Niente sequestro se l’occupazione abusiva è tollerata: tanto rumore per nulla?
La Corte di Cassazione (con sentenza n. 38483/2018) ha respinto un ricorso proposto avverso l’ordinanza di rigetto di sequestro preventivo di un immobile abusivamente occupato (è opportuno mettere in luce come il PM abbia avanzato un limitato motivo di ricorso, esclusivamente centrato sulla qualificazione giuridica del reato ascritto agli imputati). È possibile riportare integralmente le motivazioni della sentenza in parola:
«La questione giuridica sulla natura permanente o meno del reato di cui all’art. 633 cod. pen., posta dal ricorrente, non rileva in questa sede, tenuto conto che il Tribunale ha, comunque, escluso la sussistenza del fumusdel reato anche sotto il profilo inerente all’elemento soggettivo, a causa del lungo periodo di tempo, circa 20 anni, in cui il Comune, proprietario dell’immobile, aveva prestato acquiescenza alla supposta occupazione abusiva, ingenerando il convincimento negli indagati, attraverso atti positivi come il pagamento dell’utenza relativa al consumo di energia elettrica dell’immobile, della legittimità dell’occupazione, così escludendone il dolo. Sotto questo profilo, il ricorso è del tutto generico e non configura alcuna violazione di legge, a fronte di una motivazione che ha valorizzato un elemento sintomatico significativo e che, per questo, non può dirsi meramente apparente».
Purtroppo – come è evidente, dato anche il limitato raggio di cognizione del ricorso per cassazione – si tratta di motivazioni notevolmente sintetiche, che pertanto impediscono all’osservatore di avere piena consapevolezza dei fatti di causa. Di seguito, però, ciò che è possibile ricavare dalla lettura della sentenza. Sappiamo che la rilevata acquiescenza del Comune nei confronti dell’occupazione si è estrinsecata nella forma del pagamento delle utenze relative al consumo di energia elettrica: e questo sembra correttamente consentire l’esclusione dell’elemento soggettivo in capo agli imputati. Ancora, sappiamo che – contrariamente a quanto affermato da qualcuno – la sentenza non ha fatto alcun riferimento alla funzione sociale della proprietà in chiave di giustificazione dell’occupazione. E la cosa non sorprende: come chiarito dal dettato costituzionale, la funzione sociale è un tutt’uno con la proprietà, per cui non può esservi la prima se viene meno la seconda; essa non può quindi diventare causa di giustificazione della lesione del diritto di proprietà altrui. Infine, sappiamo che la “tolleranza” – quale categoria giuridica “pretoria” dagli informi e incerti confini – può avere un esito “sanante” solo per il passato, ma non anche per il futuro: se la ventennale inerzia del proprietario può aver “giustificato” l’occupazione fino ad oggi, l’atto di affermazione del proprio diritto (ravvisabile nella controversia giudiziaria) da parte del Comune ha l’effetto di privare di consistenza «il convincimento negli indagati della legittimità dell’occupazione», in quanto incompatibile con quest’ultima. Per cui, a parere di chi scrive, una eventuale, nuova richiesta di sequestro – nel caso in cui l’occupazione (ora consapevolmente) abusiva dovesse, come pare, proseguire – dovrebbe essere accolta.
In definitiva, un caso rilevante più per la propria adattabilità alla polemica politica che per il proprio significato giuridico. Quel che è certo, però, è che questa sentenza suona come un campanello d’allarme per certi enti pubblici facilmente inclini all’inerzia: è fondamentale far valere il proprio diritto di proprietà fin dal primo momento utile o si potrebbe finire sconfitti in un’aula di giustizia.