Lo straniero passa (e segna)
La sfida tra Demetrio Albertini e Carlo Tavecchio per la presidenza della Federazione Italiana Gioco Calcio è stata prima di tutto – sarebbe assurdo negarlo – uno scontro tra interessi contrapposti: uno scontro politico nel senso più onesto del termine. Tuttavia, la lettura dei programmi delle rispettive candidature denotava anche profonde differenze sul piano ideale e sotto il profilo dei rimedi di policy all’evidente declino – tecnico, economico, morale – del calcio italiano. Il più significativo tra questi contrasti attiene probabilmente al ruolo dei calciatori stranieri o, più correttamente, extracomunitari – posto che il diritto dell’Unione preclude la discriminazione degli atleti provenienti da altri paesi europei.
Come ha giustamente segnalato Piercamillo Falasca, si trattava di una riedizione della classica diatriba tra liberisti e protezionisti: i primi rappresentati dallo sconfitto Albertini, che avrebbe revocato ogni vincolo geografico, sulla scorta dell’esempio tedesco; i secondi capitanati dal vittorioso Tavecchio, che ha promesso l’adozione di un meccanismo di selezione a monte, in ossequio al modello inglese. Rileviamo sin d’ora un dato paradossale, alla luce di tali premesse: la Premier League è – con la sola eccezione di Cipro – il campionato europeo in cui la rappresentanza internazionale è più rilevante, con il 61% dei giocatori; la Bundesliga si ferma al 44,3%; la Serie A si attesta al 52,5% (CIES Demographic Survey 2013).
Sul Corriere della Sera di sabato 2 agosto, Mario Sconcerti (“Stranieri il nocciolo del problema”) ha illuminato i presupposti dell’opzione protezionistica. L’assioma è che il bene della nazionale italiana coincida con il bene del calcio italiano: «perdendo i risultati della nazionale si perdono i risultati di un intero movimento, cioè soldi, valore, altro mercato». Correlazione opinabile, per dire il meno: perché il campionato più interessante d’Europa, quello inglese, esprime da decenni una nazionale mediocre; perché, viceversa, selezioni di primo piano – come le grandi sudamericane – hanno alle spalle leghe di medio cabotaggio; perché, semmai, il rapporto causale correrà nel verso opposto: nei recenti successi del calcio spagnolo e di quello tedesco, i club hanno avuto il ruolo propulsivo – non il contrario.
Tutto l’apparato argomentativo dell’articolo risente dell’obbedienza a una tesi tanto sbilenca: così, Sconcerti celebra la messe di talenti italiani della metà degli anni ’90, ma lo fa citando rispettabili pedatori (Adani, Pioli, Cravero, Bortolazzi, Manicone…) che l’azzurro l’hanno, al più, assaporato fuggevolmente e che difficilmente oggi vi troverebbero maggior accoglienza; e, soprattutto, trascura che quella generazione ha collezionato tra il 1996 e il 2004, con la sola eccezione degli Europei del 2000, una serie di esibizioni tutt’altro che memorabili. Altrettanto discutibile è il trattamento del calcio tedesco, ansioso, secondo Sconcerti, di «salvaguardare “la razza”» – espressione di per sé infelice, specialmente se riferita a un sistema che ha schiuso le porte della nazionale a cognomi come Özil, Khedira, Mustafi e Boateng. Se è vero che non si è «mai visto un fuoriclasse straniero giocare in Germania», «dove il mercato internazionale quasi non esiste», qualcuno dovrà spiegare come Robben e Ribery siano sbarcati in riva all’Isar e come sia accaduto che otto dei migliori marcatori dell’ultima Bundesliga fossero foresti.
Quando si considera il livello di apertura internazionale, la vera anomalia del calcio italiano risiede non nell’esubero dell’import, bensì nella penuria dell’export. Ne abbiamo avuto prova anche durante i recenti Mondiali. La Germania vittoriosa annoverava sette calciatori attivi nei campionati esteri: quattro in Premier League, due in Serie A, uno nella Liga; l’altra finalista, l’Argentina, disponeva di ben venti atleti impiegati nelle leghe europee; al contrario, tra i convocati di Prandelli, appena tre sgambettavano oltreconfine – e non in uno dei campionati più stimolanti, bensì in Francia. Nella graduatoria delle selezioni autarchiche, solo la già citata Inghilterra e la Russia hanno fatto meglio – cioè peggio.
Esattamente come i cervelli in fuga, anche i piedi in fuga costituiscono, per un occhio attento, un’opportunità: le fughe tendono a esaurirsi, restituendo al paese di origine – purché, naturalmente, esso sia pronto a riceverlo – un capitale umano più ricco e variegato. Nel caso specifico, ciò si traduce in una maggiore familiarità con culture sportive diverse, in una maggior padronanza di movimenti e sistemi di gioco alieni, in una maggior duttilità, in una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. Il tema, allora, è quello di garantire che nel frattempo il flusso in entrata almeno bilanci, quantitativamente e qualitativamente, quello in uscita.
Tavecchio ha promesso sorprese, e deve ancora far dimenticare la grave dichiarazione che ne ha quasi compromesso la corsa alla presidenza: rivedere la propria posizione sugli stranieri sarebbe un buon punto di avvio. Il compito ultimo della Federazione dovrebbe essere quello di innalzare in tutte le categorie il livello della pratica calcistica: ciò richiede, sul piano economico, una riforma dell’industria del pallone; e, su quello sportivo, la più netta apertura al talento, acquistato o sviluppato in casa, a prescindere da ogni segmentazione geografica. I vincoli all’impiego dei calciatori extracomunitari inflazionano il costo di quelli comunitari, inclusi quelli provenienti dai vivai, e alimentano una serie di comportamenti distorsivi ed elusivi che danneggiano tutti gli attori del sistema. Mantenere in vigore tali vincoli in nome della competitività della nazionale significa usare uno strumento controproducente per servire un obiettivo fuorviante. La nazionale è figlia, e non madre, del movimento. Una Federazione che ne anteponga gli interessi a quelli di chi – società, allenatori, calciatori, persino tifosi – produce calcio tutto l’anno si comporterebbe come un governo che si preoccupasse di tutelare una singola impresa pubblica a spese delle aziende private attive nello stesso comparto. Un orientamento che nessuno in Italia sarebbe disposto ad avallare, vero?
Molto interessante questo articolo. Si parla dell’industria pallonara, ma sembra proprio di parlare dell’immobilismo, della vista corta e della paura di cambiare di tutto il resto dell’Italia. Con questa mentalità iper-conservatrice si fugge dalla realtà del mondo e ci si va a schiantare inesorabilmente.
Inoltre chiedo tanto a Tavecchio quanto a coloro che fanno panegirici sul razzismo di spiegarmi una cosa: “come mai sono rimasto bianco se ho sempre mangiato le banane fin da quando ero bambino”?