1
Ott
2015

I referendum anti-trivelle di 10 Regioni: 3 motivi per dire no

Ieri non sono stati depositati in Cassazione i referendum che erano stati promossi da Pippo Civati, non hanno raggiunto le 500mila firme. Due quesiti erano contro la cosiddetta legge Sblocca-Italia che autorizza le trivellazioni alla ricerca di gas e petrolio. Ma cambia poco, rispetto alla decisa opposizione che in molta parte d’Italia in questi ultimi anni si manifesta contro praticamente ogni ricerca di nuovi fonti energetiche fossili e contro qualsivoglia opera infrastrutturale correlata, si tratti di rigassificatori, gasdotti o quant’altro. Infatti ben 10 Regioni hanno depositato in Cassazione 6 quesiti referendari del tutto analoghi e anzi più estensivi di quelli di Civati, contro l’ultimo Decreto Sviluppo e contro la Sblocca-Italia. Dopo le ultime elezioni regionali, il governatore della Puglia Michele Emiliano aveva subito preso la testa dei referendum anti trivellazioni, e contro la decisione ricentralizzare nazionalmente le decisioni per quanto riguarda le opere energetiche strategiche. E a seguirlo sulla via referendaria, ecco Campania, Basilicata, Calabria, Abruzzo, Molise, Marche, Sardegna: tutte Regioni a guida Pd. Ma anche il Veneto di Zaia, e la Liguria di Toti. Intanto a Brindisi alla fine è saltato il rigassificatore dopo 11 anni di inutile attesa da parte di British Gas. Fortissima l’opposizione al TAP, il gasdotto che doveva unire il Salento all’Azerbajgian via Grecia e Albania, nonché ai cinque tratti che dal Sud al Nord Italia dovevano incanalare miliardi di metri cubi di gas lungo l’asse adriatico verso il NordEuropa.

Il no a nuove fonti energetiche e alle opere infrastrutturali pone in particolare tre problemi molto seri. Il primo riguarda il modello di sviluppo. Il secondo, la catena di rappresentanza politica. Il terzo, quale sia il compito delle classi dirigenti.

Che cosa ha davvero in mente, chi dice no per principio? Non crediamo che la risposta possa essere solo la difesa del modello attuale. La risposta, con ogni probabilità, indicherebbe un modello di forte sostenibilità ambientale, e di energia rinnovabile e pulita.

Per controbattere, non c’è bisogno di scomodare stime complesse della ricaduta economica in termini di crescita aggiuntiva e occupazione di ciascuna delle scelte energetiche a cui si dice no. Stime che, ogni volta che le si avanzi, vengono contestate in radice. Bastano invece due esempi concreti. Chiedere agli scozzesi, fino a pochi anni fa il Nord depresso del Regno Unito com’è il nostro Sud storicamente in Italia, come e perché vogliano l’indipendenza da Londra proprio per beneficiare ancor più del petrolio e del gas del Mare del Nord. Chiedere ai norvegesi, se non sia stato il combustibile fossile estratto dall’Oceano ad alimentare benessere e sviluppo di un paese che ha avuto la saggezza di destinare una quota fissa obbligatoria delle royalties petrolifere a un fondo nazionale d’investimenti, che da molti anni rappresenta un polmone essenziale dello sviluppo economico e sociale norvegese.

Né in Scozia né in Norvegia petrolio, gas e infrastrutture energetiche legate al ciclo dei fossili sono risultati incompatibili con fortissima tutela ambientale e con elevato sviluppo di fonti rinnovabili, a cominciare dall’eolico e dalle correnti marine. Ergo, se in Italia si crede che il no a trivellazioni gasdotti e rigassificatori sia la via per raggiungere l’Eden, quel paradiso in terra sarà ancora destinato al basso sviluppo. In un paese in cui – non dimentichiamolo – la stima dell’ultimo rapporto dell’osservatorio sui Costi del non fare indica che rischiamo di dissipare entro il 2030 124 miliardi di ricchezza, bloccando le scelte energetiche già in cantiere.

E’ evidente che, nel no dei governatori e dei partiti, si manifesta un grande problema di rappresentanza politica. La scelta prevalente è stata sposare l’opposizione dal basso, di comitati locali e movimenti di forte ostilità a scelte vissute come “calate dall’alto”, di incerte ricadute locali, e di temute conseguenze ambientali. Ma una rappresentanza politica che si sdraia sui timori, quelli di chi in un paese a fortissima dipendenza energetica immagina di seguire la via dei “fai da te”, finisce per rinunciare alla propria funzione essenziale, cioè guidare i processi e alimentare visioni di sviluppo all’altezza dei gap accumulati e da recuperare.

Terza riflessione: non è un problema che riguardi però solo la politica. E’ un problema di cultura industriale, e riguarda tutte le classi dirigenti. I timori e le opposizioni che animano il pregiudizio ostile dei territori non vanno sposati unilateralmente, ma neanche affrontati con sprezzanti stime e slides di tecnici energetici e analisti dei mercati. Com’è noto, se si segue tale strada si ottiene l’effetto opposto, quello di apparire come “servi” dei grandi interessi multinazionali del circuito energetico e infrastrutturale.

Timori e ostilità si possono affrontare positivamente solo con un grande sforzo culturale, con confronti aperti e pazienti, volti a radicare nuova fiducia verso i fondamenti di uno sviluppo che non potrà fare a meno ancora per lungo tempo di fonti fossili, ma che può contare su tecnologie raffinate per contenerne i rischi in ogni fase, dalla ricerca all’estrazione, dal trasporto alla conversione di fase, fino all’utilizzo diretto per produrre altre forme di energia e alle emissioni. Un’Italia a minor dipendenza energetica, e che divenisse davvero hub del gas per l’intera Europa, avrebbe maggior PIL, pingui royalties da investire, e molti occupati aggiuntivi. Non è davvero cosa da poco.

27
Set
2015

Milton Friedman e Franco Modigliani sarebbero d’accordo: meno tasse ai giovani

Mentre il ministro Padoan onestamente ammette di nutrire preoccupazioni per le conseguenze che la truffa Volskwagen potrebbe esercitare anche sull’economia italiana, rispetto all’ottimismo inveirò eccessivo a cui è ispirato il DEF su crescita nominale e fattori esogeni, continua ogni giorno il confronto sulle misure in preparazione per la legge di stabilità.

Per le imprese, tra le novità positive degli ultimi giorni si annuncia un potenziamento degli incentivi sull’edilizia, e una correzione del pasticcio fatto l’anno scorso e mal rimediato sul regime dei mimimi per le nuove partite IVA. Ottime cose. Due settimane fa abbiamo scritto come, per il resto, fare una scelta secca potenziando gli incentivi per ricerca e innovazione e cambiando il regime degli ammortamenti dovrebbe rappresentare una priorità: sono misure che hanno il vantaggio di far crescere il PIL potenziale incoraggiando gli investimenti, oggi ancora “piatti” tranne che nell’auto e poco altro. Com’è chiaro, le imprese non riavranno certo la decontribuzione di 8mila euro per ogni nuovo contratto non aggiuntivo di cui hanno beneficiato nel 2014: ed è un bene.

Ma per quanto riguarda il fisco sui redditi delle persone? Anche qui occorre un discorso analogo. Anche se il governo rinvia al 2017-2018 scelte di sistema su questo versante, ciò malgrado sarebbe necessario lanciare subito dei segnali precisi. Scegliendo priorità, indicandole da subito.

Si possono avere pochi dubbi: la prospettiva generale è diminuire gli effetti impropri dell’ eccessiva progressività che il nostro sistema ha finito per accumulare ne tempo. Non solo per la tagliola rappresentata dallo scatto dell’aliquota al 38% alla soglia dei 28mila euro lordi, ma per il fatto che, attraverso il perverso gioco delle detrazioni familiari attualmente esistenti – che infliggono un devastante declino alla demografia italiana – finiscono per pagare un’aliquota reale superiore al 40% anche coloro che di aliquota legale dovrebbero pagare il 23 o il 27% , se hanno due figli e un solo reddito in famiglia.

Ma se questo è l’obiettivo finale di un intervento serio e organico su aliquote e detrazioni, in realtà le priorità da identificare subito si chiamano “donne” e “giovani”. Non i prepensionamenti nella fascia 57-62 anni, a cui invece si dedica quotidianamente l’arroventato dibattito tra governo e parti agguerrite della sua maggioranza.

Perché priorità alle donne? Perché ancora nel 2014 in Italia l’85% delle dimissioni volontarie dal lavoro da parte di dipendenti con figli ha riguardato loro: le donne. L’onere della tutela parentale e familiare resta a schiacciante maggioranza a carico loro, nell’organizzazione del lavoro e nella mentalità italiana. In un paese dove l’ISTAT certifica che lo Stato riesce a coprire solol’11,8% della domanda di servizi all’infanzia. Diamo allora subito un segnale su questo: la parte della delega al Jobs Act relativa alla conciliazione famiglia-lavoro delle donne è rimasta purtroppo inattuata. Introduciamo subito un significativo  credito d’imposta per il congedo parentale: è pazzesco non averlo, in un paese che totalizza 161 miliardi di mancato gettito attraverso centinaia di detrazioni a questa e quella lobby e nicchia economica.

Più in generale, occorre rivedere profondamente l’imposizione fiscale e contributiva sui giovani. Lanciamo allora un sasso nello stagno. In un’Italia dove anche la ripresa occupazionale avviatasi riguarda solo gli over 50 e dopo due generazioni di giovani precari, è tempo che il fisco ritorni a una fondamentale acquisizione del ‘900. Stiamo parlando della teoria del ciclo vitale del risparmio e dei consumi, che si deve a quel geniale economista teorico e applicato che era Franco Modigliani, e che gli valse il Nobel nel 1985.

Che cosa ci ha insegnato, la teoria del ciclo vitale? Essenzialmente, tre cose. Che il risparmio cresce quando si lavora e si dispone di un reddito, per calare durante il pensionamento. Che i consumi crescono meno della crescita del reddito, se c’è un calo delle tasse avvertito come non permanente, perché si risparmia più che consumare aspettando nuove tasse. E infine che il tasso di risparmio è tanto più elevato quanto maggiore il tasso di crescita totale di lungo periodo, e tende ad annullarsi se non si cresce. Sono tra le poche acquisizioni dell’economia pienamente condivise anche tra scuole diverse: su queste idee di Modigliani era perfettamente d’accordo anche Milton Friedman, con la sua teoria del reddito permanente.

I giovani in Italia oggi mediamente hanno o zero o pochissimo reddito, e tardano moltissimo a iniziare una regolare vita contributiva. Abbiamo cambiato le regole del lavoro, con il Jobs Act. Ma non quelle relative al fisco. Serve una svolta radicale: immaginare aliquote reali, attraverso detrazioni e deduzioni ad hoc, inversamente proporzionali all’anzianità contributiva dei giovani. Chi ha meno anni di lavoro, a parità di reddito deve pagare meno imposte e contributi di chi ha vita contributiva più alta. Nell’arco di tempo lavorativo, le detrazioni scenderebbero progressivamente, fino ad annullarsi e a prevedere un aggravamento a fine vita lavorativa. Realizzando, nel corso dell’intera vita lavorativa di ciascuno, una perfetta equivalenza attuariale di quanto si contribuirebbe a fisco, previdenza e sanità senza l’agevolazione ai giovani che invece oggi serve.

E’ una scelta radicale di prospettiva, quella di un fisco amico per giovani, donne famiglie. Che fin d’ora si può imboccare, come primo passo per una revisione generale delle aliquote (e della spesa, come ha insegnato Modigliani..)

 

 

25
Set
2015

Il sistema dei trasporti in Italia tra arbitrii e segreti—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Non solo trasporti: sarebbe stato il sottotitolo più scontato degli ultimi 20 anni che, infatti, il bel libro L’arbitrio del principe: sperperi e abusi nel settore dei trasporti, che fare? di Marco Ponti, Stefano Moroni e Francesco Ramella” (IBL Libri 2015), non ha. Ma è per far capire che si tratta di un libro che ha più chiavi di lettura: ci permette con chiarezza e semplicità di viaggiare nei meandri tecnici, economico-finanziari del sistema dei trasporti italiano, ma la destinazione finale, per dirla con le parole della prefazione di Carlo Cottarelli “Sono i principi che dovrebbero guidare l’azione della spesa pubblica (…) Quei principi ci dovrebbero dire quale è il confine appropriato tra area di azione del settore pubblico e area di azione del settore privato e quali sono i limiti alla discrezionalità che chi gestisce la cosa pubblica dovrebbe rispettare se si vogliono ridurre gli sprechi”. Read More

22
Set
2015

#PropertyIsFreedom: salviamo il diritto di proprietà

Nel nostro sistema legale, nessuno può dire se una legge nuova sarà abrogata tra un anno o un mese o un giorno (…). Ne risulta che, se non si tiene conto delle ambiguità del testo, si è sempre ‘certi’ per quanto riguarda il contenuto letterale di ogni norma in un dato momento, ma non si è mai certi che domani ci sarà ancora la stessa regola di oggi.

La citazione è di Bruno Leoni, da “Freedom and the law”, ed è molto attuale. Pensiamo agli investimenti esteri: pochi, pochissimi, in Italia. Se consultate i principali studi in materia, scoprirete che a far paura agli investitori non sono (solo) le tasse o la burocrazia. No: il problema dell’Italia è soprattutto l’incertezza: le tasse che cambiano nome e aliquote, le regole modificate in corso d’opera, le azioni incontrollate della magistratura, gli espropri sine titulo. Segno di uno Stato che non può, o non vuole, tutelare il diritto più importante che c’è: la proprietà privata.

Si pensi al Teatro Valle, una delle tante note dolenti della triste melodia che accompagna la tutela della proprietà in Italia. Emblematica, perché racconta di una gestione pubblica disastrosa, sostituita non da un ordinato processo di valorizzazione e privatizzazione, come sarebbe lecito aspettarsi, bensì da un’occupazione che dura da anni col beneplacito dell’intellighenzia sessantottina e non solo.

Chi si è occupato del Valle si è spesso soffermato sul fatto che non paghi tasse e bollette o che si tratti di un bene sottoposto a vincoli storico-monumentali. Tutto giusto, ma a ben vedere l’aspetto più grave è che uno Stato non riesca a far rispettare, all’interno della propria capitale, il più elementare dei diritti di proprietà.

Un caso, quest’ultimo, che ricorda per molti aspetti quello delle occupazioni abusive di case popolari. Basti pensare a Milano, ormai da anni teatro di un’emergenza che, come per il Valle, vede l’abusivismo farsi beffe delle regole. Gli occupanti, del resto, hanno buon gioco a lamentare la lentezza della burocrazia comunale, che impiega spesso anni per ristrutturare e riassegnare gli alloggi sfitti. Anche in questo caso, le istituzioni perdono due volte: quando non riescono a gestire l’emergenza abitativa e poi quando, una volta acclarato il fallimento delle proprie politiche, si dimostrano incapaci di far rispettare i diritti di proprietà. Uno Stato elefantiaco, che nel fare troppe cose finisce per farle tutte male. Per colpa di chi? Difficile attribuire responsabilità precise, ma certamente la legislazione in materia non aiuta. Si pensi all’articolo 54 del codice penale, che è stato utilizzato come scriminante per l’occupazione abusiva di case e appartamenti per ragioni di solidarietà sociale. O alla legge-delega 67/2014, con la quale il governo in carica ha di fatto depenalizzato l’occupazione.

Ma l’indolenza non è il male più grave. Quando ad essa sostituiscono pretese di onniscienza e interventismi iatrogeni, i governi riescono spesso a fare ancora di peggio. Basti pensare alle espropriazioni senza titolo, dichiarate illegittime in diverse occasione dall’ECHR senza che l’introduzione della c.d. “acquisizione sanante”, nel 2011, abbia reso la normativa italiana in linea con quanto più volte richiestoci. O alle regole sulla determinazione dell’indennizzo da espropriazione, che fino a pochi anni fa facevano leva su un supposto “interesse allo sviluppo economico- sociale” per restituire ai privati molto meno del valore di mercato dei beni espropriati.

Questi e molti altri sono gli esempi di uno Stato che calpesta i diritti di proprietà, trattandoci come sudditi, e che d’altra parte non è in grado di farlo rispettare nemmeno dai suoi consociati. Ecco perché è da qui, dal diritto di proprietà, che bisogna ripartire per tornare ad essere Cittadini.

Twitter: @glmannheimer

21
Set
2015

Il carisma Tsipras: la logica non è la coerenza, è la coerenza di voler rivincere l’unica logica

Capisco l’esercito di astenuti in Grecia. Non ti viene la voglia di votare per la terza volta in 9 mesi, dopo aver dato la vittoria a gennaio a chi giurava di ribaltare le richieste Ue, dopo averla ridata a chi dal governo ti ha riportato a un referendum per respingere le richieste Ue, ma alla fine le richieste Ue le ha dovute e volute firmare, moderatamente attenuate ma sempre durissime, e comunque molto più dure di quelle che la Grecia avrebbe ottenuto se non avesse dato retta a Tsipras all’inizio. Ma che cosa significa davvero, la neovittoria netta di Tsipras? Per favore, ora non commettiamo l’errore di considerarlo un riformista socialdemocratico, perché non lo è affatto. Ma andiamo per ordine.

Non ci sarà dunque il governo di solidarietà nazionale tra Syriza e Nea Demokratia, l’esito che l’Europa sperava. Perché va bene che Tsipras ha dovuto cambiare radicalmente idea ed è diventato inopinatamente realista, invece di inseguire l’avventurista piano B di Varoufakis che voleva uscire dall’euro arrestando il presidente della banca centrale ad Atene. Ma l’Europa avrebbe preferito  se ora Tsipras avesse dovuto condividere la responsabilità di governo con chi, come Meimarakis di Nuova Democrazia, esplicitamente dice che l’unica cosa che la Grecia deve fare è rispettare le intese con l’Europa, e pedalare ventre a terra. Al contrario, Syriza e la formaziocina di destra nazionalista con cui era spregiudicatamente alleata riottengono la maggioranza, sia pur risicata. Tsipras ha detto in campagna elettorale – l’unica cosa che ha detto, praticamente, è stato lontanissimo da ogni impregno concreto – che non avrebbe accettato mai un governo di convergenza. E i greci gli hanno dato ragione. Forse c’è della razionalità, in questo. Se Tsipras ritira la corda – come credo – almeno i greci si sono riservati per il dopo un’alternativa più moderata.

Per l’impatto del neo vittorioso Tsipras, distinguiamo i due piani: il primo è quello della Grecia in Europa, il secondo quello politico della sinistra.

Ai mercati il risultato non dispiace, Tsipras ha soprattutto vinto la sfida alla sua sinistra, accettando che un terzo dei membri dell’organo nazionale del suo partito provassero a sconfiggerlo alle elezioni: col risultato che non ottengono neanche il 3% e restano fuiori dal parlamento. Detto questo, molti elementi dicono che la nuova vittoria di Tsipras non significhi affatto che il memorandum d’intesa, tra Ue e Bce da una parte e Grecia dall’altra, sia a questo punto una Bibbia indiscutibile.

Nel solo mese di ottobre, ricorda giustamente l’ex direttore del FMI Andrea Montanino , il memorandum tra Grecia creditori prevede 55 nuovi atti legislativi e regolatori per cominciare ad attuare le riforme a cui Tsipras suo malgrado si è impegnato: pensioni, sanità, fisco, creazione di un’autorità indipendente sulle entrate, liberalizzazioni di molti settori e del turismo, riforma delle professioni. Quanto alle privatizzazioni, su alcune – per esempio quelle elettriche – Tsipras non ha mai abbandonato la sua contrarietà. E comunque va detto: l’intesa sulle privatizzazioni NON è assolutamente credibile. Dal 2011 a oggi il fondo ellenico responsabile delle cessioni pubbliche – si chiama HRADF, Hellenic Republic Asset Development Fund – ha avviato privatizzazioni per circa 7 miliardi, pari al 4% del PIL greco. Pensare davvero che entro il 2018 la Grecia privatizzi per 50 miliardi, cioè per un ammontare pari al 26% del suo PIL attuale, ha dell’assoluto inverosimile, quand’anche ci fossero davvero asset residui di quel valore. E’ come se all’Italia si chiedessero cessioni pubbliche per 400 miliardi: cedendo tutti i mattoni pubblici si potrebbe fare, ma capite al volo che non lo farebbe nessuno.

Infine, non dimenticate che la firma a fine luglio dell’intesa tra Tsipras e i creditori continua a veder incombere su di sé una appuntita spada di Damocle: l’abbattimento ulteriore del debito greco, chiesto da Tsipras, negato dalla Ue, e sostenuto dalla scorsa primavera però anche dal FMI ( tanto, i miliardi la Grecia li deve ormai a Ue, ai suoi paesi membri e BCE, non al Fondo). La firma di allora fu apposta sulla base di un patto di fiducia: Tsipras ci faccia vedere che ora fa sul serio, e più avanti parleremo non di un vero taglio del debito, ma di allungarne ancor più le scadenze e di abbatterne ulteriormente gli interessi.

Chi qui scrive è convinto che l’abbattimento richiesto dalla Grecia – il secondo dopo quello del 2012, che vide i creditori privati perdere tra il 50 e il 60% in valore dei loro prestiti alla Grecia – sia tecnicamente giusto, visti i poveri fondamentali del paese. E la pensano così moltissimi economisti, non solo keynesiani o ostili all’euro. C’è da scommettere che la nuova chiara vittoria di Tsipras lo porterà a rilanciare sull’haircut del debito: è meglio che a Berlino si preparino. E che cominciamo anche noi italiani a fare il conto di quanto perderemmo.

Quanto alla sinistra, ne esce con le ossa rotte chi ha puntato in mezza Europa sull’antagonismo di Varoufakis e di Unione Popolare, la neoformazione greca nata a sinistra gridando “traditore” a Tsipras. Ma già si vedono le giravolte: a casa nostra Vendola ieri sera dichiarava che in Grecia vince la sinistra che non si arrende. Come no, Tsipras ha firmato il contrario di quel che per due volte alle urne aveva giurato di non volere.

Detto questo, allo stesso modo è del tutto improprio dire che sia una vittoria netta del riformismo socialdemocratico. Non lo è: è una conferma delle molte facce contraddittorie che può assumere il neoradicalismo, rispetto ai tradizionali partiti socialisti travolti dall’eurocrisi. Il carisma personale porta a vincere e rivincere lo stesso leader, a distanza di pochi mesi e su scelte opposte, legnando sia il vecchio Pasok sia i neoantagonisti. Sarebbe un errore pensare oggi che Tsipras sia la reincarnazione greca del tedesco Schroeder, che rimise i piedi la Germania con riforme impopolari del welfare, tagliando spesa e tasse, e rilanciando la produttività con grandi intese aziendali in cui si tagliava il salario per difendere l’occupazione.  Tsipras si è liberato degli oppositori interni e ora può ritirare la corda. Anche l’Italia ne sa qualcosa, di come la leadership carismatica a sinistra sia qualcosa di molto diverso da una sana tradizione socialdemocratica, e a destra sia del tutto aliena da una sana tradizione liberale. Da chi vince per carisma è legittimo attendersi che possa fare e rifare l’esatto opposto di ciò che ha detto. Perché nel carisma la logica non è la coerenza, ma è la coerenza di voler vincere l’unica logica.

 

21
Set
2015

#PropertyIsFreedom: perché difendere la proprietà privata

La nostra Costituzione stabilisce che la proprietà privata “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Si tratta, come noto, di una definizione radicalmente diversa da quella di origine napoleonica (che individuava nella proprietà un diritto assoluto, circoscrivibile soltanto dal rispetto del principio di legalità e del rule of law).

Se la previsione di limiti determinati dalla legge determina già di per sé una compressione del diritto di proprietà, è tuttavia il riferimento alla funzione sociale a costituire la base della maggior parte degli ostacoli che si frappongono al suo pieno esercizio. Ciò, se non altro, nella misura in cui la dottrina maggioritaria interpreta la funzione sociale come “la ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito a un certo soggetto” e intravede di conseguenza nella funzionalizzazione della proprietà un principio generale della materia, che deve operare sempre, anche in assenza di espliciti richiami legislativi.

Nell’impossibilità di discernere nettamente cause e conseguenze, è evidente che a tale filone dottrinale si accompagni, nel nostro Paese, una tendenza culturale a diffidare dell’importanza – economica, ma non solo – della certezza del diritto che una piena tutela della proprietà privata assicurerebbe. Non è un caso, in questo senso, che due fra i più importanti indicatori di libertà economica al mondo (Economic Freedom of the World Report e Index of Economic Freedom) assegnino all’Italia punteggi molto bassi per quanto concerne tutela della proprietà e rispetto del principio di legalità.

Negli ultimi anni, in questo senso, è emerso nel dibattito pubblico un nuovo diritto sociale, denominato “diritto alla casa”, che secondo diverse pronunce giurisprudenziali dovrebbe essere considerato alla stregua di un diritto costituzionale, pur non essendovi menzionato espressamente. Tale dibattito, alimentato dal riemergere di una nuova “questione abitativa”, ha condotto la giurisprudenza a configurare il “diritto alla casa” sullo stesso piano del diritto di proprietà, facendo leva sulla funzionalizzazione di quest’ultimo per arrivare a interrogarsi su quale fosse il corretto bilanciamento fra i due.

Non può sorprendere che oggi, in Italia, il diritto di proprietà sia minacciato da più parti. Le ragioni sono scritte nella Costituzione e nei giornali scientifici recenti e meno recenti, ma si trovano anche nelle chiacchiere al bar e nei dibattiti sui blog. Purtroppo, questa pericolosa tendenza comporta altrettanto notevoli conseguenze sul piano applicativo. Il governo in carica, pochi mesi fa, ha depenalizzato il reato di occupazione abusiva e i tribunali non perdono occasione per convalidare espropri sine titulo e occupazioni in nome del “diritto alla casa”.

L’argomento economico/utilitaristico dovrebbe essere sufficiente per difendere la proprietà, ma non basta. Bisogna tornare a interessarsi delle ragioni sociali, e quindi giuridiche, e di quelle etiche che rendono la difesa del diritto di proprietà una questione prioritaria e mai scontata.

Twitter: @glmannheimer

20
Set
2015

Musei e servizi pubblici, serve una riforma vera dei diritti sindacali

E’ risolutivo ed evitarà nuove chiusure del Colosseo e di Pompei, disporre che i musei siano servizi pubblici essenziali come ha deciso il governo venerdì? La risposta è : dopo anni di polemiche a vuoto la decisione di Renzi e Franceschini  governo è apprezzabile, anche per tempestività come a dire che la misura è colma; ma onestamente bisogna dire che no, la decisione non eviterà il problema. Sindacati a Camusso, che si oppongono a muso duro, restano con molte frecce al loro arco. Perché diciamolo chiaro: da anni queste cose avvengono, perché da anni che non si adottano le misure necessarie. Ora che i musei diventano servizi pubblici essenziali, è bene non dimenticare che molte volte interruzioni disastrose avvengono proprio a cominciare da uno dei più essenziali servizi, il trasporto pubblico locale.

A Roma, nello scorso luglio, 24 giorni consecutivi di sciopero bianco di un paio di sindacatini dell’ATAC hanno messo in ginocchio la metro, con disagi pazzeschi per complessivamente milioni di cittadini e turisti, prima che il prefetto decidesse la precettazione. Ed è rarissimo che ci siano procure come quella di Torre Annunziata che, a fronte della chiusura per assemblea sindacale degli scavi di Pompei a fine luglio, ha aperto un fascicolo per interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale, riservandosi inoltre anche l’ipotesi di reati diversi, come il danno erariale. E’ rarissimo perché in Italia, in materia di diritti sindacali, la giurisprudenza cumulata è molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo, ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni.

Se esaminiamo quanto è avvenuto ieri al Colosseo alla luce delle norme vigenti, l’assemblea sindacale era legittima, richiesta e autorizzata nei tempi dovuti. Ecco perché la Camusso può rispondere a brutto muso a Renzi che non sta né in cielo né in terra tacciare il sindacato di essere nemico dell’Italia. Temo di dovervi dire che non cambietà molto con l’intervento preventivo dell’Autorità garante agli scioperi, che dovrà ora essere investita anche delle assemblee sindacali nei musei dopo il decreto governativo di venerdì. Sta già oggi ai dirigenti pubblici responsabili, a fronte di una richiesta d’assemblea, esaminare se l’assemblea configuri l’interruzione del servizio oppure no. Ma il dirigente pubblico – bneanche l’Autorità garante – non può chiedere preventivamente quanti custodi partecipino all’assemblea, per disporre eventualmente un servizio di vigilanza sostitutivo e temporaneo al fine di consentire l’accesso ai visitatori: perché sarebbe un comportamento antisindacale. La chiusura di Pompei, a luglio, e la decisione del soprintendente di aprire lui personalmente i cancelli ai turisti, avvenne proprio perché il soprintendente era convinto di aver raggiunto coi sindacatini convocatori dell’assemblea un impegno a evitare la chiusura, ma l’impegbnio poteva essere solo verbale e senza conseguenze, perché di fatto poi se all’assemblea va un certo numero di custodi chiudere bidogna.

Ed eccoci dunque alla già nota conclusione che ripetiamo, invano, da anni. In materia di esercizio dei diritti sindacali nei servizi pubblici, come in materia di sciopero nello stesso ambito, serve una vera e propri riforma di sistema, a modifica della legge 146 del 1990 e dei relativi annessi codici di autoregolamentazione, di settore e aziendali. Come si propongono di fare disegni di legge depositati in Senato: tra i più significativi uno di Pietro Ichino del Pd, l’altro di Maurizio Sacconi di Ncd.

Serve scrivere in legge alcune cose fondamentali.

In materia di assemblee sindacali, occorre prevedere che se esse si tengono in orario di lavoro non possano configurare l’interruzione del servizio pubblico. Finché non sarà tassativamente così, quand’anche ci fosse un pm che voglia, come a Torre Annunziata, procedere per interruzione di pubblico servizio a fronte di chiusure come quelle del Colosseo e di Pompei, dovrebbe dimostrare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. E dovrebbe provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione. Resterà così anche dopo il decreto di venerdì.

Quanto allo sciopero, nei servizi pubblici essenziali occorre adottare un criterio rigoroso della rappresentanza minima sindacale di chi li può proclamare – Ichino propone il 50% dei lavoratori del settore, il sindacato naturalmente è contrario – e un referendum preventivo tra i lavoratori, che approvino la proposta come condizione perché lo sciopero si possa tenere. E perché il sì eventuale sia valido la percentuale minima dei favorevoli non deve essere troppo bassa, per capirlo basta dare un’occhiata ai 17 paesi europei su 28 in cui il voto dei lavoratori è previsto.

Ecco, di questo c’è bisogno. Non di meno. I partiti – la destra per non essere accusata di antisindacalismo, la sinistra perché col sindacalismo era intrecciata – hanno sempre esitato a toccare queste materie, né hanno mai attuato la Costituzione con una legge che preveda democrazia interna e piena trasparenza economico-finanziaria dei sindacati. E’ venuto da tempo il momento di farlo. Renzi non si tira indietro dallo scontro coi sindacati. Bene, ora per favore, la politica lo faccia davvero. Basta polemiche frontali a cui seguono misure non risolutive, perché altrimenti servono solo a salire nei sondaggi ma il problema resta e le figuracce internazionali continuano.

19
Set
2015

La burocrate e le lavandaie—di Uliva Foà

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Uliva Foà.

Me la immagino la funzionaria della provincia che ha riesumato dal Medio Evo, l’inverosimile balzello. Dopo il sacrificio di una vita sprecata, fra noia e scartoffie, a fare un lavoro il cui scopo è procurarsi abbastanza gettito fiscale da garantirsi uno stipendio, viene gettata via, senza un minimo di riconoscenza, senza una festa con i colleghi, un orologio da far vedere ai nipotini. Fra pochi giorni diventerà una qualsiasi, fra i tanti dipendenti della Regione. Tutto da rifare, in un ambiente nuovo, in cerca, da capo, dei contatti “giusti”. Read More

18
Set
2015

#PropertyIsFreedom: a cosa serve la proprietà privata

C’è una bellissima foto, di metà ‘900 o giù di lì, che ritrae il muro che separa il Messico dagli Stati Uniti. Da una parte c’é Nogales (Sonora, Messico); dall’altra la gemella Nogales (Arizona, USA). Da una parte ci sono perlopiù baracche malandate; dall’altra signorili edifici in mattoni. Da una parte un carretto che trasporta legname; dall’altra ordinate fila di automobili. Cos’ha reso Nogales (Arizona, USA) così diversa da Nogales (Sonora, Messico)?

È questa la domanda da cui prende le mosse un grandioso saggio di due economisti, Daron Acemoglu e James Robinson, significativamente intitolato “Why Nations Fail”. Perché alcune società hanno successo e altre no? L’esempio delle due Nogales è indicativo (come lo sarebbe quello delle due Coree) perché nessuno potrebbe tirare in ballo ragioni legate alla geografia, alle risorse naturali o ai tratti culturali dei loro abitanti (se non in senso molto lato).

Secondo Acemoglu e Robinson, ciò che distingue le società e determina la loro evoluzione sono invece le istituzioni. Verso il successo, se sono istituzioni inclusive, cioè se premiano innovazione, imprenditorialità e pluralità politica; verso l’insuccesso, se sono istituzioni estrattive, cioè se il loro obiettivo primario è il mantenimento del potere, e quindi si rinchiudono in politiche protezioniste o illiberali, caricando di tasse e vincoli i propri cittadini e spremendone le migliori energie per fini personali o destinati al benessere di una ristretta élite. Nogales (Arizona, USA) ha avuto la fortuna di dipendere da istituzioni che le hanno permesso di prosperare; Nogales (Sonora, Messico), viceversa, è stata preda di istituzioni estrattive, che le hanno impedito di farlo, per molto tempo.

Si può essere d’accordo o meno con la tesi di Acemoglu e Robinson, ma un dato merita di essere sottolineato. In tutti gli esempi storici di società che hanno abbracciato istituzioni inclusive, a partire dalla Glorious Revolution sino ad oggi, c’è un elemento costante: la tutela della proprietà privata, intesa sia in senso negativo (cioè come astensione dei poteri pubblici da interventi diretti sulla proprietà) sia in senso positivo (intesa come tutela dello Stato dalle aggressioni alla proprietà commesse da privati verso altri privati).

Senza una tutela rigorosa della proprietà, il sistema dei prezzi, la migliore spia possibile per comprendere le esigenze e i bisogni delle persone, viene modificato unilateralmente dai poteri pubblici e finisce per andare in tilt, dando luogo a bolle finanziarie, espropriazioni di massa e rapine fiscali. Non solo. Senza una tutela rigorosa della proprietà, diviene impossibile valutare correttamente gli incentivi e i disincentivi, i premi e le punizioni che offrono le diverse opportunità economiche. A Nogales (Sonora, Messico), fino a non molto tempo fa, più dell’80% dei guadagni di ciascuno finiva nelle casse dello Stato. Né vi era alcun tipo di tutela contro espropriazioni e occupazioni abusive. Sostanzialmente, vigeva la legge del più forte. Che incentivo poteva avere un imprenditore a innovare o investire? O un lavoratore a migliorare la propria produttività?

Un grande liberale del diciannovesimo secolo, Antonio Rosmini, descrisse la proprietà come una “sfera attorno alla persona”: un fortino di libertà sottratto al potere, da difendere dinanzi ad ogni pretesa di dominio. In fondo, la proprietà non è altro che la forma più efficace di tutela delle minoranze: la “sfera” protegge la più piccola minoranza che ci sia, cioè l’individuo, dall’invadenza (talvolta tirannica) della maggioranza, perlomeno nei suoi affari privati. E non è forse la tutela delle minoranze ciò che rende tanto speciali le nostre democrazie? Ecco perché la proprietà privata non è soltanto l’ingrediente basilare del progresso economico, ma soprattutto il cardine di qualunque società che voglia definirsi libera.

Twitter: @glmannheimer