Salute e proprietà intellettuale: un falso dilemma—di Serena Sileoni e Philip Stevens
L’Organizzazione mondiale della Sanità torna ad occuparsi di proprietà intellettuale e accesso alle cure. Se ne discuterà ancora nell’executive board che si terrà a Ginevra a fine gennaio (http://apps.who.int/gb/ebwha/ pdf_files/EB142/B142_1-en.pdf) . Non è un argomento nuovo: sono trent’anni che si ragiona del rapporto tra i due interessi: da un lato, il diritto fondamentale alle cure, dall’altro, il diritto di proprietà intellettuale.
In una certa retorica, i due aspetti sono vissuti come conflittuali: la tutela dei brevetti rappresenterebbe un ostacolo, per quanto temporalmente limitato, alla diffusione e ad un accesso meno costoso ai medicinali. Una retorica che non coinvolge solo le istituzioni internazionali: l’Antitrust italiana ha da poco elaborato la figura dell’abuso di posizione dominante da eccesso di prezzo. Al di là del caso specifico e della decisione dell’Autorità, la notizia è circolata non senza enfasi della contrapposizione tra diritto alla salute e profitti derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale. Un ragionamento del genere, tuttavia, trascura il fatto che la tutela della proprietà intellettuale non è funzionale solo alla soddisfazione di un interesse economico del titolare, ma anche – in questo settore più che mai – alla ricerca scientifica, che a sua volta è imprescindibile allo sviluppo e alla scoperta di nuove e migliori cure. Se non si potesse fare affidamento sul fatto che anni di ricerca possano generare frutti e utilità, non si avrebbe alcun incentivo a investire le ingenti risorse necessarie, talmente ingenti che nessun sistema sanitario pubblico può permettersele.
A ben vedere, non è la proprietà intellettuale che ostacola l’accesso ai farmaci. Nell’esperienza contemporanea, le principali minacce a questo diritto fondamentale sono infrastrutture sanitarie di dubbia qualità e scarsità di risorse, anche umane.