiudizio ostile dei territori non vanno sposati unilateralmente, ma neanche affrontati con sprezzanti stime e slides di tecnici energetici e analisti dei mercati. Com’è noto, se si segue tale strada si ottiene l’effetto opposto, quello di apparire come “servi” dei grandi interessi multinazionali del circuito energetico e infrastrutturale.
Timori e ostilità si possono affrontare positivamente solo con un grande sforzo culturale, con confronti aperti e pazienti, volti a radicare nuova fiducia verso i fondamenti di uno sviluppo che non potrà fare a meno ancora per lungo tempo di fonti fossili, ma che può contare su tecnologie raffinate per contenerne i rischi in ogni fase, dalla ricerca all’estrazione, dal trasporto alla conversione di fase, fino all’utilizzo diretto per produrre altre forme di energia e alle emissioni. Un’Italia a minor dipendenza energetica, e che divenisse davvero hub del gas per l’intera Europa, avrebbe maggior PIL, pingui royalties da investire, e molti occupati aggiuntivi. Non è davvero cosa da poco.