Motivazioni vere e presunte dell’illegittimità della legge lombarda sul servizio idrico
A fine novembre, la Corte costituzionale ha emesso l’attesa sentenza sulla legittimità della legge regionale lombarda relativa, tra l’altro, all’organizzazione del servizio idrico integrato (legge 12 dicembre 2003, n. 26).La questione è piuttosto da principi del foro ma merita di essere segnalata se non altro per fare un po’ di chiarezza – dati i commenti e le reazioni che strumentalmente ne sono seguiti – sul cosa e il perché la Corte ha censurato.
Il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni che consentivano ai comuni e agli enti locali di creare una società patrimoniale d’ambito per la gestione del servizio idrico, a cui potevano essere conferite le proprietà delle reti e degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali del servizio, con la possibilità per le stesse di espletare le gare per l’affidamento del servizio.
La motivazione, lungi dal riguardare nel merito l’affidamento del servizio a soggetti pubblici o privati o dal riferirsi all’esito referendario, poggia molto più semplicemente e banalmente su una questione squisitamente giuridica, relativa alle modalità di passaggio della proprietà dei beni pubblici.
Le reti e gli impianti sono infatti demanio e la competenza a modificare il regime giuridico dei beni demaniali ricade nel titolo “ordinamento civile”, che la Costituzione italiana assegna in via esclusiva al legislatore statale. La Corte, dunque, ha accolto le ragioni del governo relative all’impossibilità di modificare con legge regionale la proprietà demaniale delle infrastrutture idriche.
La questione è giuridicamente sottile, perché in realtà le società patrimoniali che sarebbero divenute proprietarie delle reti e degli impianti sono interamente degli enti locali, e quindi, a chi non mastica quotidianamente il diritto, può sembrare bizzarro che i beni non possano transitare. La stessa regione, nel resistere al ricorso statale, ha obiettato che la disposizione impugnata, nel prevedere espressamente l’incedibilità del capitale della società a totale partecipazione pubblica, avrebbe garantito il mantenimento del regime giuridico proprio dei beni demaniali conferiti in proprietà alla società patrimoniale d’àmbito.
In realtà, la sola partecipazione pubblica, ancorché totalitaria, in società di capitali non vale, ricorda la Corte, a mutare la disciplina della circolazione giuridica dei beni che formano il patrimonio sociale e la loro qualificazione.
Pertanto, una persona giuridica in forma di società (anche se a partecipazione interamente pubblica) non può diventare proprietaria di ciò che è demanio se non tramite una decisione del legislatore statale, assunta in base alla competenza in materia di ordinamento civile. Visto dalla prospettiva regionale, la legge lombarda è illegittima perché contrasta con il principio statale della proprietà pubblica delle reti, la quale può essere modificata solo dal legislatore statale in virtù della competenza, come detto, in materia di ordinamento civile.
Sembra chiaro dunque che questa vicenda nulla abbia a che vedere con le discussioni di referendaria memoria circa la proprietà pubblica dell’acqua o la gestione pubblica o privata del servizio. Tanto va precisato dal momento che, all’indomani della sentenza, sono state rilasciate alcune dichiarazioni che hanno preso a pretesto il dispositivo dell’illegittimità della legge regionale per costruire motivazioni lontane da quelle della Corte.
Così, ad esempio, il capogruppo IDV della regione Lombardia, commentando la sentenza alla vigilia della manifestazione promossa dai forum dei movimenti per l’acqua del 26 novembre, ha ribadito a commento della sentenza ciò che nessuno, né il referendum né la legge lombarda, avevano messo in discussione, ossia che “L’acqua è un bene pubblico e deve rimanere tale”. O ancora il Codacons, secondo cui la sentenza è la giusta sanzione per la Lombardia, che, non avendo voluto adeguarsi all’esito del referendum sull’acqua, può comprendere di “non potersi ritenere al di sopra dell’Italia e della volontà espressa dal popolo italiano”.
In realtà, che la Corte abbia detto che le reti sono demanio pubblico e che dunque non possono essere trasferite in proprietà nemmeno a società pubbliche con legge regionale è cosa molto diversa dal dire che la regione è stata bloccata nell’intenzione di espropriare i comuni dalla titolarità del servizio idrico. La legge infatti non aveva l’effetto di privatizzare né liberalizzare il servizio idrico, quanto piuttosto di efficientare, anche dal punto di vista dell’autonomia di bilancio, la gestione pubblica tramite la costituzione di società che restavano a capitale interamente pubblico. Le società patrimoniali d’ambito sarebbero infatti state costituite dagli stessi enti locali, a condizione, peraltro, che vi avessero partecipato i comuni rappresentativi di almeno i due terzi del numero dei comuni dell’ambito.
Ciò che la legge, dunque, prevedeva avrebbe avuto un impatto molto marginale sul dibattito gestione pubblica/gestione privata. Ma, soprattutto, ciò che la Corte ha dichiarato ha un impatto ancor più marginale rispetto a quello che i sostenitori della gestione pubblica hanno voluto far credere.
Mai come oggi mi pare che sistema di inglese interamente privatizzato ormai 30 anni fa’, con l’elegante price cap regulation del RPI – X + K, sia distante anni luce dal quadro nostrano.
Di la una decina di utilities dalle dimensioni e dall’organizzazione efficiente, tariffe alte ma anche tanti investimenti e delfini e lontre che iniziano a tornare nel Tamigi … Di qua, migliaia di posti di semi-prestigio per amici e parenti trombati alle elezioni, liquami nei fiumi per via di impianti inesistenti e tariffe basse ma, ahime’, in crescita esponenziale.
La questione è importante le reti e gli impianti come l’acqua devono rimanere pubbliche è il “Servizio” che deve poter essere privatizzato. E’ bene precisare ancora per chi lo ha dimenticato o non vuole che sia ricordato che la Corte Costituzionale bocciò il quesito che abrogava l’art. 150 sulla scelta della forma di gestione.
La Consulta ribadisce dei principi fondamentali e per una volta è di ostacolo al proliferare di Aziende pubbliche che hanno il solo scopo di mangiare soldi e piazzare politici “trombati”.
Non mi sembra corretto ritenere il privato la soluzione migliore e il pubblico un disatro: a Villasanta (MB) il servizio è affidato ad un privato, e l’acqua è sporca, poca e puzza; nei vicini comuni di Desio e Seregno da quando hanno affidato a Brianzacque (che dovrebbe diventare il gestore unico per l’Ato di Monza e Brianza), società pubblica, hanno cominciato subito i lavori per sistemare situazioni critiche mai risolte dai comuni
Il problema non è pubblico o privato , ma la cultura di un popolo.
La cultura di base del ns. Paese è rimasta quella di “franza o spagna purchè se magna” e quindi lontano anni luce dal liberalismo economico ma anche dall’organizzare una buona società civile.
Per fortuna ci sono tante eccezioni ma che,come si usa dire confermano la regola.
Purtroppo i Paesi che sono rimasti sotto le “campane” della Chiesa Cattolica Romana, hanno i ns. stessi problemi e non solo in Europa. Sarà un caso? Difficile crederlo.