Nella diatriba tra MIUR e Crusca è stato fatto sparire l’imprenditore—di Mario Dal Co
Mario Dal Co analizza il Sillabo Educazione all’Imprenditorialità per la scuola secondaria di secondo grado, emanato dal MIUR.Il sillabo si riempie la bocca di parole inglesi e di acronimi grotteschi, ma butta nella pattumiera l’essenziale parabola di Adam Smith sulla motivazione che anima colui che si dà da fare in una società complessa: “it is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we expect our dinner, but from their regard to their own interest”.
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.
Ho provato ad infilarmi nello scontro in atto tra MIUR e Accademia della Crusca, in merito al Sillabo Educazione all’Imprenditorialità per la scuola secondaria di secondo grado, emanato dal MIUR stesso. Secondo il Gruppo INCIPIT della Crusca, che monitora le deviazioni ingiustificate dall’italiano, nel Sillabo sembra che
per imparare a essere imprenditori non occorra saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building; non serva progettare, ma occorra conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day.
E’ difficile negare che l’italiano usato nel Sillabo sia arduo, e non solo per gli anglismi, basti l’esempio delle prime contorte righe del documento:
Il presente sillabo contiene le indicazioni sui temi propedeutici all’introduzione strutturale dell’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria di secondo grado.
Si tratta di una rappresentazione ampia di tematiche individuate a partire dalle competenze che gli studenti devono aver sviluppato al termine del percorso.
Ma non vogliamo ripetere le osservazioni della Crusca, piuttosto ben motivate. La cosa più interessante, che non è solo farina del sacco MIUR ma percola dalla nuova cultura del fare impresa da parco tematico che dilaga non solo in Europa, è l’idea di imprenditorialità che emerge dal documento. Un’idea totalmente vaga, imprecisa, inutile e fuorviante del duro lavoro dell’imprenditore. L’imprenditore scompare, come attore vivo, a favore di una serie di figurine che impersonano pure, irrealistiche astrazioni: non un cenno alle necessarie conoscenze normative, agli aspetti civilistici che regolano la creazione e l’esistenza dell’impresa, ai doveri di adempimenti previdenziali, fiscali, ambientali, concorrenziali, di sicurezza del lavoro e di protezione dei mercati sotto il profilo della tutela dei consumatori che riempiono la difficilissima vita dell’italica impresa. L’imprenditore che riesce a rispettare le infinite norme che lo assediano, non deve dimostrare anche di puntare ad un mercato sostenibile o a una comunità solidale, ha già dimostrato tutto quello che umanamente gli si può chiedere, è già un eroe, nel senso classico del termine.
Negli anni recenti, soprattutto dopo la crisi economica, abbiamo assistito ad una paralisi totale delle politica nazionale su tre fronti decisivi per ridare fiato alle imprese: la semplificazione burocratica, la riduzione delle tasse, l’accesso al mercato dei capitali come fonte principale di finanziamento delle imprese.
Coerentemente, il sillabo del MIUR non spende una parola sul fatto che l’imprenditore deve far quadrare i conti e produrre utili, profitti, rispondere ad una normativa irta di adempimenti e controlli, rispetto ai quali dovrebbe almeno essere libero di scegliere se vuole soddisfare i bisogni di un mercato nazionale, o internazionale, di un consumatore maschio, femmina, bambino, vecchio, di una famiglia o di un’altra impresa, di un acquirente sprecone o frugale, banale o sofisticato. Non deve essere semplicemente in regola: deve porsi obiettivi sociali, quali l’economia circolare, la sostenibilità, l’inclusività, la benevolenza. Quasi che non fossero già stati inventati e amplissimamente collaudati: Comune, Provincia, Regione, Stato e Comunità Europea, per non parlare delle Chiese, Religioni, Associazioni che se ne dovrebbero occupare da mane a sera e anche di notte.
Il sillabo si riempie la bocca di parole inglesi e di acronimi grotteschi, ma butta nella pattumiera l’essenziale parabola di Adam Smith sulla motivazione che anima colui che si dà da fare in una società complessa: “it is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we expect our dinner, but from their regard to their own interest”.
In cambio, il sillabo pappagalleggia con argomenti alla moda del politicamente corretto, con pletore di arzigogolate iniziative dedicate alle start up, al terzo settore, alla creatività, alle nuove tecnologie a cui si deve puntare per crearsi uno spazio, non nel vivo del mercato – dio ne guardi! – ma nelle pieghe delle circolari sulle immancabili norme agevolative.
Spicca, in questo scenario da paese dei balocchi, il capitoletto del sillabo:
Creazione di valore, sostenibilità e innovazione
Saper identificare attività che creano valore per se stessi e/o per gli altri. Saper trasformare un’idea in una iniziativa che crea valore, in termini di scalabilità e replicabilità. Comprendere la relazione tra sviluppo economico e obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), con particolare riferimento all’economia circolare. Saper cogliere la relazione tra innovazione digitale e sostenibilità economica, sociale e ambientale. Comprendere l’importanza di rispondere a bisogni e sfide sociali, a cominciare da un’occupazione il più possibile inclusiva. Riconoscere e mettere in pratica diversi approcci all’innovazione.
Come si vede la creazione di valore, che per l’imprenditore coincide con il valore aggiunto, ossia la differenza tra ricavi e costi, non appare, ma appaiono i concetti se stessi e/o gli altri, scalabilità e replicabilità, sviluppo economico e Sviluppo Sostenibile, economia circolare. Qui l’inglese non c’entra.
L’estensore del sillabo non è sfiorato dal dubbio che tali concetti siano del tutto inutili se non si dà una chiara definizione di valore aggiunto. Che non è affatto scontata per uno studente delle superiori. Ma forse la spiegazione dell’arcano sta negli arzigogoli del testo: come la scelta di mettere in maiuscolo lo sviluppo sostenibile e in minuscolo lo sviluppo economico, a dire che il primo è quello che conta. O la perla dell’occupazione inclusiva, che echeggia slogan elettorali e telefonate dei radioascoltatori. Non bastano la sicurezza del lavoro, la tutela della privacy, la non discriminazione dei sessi, la formazione dei giovani, il postpensionamento degli anziani, il rispetto delle quote dei disabili, tutti vincoli il cui rispetto realizza , sulla base delle leggi vigenti e di sanzioni, un livello potenziale di inclusività elevatissimo, da primato mondiale.
Non basta. Si può parlare di imprenditorialità solo se, nel contempo, il capitalismo viene rifondato con questa filosofia lucignola. Ci penserà il sillabo, librandosi nella nuvola di “bisogni e sfide sociali” non legiferate, su cui, ahinoi, si eserciteranno le scuole superiori e, c’è da esserne certi, future legiferazioni inesorabilmente orfane dei decreti attuativi.
Ho provato ad infilarmi tra MIUR e Crusca e, di primo acchito, avrei fatto sponda sulla Crusca, ma poi mi è balzato agli occhi il vero delitto del sillabo proteso ad educare all’imprenditorialità le nuove generazioni, delitto che non consiste nell’abuso dell’inglese o nella deprecabile qualità dell’italiano, ma si configura nell’aver fatto fuori l’imprenditore.
Che vi aspettavate da un governo messo lì dalla UE?
D’altronde lo hanno detto apertamente che bisogna distruggere le piccole imprese.