6
Ott
2015

Solo il 24 dicembre porrà fine al cinico balletto sui prepensionamenti

Governo e maggioranza, in particolare il Pd, hanno deciso da settimane di mandare in bambola centinaia di migliaia di italiani. Si tratta di coloro che l’anno prossimo non sono in linea con i requisiti minimi previsti per la pensione dalla legge Fornero, ma non ne sono neanche troppo lontani. A loro è riservato dunque un complicato balletto di promesse e contropromesse, a cui seguono smentite e controsmentite, tutte finalizzate a questa o quella ipotesi di prepensionamento attraverso la legge di stabilità. Inutile dire che così si mina la fiducia degli italiani. Ma la politica ha le sue misteriose strade, per perseguire i propri obiettivi di consenso. L’ultima nuova è quella del prepensionamento integralmente a carico delle aziende che appare oggi sui media: una bella trovata politica non c’è dubbio, deciderlo a spese altrui…

Cominciamo dalle regole vigenti. Nel 2016 è previsto un giro di vite sui requisiti previdenziali, in coerenza al percorso a tappe forzate deciso ai tempi del governo Monti. Dal 2016 al 2018 per la pensione di vecchiaia saranno necessari 66 anni e 7 mesi di età e almeno 20 anni di contributi, per i lavoratori dipendenti e autonomi nonché per le lavoratrici del pubblico impiego. Per le lavoratrici nel settore privato il requisito sarà di 65 anni e 7 mesi rispetto agli attuali 63 anni 9 mesi, mentre per le autonome i tetti salgono da 64 anni e 9 mesi a 66 anni e 1 mese. Per chi avesse i requisiti di età e contributivi ma una pensione inferiore all’equivalente di una volta e mezzo l’assegno sociale, la pensione scatta anche solo con 5 anni di contribuzione, ma solo dopo i 70 anni e 7 mesi di età.

Le pensioni anticipate saranno possibili a chi, a qualunque età, avrà almeno 41 anni e 10 mesi di contributi versati per le donne, e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Chi avesse 20 anni di contributi versati dal 1996, e dunque soggetti al sistema contributivo puro, potrà andare in pensione a 63 anni e 7 mesi, ma al solo patto che la pensione maturata non sia inferiore a 1250 euro. Queste le regole vigenti dal prossimo anno, a cui si aggiunge l’adeguamento automatico dei coefficienti di trasformazione per calcolare il trattamento previdenziale moltiplicandolo per il montante versato, coefficienti che diminuiscono progressivamente nel tempo sempre per pareggiare l’attesa di vita, e che tengono conto anche del Pil realizzato intanto in Italia.

Su queste regole, si è messo per traverso prima il Jobs Act. All’ultimo momento è stata ripescata l’idea della staffetta generazionale, e nei nuovi contratti di solidarietà in uscita si è previsto che il lavoratore vicino alla pensione potrà lavorare part time e insieme percepire dall’Inps una quota della pensione già maturata, senza tagli di reddito. E’ un’ipotesi riservata ai dipendenti con almeno 20 anni di contributi e a cui mancano non più di 2 anni per raggiungere il requisito anagrafico, cioè come detto per gli uomini 66 anni e 3 mesi quest’anno, 66 anni e 7 mesi nel 2016. Se ci sarà un contratto di solidarietà che preveda nuove assunzioni a tempo indeterminato, gli anziani possono ridurre l’orario almeno alla metà e, insieme al relativo diminuito stipendio, percepire una quota di pensione a patto che non superi la precedente retribuzione full time.

A tale regime sui aggiunge quello della cosiddetta “opzione donna”, che oggi prevede la pensione per le lavoratrici di 57 anni e 3 mesi per le dipendenti e 58 anni 3 mesi per le autonome, se hanno almeno 35 anni di contributi (si va però concretamente in pensione solo aspettando finestre che si aprono ogni 12 mesi per le dipendenti e ogni 18 per le autonome). Chi sceglie l’opzione donna ha l’assegno decurtato, perché in ogni caso è calcolato integralmente col sistema contributivo. Il taglio può arrivare al 30%dell’assegno, ma nel 2014 quasi 12 mila donne l’hanno accettato.

In più: c’è la pensione anticipata per i lavori usuranti. Per loro vige un sistema ancora diverso. Nel 2015 occorre una quota minima sommata di 97,3 anni, sommando età anagrafica e contribuiti versati. Anche per loro sono previste finestre mobili e aggravamento progressivo negli anni del tetto, in coerenza all’aspettativa di vita. In realtà i prepensionamenti “usuranti” sono pochissimi, si fa prima a raggiungere i requisiti ordinari di vecchiaia.

Infine, c’è il prepensionamento legato ad accordi specifici tra aziende e sindacati, in caso di esuberi di personale: il personale in eccedenza a cui manchino non più di 4 annui per i requisiti minimi ordinari di pensione può smettere di lavorare e resta a carico dell’azienda, che gli versa un equivalente di pensione e in contemporanea gli versa anche i contributi come se lavorasse, fino alla pensione ordinaria. Molto onerosa come formula per le imprese: in realtà applicabile solo da grandi aziende con evidenti problemi di turn over di personale ma ricche disponibilità di liquidità, non proprio la regola in Italia. Ed è esattamente quest’ultimo il modello che oggi sui media fonti di governo e maggioranza dicono di voler estendere nel 2016.

Ecco, spero di essermele ricordate tutte, le forme di pensionamento ordinarie e straordinarie attualmente previste. In queste settimane capita che parti del Pd e tutti i sindacati, il ministro Poletti e il sottosegretario Baretta e il presidente di Commissione Damiano, propongano l’ampliamento delle platee e l’abbattimento dei requisiti praticamente a rotazione per ognuna delle forme di pensionamento anticipato oggi prevista: si tratti dell’opzione donna o di quella per usuranti, del prepensionamento a carico delle aziende, o anche dell’utilizzo dei 3 miliardi sin qui non impegnati e stanziati dalle 6 salvaguardie già votate per 170 mila esodati (ma solo 130mila hanno presentato domanda), al fine di prepensionare il più possibile dei disoccupati di lungo periodo over 55enni, invece di pensare per loro a politiche attive per reinserirli al lavoro.

Ciascuna di queste ipotesi è avanzata dai proponenti giocando al ribasso sulla stima reale dei costi e cioè dei miliardi necessari a coprirle, perché i voti vengono prima. Il governo stesso ha detto e non detto. Padoan più volte ha smentito prepensionamenti in deficit, poi è stato corretto da Renzi. Al MEF riservatamente dicono che non sanno più dove sbattere la testa, visto che nel frattempo Renzi ha promesso un non meglio identificato intervento per la povertà e un imprecisato taglio dell’IRES a tutte le imprese visto che per il solo Sud Bruxelles ha detto no, perché sarebbe stata violazione del divieto ad aiuti di Stato. Nel frattempo è sfumato anche l’introito della Digital Tax, anch’essa ovviamente e giustamente bocciata da Bruxelles. Mentre il commissario europeo Moscovici domenica ha ricordato che se il governo vuol tagliare le tasse deve tagliare la spesa in maniera altrettanto strutturale, figurarsi se può aggravare il deficit previdenziale.

La coperta è corta, cortissima per tutte queste promesse insieme. Il consiglio che diamo è uno solo: aspettate a capire per la pensione, ma non la sera che sarà presentata la legge di stabilità, bensì il 24 dicembre quando il parlamento l’approverà definitivamente. Perché una cosa è sicura. I partiti, destra e sinistra, vogliono i voti dei prepensionati a fanno gara a coccolarli. Ma cosa davvero sarà proposto e votato, si capirà solo all’ultimo secondo. Quando il governo avrà veramente deciso quanto deficit aggiuntivo se la sente di sostenere a Bruxelles.

6
Ott
2015

Produttività: o cambia il modello contrattuale, o non se ne esce

Per milioni di italiani, tra le tante incertezze ora che la ripresa si è avviata – ma con effetti diseguali – c’è l’incognita di quanti soldini porteranno i nuovi contratti di lavoro, nel frattempo scaduti. Per i 3,2 milioni di pubblici dipendenti, che da anni hanno subito lo stop del rinnovo contrattuale decretato dall’ultimo governo Berlusconi e rinnovato da tutti quelli che si sono succeduti, la Corte costituzionale ha provveduto, decidendo che dal 2016 il governo deve rinnovarli. Ma si capirà solo in legge di stabilità quanti denari verranno riservati agli aumenti retributivi pubblici ( e nel frattempo i sidnacati gà alzano barricate all’idea che bastino 500mln, vogliono almeno 2 o 3mld). Diverso è il problema che grava su milioni di dipendenti privati: 1,6 milioni di metalmeccanici, 170mila del chimico-farmaceutico, 400mila dell’industria alimentare, 60mila del settore elettrico. Tutti contratti in scadenza tra novembre e dicembre. Per loro c’è un problema serio, che riguarda il tema più fondamentale e trascurato della crisi italiana: la produttività. Tutti hanno ormai capito – almeno a parole – che con queste tasse non si va lontano. Quasi nessuno però dice che o affrontiamo seriamente il nodo della produttività, oppure il gap accumulato verso i nostri concorrenti ci porta a fondo. E i contratti investono la produttività agendo su entrami i fattori su cui si calcola il CLUP, il costo del lavoro per unità di prodotto: sia sul numeratore, il costo lordo del lavoro, sia sul denominatore, il valore aggiunto per lavoratore occupato.

Partiamo da un dato, quello del raffronto tra noi e i concorrenti. Dal 2000 al 2012, il CLUP nell’industria manifatturiera italiana al netto delle costruzioni è passato da 100 a 137. In Spagna da 100 a 115, in Francia a 110, in Germania nel 2014 era ancora a 100. Abbiamo accumulato 37 punti di distacco dalla Germania, essendo noi la seconda potenza manifatturiera europea dopo di lei. L’abissale differenza non si spiega con il cuneo fiscale, perché rispetto alla Germania è praticamente equivalente, cioè elevato in entrambi i casi.

Solo che in Germania sono avvenute due cose. Da una parte, nel primo decennio Duemila l’andamento delle retribuzioni nette tedesche è stato contenutissimo, per alcuni anni ha avuto anzi un andamento seccamente negativo: a seguito dei grandi accordi firmati tra imprese e sindacati per rilanciare la produttività e difendere l’occupazione, accettando anche retribuzioni più basse per i neo assunti in cambio del fatto che gli aumenti sarebbero tornati insieme a più occupati quando le cose fossero andate meglio. Cosa quest’ultima che in Germania sta puntualmente avvenendo, da 2 anni a questa parte. Dall’altra parte, poiché in Germania la dimensione media d’impresa è maggiore e contano i contratti aziendali rispetto ai nostri CCNL – i contratti nazionali di categoria – le intese raggiunte tra imprese e sindacati sono state ferreamente incardinate su obiettivi di maggior produttività: per singola azienda, ma anche spessissimo per reparto e per ogni lavoratore individualmente. In questo modo, il CLUP tedesco ha registrato un andamento molto più contenuto del nostro: sia perché al numeratore la retribuzione netta ha registrato aumenti contenutissimi, sia perché al denominatore è cresciuto il valore aggiunto per addetto.

Ecco perché il problema investe frontalmente lo strumento stesso del CCNL italiano, il modo in cui si determinano le retribuzioni, dove le si tratta e i parametri a cui le si collega. E’ un problema esploso ancor più con la deflazione in questi ultimi anni. L’inflazione zero, rispetto a quella prevista per gli aggiornamenti contrattuali 4 o 5 anni fa, ha prodotto l’effetto di accrescere ancor più la retribuzione nominale e il costo lordo per le imprese. Solo tra 2012 e 2014, i salari contrattuali nominali corrisposti sono aumentati del 6,5%, ma l’inflazione vera complessiva non ha raggiunto il 2%. Il che porta a due conseguenze. La prima è che bisogna cambiare il meccanismo di tutela del potere d’acquisto stabilito nel 2009 nei contratti, attraverso l’adozione allora dell’indice IPCA armonizzato a livello europeo. La seconda è che bisogna proprio cambiare il modello stesso dei contratti: lasciare ai contratti nazionale la parte normativa, relativa ai diritti e ai doveri cioè all’esigibilità dei contratti stessi, e un minimo di parte salariale, per destinare invece ai contratti di produttività aziendali e di filiera territoriale il più della retribuzione, collegata a precisi parametri di recupero della produttività.

Ed è su entrambi questi punti nodali, che Confindustria e i sindacati non s’intendono. A seconda delle diverse categorie, in questi anni i lavoratori hanno ottenuto da un minimo di 50 fino a oltre 100 euro mensili superiori all’andamento dell’inflazione reale. Come si fa a rinnovare i contratti col vecchio metodo? Facciamo restituire i soldi dai lavoratori alle aziende? Tutti i sindacati insorgono alla sola idea: comprensibile, anche perché nel frattempo sui lavoratori si è esercitata l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, visto che tra 2000 e 2014 l’aliquota effettiva media IRPEF è salita sul complesso dei dipendenti di oltre 2 punti, dal 19,9% al 22,1%, e allo stesso modo è salita l’aliquota contributiva media all’INPS, cresciuta dal 9,1% al 9,49%. E in ogni caso, visto anche il verticale aumento della disoccupazione, il reddito disponibile familiare dei lavoratori dipendenti è sceso in 15 anni di quasi il 20%.

Di qui la proposta a inizio anno di Confindustria: cari sindacati cambiamo il modello di contrattazione. Ottenendo, ancora all’ultimo incontro a questo destinato lo scorso 7 settembre, tre risposte diverse. La CISL è molto favorevole a parlarne: apre a un contratto nazionale che fissi un minimo retributivo di categoria, ed esprime fiducia nei contratti di produttività. La UIL propone un criterio di tutela del potere d’acquisto collegato all’andamento del PIL, che in realtà non risolverebbe il problema visto che nei prossimi anni la crescita reale potrebbe e dovrebbe essere superiore all’inflazione (per il 2016 il DEF prevede +1,6% di crescita reale, e +1% d’inflazione), ma soprattutto chiede, finché non si definisce un nuovo modello, che i contratti in scadenza intanto si rinnovino col vecchio metodo. La Cgil invece è contraria sia al salario minimo contrattuale, sia a devolvere ai contratti aziendali di produttività il più dell’andamento retributivo.

In queste condizioni, per le imprese la scelta praticabile – per di più con Squinzi a fine mandato – diventa una sola: non rinnovare i contratti, praticare una moratoria di fatto, come di diritto è avvenuta invece nel settore pubblico. Ma ciò porterebbe a una durissima ripresa generale della conflittualità sindacale. L’alternativa è una sola: che intervenga il governo. Renzi l’ha fatto intendere più volte: o imprese e sindacati convengono su una revisione del modello contrattuale, oppure in assenza di accordo tra le parti sociali il governo potrebbe fissare lui il criterio di un salario minimo di legge, e il resto della retribuzione lasciarla alla libera contrattazione (tornando a incentivare fiscalmente la parte di salario di produttività, a cui è stata tagliata la copertura in questi ultimi due anni). E’ ovvio però che il salario minimo per legge sarebbe molto più basso di quello che sindacati e imprese, se accettassero insieme la sfida per la produttività, potrebbero insieme convenire settore per settore nei contratti nazionali, lasciandone poi una bella fetta ai contratti di secondo livello.

Vedremo come andrà. Ma una cosa è sicura: sulla produttività e sui nuovi contratti si gioca una partita decisiva della ripresa italiana. Speriamo che non prevalga la miopia. Naturalmente, la testa mi dice anche che è una speranza mal risposta.

1
Ott
2015

Slitta la liberalizzazione della notifica degli atti giudiziari

A febbraio, con l’IBL pubblicavamo uno studio in cui mostravamo l’insensatezza, economica e giuridica, dell’esclusiva di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari in capo a Poste Italiane: un retaggio del monopolio pubblico nel settore dei servizi postali, del tutto incompatibile con la moderna disciplina europea e nazionale e con l’esigenza di digitalizzazione della giustizia di cui si sente tanto parlare.

Poche settimane più tardi veniva adottato dal Governo il Disegno di legge annuale per la concorrenza, che prevedeva l’abrogazione, a partire dal 10 giugno 2016, dell’articolo 4 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, di conseguenza liberalizzando le notifiche degli atti giudiziari. Una notizia che, su questi pixel, avevamo già avuto modo di salutare con favore, segnalando come si trattasse della rimozione di un privilegio, seppur piccolo, non certo insignificante, che avrebbe potuto aprire nuovi spazi di mercato a nuovi operatori, sfruttando le economie di scala e generando risparmi per i cittadini e per il sistema-giustizia in generale.

Ma si sa: di storie a lieto fine, nella politica italiana, se ne sentono poche. Figuriamoci se si parla di liberalizzazioni. Le prime perplessità le aveva sollevate Confindustria: “la misura” – commentò il direttore generale Marcella Panucci – “è condivisibile per la sua portata pro-concorrenziale, ma interviene su un percorso di privatizzazione già avviato, rischiando così di compromettere il consolidamento della società sul mercato azionario”. “Per questo motivo” – proseguì Panucci – “è auspicabile che l’efficacia della misura venga prorogata”. Detto fatto: un emendamento dei relatori Silvia Fregolent e Andrea Martella (Pd) ha infatti fatto slittare la data di decorrenza dell’addio all’esclusiva di Poste dal 10 giugno 2016 al 10 giugno 2017. Pare che l’emendamento sia stato scritto sotto dettatura del Ministero dell’Economia, azionista di Poste, il quale avrebbe anzi inizialmente chiesto un rinvio della misura addirittura al 2019, in linea coi desiderata del Gruppo.

In altre parole: una società che opera in un mercato – teoricamente – del tutto liberalizzato deve quotarsi in borsa, pertanto la politica deve tenerne in considerazione gli interessi e prorogare la liberalizzazione per non farne deprezzare il futuro asset azionario. Tralasciando il fatto che non si comprende come il mercato possa far finta di non sapere dell’imminente liberalizzazione, immaginate cosa potrebbe succedere se una cosa del genere riguardasse una società privata. Ma qui c’è di mezzo Poste, e la politica fa i suoi interessi. E quelli dei concorrenti, impossibilitati per un altro anno a entrare in un mercato che non ha alcuna ragione di essere sottoposto al monopolio di Poste (come conferma, implicitamente, la pur prorogata liberalizzazione)? Saranno conteggiati, quei mancati introiti, nella valutazione dell’asset di Poste al momento della quotazione in borsa?

Paradossalmente, la relazione illustrativa del Ddl Concorrenza, nel giustificare la fine della riserva per Poste, fa riferimento proprio alle best practices in materia di privatizzazioni, che suggeriscono di procedere prima all’apertura del mercato, e poi alla cessione degli ex monopolisti. In Italia, insomma, la forza con cui si predica che bisogna “liberalizzare prima di privatizzare” è direttamente proporzionale alla determinazione con cui si agisce nel modo opposto.

Meglio di niente, si dirà: pur con un ulteriore anno di proroga, la liberalizzazione s’ha da fare. Vero. Ma in gioco, qui, non c’è solo una piccola liberalizzazione: c’è la credibilità di un Paese che, per voce del suo premier, si proclama aperto al mercato e lontano dal capitalismo di Stato che ne ha contraddistinto la storia industriale recente (e meno recente). E questa credibilità viene meno se gli interessi dell’attore pubblico prevalgono su quelli generali. Che – guarda un po’ – non sempre coincidono.

Twitter: @glmannheimer

1
Ott
2015

La differenza tra lo Stato e Booking.com

In Italia, il 35% delle prenotazioni alberghiere viene ormai effettuato online, ed è una percentuale in continua crescita. Il che, d’altronde, non può sorprendere: i siti di comparazione tra alberghi, oggi, non solo offrono in modo accessibile cataloghi vastissimi di strutture ricettive di ogni genere, ma spesso garantiscono agli utenti il miglior prezzo disponibile. Ciò comporta enormi vantaggi per i consumatori, che possono effettuare prenotazioni velocemente, certi di trovare la migliore combinazione possibile tra il prezzo e la struttura che desiderano, perfino da un semplice smartphone. Ma non solo: a guadagnarci sono state quelle strutture ricettive che, per le loro dimensioni ridotte, prima dell’avvento di internet avevano molte difficoltà a guadagnare visibilità, specie a livello internazionale, tramite i canali “tradizionali” (pubblicità, agenzie di viaggi).

Alcune associazioni di categoria, tuttavia, sostengono che i colossi del web abusino della loro posizione dominante per imporre condizioni insostenibili agli alberghi: tra queste, spicca l’ammontare delle commissioni, che arriva al 30% di ogni prenotazione, e la cosiddetta “Parity Rate”, cioè la garanzia che, per ogni struttura che compaia sul proprio catalogo, il prezzo di prenotazione sia sempre il più basso che si possa trovare sul web. Tutte le strutture ricettive che usufruiscono dei servizi di Booking ed Expedia devono sottoscrivere la Parity Rate, obbligandosi a concedere uno sconto di pari misura ai clienti che dovessero riscontrare l’esistenza di prezzi più bassi sul sito dell’albergo stesso o su altre piattaforme.

A quanto pare, un emendamento al Ddl Concorrenza in discussione alla Camera potrebbe impedire l’utilizzo delle clausole di Parity Rate, dando seguito alle considerazioni già espresse dall’AGCM in un’istruttoria dell’anno scorso, secondo cui in assenza di tali clausole gli albergatori sarebbero liberi di applicare prezzi inferiori sui propri siti online, riducendo le tariffe a beneficio della clientela. Come ha dichiarato Federalberghi, «per una camera d’albergo venduta su un portale a 100 euro il cliente paga 100 e l’albergo riceve 80. Se l’albergo potesse mettere in vendita la stessa camera sul proprio sito a 90 euro, il cliente pagherebbe 90 e l’albergo incasserebbe 90: entrambi guadagnerebbero 10 euro».

Non fa una piega. Peccato che Booking ed Expedia non obblighino nessuno a usufruire dei loro servizi: chi decide di farlo deve accettare delle condizioni, com’è normale che sia. Se è tanto ricattatorio, basta non usufruirne. Un albergo che decida di farne a meno è già libero offrire la sua camera a 90 Euro, come ventilato da Federalberghi. Così come chiunque è libero di aprire il proprio sito di prenotazione alberghi, mettendosi in concorrenza con Booking ed Expedia, proponendo condizioni più favorevoli e così convincendo gli operatori a utilizzare solo quel portale.

Il fatto che una limitazione del genere, poi, sia contenuta nel Ddl concorrenza è a dir poco paradossale: mentre lo Stato stava a guardare, sono stati proprio siti web come Booking ed Expedia ad aumentare la concorrenzialità del settore, facendo diminuire i prezzi e aumentando la qualità e l’accountability delle strutture ricettive di tutto il mondo.

Booking ed Expedia hanno guadagnato negli anni la fiducia di milioni di clienti e albergatori, che usufruiscono spontaneamente di quel servizio e che, da un momento all’altro, possono decidere di non usarlo più. Lo Stato, d’altra parte, vuole intervenire coattivamente per limitarne la portata, così sconfessando la volontà di tutti gli operatori che oggi ne usufruiscono (Booking, Expedia, albergatori e consumatori), senza che i diretti interessati possano sottrarsi a quanto deciso. Da che parte sta la democrazia?

Twitter: @glmannheimer

1
Ott
2015

I referendum anti-trivelle di 10 Regioni: 3 motivi per dire no

Ieri non sono stati depositati in Cassazione i referendum che erano stati promossi da Pippo Civati, non hanno raggiunto le 500mila firme. Due quesiti erano contro la cosiddetta legge Sblocca-Italia che autorizza le trivellazioni alla ricerca di gas e petrolio. Ma cambia poco, rispetto alla decisa opposizione che in molta parte d’Italia in questi ultimi anni si manifesta contro praticamente ogni ricerca di nuovi fonti energetiche fossili e contro qualsivoglia opera infrastrutturale correlata, si tratti di rigassificatori, gasdotti o quant’altro. Infatti ben 10 Regioni hanno depositato in Cassazione 6 quesiti referendari del tutto analoghi e anzi più estensivi di quelli di Civati, contro l’ultimo Decreto Sviluppo e contro la Sblocca-Italia. Dopo le ultime elezioni regionali, il governatore della Puglia Michele Emiliano aveva subito preso la testa dei referendum anti trivellazioni, e contro la decisione ricentralizzare nazionalmente le decisioni per quanto riguarda le opere energetiche strategiche. E a seguirlo sulla via referendaria, ecco Campania, Basilicata, Calabria, Abruzzo, Molise, Marche, Sardegna: tutte Regioni a guida Pd. Ma anche il Veneto di Zaia, e la Liguria di Toti. Intanto a Brindisi alla fine è saltato il rigassificatore dopo 11 anni di inutile attesa da parte di British Gas. Fortissima l’opposizione al TAP, il gasdotto che doveva unire il Salento all’Azerbajgian via Grecia e Albania, nonché ai cinque tratti che dal Sud al Nord Italia dovevano incanalare miliardi di metri cubi di gas lungo l’asse adriatico verso il NordEuropa.

Il no a nuove fonti energetiche e alle opere infrastrutturali pone in particolare tre problemi molto seri. Il primo riguarda il modello di sviluppo. Il secondo, la catena di rappresentanza politica. Il terzo, quale sia il compito delle classi dirigenti.

Che cosa ha davvero in mente, chi dice no per principio? Non crediamo che la risposta possa essere solo la difesa del modello attuale. La risposta, con ogni probabilità, indicherebbe un modello di forte sostenibilità ambientale, e di energia rinnovabile e pulita.

Per controbattere, non c’è bisogno di scomodare stime complesse della ricaduta economica in termini di crescita aggiuntiva e occupazione di ciascuna delle scelte energetiche a cui si dice no. Stime che, ogni volta che le si avanzi, vengono contestate in radice. Bastano invece due esempi concreti. Chiedere agli scozzesi, fino a pochi anni fa il Nord depresso del Regno Unito com’è il nostro Sud storicamente in Italia, come e perché vogliano l’indipendenza da Londra proprio per beneficiare ancor più del petrolio e del gas del Mare del Nord. Chiedere ai norvegesi, se non sia stato il combustibile fossile estratto dall’Oceano ad alimentare benessere e sviluppo di un paese che ha avuto la saggezza di destinare una quota fissa obbligatoria delle royalties petrolifere a un fondo nazionale d’investimenti, che da molti anni rappresenta un polmone essenziale dello sviluppo economico e sociale norvegese.

Né in Scozia né in Norvegia petrolio, gas e infrastrutture energetiche legate al ciclo dei fossili sono risultati incompatibili con fortissima tutela ambientale e con elevato sviluppo di fonti rinnovabili, a cominciare dall’eolico e dalle correnti marine. Ergo, se in Italia si crede che il no a trivellazioni gasdotti e rigassificatori sia la via per raggiungere l’Eden, quel paradiso in terra sarà ancora destinato al basso sviluppo. In un paese in cui – non dimentichiamolo – la stima dell’ultimo rapporto dell’osservatorio sui Costi del non fare indica che rischiamo di dissipare entro il 2030 124 miliardi di ricchezza, bloccando le scelte energetiche già in cantiere.

E’ evidente che, nel no dei governatori e dei partiti, si manifesta un grande problema di rappresentanza politica. La scelta prevalente è stata sposare l’opposizione dal basso, di comitati locali e movimenti di forte ostilità a scelte vissute come “calate dall’alto”, di incerte ricadute locali, e di temute conseguenze ambientali. Ma una rappresentanza politica che si sdraia sui timori, quelli di chi in un paese a fortissima dipendenza energetica immagina di seguire la via dei “fai da te”, finisce per rinunciare alla propria funzione essenziale, cioè guidare i processi e alimentare visioni di sviluppo all’altezza dei gap accumulati e da recuperare.

Terza riflessione: non è un problema che riguardi però solo la politica. E’ un problema di cultura industriale, e riguarda tutte le classi dirigenti. I timori e le opposizioni che animano il pregiudizio ostile dei territori non vanno sposati unilateralmente, ma neanche affrontati con sprezzanti stime e slides di tecnici energetici e analisti dei mercati. Com’è noto, se si segue tale strada si ottiene l’effetto opposto, quello di apparire come “servi” dei grandi interessi multinazionali del circuito energetico e infrastrutturale.

Timori e ostilità si possono affrontare positivamente solo con un grande sforzo culturale, con confronti aperti e pazienti, volti a radicare nuova fiducia verso i fondamenti di uno sviluppo che non potrà fare a meno ancora per lungo tempo di fonti fossili, ma che può contare su tecnologie raffinate per contenerne i rischi in ogni fase, dalla ricerca all’estrazione, dal trasporto alla conversione di fase, fino all’utilizzo diretto per produrre altre forme di energia e alle emissioni. Un’Italia a minor dipendenza energetica, e che divenisse davvero hub del gas per l’intera Europa, avrebbe maggior PIL, pingui royalties da investire, e molti occupati aggiuntivi. Non è davvero cosa da poco.

27
Set
2015

Milton Friedman e Franco Modigliani sarebbero d’accordo: meno tasse ai giovani

Mentre il ministro Padoan onestamente ammette di nutrire preoccupazioni per le conseguenze che la truffa Volskwagen potrebbe esercitare anche sull’economia italiana, rispetto all’ottimismo inveirò eccessivo a cui è ispirato il DEF su crescita nominale e fattori esogeni, continua ogni giorno il confronto sulle misure in preparazione per la legge di stabilità.

Per le imprese, tra le novità positive degli ultimi giorni si annuncia un potenziamento degli incentivi sull’edilizia, e una correzione del pasticcio fatto l’anno scorso e mal rimediato sul regime dei mimimi per le nuove partite IVA. Ottime cose. Due settimane fa abbiamo scritto come, per il resto, fare una scelta secca potenziando gli incentivi per ricerca e innovazione e cambiando il regime degli ammortamenti dovrebbe rappresentare una priorità: sono misure che hanno il vantaggio di far crescere il PIL potenziale incoraggiando gli investimenti, oggi ancora “piatti” tranne che nell’auto e poco altro. Com’è chiaro, le imprese non riavranno certo la decontribuzione di 8mila euro per ogni nuovo contratto non aggiuntivo di cui hanno beneficiato nel 2014: ed è un bene.

Ma per quanto riguarda il fisco sui redditi delle persone? Anche qui occorre un discorso analogo. Anche se il governo rinvia al 2017-2018 scelte di sistema su questo versante, ciò malgrado sarebbe necessario lanciare subito dei segnali precisi. Scegliendo priorità, indicandole da subito.

Si possono avere pochi dubbi: la prospettiva generale è diminuire gli effetti impropri dell’ eccessiva progressività che il nostro sistema ha finito per accumulare ne tempo. Non solo per la tagliola rappresentata dallo scatto dell’aliquota al 38% alla soglia dei 28mila euro lordi, ma per il fatto che, attraverso il perverso gioco delle detrazioni familiari attualmente esistenti – che infliggono un devastante declino alla demografia italiana – finiscono per pagare un’aliquota reale superiore al 40% anche coloro che di aliquota legale dovrebbero pagare il 23 o il 27% , se hanno due figli e un solo reddito in famiglia.

Ma se questo è l’obiettivo finale di un intervento serio e organico su aliquote e detrazioni, in realtà le priorità da identificare subito si chiamano “donne” e “giovani”. Non i prepensionamenti nella fascia 57-62 anni, a cui invece si dedica quotidianamente l’arroventato dibattito tra governo e parti agguerrite della sua maggioranza.

Perché priorità alle donne? Perché ancora nel 2014 in Italia l’85% delle dimissioni volontarie dal lavoro da parte di dipendenti con figli ha riguardato loro: le donne. L’onere della tutela parentale e familiare resta a schiacciante maggioranza a carico loro, nell’organizzazione del lavoro e nella mentalità italiana. In un paese dove l’ISTAT certifica che lo Stato riesce a coprire solol’11,8% della domanda di servizi all’infanzia. Diamo allora subito un segnale su questo: la parte della delega al Jobs Act relativa alla conciliazione famiglia-lavoro delle donne è rimasta purtroppo inattuata. Introduciamo subito un significativo  credito d’imposta per il congedo parentale: è pazzesco non averlo, in un paese che totalizza 161 miliardi di mancato gettito attraverso centinaia di detrazioni a questa e quella lobby e nicchia economica.

Più in generale, occorre rivedere profondamente l’imposizione fiscale e contributiva sui giovani. Lanciamo allora un sasso nello stagno. In un’Italia dove anche la ripresa occupazionale avviatasi riguarda solo gli over 50 e dopo due generazioni di giovani precari, è tempo che il fisco ritorni a una fondamentale acquisizione del ‘900. Stiamo parlando della teoria del ciclo vitale del risparmio e dei consumi, che si deve a quel geniale economista teorico e applicato che era Franco Modigliani, e che gli valse il Nobel nel 1985.

Che cosa ci ha insegnato, la teoria del ciclo vitale? Essenzialmente, tre cose. Che il risparmio cresce quando si lavora e si dispone di un reddito, per calare durante il pensionamento. Che i consumi crescono meno della crescita del reddito, se c’è un calo delle tasse avvertito come non permanente, perché si risparmia più che consumare aspettando nuove tasse. E infine che il tasso di risparmio è tanto più elevato quanto maggiore il tasso di crescita totale di lungo periodo, e tende ad annullarsi se non si cresce. Sono tra le poche acquisizioni dell’economia pienamente condivise anche tra scuole diverse: su queste idee di Modigliani era perfettamente d’accordo anche Milton Friedman, con la sua teoria del reddito permanente.

I giovani in Italia oggi mediamente hanno o zero o pochissimo reddito, e tardano moltissimo a iniziare una regolare vita contributiva. Abbiamo cambiato le regole del lavoro, con il Jobs Act. Ma non quelle relative al fisco. Serve una svolta radicale: immaginare aliquote reali, attraverso detrazioni e deduzioni ad hoc, inversamente proporzionali all’anzianità contributiva dei giovani. Chi ha meno anni di lavoro, a parità di reddito deve pagare meno imposte e contributi di chi ha vita contributiva più alta. Nell’arco di tempo lavorativo, le detrazioni scenderebbero progressivamente, fino ad annullarsi e a prevedere un aggravamento a fine vita lavorativa. Realizzando, nel corso dell’intera vita lavorativa di ciascuno, una perfetta equivalenza attuariale di quanto si contribuirebbe a fisco, previdenza e sanità senza l’agevolazione ai giovani che invece oggi serve.

E’ una scelta radicale di prospettiva, quella di un fisco amico per giovani, donne famiglie. Che fin d’ora si può imboccare, come primo passo per una revisione generale delle aliquote (e della spesa, come ha insegnato Modigliani..)

 

 

25
Set
2015

Il sistema dei trasporti in Italia tra arbitrii e segreti—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Non solo trasporti: sarebbe stato il sottotitolo più scontato degli ultimi 20 anni che, infatti, il bel libro L’arbitrio del principe: sperperi e abusi nel settore dei trasporti, che fare? di Marco Ponti, Stefano Moroni e Francesco Ramella” (IBL Libri 2015), non ha. Ma è per far capire che si tratta di un libro che ha più chiavi di lettura: ci permette con chiarezza e semplicità di viaggiare nei meandri tecnici, economico-finanziari del sistema dei trasporti italiano, ma la destinazione finale, per dirla con le parole della prefazione di Carlo Cottarelli “Sono i principi che dovrebbero guidare l’azione della spesa pubblica (…) Quei principi ci dovrebbero dire quale è il confine appropriato tra area di azione del settore pubblico e area di azione del settore privato e quali sono i limiti alla discrezionalità che chi gestisce la cosa pubblica dovrebbe rispettare se si vogliono ridurre gli sprechi”. Read More

22
Set
2015

#PropertyIsFreedom: salviamo il diritto di proprietà

Nel nostro sistema legale, nessuno può dire se una legge nuova sarà abrogata tra un anno o un mese o un giorno (…). Ne risulta che, se non si tiene conto delle ambiguità del testo, si è sempre ‘certi’ per quanto riguarda il contenuto letterale di ogni norma in un dato momento, ma non si è mai certi che domani ci sarà ancora la stessa regola di oggi.

La citazione è di Bruno Leoni, da “Freedom and the law”, ed è molto attuale. Pensiamo agli investimenti esteri: pochi, pochissimi, in Italia. Se consultate i principali studi in materia, scoprirete che a far paura agli investitori non sono (solo) le tasse o la burocrazia. No: il problema dell’Italia è soprattutto l’incertezza: le tasse che cambiano nome e aliquote, le regole modificate in corso d’opera, le azioni incontrollate della magistratura, gli espropri sine titulo. Segno di uno Stato che non può, o non vuole, tutelare il diritto più importante che c’è: la proprietà privata.

Si pensi al Teatro Valle, una delle tante note dolenti della triste melodia che accompagna la tutela della proprietà in Italia. Emblematica, perché racconta di una gestione pubblica disastrosa, sostituita non da un ordinato processo di valorizzazione e privatizzazione, come sarebbe lecito aspettarsi, bensì da un’occupazione che dura da anni col beneplacito dell’intellighenzia sessantottina e non solo.

Chi si è occupato del Valle si è spesso soffermato sul fatto che non paghi tasse e bollette o che si tratti di un bene sottoposto a vincoli storico-monumentali. Tutto giusto, ma a ben vedere l’aspetto più grave è che uno Stato non riesca a far rispettare, all’interno della propria capitale, il più elementare dei diritti di proprietà.

Un caso, quest’ultimo, che ricorda per molti aspetti quello delle occupazioni abusive di case popolari. Basti pensare a Milano, ormai da anni teatro di un’emergenza che, come per il Valle, vede l’abusivismo farsi beffe delle regole. Gli occupanti, del resto, hanno buon gioco a lamentare la lentezza della burocrazia comunale, che impiega spesso anni per ristrutturare e riassegnare gli alloggi sfitti. Anche in questo caso, le istituzioni perdono due volte: quando non riescono a gestire l’emergenza abitativa e poi quando, una volta acclarato il fallimento delle proprie politiche, si dimostrano incapaci di far rispettare i diritti di proprietà. Uno Stato elefantiaco, che nel fare troppe cose finisce per farle tutte male. Per colpa di chi? Difficile attribuire responsabilità precise, ma certamente la legislazione in materia non aiuta. Si pensi all’articolo 54 del codice penale, che è stato utilizzato come scriminante per l’occupazione abusiva di case e appartamenti per ragioni di solidarietà sociale. O alla legge-delega 67/2014, con la quale il governo in carica ha di fatto depenalizzato l’occupazione.

Ma l’indolenza non è il male più grave. Quando ad essa sostituiscono pretese di onniscienza e interventismi iatrogeni, i governi riescono spesso a fare ancora di peggio. Basti pensare alle espropriazioni senza titolo, dichiarate illegittime in diverse occasione dall’ECHR senza che l’introduzione della c.d. “acquisizione sanante”, nel 2011, abbia reso la normativa italiana in linea con quanto più volte richiestoci. O alle regole sulla determinazione dell’indennizzo da espropriazione, che fino a pochi anni fa facevano leva su un supposto “interesse allo sviluppo economico- sociale” per restituire ai privati molto meno del valore di mercato dei beni espropriati.

Questi e molti altri sono gli esempi di uno Stato che calpesta i diritti di proprietà, trattandoci come sudditi, e che d’altra parte non è in grado di farlo rispettare nemmeno dai suoi consociati. Ecco perché è da qui, dal diritto di proprietà, che bisogna ripartire per tornare ad essere Cittadini.

Twitter: @glmannheimer

21
Set
2015

Il carisma Tsipras: la logica non è la coerenza, è la coerenza di voler rivincere l’unica logica

Capisco l’esercito di astenuti in Grecia. Non ti viene la voglia di votare per la terza volta in 9 mesi, dopo aver dato la vittoria a gennaio a chi giurava di ribaltare le richieste Ue, dopo averla ridata a chi dal governo ti ha riportato a un referendum per respingere le richieste Ue, ma alla fine le richieste Ue le ha dovute e volute firmare, moderatamente attenuate ma sempre durissime, e comunque molto più dure di quelle che la Grecia avrebbe ottenuto se non avesse dato retta a Tsipras all’inizio. Ma che cosa significa davvero, la neovittoria netta di Tsipras? Per favore, ora non commettiamo l’errore di considerarlo un riformista socialdemocratico, perché non lo è affatto. Ma andiamo per ordine.

Non ci sarà dunque il governo di solidarietà nazionale tra Syriza e Nea Demokratia, l’esito che l’Europa sperava. Perché va bene che Tsipras ha dovuto cambiare radicalmente idea ed è diventato inopinatamente realista, invece di inseguire l’avventurista piano B di Varoufakis che voleva uscire dall’euro arrestando il presidente della banca centrale ad Atene. Ma l’Europa avrebbe preferito  se ora Tsipras avesse dovuto condividere la responsabilità di governo con chi, come Meimarakis di Nuova Democrazia, esplicitamente dice che l’unica cosa che la Grecia deve fare è rispettare le intese con l’Europa, e pedalare ventre a terra. Al contrario, Syriza e la formaziocina di destra nazionalista con cui era spregiudicatamente alleata riottengono la maggioranza, sia pur risicata. Tsipras ha detto in campagna elettorale – l’unica cosa che ha detto, praticamente, è stato lontanissimo da ogni impregno concreto – che non avrebbe accettato mai un governo di convergenza. E i greci gli hanno dato ragione. Forse c’è della razionalità, in questo. Se Tsipras ritira la corda – come credo – almeno i greci si sono riservati per il dopo un’alternativa più moderata.

Per l’impatto del neo vittorioso Tsipras, distinguiamo i due piani: il primo è quello della Grecia in Europa, il secondo quello politico della sinistra.

Ai mercati il risultato non dispiace, Tsipras ha soprattutto vinto la sfida alla sua sinistra, accettando che un terzo dei membri dell’organo nazionale del suo partito provassero a sconfiggerlo alle elezioni: col risultato che non ottengono neanche il 3% e restano fuiori dal parlamento. Detto questo, molti elementi dicono che la nuova vittoria di Tsipras non significhi affatto che il memorandum d’intesa, tra Ue e Bce da una parte e Grecia dall’altra, sia a questo punto una Bibbia indiscutibile.

Nel solo mese di ottobre, ricorda giustamente l’ex direttore del FMI Andrea Montanino , il memorandum tra Grecia creditori prevede 55 nuovi atti legislativi e regolatori per cominciare ad attuare le riforme a cui Tsipras suo malgrado si è impegnato: pensioni, sanità, fisco, creazione di un’autorità indipendente sulle entrate, liberalizzazioni di molti settori e del turismo, riforma delle professioni. Quanto alle privatizzazioni, su alcune – per esempio quelle elettriche – Tsipras non ha mai abbandonato la sua contrarietà. E comunque va detto: l’intesa sulle privatizzazioni NON è assolutamente credibile. Dal 2011 a oggi il fondo ellenico responsabile delle cessioni pubbliche – si chiama HRADF, Hellenic Republic Asset Development Fund – ha avviato privatizzazioni per circa 7 miliardi, pari al 4% del PIL greco. Pensare davvero che entro il 2018 la Grecia privatizzi per 50 miliardi, cioè per un ammontare pari al 26% del suo PIL attuale, ha dell’assoluto inverosimile, quand’anche ci fossero davvero asset residui di quel valore. E’ come se all’Italia si chiedessero cessioni pubbliche per 400 miliardi: cedendo tutti i mattoni pubblici si potrebbe fare, ma capite al volo che non lo farebbe nessuno.

Infine, non dimenticate che la firma a fine luglio dell’intesa tra Tsipras e i creditori continua a veder incombere su di sé una appuntita spada di Damocle: l’abbattimento ulteriore del debito greco, chiesto da Tsipras, negato dalla Ue, e sostenuto dalla scorsa primavera però anche dal FMI ( tanto, i miliardi la Grecia li deve ormai a Ue, ai suoi paesi membri e BCE, non al Fondo). La firma di allora fu apposta sulla base di un patto di fiducia: Tsipras ci faccia vedere che ora fa sul serio, e più avanti parleremo non di un vero taglio del debito, ma di allungarne ancor più le scadenze e di abbatterne ulteriormente gli interessi.

Chi qui scrive è convinto che l’abbattimento richiesto dalla Grecia – il secondo dopo quello del 2012, che vide i creditori privati perdere tra il 50 e il 60% in valore dei loro prestiti alla Grecia – sia tecnicamente giusto, visti i poveri fondamentali del paese. E la pensano così moltissimi economisti, non solo keynesiani o ostili all’euro. C’è da scommettere che la nuova chiara vittoria di Tsipras lo porterà a rilanciare sull’haircut del debito: è meglio che a Berlino si preparino. E che cominciamo anche noi italiani a fare il conto di quanto perderemmo.

Quanto alla sinistra, ne esce con le ossa rotte chi ha puntato in mezza Europa sull’antagonismo di Varoufakis e di Unione Popolare, la neoformazione greca nata a sinistra gridando “traditore” a Tsipras. Ma già si vedono le giravolte: a casa nostra Vendola ieri sera dichiarava che in Grecia vince la sinistra che non si arrende. Come no, Tsipras ha firmato il contrario di quel che per due volte alle urne aveva giurato di non volere.

Detto questo, allo stesso modo è del tutto improprio dire che sia una vittoria netta del riformismo socialdemocratico. Non lo è: è una conferma delle molte facce contraddittorie che può assumere il neoradicalismo, rispetto ai tradizionali partiti socialisti travolti dall’eurocrisi. Il carisma personale porta a vincere e rivincere lo stesso leader, a distanza di pochi mesi e su scelte opposte, legnando sia il vecchio Pasok sia i neoantagonisti. Sarebbe un errore pensare oggi che Tsipras sia la reincarnazione greca del tedesco Schroeder, che rimise i piedi la Germania con riforme impopolari del welfare, tagliando spesa e tasse, e rilanciando la produttività con grandi intese aziendali in cui si tagliava il salario per difendere l’occupazione.  Tsipras si è liberato degli oppositori interni e ora può ritirare la corda. Anche l’Italia ne sa qualcosa, di come la leadership carismatica a sinistra sia qualcosa di molto diverso da una sana tradizione socialdemocratica, e a destra sia del tutto aliena da una sana tradizione liberale. Da chi vince per carisma è legittimo attendersi che possa fare e rifare l’esatto opposto di ciò che ha detto. Perché nel carisma la logica non è la coerenza, ma è la coerenza di voler vincere l’unica logica.