4
Lug
2023

Notte dopo gli esami

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Laura Galli

In questi giorni si parla molto di scuola in tutti i mass-media. C’è l’insegnante di storia accoltellata dallo studente ad Abbiategrasso, c’è l’insegnante di Rovigo alla quale gli alunni hanno sparato con una pistola a pallini, documentando la scena con un video postato e ripostato sui social. Il primo è stato espulso dalla scuola per decisione del Consiglio d’Istituto e i genitori hanno fatto ricorso. Gli altri promossi a giugno con tanto di 9 in condotta, valutazione rivista solo dopo l’intervento del ministro.

La reazione dell’opinione pubblica è stata immediata: indignazione e sconcerto. Le famiglie non educano, la scuola non educa, “li promuovono tutti perché altrimenti arriva il ricorso! Se io prendevo quattro, a casa mi attendevano come minimo quattro sganassoni!”

C’è poi l’altro lato della medaglia, l’insegnante che ha fatto 20 anni di assenza su 24 di servizio, e di nuovo l’opinione pubblica si lancia in filippiche contro i docenti, fannulloni iper-tutelati. “Tre mesi di vacanza all’anno e il resto del tempo a casa in malattia! Licenziateli tutti!”

Entrambe le reazioni sono comprensibili: la maggior parte delle persone basa le proprie opinioni sui titoli dei giornali e i titoli sono fatti apposta per attirare l’attenzione. Non leggeremo mai, né sui quotidiani né altrove, notizie del tipo: “Docente di storia riesce a completare la programmazione perché la classe risponde con profitto all’azione educativa e partecipa con interesse alle lezioni”. Eppure succede, più spesso di quanto si creda. Io stessa ho scritto queste frasi nelle mie relazioni di fine anno.

Il sensazionalismo ha gioco facile con il cervello umano: siamo una specie sopravvissuta grazie alla capacità di prendere decisioni rapide in situazioni di pericolo. Se vediamo un serpente scappiamo, senza stare a valutare se sia velenoso oppure no. L’esitazione potrebbe costarci la vita, quindi meglio darsela a gambe.

Naturalmente questo non è l’unico modo in cui ragioniamo, ma è quello più semplice. Le grandi scoperte e innovazioni che il genere umano ha prodotto sono figlie di un altro livello di pensiero, quello che ci ha permesso di dominare la natura circostante invece che subirla, ma questo livello è faticoso e tendiamo a usarlo con parsimonia.

Queste reazioni emotive ai fatti d’attualità non meriterebbero particolare attenzione se non fosse che la politica, per sua natura in costante ricerca del consenso, tende a cavalcarle, parlando alla pancia degli elettori invece che al loro cervello. Il dibattito, almeno quello che fa notizia, resta sempre su un piano molto superficiale. Per quanto riguarda la scuola, nel dibattito attuale non rientrano i veri problemi che la affliggono e che non riguardano né i voti di condotta né le assenze dei docenti. Queste, casomai, sono conseguenze di un sistema educativo vecchio di cent’anni e mai realmente ripensato per adattarlo alla società attuale.

I miliardi che il PNRR distribuisce a pioggia alle scuole, con tutta la burocrazia che ne deriva (perché spenderli è complicato) non risolveranno proprio nulla, se la scuola resta così com’è. Avremo solo più computer e laboratori in edifici inadeguati, quando non fatiscenti. Molti, fra noi docenti, non saranno neppure in grado di utilizzarli al meglio, questi strumenti. Di questo e di altri problemi però non si discute, perché non solo non fanno notizia, ma richiedono uno sforzo intellettuale che pochi hanno voglia di affrontare, per mancanza di interesse o di competenze.

Il mondo in cui viviamo è cambiato molto rispetto ai tempi della riforma Gentile, quando l’istruzione, in particolare quella superiore, era privilegio di pochi. La scuola invece è cambiata pochissimo, soprattutto nella sua impostazione fortemente umanistica. L’esame di Stato, per fare solo un esempio, ha una prima prova uguale per tutti i percorsi: licei, tecnici e professionali. La ratio alla base di questa scelta è che tutti gli studenti, pur attraverso strade diverse, arrivino a raggiungere le stesse competenze linguistico-letterarie, quelle che contano, e non si dica che esistono scuole di serie A e di serie B.

La realtà però è differente: si può avere successo formativo anche se lo studente non è in grado di analizzare una poesia di Quasimodo o discettare sull’idea di nazione. Al contrario, pretendere che tutti gli studenti si cimentino e vengano valutati sulla base di questa prova d’italiano può ingenerare inutile frustrazione. Con una struttura così rigida, non stupisce che in Italia si registri un elevato tasso di abbandono scolastico. Di questa criticità, evidente per chiunque voglia guardare la scuola con un minimo di attenzione, non parla nessuno, e lo stesso vale per molte altre.

Così la scuola resta sempre uguale a se stessa, con i suoi riti, i suoi personaggi, le sue storie. La società invece cambia e non so se noi insegnanti siamo in grado di preparare i ragazzi ad affrontarla, anche quando riusciamo a finire il programma.

Questo è il vero problema.

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