Minacce poco credibili
Poco prima delle feste ho letto un articolo di Stratfor, una rivista di analisi strategica, sui rapporti commerciali tra USA e Cina. Normalmente gli articoli di Stratfor mostrano una buona comprensione delle dinamiche economiche, ma nel caso dei rapporti USA-Cina sono stati commessi degli errori di valutazione economica che inficiano anche la validità dell’analisi geopolitica.
Miti sui tassi di cambio
Formalmente il problema sono le tensioni riguardanti il cambio USA-Cina, che il governo cinese tiene basso comprando titoli americani. Ho già detto di recente che questa teoria fa acqua: la bilancia commerciale di un paese impone che le esportazioni nette siano uguali al risparmio netto, cioè alla differenza tra risparmi e investimenti. Un paese può quindi esportare più di quanto importa se e soltanto se investe meno di quanto risparmia. La Germania e la Spagna usano la stessa valuta, ma i primi, in termini netti, esportano, perché risparmiano, e i secondi negli ultimi anni di boom hanno importato capitali dall’estero a ritmi sostenuti. Il tasso di cambio, come variabile nominale, ha un effetto di breve termine, che è il contrario dell’effetto di lungo termine (i Keynesiani infatti, che vedono solo il breve termine, ragionano sempre al contrario).
Gli USA sono un paese di sperperatori keynesiani, e la Cina, il Giappone o la Germania sono paesi di formichine che non sono disposte a comprare benessere temporaneo oggi in cambio di un benessere ben maggiore nel futuro. Il cambio, quindi, non c’entra nulla: la cosa è tanto più evidente se si considera che la concorrenza cinese è vista con orrore anche in Europa, dove non c’è un problema di eccesso di consumi.
Il paragone tra Cina e Giappone (e gli USA)
A differenza della Grande Depressione, che è un argomento che oserei definire storiograficamente maturo (l’ultimo paper è del 2009, di Ohanian, e ripete le spiegazioni di Rothbard del 1963 sulle colpe di Hoover), le cause della crisi giapponese sono ancora un mistero. Ci sono decine di spiegazioni, di tutti i tipi, ma nessuna convincente: è dunque avventato fare paragoni e trarne conclusioni di policy.
La tesi di Stratfor, però, è molto interessante: la Cina oggi, come il Giappone vent’anni fa, ha tanti di quei problemi strutturali che potrebbe avvitarsi in una crisi come quella giapponese e smettere di crescere per decenni. I problemi strutturali indubbiamente esistono: le banche, come quelle giapponesi, sono corrotte e inefficienti, c’è capacità produttiva in eccesso in molti settori (almeno immobiliare e siderurgico, a quanto pare), la dipendenza dalla domanda di consumo americana è forte (le esportazioni sono un terzo del PIL).
Quando Stratfor afferma che “Those states managed capital to keep costs artificially low, giving them tremendous advantages over countries where capital was rationally priced. Of course, one cannot maintain irrational capital prices in perpetuity (as the United States is learning after its financial crisis); doing so eventually catches up. And this is what is happening in China now“, dimostra di aver capito alla perfezione l’essenza della teoria austriaca del ciclo economico, e quindi non posso che concordare.
La descrizione che Stratfor fa della Cina, però, è simile a quella della politica economica americana: “It funnels these massive deposits via state-run banks to state-linked firms at below-market rates“, con la differenza che le banche americane non sono state-run, but Fed-backed.
Una strategia geopolitica credibile?
Se gli USA vogliono eliminare la Cina come competitore geopolitico, probabilmente fanno ancora in tempo a bloccarne la crescita. Senza la domanda dei consumatori USA, la Cina probabilmente entrerebbe in crisi per mancanza di sbocchi commerciali. È probabilmente la domanda dei consumatori americani, unita ai risparmi cinesi, che rende proficuo produrre in Cina, creando un boom del commercio internazionale che è fondato sull’economia inflazionistica e non sulla razionalità economica.
Se il paragone Cina-Giappone regge, cosa non improbabile, la Cina si troverebbe a non poter più mantenere le proprie bolle domestiche e dovrebbe completamente ristrutturarsi. Data la situazione politica, non è improbabile che ciò produrrebbe rivolte molto difficili da sostenere sul piano politico rispetto alle già numerose rivolte attuali (che sembrano concentrate nelle aree rurali). Se la crisi durasse come quella giapponese, l’egemonia statunitense rimarrebbe a lungo.
Non solo, riducendo i consumi e aumentando i risparmi, l’economia americana, passata un’ulteriore crisi, risolverebbe un bel po’ di problemi strutturali, e la sua egemonia geopolitica potrebbe tornare ad essere sostenibile nel lungo termine.
Tutto ovvio, no? Se gli americani vogliono, al costo di un’altra pesante recessione, possono fermare la Cina, che potrebbe cadere in un baratro giapponese. Se l’articolo si fosse fermato qui, sarebbe stato realismo geopolitico, forse un tantino azzardato, ma sicuramente sensato sul piano logico e teorico. Invece, lo spirito di Keynes si è impossessato dell’autore dell’articolo, che comincia subito dopo a fare discorsi senza senso.
Bretton-assurdità
Ecco un esempio di cosa succede a non capire la teoria dei vantaggi comparati: “Bretton Woods at its core was an agreement between the United States and the Western allies that the allies would be able to export at near-duty-free rates to the U.S. market in order to boost their economies. In exchange, the Americans would be granted wide latitude in determining the security and foreign policy stances of the rebuilding states.”
In termini più sensati, un mercato quasi libero con un sistema monetario decente (Bretton Woods era sicuramente meglio della moneta post-nixoniana) è benefico per tutte le parti in causa, e in più facilita le alleanze politiche e riduce la conflittualità interna. Il protezionismo è sempre una politica dannosa per tutti nel lungo termine, come anche l’inflazionismo: il problema è solo impedire ai politici di fare cose cretine.
Ma il colbertismo fa vittime anche oltreoceano: “After a generation of favorable trade practices, surpluses turned into deficits, but the net benefits were so favorable to the Americans that the policies were continued despite the increasing economic hits“. L’idea è che il commercio sia un gioco a somma zero e quindi chi esporta vince e chi importa perde, e che solo i trade surplus sono benefici per l’economia. La cosa è priva di senso.
Obama-assurdità
Obama è l’uomo più sopravvalutato del globo, sia nel bene che nel male. Dopo otto anni di bushismi, cioè di gaffe, vere e presunte, di Bush, è ora di cominciare a raccogliere gli obamismi, come questo: “the National Export Initiative (NEI) the White House is promulgating is much more mercantilist. It espouses doubling U.S. exports in five years, specifically by targeting additional sales to large developing states, with China at the top of the list.”
Se gli americani non risparmiano, come fanno a produrre? Hanno bisogno di importare capitali per finanziare la macchina produttiva! Di conseguenza, permarranno in uno stato di deficit commerciale. Per aumentare le esportazioni più delle importazioni, gli USA devono aumentare i risparmi e ridurre il deficit pubblico: che è proprio il contrario di ciò che sta facendo Obama. La madre di Colbert è sempre incinta.
Deliri di onnipotenza
L’economia americana senza risparmi esteri perderebbe quasi il 50% dei risparmi disponibili per investimenti privati: la crisi sarebbe enorme. Gli USA negli ultimi anni hanno preso 500-800 miliardi di dollari di capitali dall’estero ogni anno, hanno risparmiato 2000-2400 miliardi di dollari, devono finanziare un deficit pubblico nell’ordine dei 1000-1400 miliardi di dollari, che potrebbe non rientrare facilmente (e nel lungo termine è insostenibile senza riforme dello stato sociale USA, che Obama sta appesantendo ulteriormente). Il tutto per finanziare investimenti privati dell’ordine dei 1600-2200 miliardi. (grazie Fred!)
Nonostante ciò, Stratfor dice: “Granted, interest rates would rise in the United States due to the reduction in available capital — the Chinese internal estimate is by 0.75 percentage points — and that could pinch a great many sectors, but that is nothing compared to the tsunami of pain that the Chinese would be feeling.”
Purtroppo in economia (non quella keynesiana) vale il principio del “nihil ex nihilo”: se la Cina risparmia troppo, qualcuno si sta indebitando troppo… chissà chi.
Conclusioni
I politici americani hanno il futuro nelle loro mani, molto più dei politici cinesi: su questo concordo su Stratfor. Il problema è che oggi, come ieri, a capo della Casa Bianca c’è un populista che non ha il coraggio di imporre agli americani il costo di politiche serie necessarie per il futuro. Un’eventuale minaccia americana di cominciare a risparmiare e quindi a ridurre la domanda di merci cinesi (checché ne dicano su Stratfor, è questa la soluzione, non il protezionismo di cui blaterano) è del tutto priva di credibilità, perché andrebbe contro quello che la Federal Reserve ha fatto negli ultimi trent’anni, e quello che Bush e Obama hanno fatto con tutti i mezzi disponibili negli ultimi tre.
Gli USA sono un paese in mano ad una classe dirigente senza né coraggio, né idee, né principi. Siccome gli USA stanno facendo l’esatto contrario di quanto dovrebbero, è evidente che alla Casa Bianca hanno qualcos’altro per la testa, che non è la politica estera ma il populismo domestico: gli USA sono ormai da qualche tempo la più grande repubblica delle banane del globo.
Ma allora, perché tutto questo nonsense? La risposta forse l’ha data Stefan Karlsson: gli americani sventolano il protezionismo per fare pressioni sulla Cina e colpire l’Iran. Come strategia però ciò richiede che i cinesi non capiscano la situazione politica USA, e la cosa è inverosimile. Forse bisognerebbe smetterla di sforzarsi di cercare un senso dietro ciò che fa e dice Obama…