16
Ott
2015

Moltiplicatorao Keynesiao

Lo scorso 21 maggio Joao Ferreira, europarlamentare portoghese del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea, presentò un’interrogazione scritta alla Commissione europea, che recitava più o meno così:

Aumentare il valore commerciale del pesce è un fattore chiave per risolvere il problema persistente del basso reddito nel settore della pesca.

In Portogallo, alcune delle specie pescate più di frequente non hanno nessun valore dal punto di vista commerciale, anche se sono una preziosa fonte di nutrimento. In altri casi, il loro valore commerciale è talmente basso che il prezzo di vendita non copre nemmeno i costi necessari a pescarli. È così, ad esempio, per specie come i sugarelli e i sugarelli blu, tra gli altri.

L’ultima riforma della politica comune della pesca (PCP) non ha creato le condizioni necessarie per una soluzione a questo problema cronico. Al contrario, avendo indebolito i meccanismi di intervento sul mercato da parte dell’Unione Europea, la situazione sta peggiorando.

Pertanto, chiediamo alla Commissione di farci sapere quanto segue:

– Quali strumenti sono disponibili nell’ambito della PCP e altri programmi per sostenere lo sviluppo di nuovi prodotti che potrebbe aumentare il valore aggiunto di specie che hanno nessun o un bassissimo valore commerciale?

– Quali strumenti potrebbero contribuire ad aumentare il valore commerciale di queste specie (ad esempio campagne tra i consumatori)?

Chi di voi non è al quindicesimo bicchiere di Porto starà pensando dall’inizio dell’interrogazione una sola cosa: perché continuano a perdere tempo pescando quei pesci che nessuno desidera acquistare? Sarebbe come se domani io mi mettessi a raccogliere fili d’erba al parco e, non riuscendo a venderli, mi rivolgessi al Parlamento europeo per chiedere come aumentare il valore dei fili d’erba. Ebbene: la Commissione ha trovato il tempo di rispondere.

Ma questo è nulla. Martedì, il Parlamento europeo ha approvato il budget dell’Ue per il 2016. Il voto finale è arrivato dopo una sessione di voto sugli emendamenti presentati dagli europarlamentari sul testo predisposto dalla Commissione. Avete capito bene: tra quegli emendamenti, ce n’era uno, a firma del nostro Ferreira, che chiedeva di stanziare due milioni di Euro per un progetto di ricerca su – letteralmente – “come aumentare il valore del pesce senza valore”. Risultato: il Parlamento europeo ha approvato l’emendamento.

Raccoglitori di fili d’erba, fatevi forza: se vi è andata male con la legge di Stabilità e il reddito di cittadinanza è ancora una prospettiva lontana, potere sempre sperare nel Parlamento europeo. Il dibattito su come aiutare i più bisognosi – se regalando loro il pesce o insegnando loro a pescare – ha da oggi un nuovo capitolo: facendo pescare loro pesce che non vuole nessuno, a spese dei contribuenti. Ah, l’austerity!

Twitter: @glmannheimer

14
Ott
2015

Tetto al contante: un falso mito molto popolare

Il presidente del Consiglio ieri ha compiuto uno di quei gesti che lasciano senza parole i suoi avversari e il suo stesso partito. Ha annunciato che in legge di stabilità il governo eleverà il tetto all’uso del contante da mille a tremila euro. Non ha fatto solo l’annuncio, l’ha argomentato. Sapendo bene di affrontare un totem sacro al mantra della lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio dei capitali sporchi, ha toccato entrambi gli argomenti. Non credo che la lotta all’evasione si conduca più efficacemente vietando i contanti piuttosto che con le tecnologie dell’informazione e la piena tracciabilità dei pagamenti, ha detto. E ha aggiunto una frasetta che contiene un messaggio politico: basta con la lotta all’evasione impostata sul terrore, abbiamo bisogno di consumi e che chiunque possa pagare in contanti tremila euro non si senta più inibito a farlo, perché se il problema sono i controlli, abbiamo già altri strumenti per farli.

Da un punto di vista liberale, per me merita un applauso. E il governo in realtà si era già impegnato nello scorso giugno in parlamento a farlo, con un ordine del giorno della maggioranza in cui esplicitamente si assumeva l’impegno a valutare l’innalzamento della soglia stabilita dal governo Monti, in parallelo all’avanzamento degli obblighi di fatturazione elettronica e di tracciabilità dei pagamenti. Ma una cosa è dirlo in un ordine del giorno, altra è assumersi direttamente la paternità di proporlo in legge di stabilità. E a questo punto la vera cosa da fare è spiegare pianamente perché si tratta di una decisione giusta, sapendo che le resistenze saranno fortissime, e con ogni probabilità fortissimamente gridate. Si accuserà infatti chiunque lo sostenga di essere evasore “amico di prostitute e spacciatori”, come mi ha gentilmente definito stamane a radio24 un sottufficiale della Guardia di Finanza.

In Europa, il tetto a mille euro era condiviso dall’Italia e dal solo Portogallo, alla cui compagnia si è recentemente aggiunta la Francia, per equilibrare le proposte del ministro Macron che molto dispiacciono all’ala sinistra dei socialisti. Persino in Grecia il tetto è più alto, a 1500 euro. In Germania e Olanda non c’è mai stato. In Danimarca supera i 13mila euro. E’ ovvio che per un liberal-liberista come chi qui scrive, i limiti alle forme di pagamento siano ingiuste e improprie compressioni della libertà individuale. Ma il punto non è questo, perché di liberal-liberisti in Italia siamo pochi. Bisogna invece rispondere a chi è fortemente convinto che il tetto al contante sia una forma necessaria per arginare l’evasione.  Tre considerazioni, a questo proposito.

La prima: chi difende il tetto dimentica che dal 2014 l’Agenzia delle Entrate ha cominciato ad entrare in possesso telematicamente entro il 20 aprile di ogni anno di tutti i nostri rendiconti relativi all’anno precedente. Rendiconti bancari, dei conti correnti e di deposito, deposito titoli, carte di credito e di debito, fondi comuni d’investimento, certificati di deposito, buoni fruttiferi, cassette di sicurezza, compravendita di metalli preziosi, e operazioni extra conto. L’Agenzia delle Entrate oggi sa tutti di noi. Al punto tale che, grazie a una normetta sciagurata approvata nella finanziaria per il 2005 presentata da Berlusconi, cominciò subito a fare accertamenti a lavoratori autonomi e professionisti che, prelevando contante, non erano in grado di documentarne al centesimo l’utilizzo e soprattutto i diretti beneficiari, presumendo che si trattasse di somme usate per pagamenti in nero e dunque equiparate a reddito o ricavi aggiuntivi, evasi e dunque da sanzionare fino al 50% delle somme in questione! C’è voluta una sentenza della Corte costituzionale, nell’ottobre 2014, per bloccare l’Agenzia dal considerare come pagamenti in nero sanzionabili i prelevamenti di contante effettuati da lavoratori autonomi senza indicazione del beneficiario. Gli strumenti telematici dunque esistono eccome, e stabilito dal 2015 l’obbligo per 2 milioni di imprese e professionisti alla fatturazione elettronica verso la PA, tale vincolo verrà nel tempo via via esteso a ogni forma di fatturazione. Siamo entrati appieno nell’era del grande fratello fiscale, altro che tetto ai contanti.

Secondo: come spiegava bene ieri a radio24 alla versionedioscar il professor Raffaello Lupi, che insegna diritto tributario a Tor Vergata, in realtà i bassi limiti all’uso del contante ottengono un effetto paradossale, molto diverso da chi li concepisce come strumenti anti-evasione. Complicano la vita solo a chi si fa scrupolo di rispettare gli obblighi tributari, mentre gli evasori regolarmente se ne impipano. Se il lavoratore dipendente o il pensionato dovessero accogliere la proposta di un idraulico, o proporre all’idraulico stesso, di evitare fattura e IVA pagando in contanti, non sarà il tetto basso ex lege a fermarli. Nel caso di stranieri, russi arabi cinesi o chi volete voi, che nel loro tour in Italia vogliano comprare capi di moda o gioielli italiani fasci di banconote alla mano, gli obblighi di segnalazione all’Antiriciclaggio ottengono solo due effetti: o rinunciano all’acquisto e ci facciamo del male da soli, oppure il venditore evita la fattura, il pagamento è in nero, e il tetto basso al contante ottiene l’effetto di incentivare proprio l‘evasione contro la quale nasce.

Terzo: usare di più la moneta elettronica è una battaglia di civiltà, ma passa per un’altra strada. Tra i paesi avanzati, l’Italia ha i più bassi tassi di regolazione dei pagamenti con moneta elettronica, e i più alti livelli di residenti senza conti bancari o postali. E’ chiaramente un segno di arretratezza. Ma deriva dalla bassa persistente cooperazione verticale e orizzontale di intermediari finanziari con imprese ed enti che offrono beni e servizi, e dalle ancora elevate spese di commissione che gli intermediari finanziari e i gestori dei sistemi di pagamento chiedono a chi si serve dei POS, per accettare pagamenti elettronici garantiti. La via per abbattere questi ostacoli è quella che abbassa il digital divide, stimola fiscalmente gli operatori a una cooperazione meno onerosa con i consumatori, spiana i residui ostacoli alla concorrenza, abbatte i rischi di truffa e frode che anche nei pagamenti elettronici esistono eccome. Il tetto al contante non c’entra nulla con tutto questo.

Eppure, ne siamo certi, le polemiche ora avvamperanno. Ci sarà chi dice che questi sono argomenti “di destra” e “da evasori”. Ma il punto è invece tutt’altro. Liberarsi da inutili e controproducenti vessazioni è un passo avanti per un fisco meno basato su presunzioni teoriche di evasione, e finalmente più ancorato alla possibilità pratica di accertamenti basati su realtà fattuali. Non è questione di evasione, ma di civiltà.

13
Ott
2015

Ripensare i finanziamenti europei: dal più spesa al meno tasse—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

Quando si fa già una gran fatica a difendersi da un Leviatano tricolore tutto spendi&tassa, non esiste un incubo peggiore di un Leviatano sovranazionale che segua la stessa linea. Nell’accezione mediatica e – di conseguenza – popolare, il lato positivo dell’adesione italiana all’Unione Europea è da sempre rappresentato dai cd “Fondi Europei”, categoria eterogenea che comprende una serie di sigle, ma che in sostanza concerne la grande forma di finanziamento dell’Unione nei confronti degli Stati Membri. Anche in costanza di recessione – o di crescita microscopica come nella fase attuale – i Fondi Europei hanno continuato a godere di buona fama e del favore della vox populi. Read More

11
Ott
2015

La realtà contro l’ossessione redistributiva

Lo scorso settembre la Banca Centrale Europea ha pubblicato uno studio a firma di Pirmin Fessler e Martin Schürz. Si tratta di un’indagine sulle differenze nella dotazione di ricchezza privata delle famiglie in tredici Paesi Europei. In particolare, gli autori studiano come la dotazione di patrimoni nei diversi Paesi sia influenzata da reddito ed eredità delle famiglie e dall’ammontare di spesa pubblica in welfare.

Lo studio si basa su dati del 2010, collezionati nella prima edizione di un progetto europeo (HFCN: Household Finance and Consumption Network) tramite un questionario finalizzato a raccogliere informazioni sulla ricchezza delle famiglie nell’area euro. L’Italia, insieme alla Finlandia, è stata esclusa dall’analisi a causa dell’incompletezza dei dati sulle successioni dei patrimoni.

I risultati dell’analisi sono in linea con le aspettative nel caso delle prime due variabili: reddito ed eredità delle famiglie. Senza marcate differenze tra i diversi Paesi, le famiglie con redditi più alti e quelle che ricevono patrimoni in eredità vantano una ricchezza netta più elevata in rapporto a coloro che hanno redditi inferiori o non ereditano ricchezza. Niente di sorprendente.

Dopo l’analisi fatta a livello individuale però, si passa agli aggregati, e la questione diventa meno banale. L’obiettivo è capire quale sia la correlazione tra spesa pubblica in welfare e i livelli di patrimonio netto nei diversi Paesi. Nella spesa per welfare gli autori includono le voci Eurostat di spesa per pensioni e sicurezza sociale (pension and total social security expenditure) in rapporto al PIL, oltre alla spesa destinata alle politiche attive per i disoccupati. I risultati potrebbero colpire. Esiste una correlazione negativa e statisticamente significativa tra i livelli di ricchezza netta delle famiglie e spesa per sicurezza sociale e pensioni. Allo stesso modo è negativa la correlazione con la spesa per le politiche attive a favore dei disoccupati (ma non statisticamente significativa). I due grafici riportati mostrano come questi risultati siano più evidenti per i livelli di ricchezza del venticinque percento più povero della popolazione dei diversi Paesi, rispetto a quelli del cinquantesimo percentile.

Cinquantesimo percentile                                        Venticinquesimo percentile

Immagine

La realtà descritta dallo studio della Banca Centrale è molto diversa dalla favola descritta dai molti in preda alle note smanie redistributive. Nei paesi dell’area euro in cui si spende di più in welfare tutti sono più poveri e i poveri sono ancora più poveri. Coloro che verosimilmente dovrebbero beneficiare di più di un sistema di ‘sicurezza sociale’ sembrerebbero essere quelli più penalizzati.

La lettura dello studio è consigliata a tutti, soprattutto ai nostri governanti.

@paolobelardinel

7
Ott
2015

Quando la democrazia è sapiente: a cosa serve il ministero dell’oscurantismo?—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Nel libro edito da IBL di Ilya Somin “Democrazia e ignoranza: perché uno Stato più snello sbaglia di meno” viene molto bene evidenziato come uno dei maggiori problemi delle democrazie riguarda la scarsa preparazione dei cittadini, l’estrema difficoltà di conoscere gli effetti di una certa scelta elettorale e come questo avvantaggi il decisore pubblico nel fare quel che vuole, quando vuole e senza limiti; per questo, per Somin il governo che governa meno non è sempre il migliore sotto ogni aspetto, ma è la forma di democrazia meno vulnerabile all’ignoranza politica. Solo così il controllo democratico dello Stato funziona meglio quando c’è meno Stato da controllare.

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6
Ott
2015

Solo il 24 dicembre porrà fine al cinico balletto sui prepensionamenti

Governo e maggioranza, in particolare il Pd, hanno deciso da settimane di mandare in bambola centinaia di migliaia di italiani. Si tratta di coloro che l’anno prossimo non sono in linea con i requisiti minimi previsti per la pensione dalla legge Fornero, ma non ne sono neanche troppo lontani. A loro è riservato dunque un complicato balletto di promesse e contropromesse, a cui seguono smentite e controsmentite, tutte finalizzate a questa o quella ipotesi di prepensionamento attraverso la legge di stabilità. Inutile dire che così si mina la fiducia degli italiani. Ma la politica ha le sue misteriose strade, per perseguire i propri obiettivi di consenso. L’ultima nuova è quella del prepensionamento integralmente a carico delle aziende che appare oggi sui media: una bella trovata politica non c’è dubbio, deciderlo a spese altrui…

Cominciamo dalle regole vigenti. Nel 2016 è previsto un giro di vite sui requisiti previdenziali, in coerenza al percorso a tappe forzate deciso ai tempi del governo Monti. Dal 2016 al 2018 per la pensione di vecchiaia saranno necessari 66 anni e 7 mesi di età e almeno 20 anni di contributi, per i lavoratori dipendenti e autonomi nonché per le lavoratrici del pubblico impiego. Per le lavoratrici nel settore privato il requisito sarà di 65 anni e 7 mesi rispetto agli attuali 63 anni 9 mesi, mentre per le autonome i tetti salgono da 64 anni e 9 mesi a 66 anni e 1 mese. Per chi avesse i requisiti di età e contributivi ma una pensione inferiore all’equivalente di una volta e mezzo l’assegno sociale, la pensione scatta anche solo con 5 anni di contribuzione, ma solo dopo i 70 anni e 7 mesi di età.

Le pensioni anticipate saranno possibili a chi, a qualunque età, avrà almeno 41 anni e 10 mesi di contributi versati per le donne, e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Chi avesse 20 anni di contributi versati dal 1996, e dunque soggetti al sistema contributivo puro, potrà andare in pensione a 63 anni e 7 mesi, ma al solo patto che la pensione maturata non sia inferiore a 1250 euro. Queste le regole vigenti dal prossimo anno, a cui si aggiunge l’adeguamento automatico dei coefficienti di trasformazione per calcolare il trattamento previdenziale moltiplicandolo per il montante versato, coefficienti che diminuiscono progressivamente nel tempo sempre per pareggiare l’attesa di vita, e che tengono conto anche del Pil realizzato intanto in Italia.

Su queste regole, si è messo per traverso prima il Jobs Act. All’ultimo momento è stata ripescata l’idea della staffetta generazionale, e nei nuovi contratti di solidarietà in uscita si è previsto che il lavoratore vicino alla pensione potrà lavorare part time e insieme percepire dall’Inps una quota della pensione già maturata, senza tagli di reddito. E’ un’ipotesi riservata ai dipendenti con almeno 20 anni di contributi e a cui mancano non più di 2 anni per raggiungere il requisito anagrafico, cioè come detto per gli uomini 66 anni e 3 mesi quest’anno, 66 anni e 7 mesi nel 2016. Se ci sarà un contratto di solidarietà che preveda nuove assunzioni a tempo indeterminato, gli anziani possono ridurre l’orario almeno alla metà e, insieme al relativo diminuito stipendio, percepire una quota di pensione a patto che non superi la precedente retribuzione full time.

A tale regime sui aggiunge quello della cosiddetta “opzione donna”, che oggi prevede la pensione per le lavoratrici di 57 anni e 3 mesi per le dipendenti e 58 anni 3 mesi per le autonome, se hanno almeno 35 anni di contributi (si va però concretamente in pensione solo aspettando finestre che si aprono ogni 12 mesi per le dipendenti e ogni 18 per le autonome). Chi sceglie l’opzione donna ha l’assegno decurtato, perché in ogni caso è calcolato integralmente col sistema contributivo. Il taglio può arrivare al 30%dell’assegno, ma nel 2014 quasi 12 mila donne l’hanno accettato.

In più: c’è la pensione anticipata per i lavori usuranti. Per loro vige un sistema ancora diverso. Nel 2015 occorre una quota minima sommata di 97,3 anni, sommando età anagrafica e contribuiti versati. Anche per loro sono previste finestre mobili e aggravamento progressivo negli anni del tetto, in coerenza all’aspettativa di vita. In realtà i prepensionamenti “usuranti” sono pochissimi, si fa prima a raggiungere i requisiti ordinari di vecchiaia.

Infine, c’è il prepensionamento legato ad accordi specifici tra aziende e sindacati, in caso di esuberi di personale: il personale in eccedenza a cui manchino non più di 4 annui per i requisiti minimi ordinari di pensione può smettere di lavorare e resta a carico dell’azienda, che gli versa un equivalente di pensione e in contemporanea gli versa anche i contributi come se lavorasse, fino alla pensione ordinaria. Molto onerosa come formula per le imprese: in realtà applicabile solo da grandi aziende con evidenti problemi di turn over di personale ma ricche disponibilità di liquidità, non proprio la regola in Italia. Ed è esattamente quest’ultimo il modello che oggi sui media fonti di governo e maggioranza dicono di voler estendere nel 2016.

Ecco, spero di essermele ricordate tutte, le forme di pensionamento ordinarie e straordinarie attualmente previste. In queste settimane capita che parti del Pd e tutti i sindacati, il ministro Poletti e il sottosegretario Baretta e il presidente di Commissione Damiano, propongano l’ampliamento delle platee e l’abbattimento dei requisiti praticamente a rotazione per ognuna delle forme di pensionamento anticipato oggi prevista: si tratti dell’opzione donna o di quella per usuranti, del prepensionamento a carico delle aziende, o anche dell’utilizzo dei 3 miliardi sin qui non impegnati e stanziati dalle 6 salvaguardie già votate per 170 mila esodati (ma solo 130mila hanno presentato domanda), al fine di prepensionare il più possibile dei disoccupati di lungo periodo over 55enni, invece di pensare per loro a politiche attive per reinserirli al lavoro.

Ciascuna di queste ipotesi è avanzata dai proponenti giocando al ribasso sulla stima reale dei costi e cioè dei miliardi necessari a coprirle, perché i voti vengono prima. Il governo stesso ha detto e non detto. Padoan più volte ha smentito prepensionamenti in deficit, poi è stato corretto da Renzi. Al MEF riservatamente dicono che non sanno più dove sbattere la testa, visto che nel frattempo Renzi ha promesso un non meglio identificato intervento per la povertà e un imprecisato taglio dell’IRES a tutte le imprese visto che per il solo Sud Bruxelles ha detto no, perché sarebbe stata violazione del divieto ad aiuti di Stato. Nel frattempo è sfumato anche l’introito della Digital Tax, anch’essa ovviamente e giustamente bocciata da Bruxelles. Mentre il commissario europeo Moscovici domenica ha ricordato che se il governo vuol tagliare le tasse deve tagliare la spesa in maniera altrettanto strutturale, figurarsi se può aggravare il deficit previdenziale.

La coperta è corta, cortissima per tutte queste promesse insieme. Il consiglio che diamo è uno solo: aspettate a capire per la pensione, ma non la sera che sarà presentata la legge di stabilità, bensì il 24 dicembre quando il parlamento l’approverà definitivamente. Perché una cosa è sicura. I partiti, destra e sinistra, vogliono i voti dei prepensionati a fanno gara a coccolarli. Ma cosa davvero sarà proposto e votato, si capirà solo all’ultimo secondo. Quando il governo avrà veramente deciso quanto deficit aggiuntivo se la sente di sostenere a Bruxelles.

6
Ott
2015

Produttività: o cambia il modello contrattuale, o non se ne esce

Per milioni di italiani, tra le tante incertezze ora che la ripresa si è avviata – ma con effetti diseguali – c’è l’incognita di quanti soldini porteranno i nuovi contratti di lavoro, nel frattempo scaduti. Per i 3,2 milioni di pubblici dipendenti, che da anni hanno subito lo stop del rinnovo contrattuale decretato dall’ultimo governo Berlusconi e rinnovato da tutti quelli che si sono succeduti, la Corte costituzionale ha provveduto, decidendo che dal 2016 il governo deve rinnovarli. Ma si capirà solo in legge di stabilità quanti denari verranno riservati agli aumenti retributivi pubblici ( e nel frattempo i sidnacati gà alzano barricate all’idea che bastino 500mln, vogliono almeno 2 o 3mld). Diverso è il problema che grava su milioni di dipendenti privati: 1,6 milioni di metalmeccanici, 170mila del chimico-farmaceutico, 400mila dell’industria alimentare, 60mila del settore elettrico. Tutti contratti in scadenza tra novembre e dicembre. Per loro c’è un problema serio, che riguarda il tema più fondamentale e trascurato della crisi italiana: la produttività. Tutti hanno ormai capito – almeno a parole – che con queste tasse non si va lontano. Quasi nessuno però dice che o affrontiamo seriamente il nodo della produttività, oppure il gap accumulato verso i nostri concorrenti ci porta a fondo. E i contratti investono la produttività agendo su entrami i fattori su cui si calcola il CLUP, il costo del lavoro per unità di prodotto: sia sul numeratore, il costo lordo del lavoro, sia sul denominatore, il valore aggiunto per lavoratore occupato.

Partiamo da un dato, quello del raffronto tra noi e i concorrenti. Dal 2000 al 2012, il CLUP nell’industria manifatturiera italiana al netto delle costruzioni è passato da 100 a 137. In Spagna da 100 a 115, in Francia a 110, in Germania nel 2014 era ancora a 100. Abbiamo accumulato 37 punti di distacco dalla Germania, essendo noi la seconda potenza manifatturiera europea dopo di lei. L’abissale differenza non si spiega con il cuneo fiscale, perché rispetto alla Germania è praticamente equivalente, cioè elevato in entrambi i casi.

Solo che in Germania sono avvenute due cose. Da una parte, nel primo decennio Duemila l’andamento delle retribuzioni nette tedesche è stato contenutissimo, per alcuni anni ha avuto anzi un andamento seccamente negativo: a seguito dei grandi accordi firmati tra imprese e sindacati per rilanciare la produttività e difendere l’occupazione, accettando anche retribuzioni più basse per i neo assunti in cambio del fatto che gli aumenti sarebbero tornati insieme a più occupati quando le cose fossero andate meglio. Cosa quest’ultima che in Germania sta puntualmente avvenendo, da 2 anni a questa parte. Dall’altra parte, poiché in Germania la dimensione media d’impresa è maggiore e contano i contratti aziendali rispetto ai nostri CCNL – i contratti nazionali di categoria – le intese raggiunte tra imprese e sindacati sono state ferreamente incardinate su obiettivi di maggior produttività: per singola azienda, ma anche spessissimo per reparto e per ogni lavoratore individualmente. In questo modo, il CLUP tedesco ha registrato un andamento molto più contenuto del nostro: sia perché al numeratore la retribuzione netta ha registrato aumenti contenutissimi, sia perché al denominatore è cresciuto il valore aggiunto per addetto.

Ecco perché il problema investe frontalmente lo strumento stesso del CCNL italiano, il modo in cui si determinano le retribuzioni, dove le si tratta e i parametri a cui le si collega. E’ un problema esploso ancor più con la deflazione in questi ultimi anni. L’inflazione zero, rispetto a quella prevista per gli aggiornamenti contrattuali 4 o 5 anni fa, ha prodotto l’effetto di accrescere ancor più la retribuzione nominale e il costo lordo per le imprese. Solo tra 2012 e 2014, i salari contrattuali nominali corrisposti sono aumentati del 6,5%, ma l’inflazione vera complessiva non ha raggiunto il 2%. Il che porta a due conseguenze. La prima è che bisogna cambiare il meccanismo di tutela del potere d’acquisto stabilito nel 2009 nei contratti, attraverso l’adozione allora dell’indice IPCA armonizzato a livello europeo. La seconda è che bisogna proprio cambiare il modello stesso dei contratti: lasciare ai contratti nazionale la parte normativa, relativa ai diritti e ai doveri cioè all’esigibilità dei contratti stessi, e un minimo di parte salariale, per destinare invece ai contratti di produttività aziendali e di filiera territoriale il più della retribuzione, collegata a precisi parametri di recupero della produttività.

Ed è su entrambi questi punti nodali, che Confindustria e i sindacati non s’intendono. A seconda delle diverse categorie, in questi anni i lavoratori hanno ottenuto da un minimo di 50 fino a oltre 100 euro mensili superiori all’andamento dell’inflazione reale. Come si fa a rinnovare i contratti col vecchio metodo? Facciamo restituire i soldi dai lavoratori alle aziende? Tutti i sindacati insorgono alla sola idea: comprensibile, anche perché nel frattempo sui lavoratori si è esercitata l’accresciuta pretesa fiscale dello Stato, visto che tra 2000 e 2014 l’aliquota effettiva media IRPEF è salita sul complesso dei dipendenti di oltre 2 punti, dal 19,9% al 22,1%, e allo stesso modo è salita l’aliquota contributiva media all’INPS, cresciuta dal 9,1% al 9,49%. E in ogni caso, visto anche il verticale aumento della disoccupazione, il reddito disponibile familiare dei lavoratori dipendenti è sceso in 15 anni di quasi il 20%.

Di qui la proposta a inizio anno di Confindustria: cari sindacati cambiamo il modello di contrattazione. Ottenendo, ancora all’ultimo incontro a questo destinato lo scorso 7 settembre, tre risposte diverse. La CISL è molto favorevole a parlarne: apre a un contratto nazionale che fissi un minimo retributivo di categoria, ed esprime fiducia nei contratti di produttività. La UIL propone un criterio di tutela del potere d’acquisto collegato all’andamento del PIL, che in realtà non risolverebbe il problema visto che nei prossimi anni la crescita reale potrebbe e dovrebbe essere superiore all’inflazione (per il 2016 il DEF prevede +1,6% di crescita reale, e +1% d’inflazione), ma soprattutto chiede, finché non si definisce un nuovo modello, che i contratti in scadenza intanto si rinnovino col vecchio metodo. La Cgil invece è contraria sia al salario minimo contrattuale, sia a devolvere ai contratti aziendali di produttività il più dell’andamento retributivo.

In queste condizioni, per le imprese la scelta praticabile – per di più con Squinzi a fine mandato – diventa una sola: non rinnovare i contratti, praticare una moratoria di fatto, come di diritto è avvenuta invece nel settore pubblico. Ma ciò porterebbe a una durissima ripresa generale della conflittualità sindacale. L’alternativa è una sola: che intervenga il governo. Renzi l’ha fatto intendere più volte: o imprese e sindacati convengono su una revisione del modello contrattuale, oppure in assenza di accordo tra le parti sociali il governo potrebbe fissare lui il criterio di un salario minimo di legge, e il resto della retribuzione lasciarla alla libera contrattazione (tornando a incentivare fiscalmente la parte di salario di produttività, a cui è stata tagliata la copertura in questi ultimi due anni). E’ ovvio però che il salario minimo per legge sarebbe molto più basso di quello che sindacati e imprese, se accettassero insieme la sfida per la produttività, potrebbero insieme convenire settore per settore nei contratti nazionali, lasciandone poi una bella fetta ai contratti di secondo livello.

Vedremo come andrà. Ma una cosa è sicura: sulla produttività e sui nuovi contratti si gioca una partita decisiva della ripresa italiana. Speriamo che non prevalga la miopia. Naturalmente, la testa mi dice anche che è una speranza mal risposta.

1
Ott
2015

Slitta la liberalizzazione della notifica degli atti giudiziari

A febbraio, con l’IBL pubblicavamo uno studio in cui mostravamo l’insensatezza, economica e giuridica, dell’esclusiva di notifica a mezzo postale degli atti giudiziari in capo a Poste Italiane: un retaggio del monopolio pubblico nel settore dei servizi postali, del tutto incompatibile con la moderna disciplina europea e nazionale e con l’esigenza di digitalizzazione della giustizia di cui si sente tanto parlare.

Poche settimane più tardi veniva adottato dal Governo il Disegno di legge annuale per la concorrenza, che prevedeva l’abrogazione, a partire dal 10 giugno 2016, dell’articolo 4 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, di conseguenza liberalizzando le notifiche degli atti giudiziari. Una notizia che, su questi pixel, avevamo già avuto modo di salutare con favore, segnalando come si trattasse della rimozione di un privilegio, seppur piccolo, non certo insignificante, che avrebbe potuto aprire nuovi spazi di mercato a nuovi operatori, sfruttando le economie di scala e generando risparmi per i cittadini e per il sistema-giustizia in generale.

Ma si sa: di storie a lieto fine, nella politica italiana, se ne sentono poche. Figuriamoci se si parla di liberalizzazioni. Le prime perplessità le aveva sollevate Confindustria: “la misura” – commentò il direttore generale Marcella Panucci – “è condivisibile per la sua portata pro-concorrenziale, ma interviene su un percorso di privatizzazione già avviato, rischiando così di compromettere il consolidamento della società sul mercato azionario”. “Per questo motivo” – proseguì Panucci – “è auspicabile che l’efficacia della misura venga prorogata”. Detto fatto: un emendamento dei relatori Silvia Fregolent e Andrea Martella (Pd) ha infatti fatto slittare la data di decorrenza dell’addio all’esclusiva di Poste dal 10 giugno 2016 al 10 giugno 2017. Pare che l’emendamento sia stato scritto sotto dettatura del Ministero dell’Economia, azionista di Poste, il quale avrebbe anzi inizialmente chiesto un rinvio della misura addirittura al 2019, in linea coi desiderata del Gruppo.

In altre parole: una società che opera in un mercato – teoricamente – del tutto liberalizzato deve quotarsi in borsa, pertanto la politica deve tenerne in considerazione gli interessi e prorogare la liberalizzazione per non farne deprezzare il futuro asset azionario. Tralasciando il fatto che non si comprende come il mercato possa far finta di non sapere dell’imminente liberalizzazione, immaginate cosa potrebbe succedere se una cosa del genere riguardasse una società privata. Ma qui c’è di mezzo Poste, e la politica fa i suoi interessi. E quelli dei concorrenti, impossibilitati per un altro anno a entrare in un mercato che non ha alcuna ragione di essere sottoposto al monopolio di Poste (come conferma, implicitamente, la pur prorogata liberalizzazione)? Saranno conteggiati, quei mancati introiti, nella valutazione dell’asset di Poste al momento della quotazione in borsa?

Paradossalmente, la relazione illustrativa del Ddl Concorrenza, nel giustificare la fine della riserva per Poste, fa riferimento proprio alle best practices in materia di privatizzazioni, che suggeriscono di procedere prima all’apertura del mercato, e poi alla cessione degli ex monopolisti. In Italia, insomma, la forza con cui si predica che bisogna “liberalizzare prima di privatizzare” è direttamente proporzionale alla determinazione con cui si agisce nel modo opposto.

Meglio di niente, si dirà: pur con un ulteriore anno di proroga, la liberalizzazione s’ha da fare. Vero. Ma in gioco, qui, non c’è solo una piccola liberalizzazione: c’è la credibilità di un Paese che, per voce del suo premier, si proclama aperto al mercato e lontano dal capitalismo di Stato che ne ha contraddistinto la storia industriale recente (e meno recente). E questa credibilità viene meno se gli interessi dell’attore pubblico prevalgono su quelli generali. Che – guarda un po’ – non sempre coincidono.

Twitter: @glmannheimer

1
Ott
2015

La differenza tra lo Stato e Booking.com

In Italia, il 35% delle prenotazioni alberghiere viene ormai effettuato online, ed è una percentuale in continua crescita. Il che, d’altronde, non può sorprendere: i siti di comparazione tra alberghi, oggi, non solo offrono in modo accessibile cataloghi vastissimi di strutture ricettive di ogni genere, ma spesso garantiscono agli utenti il miglior prezzo disponibile. Ciò comporta enormi vantaggi per i consumatori, che possono effettuare prenotazioni velocemente, certi di trovare la migliore combinazione possibile tra il prezzo e la struttura che desiderano, perfino da un semplice smartphone. Ma non solo: a guadagnarci sono state quelle strutture ricettive che, per le loro dimensioni ridotte, prima dell’avvento di internet avevano molte difficoltà a guadagnare visibilità, specie a livello internazionale, tramite i canali “tradizionali” (pubblicità, agenzie di viaggi).

Alcune associazioni di categoria, tuttavia, sostengono che i colossi del web abusino della loro posizione dominante per imporre condizioni insostenibili agli alberghi: tra queste, spicca l’ammontare delle commissioni, che arriva al 30% di ogni prenotazione, e la cosiddetta “Parity Rate”, cioè la garanzia che, per ogni struttura che compaia sul proprio catalogo, il prezzo di prenotazione sia sempre il più basso che si possa trovare sul web. Tutte le strutture ricettive che usufruiscono dei servizi di Booking ed Expedia devono sottoscrivere la Parity Rate, obbligandosi a concedere uno sconto di pari misura ai clienti che dovessero riscontrare l’esistenza di prezzi più bassi sul sito dell’albergo stesso o su altre piattaforme.

A quanto pare, un emendamento al Ddl Concorrenza in discussione alla Camera potrebbe impedire l’utilizzo delle clausole di Parity Rate, dando seguito alle considerazioni già espresse dall’AGCM in un’istruttoria dell’anno scorso, secondo cui in assenza di tali clausole gli albergatori sarebbero liberi di applicare prezzi inferiori sui propri siti online, riducendo le tariffe a beneficio della clientela. Come ha dichiarato Federalberghi, «per una camera d’albergo venduta su un portale a 100 euro il cliente paga 100 e l’albergo riceve 80. Se l’albergo potesse mettere in vendita la stessa camera sul proprio sito a 90 euro, il cliente pagherebbe 90 e l’albergo incasserebbe 90: entrambi guadagnerebbero 10 euro».

Non fa una piega. Peccato che Booking ed Expedia non obblighino nessuno a usufruire dei loro servizi: chi decide di farlo deve accettare delle condizioni, com’è normale che sia. Se è tanto ricattatorio, basta non usufruirne. Un albergo che decida di farne a meno è già libero offrire la sua camera a 90 Euro, come ventilato da Federalberghi. Così come chiunque è libero di aprire il proprio sito di prenotazione alberghi, mettendosi in concorrenza con Booking ed Expedia, proponendo condizioni più favorevoli e così convincendo gli operatori a utilizzare solo quel portale.

Il fatto che una limitazione del genere, poi, sia contenuta nel Ddl concorrenza è a dir poco paradossale: mentre lo Stato stava a guardare, sono stati proprio siti web come Booking ed Expedia ad aumentare la concorrenzialità del settore, facendo diminuire i prezzi e aumentando la qualità e l’accountability delle strutture ricettive di tutto il mondo.

Booking ed Expedia hanno guadagnato negli anni la fiducia di milioni di clienti e albergatori, che usufruiscono spontaneamente di quel servizio e che, da un momento all’altro, possono decidere di non usarlo più. Lo Stato, d’altra parte, vuole intervenire coattivamente per limitarne la portata, così sconfessando la volontà di tutti gli operatori che oggi ne usufruiscono (Booking, Expedia, albergatori e consumatori), senza che i diretti interessati possano sottrarsi a quanto deciso. Da che parte sta la democrazia?

Twitter: @glmannheimer