27
Ott
2015

Arriva Netflix a Sanremo—di Nicola Saporiti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicola Saporiti.

Dal 22 Ottobre il colosso americano dei media “Netflix” ha iniziato ad offrire i propri servizi anche in Italia. È una notizia che mi incuriosisce molto, e non in quanto potenziale futuro utente: non sento infatti particolare necessità di vedere film “on demand” in streaming via internet, servizio per altro da tempo offerto in Italia da altre società. Dal punto di vista di genitore, la proiezione solo ad una certa ora della puntata quotidiana del cartone animato preferito di mio figlio mi regala una comoda scusa per spegnere il televisore e dirottarlo verso altre attività.

Sono invece molto curioso di scoprire come Netflix si adatterà ad operare nel mercato Italiano. Questa società è infatti nota per avere una cultura aziendale estremamente innovativa, copiata da molti nella Silicon Valley, che però è quanto di più stridente si possa immaginare con lo stereotipo italianissimo del “posto fisso” di lavoro.

NETFLIX nasce alla fine degli anni ‘90 nel classico garage californiano come servizio di noleggio videocassette con modalità innovativa: per competere con le diffusissime catene di negozi di videonoleggio, NETFLIX offre un servizio in abbonamento postale ad un costo fisso mensile. In pratica, con NETFLIX gli utenti possono per la prima volta ricevere quotidianamente, comodamente a casa, una nuova videocassetta di loro scelta, da restituire in buste pre-affrancate. Read More

25
Ott
2015

Governo-magistrati: 3 punti su cui i liberali perdono sempre

Ieri il ministro della giustizia Orlando ha risposto alle cannonate dei magistrati con un ramoscello d’ulivo, riconoscendo all’ANM un ruolo insostituibile di interlocuzione istituzionale. In altri tempi, si sarebbe detto che il suo è stato un discorso da perfetto democristiano. Mentre quello straordinario galantuomo che è Sabino Cassese, prima ancora che grande giurista ed ex giudice costituzionale, ha colto il punto centrale dello scontro tra magistratura e governo, riproposto in questi giorni al congresso dell’ANM con tanti saluti alle centinaia di magistrati che non sono iscritti a correnti e che non si riconoscono in polemiche di parte.

Al centro di tutto c’è uno dei nodi ancora non sciolti dei 12 punti di riforma della giustizia che il governo Renzi annunciò appena entrato in carica, nella primavera 2014. Ed è la riforma del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati da anni piegato agli accordi di ferro tra correnti della magistratura, che determinano come nei vecchi governi di pentapartito le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, e salvano dalle azioni disciplinari gli amici di questo e di quello. Il CSM tenta di autoriformarsi prima che arrivi a farlo il governo, che tale riforma ha promesso, ma le sue proposte sono “timide e coporative”, scrive Cassese. Ha mille volte ragione.

Prima di arrivare al punto, ricordiamo per sommi capi quel che il governo ha fatto sulla giustizia. Su molti punti, scontando un’opposizione aperta dell’ANM. In effetti, il governo ha ragione, dal suo punto di vista, nel dire che non ha fatto poco. Dal 29 agosto 2014, quando fu varato il testo della riforma, ha ottenuto l’obbligatorietà del processo civile telematico (ma ancor oggi in molti tribunali si procede per atti cartacei), la riforma sempre nel civile delle procedure concorsuali delle imprese, il decreto sull’arretrato civile e su nuove forme di degiurisdinalizzazione, l’approvazione del ddl sull’antiterrorismo e i foreign fighters, di quello sull’anticorruzione con l’istituzione dell’ANAC e la modifica delle pene dei relativi reati, la riorganizzazione del ministero col dimezzamento delle direzioni generali, l’avvio delle notifiche penali informatizzate, il bando per reclutare altre duemila persone per l’ordinamento giudiziario e 340 magistrati.

Nel civile il contenzioso è sceso sotto i 5 milioni di cause, è raddoppiata la definizione entro l’anno delle cause alle sezioni specializzate del tribunale delle imprese. Su corruzione e criminalità, il governo ha visto approvate dal parlamento le sue proposte sull’introduzione del reato di autoriciclaggio, e sugli ecoreati. Le nuove norme sull’esecuzione della pena hanno ottenuto di far abbassare il sovraffollamento delle carceri dal 137% al 110% dei posti in organico.

Gli scontri più incandescenti con l’ANM sono avvenuti sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, che ha abolito di fatto solo il filtro del giudizio di ammissibilità da parte dei tribunali, e che comunque la magistratura associata ha considerato come un attentato alla propria libertà di giudizio. Un altro scontro al calor bianco sulla nuova disciplina del falso in bilancio, anch’essa approvata abolendo i precedenti tetti che la depenelizzavano, ma di cui comunque i magistrati hanno lamentato l’eccessiva rilassatezza. E infine scontro all’arma bianca sull’intervento ordinamentale in materia di ferie dei magistrati, per portarle da 30 a 45 giorni: una misura approvata ma che comunque i magistrati hanno trovato nella prassi il modo di aggirare, come abbiamo documentato in precedenza.

E’ ancora pendente l’esame del ddl di riforma del processo penale, e i magistrati sparano sulla revisione della disciplina delle intercettazioni, di cui discute il parlamento. Altra trincea di scontro sulla riforma delle prescrizioni, all’esame del Senato dopo 11 mesi impiegati dalla Camera per approvarne il testo. Anche in questo caso, malgrado l’aumento della metà dei termini per i reati di corruzione – il cui processo potrà durare fino a 12 anni, dodici! – e malgrado nuove ipotesi di sospensione dei termini per condanna non definitiva di primo o di secondo grado (per i quali la sospensione è pari rispettivamente a 2 anni ed 1 anno), nonostante la sospensione dei termini per le rogatorie all’estero, o in caso di ricusazione del legale da parte dell’imputato, la magistratura grida comunque che la riforma è fatta per non punire i delinquenti.

E infine la riforma del CSM, con le proposte avanzate dall’organo stesso e bocciate giustamente ieri da Cassese. A difesa del fatto che oggi un magistrato possa essere sindaco o presidente di Regione ed esercitare la funzione giurisdizionale in altra circoscrizione – se non lo sapevate, secondo le nostre leggi è del tutto possibile! –  o sia libero di farlo in aspettativa, per poi tornare magistrato.

E’ evidente che, per una mosca bianca liberale, per chi crede per esempio che la prescrizione serva a difendere il cittadino e il suo diritto a un celere processo e non lo Stato con le sue lentezze bizantine, in Italia viviamo oggi una doppia maledizione. Prima Berlusconi, con le sue leggi ad personam, ha dato man forte alla magistratura che ha identificato polemicamente tout court il garantismo con la difesa dai processi invece che nei processi, operata da Berlusconi premier. Poi, con la sinistra al governo, la riforma della giustizia finisce per occuparsi di tutto, ma – per non incorrere in scomuniche – non dei punti nodali e della sostanza vera dell’anomalia italiana.

Che è fatta di tre cose, inutile girarci intorno.

Primo: I magistrati che fanno politica non dovrebbero poter tornare magistrati, ma esser sospesi dai ruoli per poi, finita la carriera politica, esercitare al massimo il ruolo dell’avvocatura dello Stato (personalmente: sarei perché la scelta della politica inibisca qualunque rientro).

Secondo: le intercettazioni, di tutti i tipi, come sostiene il procuratore Carlo Nordio non dovrebbero aver valore di prova ma solo costituire elemento essenziale per elementi da provare fattualmente e circostanzialmente con indagini successive e nel fascicolo del processo, e in quanto tali dunque non dovrebbero costituire elemento probatorio né essere allegate ai fascicoli processuali.

Terzo: il CSM non dovrebbe poter procedere a nomine e carriere e sanzioni disciplinari con maggioranze costituite dai togati per correnti, e dunque andrebbe riformato per sezioni competenti per materia, in modo da evitare maggioranze come quelle che da decenni confondono l’autonomia della magistratura con l’attuazione ferrea degli accordi tra correnti.

Queste tre cose non ci sono, all’orizzonte. Non è neanche possibile parlarne. Figuriamoci poi della separazione delle carriere, tra magistratura inquirente e giudicante. Mentre gli Emiliano e i de Magistris e i Sabella dominano le cronache politiche, e i Sabelli – il presidente dell’ANM – agli occhi di molti – finiscono pe impersonare tutte le virtù di una giustizia che in realtà piegano a istanze corporative.

 

18
Ott
2015

Fame, cibo, domanda e offerta

Approfittiamo di quanto dichiarato dal Presidente della Repubblica alla giornata mondiale dell’agricoltura per una breve riflessione su fame e mercato. La dichiarazione di Mattarella è la seguente: «Siamo sicuri che per le produzioni agricole destinate a nutrire il pianeta possano valere le regole che valgono per altri beni e commodity? Non sfugge a nessuno il ruolo fondamentale svolto dalle grandi imprese internazionali nel campo della logistica, dei trasporti e della ricerca» ma «la regola aurea della domanda e dell’offerta non sembra aver portato in questo caso a un funzionamento ottimale del mercato, lasciando molti in condizioni di estraneità al processo di consumo dei beni».

Cerchiamo di capire se sia davvero così, seguendo un approccio prudentemente aristotelico, basato sulla fiducia che sia “la cosa stessa” a indicarci la via per la ricerca della verità. In altre parole, stiamo ai fatti.

Il report FAO 2015 ci informa che nel mondo ci sono ancora circa 795 milioni di persone che vivono il problema della fame. Sono tante, ma sono meno del miliardo di persone che vivevano la stessa situazione nel 1990. Un risultato notevole, soprattutto perché nel frattempo la popolazione mondiale è aumentata, da 5,3 miliardi del 1990 a 7,3 di oggi. Lo stesso report identifica nella crescita economica il principale fattore di successo nella lotta alla fame. Risulta cruciale, inoltre, aumentare la produttività e il reddito dei contadini. Sembra insomma che il mercato non sia così male.

Il ciclo di seminari dell’Istituto Bruno Leoni, “L’altro Expo”, aperto da Deirdre McCloskey (l’intervento si può ascoltare qui) ci mette a disposizione qualche dato sui risultati che il mercato, ovvero lo sforzo individuale e la cooperazione spontanea hanno consentito di raggiungere. Negli Stati Uniti durante l’’800 i contadini rappresentavano l’80% della popolazione, il cui lavoro sfamava loro stessi e il restante 20% degli americani. 4 persone riuscivano a sfamarne una quinta, non di più. Oggi i contadini sono il 2% della popolazione. Come è potuto succedere? Principalmente grazie al balzo nella produttività in ambito agricolo a cui si è aggiunto, negli ultimi decenni, la possibilità di incrementare gli scambi con il resto del mondo (che, per inciso, il TTIP favorirebbe ancor di più), per cui se gli italiani sono più bravi a fare il formaggio tanto vale consumarne un po’ del loro.

In un altro incontro dello stesso ciclo Matt Ridley ha presentato qualche grafico sulla produzione (e sulla produttività) agricola di grano e mais nel mondo che qui è utile riportare. In breve, i prezzi sono scesi (grafico 1) e i raccolti sono aumentati (grafico 2) insieme alla produttività della terra (grafico 3).

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Numeri impressionanti, sui quali si dovrebbe insistere per poter ridurre ancora il numero di persone che soffrono la fame. Più mercato, invece che meno. Non perché esso sia perfetto, quanto perché si tratta di un sistema che consente di imparare in fretta dagli errori. Come scriveva Hayek, “ogni tentativo di controllare i prezzi o le quantità di particolari beni priva la concorrenza del suo potere di realizzare un efficace coordinamento degli sforzi individuali, perché i cambiamenti di prezzo cessano di registrare tutti i cambiamenti rilevanti nelle circostanze e non forniscono più una guida affidabile alle azioni degli individui”. Precisamente quanto è accaduto nella Cina di Mao, in cui lo Stato controllava totalmente produzione e consumo di cibo, caso esemplare di cosa accade quando si impedisce a domanda e offerta di funzionare. Il risultato fu la grande carestia, tra il 1958-1962, che portò a 36 milioni di morti (mentre lo Stato cinese esportava grano).

Combattere la fame è una sfida nobile e importante. Per vincere questa sfida l’esperienza suggerisce che bisognerebbe confidare di più nell’efficacia della dinamica ricerca di equilibrio tra domanda e offerta; la stessa che ha consentito di aumentare la produzione di cibo e di sviluppare tecnologie per incrementare la produttività e migliorare la conservazione dello stesso (l’invenzione del frigorifero non è merito dello Stato) in modo da ridurre gli sprechi. Per fortuna i dati mostrano che i paesi in via di sviluppo lo stanno già facendo.

Twitter: @paolobelardinel

16
Ott
2015

Le tre scommesse che condannano a morte i tagli di spesa

E’ arduo poter esprimere opinioni su una legge di stabilità senza averne i testi e nemmeno le principali tabelle. Ci si può limitare solo ad alcune considerazioni generali. Che provo a organizzare in tre blocchi.

Il primo è sulle scommesse da cui parte il governo. Il secondo è su alcune delle tante misure annunciate. Il terzo è un giudizio politico.

LE SCOMMESSE. Si tratta di tre assunzioni più apodittiche, e cioè opinabile materia di fede, che ragionevolmente molto probabili.

La prima è che la grande frenata in corso nelle attese di crescita e dell’export mondiale – somma dell’effetto Cina, più crisi dei paesi ex emergenti, più difficoltà tedesche in Ue – abbia effetti in realtà molto contenuti sull’Italia, anche se in realtà dovrebbe trasmettersi proprio attraverso il canale dell’export che sin qui è stato quello più trainante del tossicchiante PIl italiano.

La seconda è che, se per caso non fosse così, a maggior ragione occorre una manovra fortissimamente pro-ciclica, dove il ciclo da assecondare diventa quello domestico, della ripresa di fiducia di famiglie e imprese, e dei primi segni di ripresa dei consumi in corso dall’estate.

La terza è che l’inflazione italiana nel 2016 sia almeno dell’1%, mentre tutti i segnali che provengono dall’euroarea attestano – vedi i dati di settembre – un ritorno nell’area negativa, e comunque un trendo così lontano dagli obiettivi del QE BCE da aver obbligato Draghi reiteratamente a dichiarare che Francoforte è pronto ad allungarlo e ispessirlo.

Dalla prima e seconda premessa discende la scelta di una manovra per oltre il 60% coperta in deficit, percentuale che potrebbe ulteriormente salire se dal 2,2% di deficit 2016 verremo autorizzati dalla Ue a raggiungere il 2,4% grazie alla cosiddetta “clausola 99” relativa all’emergenza profughi ( 3 miliardi che però, con un classico escamotage italiano, verrebbero utiolizzare non per i profughi ma per anticiopare i tagli IRES) . Dalla terza premessa dipende l’intera scommessa di invertire l’andamento crescente del debito pubblico nel 2016 malgrado un aumento del deficit prima contrattato in Europa: senza una netta crescita della componente nominale del PIL nel 2016, il debito infatti non scende ma sale.

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IL MIX DELLE MISURE

Da queste premesse dipendono alcune scelte di fondo.

La prima è una sconfitta bruciante per chi, come noi, è convito da anni che occorra una ridefinizione e generale del perimetro della spesa pubblica e delle sue priorità, che ne consenta un sostanziale alleggerimento per tagli delle tasse strutturali e sostenibili, e faciliti l’efficientamento di una PA ancora disastrosa. Muore infatti definitivamente, almeno in questa legislatura, l’idea della spending review che i governi sempre più stancamente dichiaravano solo a parole. Anche i pochi “tagli” annunciati ieri dal governo per il 2016 in realtà non lo sono affatto: i 5,8 miliardi provenienti da sanità, acquisti e ministeri sono infatti inferiori alla crescita tendenziale a legislazione vigente dei relativi capitoli di spesa prevista per il 2016. Ergo in tutti e tre i casi le minori risorse previste per il 2016 consentiranno a tutti e tre i capitoli di spesa di continuare a crescere, sia pur più lentamente del previsto, e senza incidere in nulla la “spesa storica”: a conferma, guardate le tabelle della nota di aggiornamento del DEF. Per favore evitiamo di parlare di “costi standard” per 1,5 miliardi nel 2016 di minori acquisti dovuti al troppo graduale passettino in avanti della quota CONSIP: quella è una blanda misura di efficientamento delle gare, i costi standard c’entrano zero. I tagli “reali” alla spesa vengono evitati perché contrari alla natura “domesticamente prociclica” della manovra. Non sono né necessari né tanto meno auspicabili, spiega oggi il consigliere economico del governo Marco Fortis. Addio interventi radicali sulle partecipate pubbliche locali: tra partita IMU-TASI da coprire e riaccentramento delle competenze a livello nazionale disposta dalla riforma della Costituzione, il governo sospende ogni ipotesi di serie dismissioni. Al netto delle convinzioni del governo, pesa drammaticamente su questo capitolo l’assenza da molti anni di una destra in grado di contrapporre strategie credibili. E tutto ciò proietta un’ombra ninacciosa: le clausole di salvaguardia fiscale vengono evitate così solo per il 2016, ma restano per decine di miliardi nel biennio successivo…

La seconda è nella parte più rilevante delle misure di sgravio fiscale annunciate, quelle alle quali il governo annette il più della forza propulsiva a breve per tornare a una crescita più vicina al 2% che all’,15%. A partire dalla conferma del taglio integrale di IMU-TASI su prima casa, si dice fieramente questa volta senza far rientrare analogo o maggior gettito dalla finestra a Comuni e Regioni come puntualmente avvenuto in passato. Non è una misura dagli elevati effetti sul PIL potenziale e sull’ouput gap, serve ad accrescere fiducia e propensione al consumo, riconosce lo stesso governo (ergo non cambio idea, era meglio devolvere i 5 mld all’abbattimento dell’IRAP). Continuando con l’energico rafforzamento degli incentivi fiscali agli investimenti lordi delle imprese attraverso il maxi ammortamento al 140% ai beni strumentali d’impresa tranne gli immobili (tra le migliori misure a mio giudizio della legge di stabilità, ne avevo scritto chiedendoli). E con le misure dedicate al lavoro autonomo la cui bontà potremo giudicare solo quando le vedremo scritte: la correzione del pasticcio fatto dal governo l’anno scorso sul regime dei minimi IVA estendendone l’applicazione a soglie di ricavi più alte, il cosiddetto Jobs Act per il lavoro autonomo (tutto da capire). Nonché la decisione di tenere comunque elevata la decontribuzione a tutti i nuovi contratti di lavoro, non più 8mila euro biennali ma comunque oltre 3mila biennali per poi scendere ulteriormente ed estinguerli al 2018. Il governo purtroppo non si fa nemmeno sfiorare dal dubbio che 10 miliardi triennali per aver ottenuto solo 91 mila contratti a tutele crescenti “netti” aggiuntivi in 8 mesi sia un vero falò di risorse. Il mix discende dalla tre scommesse iniziali: se fosse stato adottato un criterio di priorità per maggior apporto al PIL potenziale, come io preferirei, concentrando le risorse equivalenti al mancato intervento su IMU-TASI, al riservare gli incentivi fiscali solo a investimenti e contratti “aggiuntivi” e non più lordi, avrebbe significato poter disporre di 8-9 miliardi di ulteriore meno IRAP nel solo 2016. Cioè una spallata vigorosa nella direzione della sua totale cancellazione. Invece, niente. Ma alle grandi imprese va bene così, non illudetevi.

Il MIX politico. A queste celte di fondo se ne aggiunge poi una miriade che porta il marchio peculiare della politica renziana: misure alcune delle quali piacciono a destra e altre a sinistra, per imbastire una complessa strategia di consenso. Contemporaneamente dunque l’abolizione IMU-TASI e l’innalzamento del tetto al contante, che piacciono a destra. Insieme al canone Rai in bolletta e al potenziamento del fondo per la lotta alla povertà, che piacciono a sinistra. Uno schiaffo al sindacato sui contratti pubblici, solo 300milioni previsti per il rinnovo contrattuale, aspettando i decreti attuativi della riforma Madia. Ma insieme un occhietto strizzato a sinistra cosa il parlamento deciderà sui pre pensionamenti, al di là delle misure su opzione donna e prepensionati a part time annunciati in legge stabilità. E ancora una sterzata a destra, con le misure per le partite IVA.

Conclusione. Con la morte strutturale dei tagli di spesa e misure fiscali concentrate su effetti lordi a breve, ecco tornato tra noi, aggiornato ai tempi e alla funambolica capacità comunicativa di Renzi, un grande classico: il ciclo elettorale della finanza pubblica italiana. Il conto a chi verrà dopo.

16
Ott
2015

Moltiplicatorao Keynesiao

Lo scorso 21 maggio Joao Ferreira, europarlamentare portoghese del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea, presentò un’interrogazione scritta alla Commissione europea, che recitava più o meno così:

Aumentare il valore commerciale del pesce è un fattore chiave per risolvere il problema persistente del basso reddito nel settore della pesca.

In Portogallo, alcune delle specie pescate più di frequente non hanno nessun valore dal punto di vista commerciale, anche se sono una preziosa fonte di nutrimento. In altri casi, il loro valore commerciale è talmente basso che il prezzo di vendita non copre nemmeno i costi necessari a pescarli. È così, ad esempio, per specie come i sugarelli e i sugarelli blu, tra gli altri.

L’ultima riforma della politica comune della pesca (PCP) non ha creato le condizioni necessarie per una soluzione a questo problema cronico. Al contrario, avendo indebolito i meccanismi di intervento sul mercato da parte dell’Unione Europea, la situazione sta peggiorando.

Pertanto, chiediamo alla Commissione di farci sapere quanto segue:

– Quali strumenti sono disponibili nell’ambito della PCP e altri programmi per sostenere lo sviluppo di nuovi prodotti che potrebbe aumentare il valore aggiunto di specie che hanno nessun o un bassissimo valore commerciale?

– Quali strumenti potrebbero contribuire ad aumentare il valore commerciale di queste specie (ad esempio campagne tra i consumatori)?

Chi di voi non è al quindicesimo bicchiere di Porto starà pensando dall’inizio dell’interrogazione una sola cosa: perché continuano a perdere tempo pescando quei pesci che nessuno desidera acquistare? Sarebbe come se domani io mi mettessi a raccogliere fili d’erba al parco e, non riuscendo a venderli, mi rivolgessi al Parlamento europeo per chiedere come aumentare il valore dei fili d’erba. Ebbene: la Commissione ha trovato il tempo di rispondere.

Ma questo è nulla. Martedì, il Parlamento europeo ha approvato il budget dell’Ue per il 2016. Il voto finale è arrivato dopo una sessione di voto sugli emendamenti presentati dagli europarlamentari sul testo predisposto dalla Commissione. Avete capito bene: tra quegli emendamenti, ce n’era uno, a firma del nostro Ferreira, che chiedeva di stanziare due milioni di Euro per un progetto di ricerca su – letteralmente – “come aumentare il valore del pesce senza valore”. Risultato: il Parlamento europeo ha approvato l’emendamento.

Raccoglitori di fili d’erba, fatevi forza: se vi è andata male con la legge di Stabilità e il reddito di cittadinanza è ancora una prospettiva lontana, potere sempre sperare nel Parlamento europeo. Il dibattito su come aiutare i più bisognosi – se regalando loro il pesce o insegnando loro a pescare – ha da oggi un nuovo capitolo: facendo pescare loro pesce che non vuole nessuno, a spese dei contribuenti. Ah, l’austerity!

Twitter: @glmannheimer

14
Ott
2015

Tetto al contante: un falso mito molto popolare

Il presidente del Consiglio ieri ha compiuto uno di quei gesti che lasciano senza parole i suoi avversari e il suo stesso partito. Ha annunciato che in legge di stabilità il governo eleverà il tetto all’uso del contante da mille a tremila euro. Non ha fatto solo l’annuncio, l’ha argomentato. Sapendo bene di affrontare un totem sacro al mantra della lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio dei capitali sporchi, ha toccato entrambi gli argomenti. Non credo che la lotta all’evasione si conduca più efficacemente vietando i contanti piuttosto che con le tecnologie dell’informazione e la piena tracciabilità dei pagamenti, ha detto. E ha aggiunto una frasetta che contiene un messaggio politico: basta con la lotta all’evasione impostata sul terrore, abbiamo bisogno di consumi e che chiunque possa pagare in contanti tremila euro non si senta più inibito a farlo, perché se il problema sono i controlli, abbiamo già altri strumenti per farli.

Da un punto di vista liberale, per me merita un applauso. E il governo in realtà si era già impegnato nello scorso giugno in parlamento a farlo, con un ordine del giorno della maggioranza in cui esplicitamente si assumeva l’impegno a valutare l’innalzamento della soglia stabilita dal governo Monti, in parallelo all’avanzamento degli obblighi di fatturazione elettronica e di tracciabilità dei pagamenti. Ma una cosa è dirlo in un ordine del giorno, altra è assumersi direttamente la paternità di proporlo in legge di stabilità. E a questo punto la vera cosa da fare è spiegare pianamente perché si tratta di una decisione giusta, sapendo che le resistenze saranno fortissime, e con ogni probabilità fortissimamente gridate. Si accuserà infatti chiunque lo sostenga di essere evasore “amico di prostitute e spacciatori”, come mi ha gentilmente definito stamane a radio24 un sottufficiale della Guardia di Finanza.

In Europa, il tetto a mille euro era condiviso dall’Italia e dal solo Portogallo, alla cui compagnia si è recentemente aggiunta la Francia, per equilibrare le proposte del ministro Macron che molto dispiacciono all’ala sinistra dei socialisti. Persino in Grecia il tetto è più alto, a 1500 euro. In Germania e Olanda non c’è mai stato. In Danimarca supera i 13mila euro. E’ ovvio che per un liberal-liberista come chi qui scrive, i limiti alle forme di pagamento siano ingiuste e improprie compressioni della libertà individuale. Ma il punto non è questo, perché di liberal-liberisti in Italia siamo pochi. Bisogna invece rispondere a chi è fortemente convinto che il tetto al contante sia una forma necessaria per arginare l’evasione.  Tre considerazioni, a questo proposito.

La prima: chi difende il tetto dimentica che dal 2014 l’Agenzia delle Entrate ha cominciato ad entrare in possesso telematicamente entro il 20 aprile di ogni anno di tutti i nostri rendiconti relativi all’anno precedente. Rendiconti bancari, dei conti correnti e di deposito, deposito titoli, carte di credito e di debito, fondi comuni d’investimento, certificati di deposito, buoni fruttiferi, cassette di sicurezza, compravendita di metalli preziosi, e operazioni extra conto. L’Agenzia delle Entrate oggi sa tutti di noi. Al punto tale che, grazie a una normetta sciagurata approvata nella finanziaria per il 2005 presentata da Berlusconi, cominciò subito a fare accertamenti a lavoratori autonomi e professionisti che, prelevando contante, non erano in grado di documentarne al centesimo l’utilizzo e soprattutto i diretti beneficiari, presumendo che si trattasse di somme usate per pagamenti in nero e dunque equiparate a reddito o ricavi aggiuntivi, evasi e dunque da sanzionare fino al 50% delle somme in questione! C’è voluta una sentenza della Corte costituzionale, nell’ottobre 2014, per bloccare l’Agenzia dal considerare come pagamenti in nero sanzionabili i prelevamenti di contante effettuati da lavoratori autonomi senza indicazione del beneficiario. Gli strumenti telematici dunque esistono eccome, e stabilito dal 2015 l’obbligo per 2 milioni di imprese e professionisti alla fatturazione elettronica verso la PA, tale vincolo verrà nel tempo via via esteso a ogni forma di fatturazione. Siamo entrati appieno nell’era del grande fratello fiscale, altro che tetto ai contanti.

Secondo: come spiegava bene ieri a radio24 alla versionedioscar il professor Raffaello Lupi, che insegna diritto tributario a Tor Vergata, in realtà i bassi limiti all’uso del contante ottengono un effetto paradossale, molto diverso da chi li concepisce come strumenti anti-evasione. Complicano la vita solo a chi si fa scrupolo di rispettare gli obblighi tributari, mentre gli evasori regolarmente se ne impipano. Se il lavoratore dipendente o il pensionato dovessero accogliere la proposta di un idraulico, o proporre all’idraulico stesso, di evitare fattura e IVA pagando in contanti, non sarà il tetto basso ex lege a fermarli. Nel caso di stranieri, russi arabi cinesi o chi volete voi, che nel loro tour in Italia vogliano comprare capi di moda o gioielli italiani fasci di banconote alla mano, gli obblighi di segnalazione all’Antiriciclaggio ottengono solo due effetti: o rinunciano all’acquisto e ci facciamo del male da soli, oppure il venditore evita la fattura, il pagamento è in nero, e il tetto basso al contante ottiene l’effetto di incentivare proprio l‘evasione contro la quale nasce.

Terzo: usare di più la moneta elettronica è una battaglia di civiltà, ma passa per un’altra strada. Tra i paesi avanzati, l’Italia ha i più bassi tassi di regolazione dei pagamenti con moneta elettronica, e i più alti livelli di residenti senza conti bancari o postali. E’ chiaramente un segno di arretratezza. Ma deriva dalla bassa persistente cooperazione verticale e orizzontale di intermediari finanziari con imprese ed enti che offrono beni e servizi, e dalle ancora elevate spese di commissione che gli intermediari finanziari e i gestori dei sistemi di pagamento chiedono a chi si serve dei POS, per accettare pagamenti elettronici garantiti. La via per abbattere questi ostacoli è quella che abbassa il digital divide, stimola fiscalmente gli operatori a una cooperazione meno onerosa con i consumatori, spiana i residui ostacoli alla concorrenza, abbatte i rischi di truffa e frode che anche nei pagamenti elettronici esistono eccome. Il tetto al contante non c’entra nulla con tutto questo.

Eppure, ne siamo certi, le polemiche ora avvamperanno. Ci sarà chi dice che questi sono argomenti “di destra” e “da evasori”. Ma il punto è invece tutt’altro. Liberarsi da inutili e controproducenti vessazioni è un passo avanti per un fisco meno basato su presunzioni teoriche di evasione, e finalmente più ancorato alla possibilità pratica di accertamenti basati su realtà fattuali. Non è questione di evasione, ma di civiltà.

13
Ott
2015

Ripensare i finanziamenti europei: dal più spesa al meno tasse—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

Quando si fa già una gran fatica a difendersi da un Leviatano tricolore tutto spendi&tassa, non esiste un incubo peggiore di un Leviatano sovranazionale che segua la stessa linea. Nell’accezione mediatica e – di conseguenza – popolare, il lato positivo dell’adesione italiana all’Unione Europea è da sempre rappresentato dai cd “Fondi Europei”, categoria eterogenea che comprende una serie di sigle, ma che in sostanza concerne la grande forma di finanziamento dell’Unione nei confronti degli Stati Membri. Anche in costanza di recessione – o di crescita microscopica come nella fase attuale – i Fondi Europei hanno continuato a godere di buona fama e del favore della vox populi. Read More

11
Ott
2015

La realtà contro l’ossessione redistributiva

Lo scorso settembre la Banca Centrale Europea ha pubblicato uno studio a firma di Pirmin Fessler e Martin Schürz. Si tratta di un’indagine sulle differenze nella dotazione di ricchezza privata delle famiglie in tredici Paesi Europei. In particolare, gli autori studiano come la dotazione di patrimoni nei diversi Paesi sia influenzata da reddito ed eredità delle famiglie e dall’ammontare di spesa pubblica in welfare.

Lo studio si basa su dati del 2010, collezionati nella prima edizione di un progetto europeo (HFCN: Household Finance and Consumption Network) tramite un questionario finalizzato a raccogliere informazioni sulla ricchezza delle famiglie nell’area euro. L’Italia, insieme alla Finlandia, è stata esclusa dall’analisi a causa dell’incompletezza dei dati sulle successioni dei patrimoni.

I risultati dell’analisi sono in linea con le aspettative nel caso delle prime due variabili: reddito ed eredità delle famiglie. Senza marcate differenze tra i diversi Paesi, le famiglie con redditi più alti e quelle che ricevono patrimoni in eredità vantano una ricchezza netta più elevata in rapporto a coloro che hanno redditi inferiori o non ereditano ricchezza. Niente di sorprendente.

Dopo l’analisi fatta a livello individuale però, si passa agli aggregati, e la questione diventa meno banale. L’obiettivo è capire quale sia la correlazione tra spesa pubblica in welfare e i livelli di patrimonio netto nei diversi Paesi. Nella spesa per welfare gli autori includono le voci Eurostat di spesa per pensioni e sicurezza sociale (pension and total social security expenditure) in rapporto al PIL, oltre alla spesa destinata alle politiche attive per i disoccupati. I risultati potrebbero colpire. Esiste una correlazione negativa e statisticamente significativa tra i livelli di ricchezza netta delle famiglie e spesa per sicurezza sociale e pensioni. Allo stesso modo è negativa la correlazione con la spesa per le politiche attive a favore dei disoccupati (ma non statisticamente significativa). I due grafici riportati mostrano come questi risultati siano più evidenti per i livelli di ricchezza del venticinque percento più povero della popolazione dei diversi Paesi, rispetto a quelli del cinquantesimo percentile.

Cinquantesimo percentile                                        Venticinquesimo percentile

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La realtà descritta dallo studio della Banca Centrale è molto diversa dalla favola descritta dai molti in preda alle note smanie redistributive. Nei paesi dell’area euro in cui si spende di più in welfare tutti sono più poveri e i poveri sono ancora più poveri. Coloro che verosimilmente dovrebbero beneficiare di più di un sistema di ‘sicurezza sociale’ sembrerebbero essere quelli più penalizzati.

La lettura dello studio è consigliata a tutti, soprattutto ai nostri governanti.

@paolobelardinel

7
Ott
2015

Quando la democrazia è sapiente: a cosa serve il ministero dell’oscurantismo?—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Nel libro edito da IBL di Ilya Somin “Democrazia e ignoranza: perché uno Stato più snello sbaglia di meno” viene molto bene evidenziato come uno dei maggiori problemi delle democrazie riguarda la scarsa preparazione dei cittadini, l’estrema difficoltà di conoscere gli effetti di una certa scelta elettorale e come questo avvantaggi il decisore pubblico nel fare quel che vuole, quando vuole e senza limiti; per questo, per Somin il governo che governa meno non è sempre il migliore sotto ogni aspetto, ma è la forma di democrazia meno vulnerabile all’ignoranza politica. Solo così il controllo democratico dello Stato funziona meglio quando c’è meno Stato da controllare.

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