29
Mag
2018

Osservatorio Economia Digitale-La tassa di soggiorno che uccide se stessa: il caso di Venezia

Lo sviluppo delle piattaforme online, come Airbnb, ha dato la possibilità, a molti proprietari di immobili sfitti o inutilizzati, di mettere questi ultimi a disposizione di tutti coloro che transitano in migliaia di città nel mondo.

Lo sviluppo delle piattaforme online, come Airbnb, ha dato la possibilità, a molti proprietari di immobili sfitti o inutilizzati, di mettere questi ultimi a disposizione di tutti coloro che transitano in migliaia di città nel mondo.Sebbene il servizio offerto non sia in competizione diretta con la ricettività alberghiera, e anzi contribuisca a creare nuova domanda, non c’è dubbio che la convenienza dei prezzi e l’aumento della disponibilità possa intercettare una parte non trascurabile dei flussi turistici. Un caso, tra i tanti, in cui questo fenomeno è cresciuto e continua a crescere in maniera sostenuta è quello della città di Venezia. Lo sportello attività produttive del comune ha, infatti, ricevuto e registrato, in soli trenta giorni (da metà marzo a metà aprile), ben 53 dichiarazioni di inizio attività: una media di quasi due al giorno, il che può significare 700 in un anno (un numero che però non deve trarre in inganno: si stima che nella città lagunare siano disponibili circa 27-30 mila posti letto). Inoltre attraverso le piattaforme non solo privati cittadini, ma anche agenzie e hotel propongono soluzioni abitative.

La molteplicità degli offerenti ha messo in allarme il comune, timoroso di non essere in grado di censire adeguatamente gli operatori e pertanto raccogliere quanto dovuto a titolo di tassa di soggiorno. Paradossalmente, però, Venezia – a differenza di molte altre località turistiche – non ha ancora stretto accordi con AirBnb per la raccolta della tassa. Ancora più allarmata, e forse un poco strumentale, è stata la reazione delle associazioni di categoria che più lamentano la competizione della sharing economy. A Venezia, si sono già registrate, infatti, alcune manifestazioni di protesta: queste associazioni sembrano non volere alcun accordo, perché spaventati dall’esempio del comune di Napoli che ha firmato un accordo con AirBnb per 1.5 milioni di euro l’anno, cioè 2 euro a notte, per persona. Troppo poco secondo queste associazioni, anche se questa cifra è la tassa prevista in alta stagione per gli alberghi a 2 stelle, proprio come a Napoli. In particolare, chiedono al governo di istituire un albo delle locazioni per, a loro dire, gestire al meglio città e turismo.

Tale posizione appare assai pretestuosa. Il tema dell’eguale trattamento è naturalmente corretto, ma l’esempio di Napoli non sembra configurare alcuna discriminazione ai danni delle strutture tradizionali. Anzi: la collaborazione con una piattaforma che opera esclusivamente attraverso pagamenti digitali (e dunque tracciabili) consente verosimilmente di far emergere almeno una parte di gettito che altrimenti andrebbe sicuramente perduto. Non a caso, Napoli non è un esempio isolato: come anche Rimini, Palermo, Firenze, Bologna, Genova e Milano dimostrano, stipulare intese simili è nell’interesse dei comuni. La firma di questi accordi, però, implica anche di mettere le piattaforme nella condizione di riscuotere queste tasse, per adempiere agli obblighi assunti. Ciò significa, ovviamente, che le amministrazioni comunali devono compiere uno sforzo nella direzione di una semplificazione dei rapporti. Semplificare i rapporti significa, tra le altre cose, semplificare l’imposta, in modo che risulti più facile coinvolgere le piattaforme e, di conseguenza, far emergere gettito. Venezia è sotto questo profilo istruttiva: la tassa di soggiorno appare come una giungla di aliquote. Una sua semplificazione aiuterebbe anche l’industria alberghiera tradizionale.

Un’altra preoccupazione è la comunicazione dei dati relativi ai pernottamenti e, dunque, all’entità del gettito da riversare nelle casse comunali. Innanzitutto, occorre appurare che le informazioni richieste non siano diverse e/o addizionali, rispetto a quelle attualmente richieste alle strutture ricettive più tradizionali. La soluzione più logica e più semplice, a questo punto – per quanto si debba riconoscere, come si è già fatto, che queste singole intese comunali hanno indubbiamente risvolti positivi -, sembra essere la gestione di questi accordi in una sede centralizzata, per esempio tramite l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per sviluppare un’interfaccia unica a livello nazionale. Procedere in questo modo permetterebbe, infatti, ad AirBnb e competitors di non doversi adeguare a centinaia di piattaforme diverse, a seconda del comune in cui operano: un’operazione che richiederebbe costi elevati e rischia di disincentivare la ricerca di compromessi. Sono i comuni i primi ad avere l’interesse a trovare una soluzione che funzioni.

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2 Responses

  1. Rino

    “molti proprietari di immobili sfitti o inutilizzati“
    Ho smesso di leggere qui: a Venezia non si affitta più a chi ha bisogno ma al turista per 100 euro a notte e chi può prende in affitto per subaffittare a sua volta. Sì inizi a intervenire da qui…

  2. arthemis

    “non doversi adeguare a centinaia di piattaforme diverse, a seconda del comune in cui operano”: intanto che ci sono, far sviluppare -e usare- un template unificato di sito web del Comune dove si possano trovare facilmente le informazioni sui tributi, orari degli uffici ecc..

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