L’ordinanza “anti-Uber” e il dado del legislatore
È la fine di Uber in Italia? A leggere della decisione del Tribunale di Roma, parrebbe proprio di sì. È stato infatti ordinato il blocco, entro 10 giorni, dei servizi “Uber Black” offerti dal gruppo Uber in Italia. Si tratta dell’epilogo più drastico possibile, che segna l’espulsione, per via giudiziaria, dell’ultimo servizio di Uber ancora consentito nel nostro Paese. Nell’ordinanza si legge che gli autisti delle “berline nere” Uber sarebbero soggetti attivi di una condotta di «concorrenza sleale», ai sensi dell’art. 2598 comma 3 del nostro Codice Civile. In un primo momento, si è avuta l’impressione che questa slealtà derivasse dalla possibilità che Uber ha di “fare prezzi più competitivi” rispetto ai tassisti, dal momento in cui i suoi autisti non sono tenuti a tariffe amministrativamente predeterminate.
Ma, in realtà, ci si è resi conto che questo punto è solo “secondario”: il Tribunale ha, infatti, fondato su ben altre (e ben più “gravi”) basi la propria decisione. La ritenuta condotta di concorrenza “sleale” non è stata individuata tanto nella possibilità di praticare prezzi “più competitivi”, quanto nel funzionamento stesso dell’app di Uber. È proprio il servizio di intermediazione offerto da Uber a essere stato ritenuto illegale: per il Tribunale di Roma la legge quadro consente la prenotazione del servizio NCC esclusivamente presso la rimessa di quest’ultimo, mentre l’app di Uber consentirebbe il sorgere del rapporto tra autista e cliente anche fuori dalla rimessa, accedendo quindi al segmento di clientela “indifferenziata” che sarebbe, per legge, riservato al servizio taxi. Ma questo non è vero.
La possibilità esclusiva di prenotazione in rimessa potrebbe derivare solo dall’obbligo, per gli NCC, di rientro e stazionamento al termine di ogni corsa: possibilità che, attenzione!, non è prevista dalla legge quadro del ’92, ma dalla modifica operata dal legislatore nel 2008, la cui efficacia è, però, come noto, da allora sospesa (da ultimo, la proroga è stata ribadita dal contestato emendamento Lanzillotta). La legge quadro del ’92, infatti, quando stabilisce che «l’utenza specifica […] avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta», non si occupa né della posizione dell’auto al momento della prenotazione (l’importante è dove si riceve la prenotazione), né impone che tale prenotazione debba necessariamente avvenire presso la rimessa (non è detto che “sede del vettore” e “rimessa” coincidano). Si tratta quindi di una interpretazione della legislazione vigente che lascia, dietro di sé, molti dubbi (e conseguenze che vanno ben oltre Uber, applicandosi essa, indistintamente, a tutti gli autisti NCC).
Quel che è certo che è una decisione così “ardita” è stata favorita anche dall’incertezza e dell’insostenibilità dell’attuale quadro regolatorio. Da più parti (Commissione Europea, Autorità Antitrust, Corte Costituzionale) si è messa in luce la necessità di rivedere una normativa ormai obsoleta: come scritto altrove, «ormai non si tratta più solo di garantire maggiore concorrenza all’interno del tradizionale servizio di trasporto pubblico non di linea, ma di riconoscere che i suoi stessi confini e i player in esso agenti sono nuovi e diversi». Un intervento legislativo non è più rinviabile: persistendo in questa situazione, si è arrivati al punto paradossale di voler adattare l’innovazione al superato quadro legislativo, anziché adeguare quest’ultimo al cambiamento della realtà. Ma come si può pensare che basti una legge o una sentenza per fermare il tempo? Il dado è quindi nelle mani del legislatore: finché non sarà lui a trarlo, decisioni come quelle dei Tribunali di Milano e Torino (contro UberPop) e ora di Roma (contro il servizio di Uber tout-court) non faranno che moltiplicarsi.