Meno Stato e più mercato, anche nel settore culturale
All’articolo di Angelo Miglietta sui danni provocati dalla gestione pubblica del nostro patrimonio culturale (che abbiamo ripubblicato QUI), ha risposto in maniera critica Severino Salvemini (QUI). Sempre su Management notes.it è ora uscito un nuovo intervento sul tema, che vi proponiamo.
I recenti articoli scritti da Angelo Miglietta e Severino Salvemini stimolano a confrontarsi con le loro tesi e a svilupparne alcuni punti. Se Miglietta auspica un maggior ricorso a strumenti di mercato per la gestione del patrimonio e delle attività culturali, Salvemini afferma che non bisogna guardare al “mercato come modalità salvifica per fare del Bel Paese una nazione finalmente moderna nella valorizzazione del suo patrimonio artistico”.
Salvemini comincia la sua argomentazione rispolverando il concetto di “bene meritorio” applicato alla cultura. L’utilizzo di simili categorie (oggi è in auge quella di “beni comuni”, i quali comprenderebbero pure i beni e le attività culturali; non a caso gli occupanti del Teatro Valle avevano promosso la costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune) si propone di trovare una ragione fondante dell’intervento pubblico. Pur avendo grande fascino per la loro supposta base scientifica e per la semplicità con cui è possibile etichettare (con due parole) gran parte dello scibile umano, la loro indeterminatezza è produttrice di grandi equivoci.
Se si vuole affermare la necessità dell’intervento pubblico, il più delle volte basta applicare il concetto di “bene meritorio” e si è trovato il motivo che ne sta alla base. Il concetto, inevitabilmente, non va preso come un dato incontrovertibile. Perché se l’attività artistica è un “bene meritorio”, dobbiamo prima di tutto stabilire se lo sia in toto o se invece lo siano solo alcune attività artistiche. Inoltre, chi decide quale attività è da considerarsi meritoria? Deve deciderlo una commissione di “illuminati”? Il cinema, ad esempio, è un’attività meritoria che necessita di intervento pubblico? Ma tutto il cinema o solo quello d’autore? E qual è il cinema d’autore? Le domande potrebbero proseguire all’infinito e difficilmente si arriverebbe a mettere un punto fermo. L’unica cosa ottenibile è una lista personale di ciò che ciascuno di noi ritiene essere meritorio: le varie liste da noi prodotte però difficilmente coincideranno. Pure all’interno di una élite d’illuminati non si troverà una posizione comune. Senza tenere conto delle altre finalità che muovono le persone, pure le più competenti, nel loro operato: obiettivi disinteressati ma soprattutto “interessati”.
Il libro citato da Salvemini (Kulturinfarkt) in realtà non propone l’azzeramento dei fondi pubblici, bensì un diverso (e minore) intervento pubblico. Il complemento del titolo dato dall’editore italiano (Azzerare i soldi pubblici per fare rinascere la cultura) è stata una scelta di marketing che ha contribuito a dare maggiore visibilità al libro. Il sottotitolo originale diceva invece: Troppo di tutto e ovunque le stesse cose, che è una forte critica rispetto a quanto comunemente si fa e si crede: lo scrive anche Salvemini (“la domanda di cultura tende ad appiattire l’offerta”). Secondo gli autori di Kulturinfarkt, sono i diffusi sussidi alle istituzioni culturali che hanno appiattito l’offerta. A proposito di categorie ed etichette, è spuntata anche quella di “film Mibac”, proprio perché i film che beneficiano di contributi pubblici sarebbero tutti assai simili.
Sempre dal cinema ci arriva una lezione importante sulle modalità di sostegno alla nostra industria cinematografica: l’introduzione di un sistema più rispettoso dei meccanismi di mercato. I contributi diretti alla produzione oggi ricoprono un ruolo marginale, avendo lasciato il campo a incentivazioni di natura fiscale. È il mercato che fa emergere nuovi finanziatori, i quali decidono quanto investire sui singoli progetti. Visto che le risposte a tali incentivi sono buone, si può anche affermare che lo Stato funga in molte occasioni da “tappo”. D’altronde, lo stesso fenomeno lo si può vedere, replicato su scala molto più grande, negli Stati Uniti, dove gli sgravi fiscali producono un corposo mercato delle donazioni, anche per la cultura. Il principio è molto semplice: lo Stato non si preoccupa di intermediare i finanziamenti alla cultura. Le istituzioni culturali, in questo modo, attingono le loro entrate sia dai ricavi generati dalle loro attività principali che dalle donazioni. Ciò ha inevitabilmente delle conseguenze in termini gestionali, che poi sono quelle (positive) messe in evidenza da Miglietta: “visione strategica aperta, autonomia e discrezionalità della gestione, procedure snelle per ridurre i rischi, creatività nei comportamenti e incentivazione economica rispetto ai risultati perseguiti”.
L’innovazione non è un tema secondario. Appellarsi ancora al morbo di Baumol può apparire pertanto un poco anacronistico. L’utilizzo della tecnologia, come ha fatto il MET di New York, favorisce la diffusione degli spettacoli dal vivo, aumentando i fruitori e di conseguenza i ricavi. Occorre interrogarsi sul perché sia stato il MET a distribuire via satellite nei cinema di tutto il mondo la propria stagione operistica e non una fondazione lirico-sinfonica italiana (ad esempio quello che forse è il teatro d’opera più famoso del mondo: la Scala). Il motivo, molto probabilmente, risiede nei modi in cui sono organizzate le istituzioni culturali e in cui si articola l’intervento pubblico. Capire come utilizzare la tecnologia a disposizione è una delle grandi sfide che occorre saper cogliere: ci sono forme di governance e “cornici” istituzionali che favoriscono l’utilizzo di tale input nella produzione culturale?
La stessa domanda è estendibile anche al patrimonio culturale. Evidentemente il caso Pompei riassume tutte le inefficienze di una gestione pubblica “all’italiana” di un sito culturale. La gestione “diretta” da parte dello Stato non ha prodotto brillanti esiti. Prima con la nascita delle fondazioni museali e ora con le “aperture” previste dal decreto musei si cerca di allentare tale controllo stringente e centralizzato con l’introduzione di elementi di autonomia e flessibilità. D’altronde già oggi tanti servizi e attività di valorizzazione (organizzazione di mostre, didattica, audioguide, biglietterie, bookshop, ecc.) sono gestiti da imprese private (spesso for profit): la “privatizzazione” della gestione non pare poi una ipotesi così remota.
Pubblicato su Management notes.it il 9 febbraio 2015
La privatizzazione significa fare diventare la cultura motore di incontro tra le persone e tra diverse culture del MONDO…(in Italia a stento si esce dalla Provincia)…e al tempo stesso creare profitti. Si profitti….occurre usare le parole corrette..e non avere paura di farlo. In italia sembra ancora che eissta quasi una sorta di omerta nell’accostare termini tipici del mercato a qualunque manifestazione della nostra cultura. Anche in Siria la cultura è/era gestita dallo stato…Io non userei proprio il termine “brillante” nemmeno in senso ironico…perche dietro l’ironia ci sta sempre la scappatoia..be proprio brillante no..ma almeno discreto. No, cerchiamo di avere un po di coraggio almeno una volta ogni mezzo secolo..e diciamolo: lo stato è un gestore della cultura FALLITO, CLientelare, incompetente, anacronistico…etc..etc. Sarebbe già molto se assolvesse al compito di controllore e scrivesse delle linee guida, mandando poi in giro degli ispettori a controllare se i Privati che gestisocno la cultura le rispettano.