Nuova PAC: a capofitto verso il 2013
Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.
Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.
Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.
Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.
Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.
Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:
- una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
- una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
- una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.
Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)
Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.
Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).
Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.
Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:
In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.
Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.
Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.
Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.
Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.
Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.
Sono un agricoltore della painura padana, non un cobas, con vacche da latte e trovo il vostro articolo ben scritto e dai contenuti veri. Finalmente qualcuno che dice la verità e che parla di agricoltura. Siamo stufi di essere ricattati dai contributi pac, siamo stufi di sentire nbaggianate sul biologico, sul bello e puro ed anche subire attacchi da tutte le parti. Siamo stufi di produrre montagne di carta inventata da Bruxelles e dai nostri burocrati per poi venire a controllare anche quanti peli hanno le vacche. Potrei continuare così per pagine e pagine. Spero queste parole non siano gocce nel mare.
Elisabetta Quaini
Oscar sei forte !!!!!!
Non sarà efficiente, sarà costoso, ma come consumatore al supermercato trovo tonnellate di prodotti che vengono anche da altri continenti e che non hanno alcun sapore nè gusto, se questo è futuro ed efficienza (e le esternalità non le contiamo perchè non sono “oggettive”) preferisco restare come adesso e non andare avanti.
Andare avanti così significa mangiare male e spendere praticamente uguale (quanto incide ormai il costo della frutta sulla spesa quotidiana?poco molto poco)
I prodotti cinesi vadano ai cinesi, i prodotti indiani vadano agli indiani, io come italiano prefrrisco i prodotti italiani più vicini a dove abito
Condivisibile Riccardo. Però la frutta italiana costerebbe meno senza la PAC, così come il latte, lo yogurt, ecc. Soprattutto te la potresti comprare con i soldi del tuo stipendio e non con quelli delle tasse degli europei (tra cui le mie).
@Riccardo
non è efficiente, è costoso. Se preferisci spendere poco molto poco prenderai la frutta cinese brasiliana o indiana. Spendendo un po’ di più comprerai l’ottima frutta biologica italiana… è una tua scelta, ma perchè dovremmo pagare noi la frutta che piace a te? Se poi tutti sceglieranno la frutta italiana. I cinesi se la terranno a casa loro.
Saluti
Io sono un agricoltore… ma il maggior tempo lo dedico a far scartoffie per accontentare i burocrati (mi piacerebbe sapere quanta fetta dei soldi destinati all’agricoltura vanno a finire alla burocrazia… io credo la maggior parte!). Credo che gli “aiuti” in agricoltura siano tutt’altro che benefici: alterano il mercato e impediscono lo sviluppo di vedi imprenditori.
Giorni fa mi è ripassato tra le mani uno studio di Confagricoltura dello scorso anno, secondo il quale in Italia, a fronte di circa 1.500.000 partite Iva agricole, esistono 1.200.000 funzionari pubblici che si occupano a diverso titolo di agricoltura. E ricordiamoci che una Partita Iva agricola non corrisponde necessriamente ad un’azienda agricola vera e propria, dato che anche chi coltiva 2000 metri di vigna per farsi il vino per casa e porta l’eccedenza alla cantina sociale ce l’ha… Praticamente ognuno di noi ha (e paga) un angelo-burocrate custode.
mi si domanda: perchè noi dobbiamo pagare la frutta che piace a te?
Ho tante risposte:
1) perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
2)perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
3) perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
4) la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro
Ma certo, io parlo solo di esternalità che non sono oggettive, solo perchè il mercato non può valutarle…
dimenticavo un piccolissimo particolare:ma sapete quanti raccolti di mele o di pesche vengono distrutti solo perchè la mela o la pesca non hanno le dimensioni od il colore che permettono di venderle al supermercato? quanti pulcini vengono distrutti nei macchinari perchè non conviene allevarli? Questo per voi è mercato?questo per voi è efficienza? Solo perchè possiamo permettercelo non mi sembra che questo spreco sia efficiente, tutt’altro ( e vi risparmio la predica su quante persone potremmo sfamare con tutte queste produzioni che non arrivano al mercato)
Fa bene a risparmiarcela, Riccardo, perché sarebbe stata quantomeno inopportuna. Per decenni, fino al 1993, la Comunità Economica Europea ha sussidiato l’esportazione delle nostre eccedenze alimentari nei paesi in via di sviluppo. Era una diretta conseguenza della vecchia PAC che, stimolando la produzione, aveva generato un surplus ingestibile di materie prime, ma ha contribuito alla distruzione delle fragili economie locali, dato che i produttori di quei paesi non potevano competere con i prodotti che arrivavano praticamente in regalo.
Quanto al suo elenco di risposte, sono a mio avviso confuse e contraddittorie, ma mi rendo conto che coincidono con un’idea piuttosto diffusa a proposito dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, e dei suoi presunti benefici economici e ambientali. Per questo motivo credo che lo spazio di un commento sia insufficiente per una risposta dettagliata, che mi riprometto di darle in un prossimo post.