Meglio tardi che mai: le idee di Biagi di nuovo in Parlamento
Secondo il commando di terroristi delle Nuove Brigate Rosse che lo assassinò barbaramente quattordici anni fa, Marco Biagi era colpevole essenzialmente di una sua intuizione: quella per cui, nella società post-industriale, il confine tra lavoro ‘salariato’ e lavoro ‘autonomo’ fosse ormai un retaggio del passato, una gabbia di formalismi giuridici, in cui a rimetterci per la rigidità del sistema erano proprio gli stessi lavoratori, per non parlare di chi un lavoro nemmeno ce l’ha.
Sembra un concetto ovvio oggi, almeno per molti e almeno a parole. Ma questo concetto, e il proposito di riformare l’intero mercato del lavoro secondo poche norme riferite a diritti universali e inderogabili, rinviando la gran parte delle ulteriori specifiche e tutele alla contrattazione collettiva e individuale, Biagi si propose di tradurli in pratica già allora. Finirono invece annacquati in una legge del 2003, che porta sì il suo cognome ma che non ebbe il coraggio necessario a portarne fino in fondo le idee.
Messe in prospettiva, quelle idee assumono ancora più valore, se si pensa che la “Agenda 2010” – messa in piedi da Gerhard Schroeder per rivoluzionare l’intero sistema di welfare tedesco – venne implementata soltanto un anno più tardi, con i risultati che vediamo ancora oggi: crollo della disoccupazione, tassi di crescita e produttività tra i più alti in Europa, differenza tra disoccupazione giovanile e media che oscilla attorno ai 3-4 punti, contro i 30 dell’Italia.
Chissà come staremmo, oggi, se Biagi avesse potuto portare a compimento il suo progetto di semplificazione, che ha già quattordici anni e più ma resta attuale come non mai. Ed è per questo altrettanto attuale e importante un disegno di legge presentato nei giorni scorsi dai senatori Sacconi, Fucksia, e Berger, che mira ad adottare finalmente – seppur con colpevole ritardo – quel testo unico, quello “Statuto dei lavori”, che Biagi immaginò per superare il dualismo tra fabbrica e professioni, tra autonomia e gerarchia. Per liberare il lavoro dall’approccio ideologico e formalistico che ancora caratterizza il nostro sistema normativo, adattandosi a un mondo in cui le trasformazioni tecnologiche e organizzative, la globalizzazione e i corpi intermedi impongono un passo indietro della politica nel tentativo di cristallizzare e definire rapporti di lavoro in costante mutazione. Un approccio, quest’ultimo, ahinoi non scalfito minimamente dal Jobs Act renziano, il quale – sia pure apportando diverse migliorie al sistema – ha però ulteriormente irrigidito la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.
L’idea alla base del disegno di legge è identificare un nucleo fondamentale di diritti, applicabile a tutti i rapporti di lavoro – pubblici, privati, autonomi, subordinati, associativi, o atipici che siano – che escluda, del tutto e finalmente, il famigerato articolo 18. Fuori da questo nucleo, in cui rientrano anche norme su salute e sicurezza dei lavratori, tutto è negoziabile e delegato alla contrattazione aziendale o individuale, dall’apprendistato alla risoluzione delle controversie.
Paradossalmente, la parte migliore della proposta di legge presentata al Senato è però forse quello che non c’è; e cioè la presunzione della politica di conoscere il lavoro e le imprese di oggi e di domani. Nessuno può prevedere il futuro e il lavoro, purtroppo o per fortuna, non può essere creato per decreto. Per questo hanno ragione da vendere i relatori della proposta, nell’ispirarsi alla diffidenza verso il formalismo giuridico e alla fiducia nell’apprendimento continuo che Marco Biagi intuì essere l’unico motore del lavoro che è e che sarà.
Twitter: @glmannheimer
Unico appunto: se l’azienda sposta parte del rischio di impresa sul prestatore d’opera, quest’ultimo va pagato di PIU’, non di meno. La contrattazione individuale, su questo tema, a mio parere funziona solo per profili altamente specialistici.
Mi devono comunque spiegare cosa ci sia di formalistico e ideologico nel considerare inerentemente di tipo subordinato il lavoro di segreteria o di commesso di negozio..
bha….mi sembra il solito vecchio discorso dell’armiamoci e partite deciso da chi sicuramente non vivrà mai sulla propria pelle il cambiamento che certe decisioni comportano.Tutto bene quando il sistema Paese funziona,è efficiente,l’economia va bene e quindi c’è un vivace mercato tra domanda e offerta imprenditore-lavoratore,ma in una Nazione come l’Italia in una situazione economica di questo tipo credo che si ridurrebbe all’ennesima compressione/eliminazione di diritti per i dipendenti e alla solita guerra tra poveri.Non ti va bene quello che ti offro?guarda,fuori c’è la fila,avanti un altro.Con questo non intendo assolutamente fare una colpa agli imprenditori e neppure voglio esprimere un giodizio morale/etico sul loro operato.Utilizzano al meglio (spero….) le possibilità che il sistema offre loro,cioè in questo caso la possibilità di comprimere i costi agendo sulla leva del salario dei dipendenti .Giusto?Sbagliato?E’ così.A me non piace,non lo ritengo giusto perchè è sempre il lavoratore negli ultimi anni la parte più debole che,se vuole vivere,deve accettare compromessi di ogni tipo per non vedersi soffiare il posto da chi si accontenta più di lui.Giusto per fare un minimo di riferimentomi viene in mente quello che succede nel settore dei servizi,call center,grandi ditte di trasporto e di logistica.Probabilmente anagraficamente appartengo ad una delle ultime generazioni che ha avuto la possibilità di vivere in un sistema sicuramente ridondante e sbilanciato che ha offerto anche troppo per quanto riguarda le tutele e per questo motivo la trasformazione di questo Paese in un sistema all’americana dove chi può ha e chi non può si arrangi e vada pure a fondo mi lascia molta tristezza.