Minoranza a chi?
Parmalat, Generali, Telecom: sotto a chi tocca. Perché fra la lobby dei consiglieri indipendenti, il piccolo esercito dell’ Assogestioni targata Siniscalco e gli investitori stranieri si stanno aprendo nuovi varchi nella governance dei totem della finanza e dell’industria.
Ma chi può alzare la mano (e in qualche caso anche la voce) in assemblea? L’istituzione più “pesante” nelle assemblee italiane è Banca d’Italia, con oltre 3 miliardi di euro portati in nove differenti riunioni. L’impatto complessivo dell’istituto è stato pari all’1% sulla capitalizzazione complessiva di Borsa delle società del listino principale, all’8,09% sul relativo flottante, e di un decisivo 15% sul “quorum di minoranza” delle 9 assemblee in cui ha votato. Il colosso americano del risparmio gestito Blackrock si piazza al secondo posto tra gli azionisti di minoranza maggiormente attivi nelle assemblee italiane. Con 2,6 miliardi di euro, apportati tramite ben 67 diversi fondi gestiti e residenti in 7 differenti Paesi, Blackrock pesa per il 6,65% sul flottante votato. L’investimento medio dei fondi gestiti dal gigante americano è stato pari a 38,8 milioni di euro, di oltre 3 volte superiore alla media riscontrata tra tutti gli investitori. Ben distanziate le altre istituzioni, tra cui spicca Generali, i cui 49 beneficial owners hanno portato nelle 16 assemblee in cui tale gruppo risultava azionista di minoranza 1,5 miliardi di euro (oltre 32 milioni in media per azionista), pari al 3,95% del flottante complessivo. Al quarto posto la francese Amundi con il 3,82% del flottante votato, che detiene inoltre il “record” di fondi presenti nelle assemblee (ben 139), seguita da State Street Global Advisors (3,54%), la cui capogruppo è basata negli USA ma presente con 77 fondi residenti in 5 Paesi diversi.
Sono solo alcuno dettagli della fotografia scattata nel 2010 alle assemblee delle società del Ftse Mib dalla società di advisory Georgeson. Fotografia che mostra ancora nel mercato italiano un’elevata concentrazione degli assetti proprietari, seppure evidenziando un costante ma leggero calo nel tempo: dal 49% del 2005, gli azionisti di controllo (sia di diritto che di fatto) arrivano oggi a rappresentare mediamente il 42,7% del capitale delle società a maggiore capitalizzazione, con un calo di circa il 13 punti percentuali nei cinque anni. Ovviamente, una tale partecipazione azionaria continua a garantire un controllo assoluto in sede assembleare, soprattutto considerando le basse percentuali di affluenza riscontrate. Tuttavia la situazione generale segnala piccoli ma significativi cambiamenti. Gli azionisti di minoranza, seppure sostanzialmente stabili rispetto a quanto rilevato nel 2009, continuano ad assumere sempre maggiore importanza e consapevolezza. Dal punto di vista della partecipazione azionaria, il 64% circa della capitalizzazione complessiva di Borsa è da considerarsi “flottante”, contro il 36% detenuto dagli azionisti di controllo. Inoltre, gli azionisti di minoranza hanno fatto segnare un più 32% nel peso assembleare medio (dall’8,1% al 10,7%) dal 2005 ad oggi, evidenziando una sempre crescente attenzione, soprattutto da parte dei gestori istituzionali, verso i grandi temi di governance, spesso determinanti per la continuità di una corretta e trasparente gestione societaria. Il crescente peso azionario delle minoranze si riscontra in particolare da parte della componente istituzionale, che passa a rappresentare mediamente il 38,2% del capitale delle società analizzate, rispetto il 32% riscontrato nel 2005 (più 20% circa). All’interno degli istituzionali, l’incremento riguarda sia la componente italiana (dal 12,5% al 13,5%) che quella estera (dal 19,5% al 24,7%), seppure quest’ultima segni un leggerissimo calo nel corso del 2010 (0,1 punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente). La componente retail, ovvero gli azionisti privati, che avevano fatto registrare una diminuzione nel 2009 (dal 17,8% al 16,8%), tornano invece quasi ai livelli del 2005 detenendo mediamente il 17,2% delle società a maggiore capitalizzazione. Focalizzando poi l’analisi sulla composizione del capitale flottante all’interno delle società, si notano differenze sostanziali nelle preferenze di investimento delle singole componenti l’azionariato di minoranza: mentre gli investitori istituzionali esteri sembrerebbero prediligere emittenti a basso livello di controllo, gli investitori domestici, sia istituzionali che retail, focalizzano maggiormente i propri investimenti in società a forte concentrazione azionaria. Ma come si comportano i soci di minoranza in assemblea? Da un lato gli investitori istituzionali esteri mirano ad investire in emittenti in cui possano esercitare un più elevato potere decisionale in sede assembleare, dall’altro gli investitori retail, il cui peso decisionale è storicamente ininfluente, percepiscono maggiori garanzie di continuità della gestione in società fortemente controllate da un unico soggetto (o da più attraverso soggetti accordi quali i patti parasociali ed i patti di sindacato). La medesima considerazione fatta per gli azionisti retail potrebbe essere svolta per gli investitori istituzionali domestici. Si può supporre che la predilezione da parte dei gestori italiani nei confronti di emittenti fortemente controllati da pochi soggetti possa corrispondere ad un più agevole “attivismo extra – assembleare” (private engagement) grazie ad un più immediato relazionarsi dei gestori stessi con i soggetti controllanti. . Non solo. Mentre gli istituzionali esteri fanno rilevare un’intensità di partecipazione pari al 32,4%, ovvero votano mediamente quasi un terzo delle posizioni complessivamente detenute, tale intensità si riduce esattamente della metà per le istituzioni italiane, che votano mediamente il 16,2% delle azioni complessivamente possedute.
Sul fronte della partecipazione, in 30 società su 32 meno del 30% degli investitori istituzionali ha votato, mentre nelle restanti due il “quorum del flottante” si è attestato al 43% (Exor) ed al 33% (Intesa San Paolo). La partecipazione assembleare delle minoranze si conferma però in leggero e costante aumento, che con ogni probabilità segnerà una forte accelerazione con mirati interventi legislativi atti ad eliminare alcuni importanti ostacoli procedurali (tra cui la previsione di anticipare la pubblicazione dell’informativa anche in inglese e la record date, che porterà alla progressiva scomparsa dell’applicazione del cosiddetto share blocking da parte degli intermediari). Nei casi in cui la relazione degli Amministratori alle proposte assembleari è pubblicata con venti e più giorni di anticipo, rispetto alla prima convocazione, la partecipazione delle minoranze si incrementa di quasi il 30% (e del 6% i favorevoli), e se poi tale relazione è pubblicata anche in inglese il quorum aumenta ulteriormente di un quarto. Gli investitori istituzionali, in particolare esteri, tendono quindi a non votare in assenza di una documentazione puntuale e trasparente.
È in occasione dei rinnovi delle cariche societarie (Consiglio d’Amministrazione, Collegio Sindacale e Consiglio di Sorveglianza nei casi di modello dualistico) che si esprime al massimo l’attivismo assembleare delle minoranze. La seconda materia che stimola particolarmente l’attenzione degli analisti internazionali, ed ovviamente dei gestori incaricati di tutelare l’interesse economico dei propri clienti, sono i compensi degli Amministratori (intesi sia come remunerazioni che stock options e piani di incentivazione). Un tema delicato per gli azionisti istituzionali esteri, quello dei compensi degli amministratori, dove si concentrano maggiormente i voti negativi: in media le proposte hanno ottenuto un ridotto 52,8% da parte di questa categoria di azionisti. Sei le proposte sui compensi bocciate dagli azionisti esteri: il piano di incentivazione di Fiat, le remunerazioni del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, le performance shares di Mediobanca, lo stock option plan di Mediolanum e compensi degli amministratori di Snam Rete Gas, l’incentive plan di Telecom Italia. L’approvazione del bilancio non ha creato problemi tranne in un caso, quello di Autogrill che ha ottenuto l’86,37% di voti contrari da parte degli investitori esteri. Una decisione da ricondurre alla mancata distribuzione degli utili in rapporto ai compensi ricevuti dal management.
sarà che ho il dente avvelenato per come è avvenuta la privatizzazione di Telecom e di come, di conseguenza, si è trasformata il che rappresenta un grosso furto per l’Italia intera. ma condivido il testo interamente.