29
Giu
2010

L’ontologia degli oggetti sociali / 2. Di Andrea Gilli

Riceviamo da Andrea Gilli e volentieri pubblichiamo:

Ho letto con interesse l’articolo del prof. Lottieri sull’ontologia degli oggetti sociali. L’analisi merita attenzione per due motivi. In primo luogo, in un periodo nel quale attaccare la finanza porta consensi, Lottieri va coraggiosamente contro corrente, e offre una difesa non convenzionale degli strumenti finanziari incriminati. In secondo luogo, in un dibattito politico e culturale – quello italiano – atrofizzato da schemi concettuali vecchi di settant’anni, Lottieri porta una ventata di novità discutendo di ontologia nelle scienze sociali.

Purtroppo, è però proprio su questo punto che mi trovo in forte disaccordo con il professor Lottieri. Non sono un filosofo. Umilmente mi considero uno studente, che per svago si legge testi di filosofia della scienza. Ho studiato Searle, Berger e Luckmann, Lakatos, Giddens, Kuhn e tutti gli altri per capire prima gli assunti epistemologici e ontologici della mia disciplina e poi, soprattutto, quelli di una sua scuola di pensiero particolarmente in voga nel campo delle relazioni internazionali: il costruttivismo.
Sono partito ben disposto verso gli studiosi costruttivisti. Li ho letti. Non li ho trovati utili. Soprattutto, credo che il loro contributo sia più dannoso che benefico. Spiegherò qui di seguito la mia posizione, e più precisamente come mai non condivido la scelta di Lottieri di affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato.
Partiamo innanzitutto dalla base. Le scienze sociali si possono dividere secondo due grandi logiche. March e Olsen (1985) parlano di logic of consequence e logic of appropriateness. Secondo il primo approccio, gli individui sono consequenzialisti. Sono razionali e quindi mossi dalla volontà di raggiungere un determinato fine (questo è quello che più comunemente viene chiamato l’homo oeconomicus). In economia politica, parliamo quindi di massimizzazione dell’utilità del consumatore o massimizzazione del profitto dell’azienda. In scienza politica parliamo di vittoria alle elezioni, cattura del controllore da parte del controllato, etc. La meta-logica sottostante è cartesiana: le relazioni umane sono regolate da leggi oggettive che valgono nel tempo e nello spazio. La tecnologia sia fisica (tecnica) che sociale (internazioni umane) può aumentare l’intensità o il raggio d’azione di questi meccanismi, ma non può alterarne la logica, che infatti resta immutata. L’incrocio tra domanda e offerta, dunque, tende a portare i prezzi in equilibrio sia nell’antichità che oggi (Friedman, 1963), così come la concentrazione di potere in una sola unità politica porta alla formazione di schieramenti anti-egemonici (Waltz, 1979; e Snyder, 2002). Compito dello studioso è dunque identificare queste leggi universali.

La seconda logica, quella dell’appropriateness diparte completamente da questi assunti e giunge a postulati completamente differenti. Il punto di partenza è che gli individui non sono consequenzialisti. Sono animali sociali il cui comportamento è guidato dalle norme condivise del loro ambiente esterno. Non c’è una cosa come l’individuo. C’è la società che prescrive i comportamenti da seguire. È chiaro che negare queste intuizioni sarebbe banale. Chiunque sarà d’accordo nel sostenere che la società nella quale un individuo vive influenza il suo modo di pensare e di agire. Vi sono però almeno tre domande, alle quali il costruttivismo non risponde in modo esaustivo ed esauriente: in primo luogo, quale è lo spazio dell’individuo? Inoltre, fino a che punto le norme sociali non sono in contraddizione con i vincoli materiali ai quali gli individui sono sottoposti (e, dunque, con una teoria dei vincoli)? Infine, fino a che punto le norme sociali non sono il semplice prodotto di fattori materiali.

Il primo problema è etico-metodologico. Se noi assumiamo che il comportamento degli individui sia dettato dalle norme sociali dei contesti nei quali questi vivono, allora eliminiamo la volizione (quello che in scienza politica anglo-sassone si chiama “agency”). L’analista, in questo caso lo scienziato politico, si pone dunque al di sopra degli altri (con arroganza) e si dice in grado di interpretare quello che essi fanno. Si badi bene: l’analista costruttivista non spiega, ma comprende (Hollis and Smith, 1991). Mentre uno studioso positivista ritiene che gli attori siano dotati di ragione e il suo scopo sia spiegare le loro ragioni, lo studioso costruttivista crede di essere il solo a capire la realtà, e dunque debba spiegare il comportamento pecorile degli individui. La ragione è epistemologica: il positivista crede che vi sia una realtà oggettiva che va analizzata e spiegata. Il costruttivista crede nell’interpretazione intersoggettiva. La realtà è creata e ricreata dalle pratica delle relazioni sociali: domanda e offerta non sarebbero altro che costrutti sociali in grado di guidare la realtà. Questi costrutti però, in sostanza, non esistono. Le conseguenze sono molteplici. Tralasciamo quelle morali, perchè sono evidenti. Secondo la logica costruttivista gli individui non sono consequenzialisti. L’implicazione più evidente emerge quando si pensa al mercato, probabilmente la più importante e più potente istituzione sociale create dall’uomo. Se Searle (citato da Lottieri) ha ragione, allora il mercato funziona perchè gli agenti economici credono che esso funzioni, non perchè è il sistema di allocazione delle risorse più efficiente tra quelli disponibili. E infatti questa è la conclusione accettata dai costruttivisti: il mercato – che per loro è una costruzione sociale – esiste perchè qualcuno ci ha convinto che esso funziona. Se la norma sociale legittimata fosse il sistema pianificato, anche questo funzionerebbe.

Il secondo problema è di teoria sociale. L’assunto di razionalità in economia come in scienza politica è, appunto, un assunto: una semplificazione. Gli individui possono tranquillamente essere irrazionali. L’economia politica è però una teoria di limiti: chi va contro il mercato si brucia le dita. Un approccio costruttivista, dunque, non sostituisce uno positivista. Al massimo, aggiunge qualcosa di marginale. Il problema del costruttivismo, però, è la sua epistemologia. Non ci sono fenomeni ricorrenti nel tempo e nello spazio, ma invece questi sono il prodotto di come la realtà è intersoggettivamente condivisa tra gli individui. Dunque, se vogliamo capire come mai il regno di Filippo II andò in bancarotta alla fine del 1500, non dobbiamo analizzare fenomeni come l’inflazione monetaria, i deficit nelle partite correnti o la bassa produttività. Piuttosto, dovremmo guardare alla legittimità del suo regno e alle norme esistenti tra i banchieri del tempo. In altri termini, la causa va ricercata non in fattori oggettivi ma in fattori intersoggetivi: l’interpretazione collettiva della realtà. Ad una differente interpretazione intersoggettiva della realtà corrisponde una diversa realtà sociale. Allo stesso modo, per comprendere la crisi di oggi, dovremmo comprendere il modo con cui gli attori finanziari concettualizzano il mercato, e come questa concettualizzazione guidi i loro comportamenti. Non, invece, cercare di analizzare i loro sistemi di incentivi e come questi influenzino i loro calcoli. Difatti questo è quello che una branca della international political economy sta facendo: la diffusione del liberismo nel mondo non sarebbe dovuta al fatto che funziona, ma invece al fatto che gli attori chiave sarebbero socializzati (leggi: abbagliati) da questa ideologia (Chiewroth, 2007, 2009; Sinclair, 2003). Gli unici che capiscono come stanno realmente le cose sono, ovviamente, i soli costruttivisti. Gli unici, si badi la contraddizione, che riescono a sfuggire alla rete possente della socializzazione delle idee.

Questa discussione ci porta al mio ultimo punto: l’influenza dei fattori materiali su quelli sociali. Le norme sociali esistono: è evidente. Ma da dove nascono? Per esempio, il bando sul prestito ad interesse che la Chiesa ha tenuto in piedi per diversi secoli: da dove viene fuori? Secondo una logica costruttivista bisogna guardare alle norme sociali della Chiesa e ai suoi valori solidaristici e a come questi fossero condivisi intersoggettivamente tra tutti gli attori del tempo. Possibile. Ma quanto è credibile un tale quadro di fronte ad una Chiesa che riceveva emolumenti da mezza Europa per rafforzare il suo regno? Ad una una Chiesa che rafforzava il suo esercito ed edificava su tutto il continente? Da un punto di vista di political econonomy, la spiegazione è molto più semplice (e intuitiva): prestito ad interessi significano crescita economica, crescita economica significa nascita di attori economici, poi sociali e infine politici. La nascita di attori politici implica l’emergere di possibili sfidanti al potere ecclesiastico. Mettendo un bando morale sul tasso di interesse, la Chiesa ha rafforzato il suo potere politico materiale. Dunque, dietro ad una posizione morale c’erano solidi fattori materiali. Il lettore può autonomamente decidere quale delle due spiegazioni sia più credibile.

Ciò vale, allo stesso modo, per quanto riguarda la finanziariarizzazione dell’economia, e qui arriviamo al mio diasccordo con quanto scritto dal professor Lottieri. I prodotti finanziari sono sempre più complicati, astratti e invisibili. Ma esistono. L’esistenza di questi prodotti non si deve tanto al loro valore sociale o alla condivisione intersoggettiva del loro ruolo, ma piuttosto alla loro utilità materiale. Quanto scrive Searle sulla moneta – mi si passi l’espressione – non ha senso: secondo Searle, la moneta non avrebbe assunto il suo ruolo in virtù delle funzioni che essa svolge (riserva di valore, mezzo di scambio, unità di conto), piuttosto per via di norme sociali. Vale a dire, se le norme sociali fossero state diverse, oggi potremmo usare i cammelli anzichè la moneta. Analogamente, l’URSS potrebbe essere il modello dominante se solo fosse diventato legittimo… Insomma, tutto sarebbe possibile, se solo le norme e la cultura lo credessero tale.

Ho molta stima per il prof. Lottieri. Ritengo però che affidarsi al costruttivismo per difendere i mercati finanziari rischi di portare più danni che benefici. La positive political economy ci dà sufficienti strumenti per spiegare la realtà. La realtà esiste, è il prodotto di incentivi e vincoli ai quali gli attori rispondono. Se pensiamo che la realtà sociale sia costruita,il passo è troppo breve per finire con Berger e Luckmann dove la realtà intera è socialmente costruita. Ciò significa che la battaglia delle idee non è più una battaglia basata su fatti reali (il libero mercato funziona, la pianificazione centralizzata no), ma una battaglia ideologica in cui ogni tipo di proposizione è validea, in quanto mira a creare norme mutualmente condivise che creano una realtà intersoggettiva.

Secondo questa logica, infatti, il mercato non è il sistema più efficace ed efficiente per produrre e distribuire ricchezza, ma un costrutto sociale storicamente determinato, che si riproduce attraverso la socializzazione degli attori alle sue norme. A dominare non sono domanda, offerta e prezzi, ma la socializzione di questi concetti tra gli attori. Con norme sociali diverse, avremmo quindi sistemi economici diversi ma pur sempre in grado di funzionare: perchè cosa conta non sono i fattori materiali ma la condivisione intersoggettiva della concettualizzazione della realtà. Tradotto: se una società ignora il concetto di produttività marginale, allora nella realtà, gli effetti della produttività marginale non si riscontrano. Le liberalizzazioni della Thatcher e di Reagan, secondo questa prospettiva, non furono la risposta necessaria all’inefficienza delle politiche keynesiane degli anni ’70 ma invece il frutto della socializzazione dei policy-makers alle nuove idee monetariste. Per i costruttivisti, se Friedman non ci fosse mai stato, avremmo ancora economie keynesiane e, si badi, in perfetto funzionamento: perchè nessuno sarebbe stato socializzato all’idea che alte tasse e alta spesa pubblica portino, nel lungo termine, a minore crescita economica.

Ma il problema vero del costruttivismo è ancora un altro: ed è quello etico-politico. Se con la teoria positivista nelle scienze sociali, il compito dello studioso è quello di spiegare i meccanismi oggettivi della realtà, con l’approccio post-positivita (logic of appropriateness), il compito del ricercatore diventa quello di capire come il genere umano concettualizza intersoggettivamente la realtà. Il passo successivo, che tutti i costruttivisti fanno, è ovvio: cercare di alterare questa concettualizzazione per promuovere la loro visione del mondo. Ecco perchè, per esempio, i costruttivisti ci spiegano la base sociologica e non oggettiva dell’economia di mercato: perchè l’obiettivo è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunmente non funziona, possono invece funzionare. Basta che ci sia una comprensione intersoggettiva che accetti tutto ciò come legittimo. Se la moneta è un costrutto sociale che funziona, allora qualsiasi altro costrutto sociale può funzionare.

Gary Becker ha mostrato la fallacia della sociologia. Credo che sia stato un grande passo in avanti nelle scienze sociali: l’abbandono di modelli tautologici e non falsificabili per una scienza della società. Non vedo proprio motivo per tornare indietro.

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6 Responses

  1. Lorenzo (della Badia)

    Andrea, sono in disaccordo su tutto. Tocchi molti punti e il tuo post meriterebbe una più ampia risposta e magari una discussione faccia a faccia. Lasciami però notare che ci vuole un bel coraggio per scrivere oggi, nel 2010, a tre anni dalla più grande crisi economica del nostro tempo, che l’obiettivo dei costruttivisti “è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunemente non funziona, possono invece funzionare”?! Ma cavolo, è proprio quello che economisti neoclassici e i loro emuli politici stanno facendo! Ci vogliono far credere che stato minimo, deregolamentazione dell’economia e tutto quanto oggigiorno non funziona, possono invece funzionare! Questa è ideologia ed è molto più pericolosa di quella portata avanti dai costruttivisti in relazioni internazionali, perché crea dibattito anche al di fuori dell’università e dà corpo alle politiche pubbliche dei nostri governi.

  2. marco

    Secondo me il pezzo non risponde affatto a Lottieri. Non credo che lottieri intendesse “affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato”. Credo piuttosto che utilizzasse Searle per spiegare l’avversione di molti ad alcuni strumenti della finanza. Non cercava di certo un nuovo statement per fondare il libero mercato…

  3. Andrea fa molto bene a metterci in guardia dai pericoli del costruttivismo. Non credo però che nello spontaneismo lottieriano (ma sarà lui a rispondere meglio di quanto sia in grado di fare io) possa ravvisarsi alcuna forma di costruzione della realtà sociale. Viceversa, nel positivismo, quello di marca efficientista, è spesso individuabile una componente non trascurabile di costruttivismo, come mi pare traspaia dal mio ultimo articolo qui sotto.

    Saluti
    GB

  4. Oltretorrente

    La tua è poco più che una caricatura del costruttivismo sociale. Al di là della confusione che fai tra i costruttivisti postmoderni e quelli positivisti (gli americani, per semplificare), attribuisci a questi ultimi un’arroganza intellettuale che in realtà hanno in misura molto minore rispetto ai loro rivali (specialmente i razionalisti). Ti riferisci a un costruttivismo un po’ ‘naif’ (tutto è costruito) che in realtà forse non è mai esistito. Solo un cretino negherebbe i vincoli materiali, l’origine materiale di molte norme ecc., ma il punto è spiegare come le norme e gli elementi materiali interagiscono, e questo è quello che molti costruttivisti oggi cercano di fare.
    Parli di mercato come una dinamica in cui i costrutti non entrano per niente. Ma per funzionare il mercato ha bisogno dell’accetazione di certe norme (tipo che non si va in giro a picchiare la gente e a rubargli il portafogli) nella società, perchè lo stato da solo non potrebbe arrivare dappertutto a sanzionare ogni violazione. Cos’è questo se non un costrutto? Hai menzionato la finanza. Certo, ci sono elementi materiali e razionalisti, ma ci sono anche elementi puramente immateriali tipo il panico dei mercati che possono incidere fortemente sui mercati stessi.
    Infine la questione dell’agency: in primo luogo, dov’è l’agency del razionalismo? In secondo luogo, una delle basi del costruttivismo è la logica della costituzione reciproca tra agenti e strutture, quindi la superiorità delle ultime sulle prime è una cosa che ti stai inventando tu (oppure appartiene al costrutivismo naif a cui ti riferisci).

  5. Pietro M.

    Ho come l’impressione che si stia parlando di cose diverse e per niente affatto incompatibili.

    Il prof. Lottieri critica la teoria del valore come frutto del lavoro materiale, di fatto, idea alla base dell’economia moderna, compreso il citato Friedman, visto che è la base della microeconomia: gli agenti valutano in funzione della loro funzione-valore, non in funzione del valore-lavoro, se così si può dire.

    Questo articolo invece cosa critica?

    1. L’idea che la realtà non esista
    2. L’idea che le leggi scientifiche non esistano nello studio delle società umane
    3. L’idea che gli individui scelgano.
    4. Che le politiche economiche funzionano o meno a seconda di quanto si creda, o meno, nella loro efficacia.

    Queste idee sono ridicole e non ci sono dubbi che lo siano: se Searle, che non ho letto, ha detto cose del genere, tanto peggio per lui. Di certo le scienze sociali sono state vittima delle peggiori idiozie e non mi stupisco di nulla: magari la sinistra deve in qualche modo reagire alla sua bancarotta intellettuale, possibilmente distruggendo l’idea stessa di scienza e cultura.

    Ma che c’entra tutto ciò con la tesi di Lottieri? Si sta confondendo il soggettivismo – teoria secondo cui il valore deriva dalle preferenze individuali (e quindi la moneta-banconota non deve il suo valore alla carta di cui è composta) con il costruttivismo (secondo cui la moneta è una costruzione sociale, al contrario di ciò che dicono Menger, Mises, Hayek…).

  6. Carlo Lottieri

    Qualche considerazione, molto brevemente, perché sono questioni davvero difficili e forse questo non è lo spazio più adeguato per simili confronti (“mea culpa”, ad ogni modo 🙂
    Condivido in larga misura le preoccupazioni di Andrea Gilli: in particolare, sono d’accordo con lui in merito al fatto che l’adesione a un’epistemologia relativista (ho ancora in mente alcune straordinarie lezioni di Raymond Boudon su tali temi) possa avere conseguenze davvero negative, anche sul piano etico-sociale. Non sono però persuaso che questo tipo di critica colga il segno di fronte agli studi di quanti si occupano di ontologia degli oggetti sociali.
    Fin dal titolo, vi è una differenza rilevante tra il volume di Berger-Luckmann e quello di Searle, perché una cosa è riflettere sulla costruzione sociale della realtà (che per certi aspetti è quasi un ritorno a Fichte: all’Io che crea il mondo) e la costruzione della realtà sociale. Lo sfasamento spaziale dell’aggettivo “sociale” è molto importante, perché negli studiosi che sono all’origine della nuova ontologia che si occupa delle “promesse”, dei “contratti” o della “moneta” non c’è necessariamente una riproposizione dello storicismo.
    Come spiega un importante ontologo italiano, Maurizio Ferraris, “se crediamo che tutto è costruito socialmente, perdiamo un pezzo importante della realtà in cui viviamo; ma lo perdiamo anche se crediamo che tutto possa essere ridotto a componenti atomiche elementari”.
    Recuperando lezioni classiche – da Aristotele a Wolff, da Brentano a Husserl, a Reinach – la nuova ontologia formale si avvicina alle istituzioni per cercare di cogliere la dimensione oggettiva di realtà che pure sono state generate, quanto meno nelle loro specifiche determinazioni, da atti individuali. Si tratta di comprendere le caratteristiche essenziali di quell’universo assai complesso – immateriale, ma non per questo irreale o arbitrario – che è l’ordine sociale.
    Un’ultima considerazione. Un autore che sicuramente si colloca in questa tradizione è proprio Bruno Leoni, che con la sua teoria della pretesa (l’atto individuale del pretendere dagli altri specifici comportamenti: il rispetto di un impegno sottoscritto, la rinuncia a usare la violenza, ecc.) ha cercato di elaborare una riflessione categoriale sul diritto e sulla sua origine. E Leoni aveva un’idea molto solida del rapporto tra conoscenza e scienze sociali, e anche un’impostazione filosofico-politica assai liberale.

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