L’ultima di Krugman, una boiata pazzesca
Vale la pena della lettura, il saggetto di Paul Krugman sul New York Times Magazine. È una sintesi paradigmatica delle più clamorose forzature e scemenze alle quali possa spingersi la caricaturale volgarizzazione della scuola in cui ci riconosciamo, da queste parti. Poiché gli era capitato di affermare che la scuola di Chicago ormai era roba da Medioevo oscurantista, l’amara marcia indietro rispetto a tante conquiste del pensiero amaramente ottenute, finalmente Krugman si sente in dovere di spiegare per esteso la sua verità. Paradossalmente ma non troppo, è un’articolessa che parte da toni e domande pressoché tremontiani, chiedendosi come mai l’economia si sia ridotta al nulla capire se non ex post. Lo sviluppo della sua tesi purtroppo avviene con toni e concatenazioni tali da piacere con facilità al lettore sprovveduto. Come sempre capita, la letteratura satirica si legge meglio e più di gusto di quella seria. Eppure anche Krugman, alla fin fine, deve ammettere che i neokeynesiani non ci hanno capito un’acca.
Da Adam Smith a Eugene Fama, da Bob Prescott a Bob Lucas, da Casey Mulligan a John Cochrane – tre di questi mi sono stati maestri – Krugman si diverte a dare del pensiero di tutta una descrizione canagliesca, totalmente coerente al pregiudizio che la sinistra liberal ne nutre da sempre, e che oggi riesplode violento. Dagli anni Sessanta in poi, dice Krugman, grazie all’influenza iniziale di quel Milton Friedman che egli spaccia praticamente per keynesiano – non riesce a dirne male – anche se fiscalmente conservatore, la macroeconomia negli USA è entrata sempre più in una notte del pensiero, grazie a quella che lui presenta come una banda di spacciatori di bubbuole per i quali la disoccupazione era praticamente un fenomeno volontario dovuto a scansafatiche, i mercati erano perfettamente in grado di autoequilibrarsi, gli attori del mercato perfettamente razionali.
Queste tre cialtronerie sono la più classica e selvaggia messa in berlina di tesi di Chicago che nulla hanno a che vedere con tale diffamante messa in berlina: l’inutilità degli sforzi fiscali contro il tasso di disoccupazione naturale, il Capital Asset Pricing Model, la teoria del prezzo-che rispecchia-l’informazione di Fama. Krugman lo sa naturalmente benissimo, ma per il grande pubblico sciabola fesserie del tipo: “Mundell stava allora all’Università del Minnesota, pensate da quale pensatoio provengono queste frescacce”, mentre naturalmente Princeton, Harvard e MIT neokeynesiane sono l’unica culla di civiltà; Mankiw, Blanchard e Romer gli unici resistenti in nome di Keynes contro le forze del male.
E tuttavia… anche Krugman deve ammetterlo, che i neokeynesiani non avevano dato alcuna importanza alla finanza ad alta leva che finiva per drogare il meccanismo di trasmissione monetaria. “Una disattenzione che ora deve finire”, pontifica quatto quatto. Peccato che la crisi venga di lì, e dalle politiche monetarie lasche che Friedman avversava. Potrà piacere sino alla morte il tax and spend keynesiano a Krugman, ma questa ammissione en passant lo consegna definitivamente a una forma di avanspettacolo alla Bagaglino. Un Grillo dell’economia, un Travaglio dell’accademia. Prosit.
Buongiorno egregio Dr. Giannino a seguito del suo interessante articolo, mi è sorto più di un dubbio sulla posizione di Milton Friedman in materia di Grande Depressione e nel confronto con le politiche attuali obamiane.
Mi scuso per il lungo commento che lascio qui preventivamente e dato che non sono un esperto in materia in ambito economico pur informandomi e basandomi sul confronto culturale sulla rete tra scuole economiche liberiste differenti come pensiero può darsi che possa citare/riferire informazioni apprese e da me espresse in termini incompleti o grossolani.
Premesso che Keynes e i suoi seguaci come Tremonti e Krugman sono dei perfetti clown circensi, premesso che la crisi attuale è dovuta al consociativismo tra la finanza e la politica, in particolare il ruolo della banca centrale americana nella concessione di facili somme di denaro alle banche (a tassi d’interesse scandalosamente bassi), premesso quindi che la crisi attuale come dice Mingardi giustamente, non è colpa del mercato ma della cattiva politica statalista e “bottegaia” che torna addirittura paradossalmente a promuoversi come messianica soluzione a cause e problemi da essa stessa consociativamente costituita.
Vorrei ben capire se veramente l’ambito monetarista friedmaniano, e in particolare l’idea dell'”elicottero friedmaniano monetario” (di cui Bernanke attualmente è divenuto una caricatura negli Usa), non possa essere in parte causa se non di tale crisi, per lo meno delle discutibili iniziative prese in questi mesi dalla Fed obamiana nel tentativo di risolverla (e quindi del suo aggravamento come pare lecito dubitare) proprio in chiave friedmaniana.
Dato che la scuola anarco-capitalista rothbardiana e quella austriaca di Mises hanno sempre giudicato Friedman Milton un tipo sinistro e più o meno in modo esplicito un socialistoide; non avendo letto l’articolo di Krugman posso intuire però che alcuni liberisti di scuola austriaca non disdegnerebbero tale categorizzazione dell’uomo di Chicago (aldilà dei suoi pregi libertari in altri ambiti, fuorchè in economia come direbbe Rothbard), nonostante la visione comunque grottesca e di per sè ridicola delle tesi di fondo del columnist neokeynesiano del Ny Times.
Nella “Grande Depressione”, Friedman accusa la FED di un iniziale mancato intervento tempestivo.
Sulle politiche dei tassi di interesse a livello fiscale e monetario Milton parla di un loro erroneo successivo incremento, a danno della liquidità disponibile di denaro che secondo lui doveva essere garantita diminuendoli (non solo le tasse ma anche i tassi di interessi); arrivando anche a proporre il blocco del ritiro del denaro dalle banche da parte dei risparmiatori!!!; come azione delegata alla banca centrale.
Il che sembrerebbe farlo propendere verso una paura più verso il rischio di deflazione dei prezzi che di inflazione e di eccesso di interventismo della Federal.
Questa è forse l’accusa principale austriaca sul monetarismo friedmaniano: il voler privilegiare l’inflazione dovuto ad un eccesso di sovraesposizione monetaria (“stampa-stampa”), con conseguente svalutazione della moneta stessa controproducente (al massimo!).
Il che stando a quanto si legge e si sente tra i conservatori fiscali e gli economisti liberisti “austriaci” statunitensi è proprio il rischio in cui sta per incorrere il dollaro obamiano nel prossimo futuro: svalutazione e iperinflazione.
L’immissione di denaro in eccesso tende di per sè ad essere una misura che riduce il potere di acquisto dei salari e ovviamente tende ad essere sogno marxista di distruzione del denaro attraverso il denaro operato ed espresso più volte dallo stesso Keynes.
Quindi se ho ben capito per Friedman era preferibile, una volta purtroppo iniziato ahimè, lo sciagurato (ma per lui tardivo) intervento federale, lasciare i tassi a zero (continuando a fornire implicitamente denaro per affari anti-economici in regime di normale mercato spontaneo attraverso la banca centrale anche mediante salvataggi alle aziende e ridistribuendolo ai consumatori per pratiche di uso del denaro pubblico) per evitare solamente gli effetti della depressione a lui più pericolosi: il problema della deflazione (un falso problema secondo gli austriaci dato che ciò favorirebbe i consumi senza colpire il valore del denaro).
Ma così facendo la “trappola della liquidità” ha costituito la premessa per un aumento di denaro pubblico in circolo (ergo inflazione), che è lo stesso che sta fornendo Obama-Fed in questo periodo a tutto il comparto economico-finanziario-industriale a suon di incremento del debito pubblico pauroso senza neppure la copertura equivalente in oro nelle casse.
Le teorie monetariste quindi sarebbero similari indirettamente a quelle keyneisiane basandosi su due modelli interpretativi certamente differenti, ma tendenti a vedere nella presenza della moneta sul mercato un fattore decisivo analogo per l’attività economica e la sua crescita (in particolare sulla domanda keynesiana e sull’offerta friedmaniana) dei consumi.
Ergo entrambi i modelli puntano all’inflazione, come dati contingenti necessari (Keynes) o emergenziali (Friedman) atti a costituire la soluzione e la risposta ad una crisi finanziaria per la ripresa.
L’unica vera differenza tra Friedman e Keynes, sarebbe nell’imputazione dei veri responsabili del fallimento (il governo per Milton; il mercato per Keynes), quindi un vizio di forma procedurale, più che un vizio capitale a priori se vogliamo ben vedere.
Il punto è che il fallimento del governo per Friedman, sta più in un difetto di interventismo (e per come è intervenuto o avrebbe dovuto intervenire) dopo una mancata tempistica ad hoc; più che in una sua disamina impietosa di incapacità a priori di risolvere la crisi da parte dei Governi.
E ciò non può certamente essere considerata una considerazione azzeccata e lucida dato che molto facilmente si può trasformare o tradurre il mancato intervento tempestivo nel mercato della moneta, ergo in un implicito invito al controllo di essa da parte dello Stato con conseguenze “mugabiane” o “alla Weimar” già viste nel passato anche recente e forse pure nel caso americano futuro.
E quindi la moneta stessa come un industria di signoraggio e monopolio statale a danno della proprietà dei privati e di altre forme di pagamento è in sostanza la visione consigliata da Friedman implicitamente e avversata senza mezzi termini dagli austriaci.
Le segnalo i seguenti articoli di due siti affidabili per liberismo e note sulla questione Friedman e crisi attuale e Friedman e scuola austriaca:
http://www.reason.com/news/show/135804.html
http://mises.org/story/2442
Spero di non averle fatto perdere del tempo e la ringrazio per il tempo a lei concessomi.
Attendo fiducioso una sua risposta.
Saluti LucaF.
Ma quale perdita di tempo, è solo un piacere potersi confontare tra noi su questi temi.
La faccio molto breve: NOn c’è alcun dubbio che le tesi di Friedman nell’analisi della Grande Depressione NOn partissero dal free banking austriaco, ma esclusivamente dal punto di vista di un’analisi realistica degli strumenti di regolazione monetaria e di poltica fiscale allora esistenti. Di conseguenza, se ha letto la sua Storia della politica monetaria in cui analizza a fondo gli errori della Grande Depressione, risponde ad assoluta verità che MF fosse assolutamente a favore della più energica risposta alla crisi in termini di massimizzazione dell’offerta monetaria – e poer questo piace ai keynesiani. e che criticò a fondo l’errore di invertire prima del tempo il segno della politica monetaria. ma la differenza di fondo che lo rende irriducibile a keynes, checché chiunque possa dire, è che era contrario sia precrisi che dopo crisi alla massimizzazione del ruolo dello Stato e ai picchi di spesa pubblica. a differenziarli non è affatto un vizio procedurale, come dici, sull’nalisi del fattore originante della crisi: è una concezione totalmente diversa del ruolo delle poltiche fiscali e di bilancio ai fini del ciclo. Dopodichè vi sarebbero innumereovli altri aspetti da sottolineare, pe rle differenze tra i due, a cominciare dalla nota polemica sul “risparmio stupido” che Keynes odiava e Friedman no. Per venire a oggi, mi stupisce poco che i keynesiani tentino di spacciare Friedman per mezzo sangue loro. ma è un tentativo che va respinto. Come ho scritot in precedenti post, MF oggi NOn criticherebbe la FED di BB per i suoi tassi. Ma sarebbe stato contrario all’idea “nessuno fallisce”. E dubito assai che sarebbe favorevole alle operazioni suimercati della FED attraverso i quali da marzo in vanti si continua a sostenere il prezzo degli asset finanziari, anche se questa politica ha il fine di non far mancare un congruo cuscino di capitale alle aziende, diminuendo l’effetto patrimoniale delle svalutazioni colegate alla massiccia ristrutturazione del debito che è necessaria
Oscar, non so se MF criticherebbe o meno a FED di Bernanke per i suoi tassi. Il libro di Wessel (In Fed We Trust) gioca attorno alla “promessa” fatta da Bernanke a Friedman e Schwarz (“voi avevate ragione, noi abbiamo causato la grande depressione, ma ora abbiamo capito come si fa”) e si chiede se Bernanke l’abbia “mantenuta” o meno. La Schwartz pero’ ha reso chiaro in piu’ di una occasione di considerare che Bernanke stia combattendo la guerra sbagliata: http://online.wsj.com/article/SB122428279231046053.html .
Ringrazio sia Mingardi che Giannino per le esaurienti risposte sull’argomento, resta comunque l’icognita in M. Friedman a mio parere sul fatto che pur essendo un liberista ha difficoltà a conciliare la prevenzione di una crisi depressiva (affidando il controllo del valore della moneta a tassi bassi alla banca centrale come sua azione basilare) con l’esigenza poi di evitare a seguire, eccessi di spesa pubblica superiori alla richiesta di ciclo da parte di questa e del Governo.
Chi controlla il controllore?, secondo Friedman chi lo blocca da ulteriori interventi inutili?, come si può considerare la realizzazione a termine “naturale” della ciclità negativa della crisi rispetto a quella iniziale dovuta all’intervento inutile e “artificiale” della Fed a seguire?.
Inoltre il fatto che lui volesse l’intervento bancario di blocco del ritiro del denaro soldi, come forma auspicabile di promozione del risparmio può risultare un pò surreale a fronte dei tassi a 0 e dell’intervento della Fed stampa-stampa.
Ma la Schwartz non è divenuta con il tempo neokeynesiana, quindi può darsi che da quello derivi anche il tentativo di Krugman e soci di spacciare la teoria della Grande Depressione di Friedman e Schwartz per Keynesismo, come un “abito nuovo”, vedere articolo Reason segnalato (aldilà della diffidenza della scuola austriaca su MF)?.
C’è da dire che però aumenti costanti delle spese statali e del debito pubblico americano sono avvenuti in seguito anche in epoca reaganiana, come giudicano anche oggettivamente i libertari americani in ambito militare e assistenziale (aldilà del pacifismo o del non interventismo da questi espressi) a livello statistico di cifre.
Certo nulla di paragonabile alla fase obamiana, ma come espresso dall’articolo del Mises Institute, Friedman ha dichiarato un alternanza di giudizi alquanto contradditori sulla spesa pubblica (di Stato) e sul risparmio (dei cittadini contribuenti).
Mi pare ovvio che se lo Stato continua a spendere (anche tassando), il risparmio dei cittadini non si realizzi.
Inoltre anche sul buono scuola, la forma ridistributiva si viene realizzando pur sempre in chiave processual-contributiva statale, non volontaria (resta la scelta, se ovviamente c’è l’offerta effettiva) ma le due cose anche qua sono distinte e non sempre chiaramente.
Saluti LucaF.
Torno sull’argomento M. Friedman vs Rothbard in quanto sul sito del Mises.org è stato proposto un articolo illuminante in merito alla critica monetarista da parte della scuola austriaca ai tempi della Grande Depressione.
Ecco il link della segnalazione:
http://mises.org/story/3689
“Forse Friedman non basta più!” per dirla “alla Facco” per una analisi liberista ancor più lungimirante e distante dalle tendenze accusatorie e dalle critiche inutili di Krugman & Co.
Saluti LucaF.
Chi Friedmann, la scuola di chicago??? haaa ho capito….gli anarco-capitalisti per le loro tasche…. Fin quanto tutto va a gonfie vele si blatera che lo stato è il peggiore di tutti i mali e che andrebbe eliminato, poi appena la situazione si fa un pochino ingarbugliata eccoli sti signori pronti a fare la fila davanti alla cassa dello stato, all’ improvviso diventano tutti dei fedeli di San Keynes, c’è chi ha spergiurato su sua madre pur di dimostrare che da sempre era un Keynesiano:).
Troppo facile belli, volevo vederli sti anarco-capitalisti della domenica se con questa crisi non ci fosse stato uno stato o uno stato che se ne fosse fregato delle stronzate frutto di 20 di liberismo senza regole…