Meno tasse: grazie, professor Giavazzi
Francesco Giavazzi ci ha risposto con un post che trovate qui, a seguire la singolarità che segnalavo sul suo recente paper in materia di tagli alle tasse. Innanzitutto desidero ringraziarlo a nome di noi tutti. Grazie, professore: lo spirito delle nostre osservazioni è “capire”, e la sua risposta ci aiuta a farlo meglio. Chi leggerà il paper che Giavazzi ha firmato con Favero trova infatti conferma di quanto Giavazzi qui ci richiama ad osservare. Le differenti stime del moltiplicatore rispetto ai Romer hanno a che vedere con le diverse “stime di contesto” degli aggregati monetari e reali insistenti nella stessa unità di tempo: e per primo lo avevo segnalato nel mio post, che le valutazioni divergenti dipendono dalla visione “più estesa” assunta fatta assunta da Giavazzi e Favero, rispetto a quella “più ristretta” dei Romer. Su ciò, dunque, nulla quaestio. Ed è per questo che scrivevo: non parlo di contraddizione per evitare strali, ma segnalo la singolarità.
Diciamo allora che siamo d’accordo su tre cose.
La prima è che la quantità di tasse distorsive purtroppo tipiche dell’ordinamento italiano sicuramente accresce il moltiplicatore sull’output dei tagli fiscali: dunque, in Italia, tagliare le tasse si può, si deve, ed ha un ottimo effetto (che supera gli aumenti di spesa pubblica, ma questo lo dico io).
La seconda è che, purtroppo, in Italia i “motivi empirici” richiamati dal professore impediscono simulazioni come queste sull’economia americana. Finché sarà così, politici e sindacalisti avranno miglior gioco nel dire cose a vanvera, sugli effetti delle politiche economiche.
La terza, invece riguarda l’America. Ma non solo l’America. È un po’ tecnica e sintetizzo, ma è richiamata proprio dall’accenno all’equivalenza ricardiana fatto da Giavazzi. Personalmente mi ritrovo in pieno nelle critiche alla proposizione Barro-Ricardo avanzate dai lavori di Elmendorf e Mankiw, tra fine anni Novanta e primi anni Duemila. Del resto, la proposizione era stata avanzata ormai 35 anni fa, quando ancora non era possibile valutare – nell’esame delle conseguenze di tagli alle tasse – appieno la reciproca influenza tra libertà dei capitali globalizzata, funzione del risparmio privato, andamento dei debiti pubblici ed eventuali problemi di vincoli di liquidità. Nelle condizioni di allora, era più comprensibile pensare a teorie come la neutralità delle forme di finanziamento del deficit pubblico, cioè al fatto che anche tagli fiscali – coperti con emissioni di titoli pubblici – avessero un effetto zero sull’output, perché tanto famiglie e imprese reagiscono traslando integralmente in maggior risparmio privato il reddito disponibile aggiuntivo da meno tasse oggi, scontando che tanto si tratta di fare i conti con debito intergenerazionale più sostenuto, che un giorno bisognerà essere in condizione di ripagare con maggiori tasse.
Se fosse stato vero, non ci sarebbero stati effetti concreti sulla necessità di dover ricorrere a maggior flussi di finanziamento sui mercati esteri, a copertura dei debiti sovrani in crescita. Al contrario, l’esperienza concreta ha mostrato che i saldi pubblici influenzano direttamente i saldi esteri di un Paese, e che vi concorre anche il tasso d’interesse della moneta e il suo tasso di crescita sul mercato. Tutte queste variabili esercitano diversi effetti di Paese in Paese, ai fini del calcolo del moltiplicatore fiscale. Per noi chicagoans, entra anche in gioco il fattore di quante lump-sums vi siano nell’ordinamento fiscale, cioè imposte le meno distorsive possibili nei segnali di trasmissione inviati a consumatore, lavoratore e risparmiatore.
I tagli alle tasse temporanei di Bush figlio, sotto questo punto di vista, erano assai poco performanti sull’output – come si è visto dagli andamenti concreti di consumo – proprio perché distorsivi, e a fronte di un eccesso di consumo realizzato a debito e in forte torsione della bilancia dei pagamenti USA. All’aumento dei consumi americani negli anni 2001-2007 ha molto più concorso l’estrazione di valore dall’immobiliare che saliva e veniva più che rifinanziato dagli intermediari finanziari, oltre che dall’andamento “verticale” degli asset mobiliari. I tagli alle tasse hanno concorso assai poco, alla crescita aggiuntiva. Diverso è l’effetto che potrebbero avere oggi, quando il contributo al reddito disponibile da home ownership negli USA è peggio che nullo. Ma qui mi fermo.
Mi basta dire che con Giavazzi siamo per meno tasse sul lavoro in Italia, per migliori dati e ricerche sull’Italia, e per analizzare a mente aperta che cosa sia meglio per l’America nel mondo di oggi: se la massiccia spesa pubblica aggiuntiva proposta da Obama, o le meno tasse che amiamo noi. Grazie, professore.
Scambio d’idee davvero stimolante!
Per l’Italia ci vorrebbe un governo tecnico con Francesco Giavazzi ed Oscar Giannino ministri dell’economia!
E per Giulio Tremonti un biglietto di sola andata per la Patagonia!
A parte che, dando per scontata la buona educazione, dubito che Giannino e Giavazzi vadano d’accordo per più di un quarto d’ora (e io sto tutta la vita con Oscar), ovviamente ok per meno tasse sul lavoro. Ma è appunto il “sul lavoro” che mi lascia qualche preoccupazione: per CdB, tanto per non fare nomi, bisognerebbe contemporaneamente alzare le tasse sui capitali ( leggi: risparmio). E, come diceva un comico in un vecchio sketch, a me me pare ‘na strunzata..
Ecco, su questo punto vorrei, non da Giannino le cui posizioni mi sono ben chiare, ma dai vari bocconiani in ordine sparso, qualche chiarimento..
bah, a me risulta – almeno dalle mie osservazioni superficiali dei dati “mainstream”, cioè passati sulle edizioni on line dei giornali a larga tiratura – che il 2008 tax rebate (a negative lump sum tax, all’incirca) sia stato risparmiato all’85% e che i tassi sul debito americano siano rimasti dov’erano prima del tax rebate (al netto dei movimenti del tasso ufficiale imposti da bernanke). A occhio e croce (e sottolineo, a occhio e croce), la ricardian equivalence sembra valere più che mai e gli effetti “moltiplicativi” che uno può ottenere siano legati proprio al fatto che le imposte esistenti non sono lump sum e distorcono gli incentivi. 85% non è 100%, ma se si tiene conto anche solo del fatto, sparo a caso e deduco alla carlona, che non tutti hanno infinite horizon – cioè non tutti si curano del futuro della propria prole, magari perché di figli non ne hanno e non ne vogliono avere – la ricardian equivalence sembra più che mai solida…